Dipendenti pubblici, lo straordinario va sempre pagato anche senza consenso del datore di lavoro

La Corte Suprema di Cassazione riconosce il diritto dei dipendenti pubblici al pagamento per il lavoro straordinario, anche senza autorizzazione formale del datore di lavoro.
Il lavoro straordinario deve essere retribuito anche in assenza di autorizzazione. A stabilirlo è una recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione, n. 17912/2024.
La Corte Suprema di Cassazione ha affermato che, sebbene il lavoro aggiuntivo richieda specifiche autorizzazioni e condizioni, nel pubblico impiego lo straordinario deve essere pagato se svolto con il consenso del datore di lavoro, anche in assenza di autorizzazioni formali.
Secondo i giudici, il mancato rispetto delle regole previste in materia di spesa pubblica non deve penalizzare il lavoratore, ma deve ricadere sui funzionari responsabili delle autorizzazioni. La sentenza, pertanto, fornisce un principio fondamentale in materia di protezione dei diritti dei dipendenti pubblici, assicurando agli stessi una giusta e adeguata remunerazione per l’attività lavorativa in concreto svolta.
Il caso concreto riguardava un infermiere dell’ospedale di Reggio Calabria, il quale aveva svolto prestazioni aggiuntive nell’erogazione del servizio di dialisi per il periodo estivo del 2013. Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione ha dato ragione all’infermiere, nell’ambito della controversia sorta proprio in merito al pagamento delle ore straordinarie. Infatti, la Corte Suprema di Cassazione ha ribaltato la pronuncia della Corte d’Appello, che aveva negato il pagamento al lavoratore.
La controversia nasceva in quanto l’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) di Reggio Calabria, che solitamente pagava gli infermieri per il servizio di dialisi svolto nel periodo estivo (erogato, tra l’altro, anche nei confronti di turisti presenti nella Regione durante il periodo di ferie), non lo aveva fatto nell’estate del 2013. L’infermiere aveva, quindi, ottenuto un decreto ingiuntivo contro l’ente al fine di ottenere quanto di sua competenza, fondando il proprio ricorso sulle disposizioni contenute nel contratto collettivo nazionale di lavoro.
La Corte d’Appello aveva annullato il decreto ingiuntivo, sostenendo che il caso era regolato dalla legge 402/2001, recante “Disposizioni urgenti in materia di personale sanitario”, recepita nel contratto collettivo 2008/2009. Secondo i giudici territoriali, tale legge richiedeva un’autorizzazione regionale e specifiche condizioni affinché il pagamento degli straordinari fosse riconosciuto ai dipendenti pubblici. Di conseguenza, l’infermiere non aveva diritto al pagamento perché le condizioni previste dalla legge non erano state rispettate.
L’infermiere proponeva quindi ricorso innanzi alla Corte Suprema di Cassazione, asserendo che, in realtà, le prestazioni erano state svolte in forza di incarico conferito direttamente dall’ente pubblico, quindi dietro consenso dello stesso.
Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione ha accolto le richieste dell’infermiere, rilevando in primo luogo che il ricorso era stato tempestivamente presentato e correttamente notificato alla PEC dell’avvocato dell’Azienda Sanitaria Provinciale.
In punto di merito, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che, secondo un proprio orientamento consolidato, le remunerazioni delle prestazioni straordinarie nel pubblico impiego vengono riconosciute solo se conformi alle previsioni di spesa e l’accordo incompatibile con tali previsioni è invalido, rendendo quindi ripetibili eventuali pagamenti eseguiti in forza di tale accordo. Tuttavia, la Corte Suprema di Cassazione precisa che, una volta autorizzata e svolta la prestazione straordinaria, non è possibile far gravare sul lavoratore, in forza di quanto previsto dal combinato disposto degli artt. art. 36 Cost. e art. 2126 del c.c., le conseguenze di tali divergenze.
Al più la responsabilità graverebbe in capo alla Pubblica Amministrazione, la quale avrebbe dovuto impedire le attività straordinarie in mancanza dei relativi presupposti. Non è infatti concepibile, secondo la Corte Suprema di Cassazione, che tale circostanza vada a detrimento della posizione giuridica ed economica del lavoratore pubblico.
La Corte Suprema di Cassazione, quindi, ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.”.
In conclusione, la Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto che le ore lavorative extra configurano lavoro straordinario e devono essere pagate indipendentemente dalla regolarità delle autorizzazioni, purché ci sia il consenso, anche se implicito, del datore di lavoro.


20° Anniversario A.N.N.A.

La nostra associazione compie 20 anni di attività.

Un traguardo significativo raggiunto con l’impegno e la dedizione del gruppo dirigente e la fattiva collaborazione dei nostri associati.

Durante questo lungo periodo, abbiamo affrontato sfide di varia complessità, ma anche e soprattutto momenti di crescita e successo.

L’Associazione è riuscita a restare attiva e crescere maturando una solida reputazione, una base di associati fidelizzata e un team consolidato. Siamo stati in grado di adattarci ai cambiamenti e a innovare per restare competitivi nell’interesse generale degli associati.

20 anni di esperienza ci hanno dato modo di accrescere competenze, conoscenze e best practices che ci consentono di offrire servizi sempre più completi e di qualità.

In sintesi, una storia di 20 anni di attività è un segno di successo e di longevità che poche associazioni nel nostro settore possono vantare, e che rappresenta un patrimonio di esperienze e di impegno che va valorizzato e celebrato.

Siamo orgogliosi dei risultati ottenuti in questi vent’anni di impegno e dedizione e vogliamo ringraziare tutti coloro che ci hanno sostenuto e hanno creduto nel nostro lavoro. Auspichiamo che questa sia un’occasione per rafforzarci e continuare a lavorare insieme proficuamente.

Grazie a tutti per la fiducia, il sostegno e l’affetto dimostratici in questi anni. Forti di questa consapevolezza, ci sentiamo impegnati a proseguire il nostro impegno, nell’interesse dei nostri associati.

Pietro Tacchini
Presidente Nazionale


Decreto di esproprio: modalità di notifica

Quesito:

un comune della zona mi chiede di notificare un atto (determinazione) avente ad oggetto: (decreto di esproprio definitivo per le aree occorrenti i lavori denominati: Realizzazione pista ciclopedonale tratto località xxxxxx).

Rispondo che essendo un atto in riferimento all’art. 23 del DPR 327/2001 deve notificarlo un ufficiale giudiziario. Mi rispondono che sono tenuto a fare la notifica come Messo Comunale in base alla sentenza che allego (Consiglio di Stato n. 05888/2021 reg. prov. coll. n. 04579/2014 reg.ric.).

Cosa si consiglia di fare?

Risposta al quesito:

Considerato che il Consiglio di Stato si è espresso favorevolmente in merito alla validità della notificazione a mezzo di Messo Comunale degli atti della procedura d’esproprio per i quali il legislatore ha indicato che la relativa notificazione deve essere eseguita “nelle forme degli atti processuali civili” e che hai restituito l’atto evidenziando che tale disposizione non consente la notificazione a mezzo di messo comunale, è evidente che l’ente richiedente ritiene di avvalersi con successo della giurisprudenza in questione e di conseguenza potrai procedere alla notificazione evidenziando che la stessa viene eseguita a mezzo di Messo Comunale su espressa  e reiterata richiesta  dell’ente espropriante.

Ciò non significa che la nostra associazione concordi con le valutazioni del Consiglio di Stato, ma considerando la posizione assunta con la sentenza citata non si può escludere che la notificazione a mezzo di Messo Comunale possa concludersi con esito favorevole.

Si ritiene infatti che, se il legislatore avesse voluto intendere che con l’espressione “nelle forme degli atti processuali civili” debba essere intesa come applicazione delle norme del c.p.c., sarebbe bastato citare espressamente la procedura indicata in esso.

Il legislatore ha invece scelto una espressione che anche la cassazione ha ritenuto debba essere intesa come ricorso all’ufficiale giudiziario in quanto ad esso è affidata la competenza alla notificazione degli atti processuali civili; infatti, “le forme” includono non solo la procedura ma anche l’agente notificatore deputato alla notificazione di tali atti.

Tra l’altro l’intervento del legislatore del 2002 che ha modificato l’art. 21 del Dpr 327/2001 in tema di determinazione dell’indennità d’esproprio cita espressamente la notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario piuttosto che ricorrere alla analoga formula oggetto del quesito e come sappiamo per gli atti che determinano l’indennità provvisoria d’esproprio è prevista la notificazione nelle forme degli processuali civili.

Il fatto poi che l’art. 10 della legge 265/1999 preveda la competenza del Messo Comunale alla notificazione degli della P.A. è norma generale che soggiace alla regola che la norma speciale, come è il DPR 327/2001, prevale sulla norma generale.

Quindi se intendiamo essere l’ufficiale giudiziario il soggetto competente non è sufficiente invocare l’art. 10 della legge 265/1999 per ricorrere al Messo Comunale.

Si noti inoltre che l’art. 10 della legge 265/1999 consente di rivolgersi al Messo Comunale se la notificazione non è eseguibile per posta e nelle altre forme previste dalla legge, per cui volendo trovare in tale norma la legittimazione al ricorso al Messo Comunale per il decreto d’esproprio, bisognerebbe dimostrare che il richiedente la notificazione ha già tentato la notificazione con esito negativo a mezzo posta e a mezzo di ufficiale giudiziario.

Pertanto, l’Associazione A.N.N.A. non concorda con le valutazioni inserite nella sentenza del Consiglio di Stato, ma non potendo escludere che richiamando tale sentenza, in caso di ricorso per vizio di notifica, il giudice amministrativo risolva favorevolmente la questione a favore dell’ente espropriante e considerando la reiterata richiesta di procedere con la notificazione, rifiutarsi di procedere con la stessa a questo punto sarebbe rischioso.

Altre considerazioni

Estratto da: Gli articoli 22 e 22bis dpr 327/2001 Exeo Edizioni 2007

Il decreto di esproprio ed il decreto di occupazione, una volta emanati, dovranno essere notificati ed eseguiti. Il duplice contenuto dei suddetti provvedimenti consente, infatti, da una parte, di eseguire la disposta espropriazione od occupazione d’urgenza attraverso l’immissione nel possesso e dall’altra di addivenire, attraverso la determinazione dell’indennità e sua notifica, alla liquidazione/deposito dell’indennità stessa, all’eventuale espletamento della fase di determinazione dell’indennità definitiva (22) ed all’emanazione del decreto d’esproprio (22 bis).

Modalità di notifica e destinatari

Nulla è prescritto dall’art. 22 in ordine alle modalità di notifica.

Elementi possono essere tratti dalle disposizioni relative alla notifica del decreto d’esproprio (23) nonché dell’indennità provvisoria d’espropriazione (23.4), partecipando il provvedimento di cui all’art. 22 di entrambi i contenuti.

Con riferimento invece al decreto d’occupazione lo stesso «è notificato con le modalità di cui al comma 4 e seguenti dell’articolo 20» (22 bis.1), e pertanto nelle forme degli atti processuali civili.

A detta conclusione è possibile pervenire anche attraverso un’interpretazione sistematica.

Nel sistema ante testo unico occorreva distinguere il provvedimento di occupazione dal provvedimento di determinazione dell’indennità.

Per il primo l’art. 3.4 della L 1/1978 prevedeva unicamente la notifica dell’avviso d’occupazione (CDS 4763/2006), senza peraltro alcuna precisazione; doveva perciò ritenersi legittima la notifica tramite messo comunale o altra forma idonea (TAR BA 3781/2005).

Per il provvedimento determinativo dell’indennità viceversa, l’art. 11.4 della L 865/71 prevedeva la notifica nelle forme degli atti processuali civili.

Nel sistema introdotto dal DPR 327/2001 è previsto che il provvedimento di cui all’art. 22 bis sia notificato nelle forme dell’art. 20.4, ossia nelle forme degli atti processuali civili. Quest’ultima disposizione riguarda l’atto che determina in via provvisoria l’indennità d’espropriazione. Secondo i primi pronunciamenti giurisprudenziali (TAR FI 6049/2006), la notifica tramite ufficiale giudiziario deve intendersi riferita alla sola determinazione dell’indennità, con la conseguenza che l’eventuale difetto formale di notificazione non può comunque produrre conseguenza alcuna a carico del provvedimento d’occupazione.

Vero è che in nome della semplificazione amministrativa, oggetto di notifica non sarà solo il provvedimento bensì anche l’avviso d’occupazione; al riguardo potrà ritenersi applicabile l’art. 23.1.g, che prescrive la notifica nelle forme degli atti processuali civili.

Per effetto del combinato disposto della normativa richiamata, si può ritenere che la notifica di entrambi i provvedimenti debba effettuarsi nella forma degli atti processuali civili e quindi tramite Ufficiali giudiziari, con esclusione pertanto della possibilità di ricorrere ai messi comunali.

Deve altresì essere richiamato il disposto dell’art. 10.1 della L 265/99 «Notificazioni degli atti delle pubbliche amministrazioni» ai sensi del quale «le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 2 febbraio 193 n. 29, e successive modificazioni, possono avvalersi, per le notificazioni dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o altre forme di notificazione previste dalla legge».

La possibilità di ricorrere al messo comunale è pertanto consentita solo nel caso d’accertata impossibilità di procedere mediante ufficiali giudiziari.

Come più volte rimarcato dalla giurisprudenza, anche con riferimento al decreto d’esproprio, il vizio della notifica non determina la invalidità del provvedimento, posto che la stessa è una forma qualificata di comunicazione dell’atto, ma non ne rappresenta elemento costitutivo.

Il vizio della notifica può pertanto incidere soltanto sulla sua conoscenza legale, rilevante ai fini della decorrenza del termine decadenziale dell’impugnazione del provvedimento nonché della sua esecuzione (TAR PZ 75/2007, CZ 137/2007, NA 4989/2007, NA 40/2007, VE 821/2006, FI 5217/2005CZ 2434/2004).

Tuttavia, a questo proposito occorre una precisazione con riguardo al Testo unico.

L’art. 23.1.f stabilisce che il decreto di esproprio «dispone il passaggio del diritto di proprietà, o del diritto oggetto dell’espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito». In altri termini, letteralmente, le condizioni costitutive del decreto di esproprio sembrerebbero essere tre:

l’emanazione, la notifica e l’esecuzione (tramite immissione in possesso); pertanto – contro una secolare tradizione – il decreto di esproprio sarebbe diventato, in virtù di tale norma del Testo unico, un atto recettizio. Ad esempio, dopo l’immissione in possesso conseguente ad un decreto di occupazione ex art. 22 bis, non sarebbe sufficiente l’emanazione di un decreto di esproprio a trasferire la proprietà, ma occorrerebbe la notifica.

Al di là della indubbia suggestione del tenore letterale della norma, è tuttavia inaccettabile, nella sostanza, far dipendere il perfezionamento e l’efficacia della procedura ablatoria (ablazione che avviene, tra l’altro, a titolo originario e nei confronti del proprietario catastale, che potrebbe non coincidere con il proprietario reale) dalle contingenti vicende della notifica.

La giurisprudenza, del resto, ha già avuto modo di confrontarsi con l’art. 23 stabilendo (dunque senza alcuna innovazione rispetto al sistema previgente) che il vizio di notifica del decreto di esproprio perché non effettuata nella forma degli atti giudiziari previsti dall’art. 23.1.g non determina la nullità del provvedimento sottostante, in quanto non ne costituisce elemento costitutivo, ma può incidere soltanto ai fini della sua legale conoscenza ovvero della sua esecuzione, se a questa subordinata, ovvero ancora ai fini del decorso dei termini di legge riferiti alla medesima conoscenza legale dell’atto (TAR VE 821/2006).

Su un piano più squisitamente sostanziale è stata più volte affermata, nel caso d’irregolarità, la sanatoria nel caso in cui la notifica sia comunque giunta a buon fine, come nel caso d’irrituale notifica dell’avviso d’occupazione con conseguente prospettato vizio dell’immissione in possesso. Nella fattispecie la irritualità della notifica è stata ritenuta sanata dalla presenza in sede d’immissione nel possesso, del soggetto destinatario, venuto comunque a conoscenza dell’atto con comunicazione che si sia rivelata utile a tal fine (TAR CT 604/2006).

L’art. 22.1 individua quale destinatario della notifica il proprietario. Ciò è possibile argomentare dalla prescrizione di cui all’ultimo capoverso del comma 1 concernente l’invito al «proprietario» a comunicare l’eventuale condivisione dell’indennità.

Il successivo comma 3 individua nell’«espropriato» il soggetto da cui dovrà provenire la comunicazione contenente l’eventuale accettazione dell’indennità. Ciò trova la sua ragione d’essere nel fatto che l’atto oggetto di notifica è un decreto d’esproprio già emanato.

L’art. 23 dispone la notifica del decreto al «proprietario». Ferma restando la diversa terminologia utilizzata dal legislatore, i destinatari della notifica non potranno che coincidere che con i proprietari indicati nel provvedimento medesimo.

Il tutto ritrova, infatti, la sua unitarietà nella prescrizione generale per la quale tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il «decreto di esproprio», sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo l’ipotesi in cui l’autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell’eventuale diverso proprietario effettivo (3.2) (TAR CZ 137/2007, CT 706/2006, CA 249/2004).

Per effetto del contenuto complesso dell’atto, contenente anche la determinazione dell’indennità, lo stesso dovrà essere notificato anche al beneficiario dell’esproprio (20.4), cioè il soggetto pubblico o privato cui favore è emesso il decreto di esproprio (3.1.c, 3.2).

Per espressa previsione normativa il «proprietario» ed «beneficiario dell’esproprio», se diverso dalla autorità procedente, sono anche i destinatari del provvedimento di occupazione (22 bis.1, 20.4).

I destinatari della notifica coincideranno quindi con i proprietari indicati nel provvedimento medesimo che, come sopra precisato, dovrà contenere accanto alla indicazione dei beni da espropriare e da occupare, anche l’indicazione dei relativi proprietari.

Accettazione, maggiorazioni, pagamenti e depositi nell’art. 22 La notifica del decreto di esproprio (22) è funzionale a consentire la prosecuzione del procedimento attraverso due percorsi paralleli e distinti, l’uno diretto alla determinazione definitiva della indennità, l’altro alla esecuzione del decreto tramite immissione nel possesso.

Una volta emanato e notificato il provvedimento, si dovrà attendere la scadenza dei 30 giorni decorrenti dalla immissione in possesso per l’eventuale accettazione, da parte del proprietario, della indennità proposta, salvo, come si è detto, che il proprietario non proponga prima di tale data un’istanza di cessione volontaria ai sensi dell’articolo 45, diritto che gli è possibile esercitare fino, appunto, all’immissione in possesso.

Il collegamento tra le fasi in esame è costituito dall’invito rivolto al proprietario, contenuto nel provvedimento, a comunicare, entro i suddetti termini, l’eventuale condivisione della indennità (22.1).

Nel caso di accettazione, l’Autorità espropriante, ricevuta la comunicazione di accettazione e la documentazione comportante la piena e libera disponibilità del bene, disporrà il pagamento della indennità nel termine di 60 giorni. In difetto saranno dovuti gli interessi nella misura del tasso legale (22.3).

Al pagamento l’Autorità dovrà procedere a norma dell’art. 26 TU, contenente le disposizioni comuni alle operazioni di pagamento oltre che di deposito delle indennità.

Nel caso di mancata accettazione l’Autorità espropriante dovrà attivare il procedimento diretto alla determinazione della indennità definitiva, ricorrendo alla procedura di cui all’art. 21 (collegio dei tecnici), nel caso in cui vi sia stata scelta in tale direzione da parte dell’espropriato (22.4).

Qualora il soggetto espropriato abbia optato per la stima peritale, il procedimento proseguirà secondo le norme dell’art. 21. Per espressa disposizione (22.4) qualora non condivida la stima peritale l’espropriato può opporre opposizione in Corte d’Appello.

Qualora viceversa sia decorso il termine di trenta giorni decorrenti dalla immissione in possesso senza che l’espropriato si sia avvalso di tale facoltà, l’Autorità procede a richiedere la determinazione definitiva della indennità alla Commissione Provinciale di cui all’art. 41 (22.5).

Quando è stata intrapresa la procedura dell’articolo 22, i tempi di pronunciamento della Commissione Provinciale sono fissati in giorni 30 (22.5) anziché in giorni 90 (21.15) stabiliti in via ordinaria.

Per la verità le ragioni di tale accorciamento dei tempi della stima della Commissione non sono affatto chiare, dal momento che la ratio acceleratoria, e la conseguente deroga alla procedura ordinaria, non può che riguardare i tempi per l’immissione in possesso e l’avvio urgente dei lavori: diciamo che la disposizione può essere interpretata come una sorta di compensazione procedimentale a favore dell’espropriato che ha subito una procedura accelerata. Ma se è così, peraltro, non si capisce perché analoga previsione manchi nell’articolo 22 bis.

Con riguardo alla stima della Commissione, diversamente dal caso della stima collegiale, l’articolo 22 nulla prescrive in merito all’opposizione alla stima. Troverà comunque applicazione l’art. 54 che prevede, al comma 2, l’opposizione nel termine di trenta giorni decorrenti dalla sua notifica. Trattasi, infatti, di ipotesi in cui il decreto di esproprio è già stato emanato (54.2).

Anche se non espressamente prescritto, l’Autorità espropriante dovrà provvedere al deposito dell’indennità provvisoria non accettata seguendo le prescrizioni dettate dall’art. 26. Si verifica così una deroga alla regola che condiziona l’emanazione del decreto di esproprio all’avvenuto deposito della indennità, deroga dipendente dal fatto che la stessa possibilità di accettare l’indennità (da cui dipende la decisione di pagare o depositare) avviene non solo successivamente al decreto di esproprio stesso, ma addirittura dopo l’immissione in possesso.

Alla medesima conclusione è possibile addivenire sulla base del richiamo attuato dall’art. 22.1 alle disposizioni di cui all’art. 20, quali prescrizioni che le ragioni di urgenza, che sono alla base del procedimento accelerato, non consentono di applicare. Tra queste anche il deposito della indennità precedente al decreto, previsto dal comma 14.

Deve inoltre ritenersi che al deposito dell’indennità l’Amministrazione dovrà provvedere, pur in caso di accettazione, nelle ipotesi di mancata produzione della documentazione concernente la libera proprietà del bene, nel caso in cui il soggetto interessato non si presti a ricevere la somma, nel caso di sussistenza di diritti reali e/o di opposizione di terzi al pagamento della indennità in assenza di accordo tra le parti nonché di opposizione di terzi all’ammontare della indennità (combinato disposto 22, 20.12, 26).

Relativamente all’importo da liquidare a seguito di accettazione l’Autorità espropriante non farà luogo alla riduzione dell’articolo 37.1 (22.3). La previsione normativa è quanto mai opportuna anche se, come si è già avuto modo di osservare, incompleta.

Opportuna in quanto al momento del pagamento vi è già stata emanazione ed esecuzione del decreto di esproprio, e dunque non è applicabile l’art. 45.2, circoscritto alla determinazione del corrispettivo dell’atto di cessione volontaria (non più possibile dopo l’immissione in possesso ex art. 22), tanto che lo stesso articolo 20, al comma 13, ha precisato che qualora l’Autorità emetta un decreto di esproprio in luogo dell’atto di cessione volontaria, sono fatte salve le maggiorazioni previste in caso di accettazione dall’art. 45.2, allargando così in virtù di espresso richiamo l’applicazione della norma alle ipotesi di decreto di esproprio (nella procedura ordinaria).

Incompleta in quanto non si vede per quale motivo la previsione debba essere limitata alla mancata decurtazione di cui all’articolo 37.1 e non anche alle maggiorazioni di cui all’art. 45.2.c–d, nella ipotesi di area non edificabile.

Ragioni di equità e di ragionevolezza inducono in ogni caso a riconoscere le maggiorazioni previste dall’articolo 45.2 in tutti i casi di accettazione dell’indennità provvisoria, anche quando l’amministrazione abbia unilateralmente seguito la strada del decreto di esproprio; le distonie del tenore letterale delle norme sono purtroppo evidenti, ma ciò non può essere sufficiente a deviare l’interprete dai parametri della ragione e del buon senso: si ritiene possibile, sotto questo profilo, adottare il tredicesimo comma dell’articolo 20 come principio generale.

Per quanto riguarda l’importo da depositare non sono riscontrabili peculiarità rispetto al regime ordinario. Si tratterà dell’importo decurtato o senza maggiorazioni, rispettivamente per le ipotesi di area edificabile (37) e area non edificabile (40) o dell’importo pieno (senza, cioè, decurtazioni o con maggiorazioni) nei casi di aree edificate (38) e nell’ipotesi di deposito conseguente ad accettazione.

Accettazione, maggiorazioni, pagamenti e depositi nell’art. 22bis L’art. 22 bis.1 prescrive la notifica del decreto di occupazione richiamando a tal fine le disposizioni di cui all’art. 20.4 e segg.

Come in precedenza rilevato il procedimento accelerato in esame consente di determinare l’indennità omettendo gli adempimenti di cui primi due commi dell’art. 20, ossia senza avviare preliminarmente il contraddittorio con i proprietari ivi previsto.

Ad un primo approccio interpretativo l’omissione degli adempimenti di cui all’art. 20.1 e 20.2 potrebbe sembrare costituire l’unica deroga all’iter procedimentale ordinario (a parte naturalmente l’immissione nel possesso), suscettibile di riprendere quindi nella sua sequenza ai fini dell’emanazione del decreto espropriativo, una volta notificato il provvedimento emanato.

In realtà non sembra necessario pervenire a tale conclusione: la mancanza di tempo per espletare i primi due commi, in relazione all’incombenza dell’avvio dei lavori, è solo un parametro temporale che giustifica il ricorso alla procedura accelerata, ma che non legittima di per sé una mescolanza di commi e disposizioni tra articolo 20 e articolo 22 bis.

Inoltre, laddove l’articolo 22 bis ha inteso richiamare la disciplina dell’articolo 20, lo ha fatto espressamente: al comma 1 ultimo cpv per quanto riguarda le modalità di notifica, e al comma 3 per quanto riguarda l’acconto dell’80%. Questo esplicito richiamo sarebbe superfluo se l’applicazione di tali disposizioni discendesse già automaticamente dalla deroga ai primi due commi.

Ancora, se fosse vero che tutti i commi dell’articolo 20 successivi al secondo si applicano all’articolo 22 bis, ci si scontrerebbe fatalmente con l’inapplicabilità di buona parte di essi.

Ad esempio, il terzo comma dell’articolo 20 è inapplicabile in quanto incompatibile con l’articolo 22 bis, contemplando una differente modalità di determinazione dell’indennità provvisoria.

Il quarto comma dell’articolo 20 riguarda le modalità di notifica del decreto di occupazione, e si applica all’articolo 22 bis non certo per deduzione dal fatto che l’urgenza non deve consentire l’applicazione dei primi due commi, quanto invece a seguito di espresso richiamo contenuto nell’ultimo capoverso del primo comma dell’articolo 22 bis. Sennonché, tra l’altro, questo richiamo lascia perplessi per due ordini di motivi. Primo: non si capisce la sua utilità, dal momento che il quarto comma dell’articolo 20 è brevissimo disponendo la notifica con le forme degli atti processuali civili, e tanto sarebbe valso scriverlo direttamente, come il legislatore ha fatto molte altre volte nel corpo del testo unico. Secondo: il richiamo è limitato espressamente alla notifica, e dunque non si comprende cosa c’entrino i commi successivi al quarto dell’articolo 20 medesimo, che non riguardano la notifica.

Il quinto comma dell’articolo 20 è incompatibile con l’ultimo capoverso del primo comma dell’articolo 22 bis.

Il sesto comma dell’articolo 20 è incompatibile con il quarto comma dell’articolo 22 bis sotto il profilo delle modalità di immissione in possesso, e con il quinto comma dell’articolo 22 bis sotto il filo dell’indennità di occupazione, rimanendo applicabile solo limitatamente all’acconto dell’80% giusta il richiamo del terzo comma dell’articolo 22 bis.

L’applicabilità o meno del settimo comma dell’articolo 20 è irrilevante, giusta l’operatività anche nelle procedure accelerate dell’articolo 21.

Potrebbero essere applicabili i commi dell’articolo 20 relativi alla stipula, alla produzione documentale, all’emanazione del decreto di esproprio, ma non se ne vede la necessità, dal momento che le modalità di pagamento e deposito trovano dettagliata disciplina all’articolo 26, e le modalità di stipula non richiedono particolari regolamentazioni, come testimonia l’articolo 45, e per il contenuto, gli effetti e l’esecuzione del decreto di esproprio può farsi riferimento, pur con qualche adattamento, 23, 25, 25.

Ad ogni modo, non è – certamente – censurabile il comportamento dell’amministrazione che applichi l’articolo 22 bis entro i limiti strettamente indispensabili, tornando nell’alveo della procedura ordinaria non appena possibile.

L’art. 22 bis.1 dispone la notifica non solo del decreto ivi previsto, ma anche di un’ulteriore avvertenza. Recita, infatti, il comma in esame: «Il decreto è notificato con le modalità di cui al comma 4 e seguenti dell’articolo 20 con l’avvertenza che il proprietario, nei trenta giorni successivi all’immissione in possesso, può, nel caso non condivida l’indennità offerta, presentare osservazioni scritte e depositare documenti» (22 bis.1).

Nulla escluda che l’avvertenza in questione possa essere contenuta nel provvedimento o essere oggetto di nota separata, da notificarsi in ogni caso contestualmente al provvedimento medesimo. Principio di semplificazione rende preferibile la prima soluzione. Si realizza così, a posteriori, quel contraddittorio sull’indennità che nel procedimento ordinario precede la determinazione provvisoria della indennità, con l’espletamento delle fasi di cui all’art. 20.1 e 20.2, viceversa omesse nella procedura accelerata, anche se una fase partecipativa – ancorché privata dell’indicazione della somma da offrire – è stata comunque garantita ai sensi dell’articolo 17.2.

Come già precisato a proposito della rideterminazione dell’indennità, si deve supporre che, a seguito delle osservazioni presentate e dei documenti depositati l’Autorità espropriante possa anche modificare la propria determinazione. Una diversa interpretazione renderebbe del tutto inutile tale momento partecipativo.

Ecco quindi completata la deviazione rispetto all’iter procedimentale ordinario che comporterà anche la possibilità di una fase (eventuale) da collocarsi – volendo – in posizione intermedia tra il comma 4 e il comma 5 dell’art. 20. L’attivazione di tale fase è rimessa al proprietario che potrà non limitarsi semplicemente ad accettare o rifiutare l’indennità bensì, nel caso non condivida l’indennità offerta, presentare nel termine di 30 giorni dall’immissione nel possesso, osservazioni scritte e depositare documenti. L’Autorità procedente, nel caso il cui il proprietario abbia esercitato tale facoltà, potrà anche rivedere, come detto, la sua determinazione.

È ragionevole ritenere che le modalità di tale rideterminazione possano essere adottate dall’amministrazione, a seconda dei casi, in forma di rettifica, o di vera e propria revoca, con contrarius actus, ai sensi dell’articolo 21-quinquies della L. 241/1990, fermi restando –s’intende – gli effetti del provvedimento di occupazione.

Siamo infatti sempre nell’ambito della determinazione dell’indennità provvisoria, solo con riguardo alla cui accettazione – tra l’altro – sono possibili le maggiorazioni dell’indennità ai sensi dell’articolo 45.2, e qui si tratta di determinare nuovamente l’indennità provvisoria, non di introdurre un nuovo livello di determinazione dell’indennità in via amministrativa; pertanto, in caso di aree non edificabili, continuerà ad applicarsi il VAM di cui all’articolo 40.3, e non il valore agricolo effettivo di cui all’articolo 40.1.

Il provvedimento di rideterminazione dell’indennità dovrà essere assunto con specifico atto, ad opera del medesimo soggetto che ha determinato l’indennità provvisoria, che l’Autorità procedente procederà a notificare ai soggetti interessati similmente alle modalità di notifica utilizzate per la determinazione dell’indennità provvisoria (20.4). Nel termine di 30 giorni dalla notifica (e non più dall’immissione in possesso, già avvenuta) il proprietario potrà comunicare con dichiarazione irrevocabile la condivisione dell’indennità 20.5. Nel caso di accettazione dell’indennità in sede di prima o seconda notifica, l’Autorità procedente è tenuta a corrisponderne una quota pari all’80% (22 bis.3, 20.6). Tale corresponsione avrà effetti sulla quantificazione dell’indennità di occupazione non più dovuta sulla percentuale liquidata.

Il procedimento accelerato ha così esaurito le sue peculiarità rispetto a quello ordinario. Sono, infatti, esauriti gli adempimenti che hanno consentito alla amministrazione di accelerare i tempi: immissione in possesso e determinazione della indennità di espropriazione in via provvisoria senza particolari indagini e formalità.

A questo punto sarà attivata la ordinaria procedura di corresponsione o deposito della indennità, propedeutica alla emanazione del decreto di esproprio e l’eventuale procedura di determinazione della indennità definitiva nel caso di rifiuto della indennità provvisoria (21).

Si tratta di fasi che non risentono della loro origine speciale, ossia del fatto che le fasi immediatamente precedenti hanno presentato peculiarità rispetto all’iter ordinario, ad eccezione del contenuto e della esecuzione del decreto di esproprio.

In particolare, il contenuto si arricchisce della indicazione del decreto emanato ex art. 22 bis e del relativo stato di esecuzione (23.1. e bis) ed il decreto di esproprio dovrà disporre il passaggio della proprietà, non più sospensivamente condizionato all’immissione in possesso, essendo essa già intervenuta in sede di esecuzione della disposta occupazione.


Il passaggio dalla PEC alla REM: l’evoluzione nella comunicazione digitale

La Posta Elettronica Certificata (PEC) ha rappresentato una rivoluzione nella comunicazione digitale in Italia, offrendo un’alternativa sicura e legalmente riconosciuta alle tradizionali raccomandate cartacee. Tuttavia, l’evoluzione tecnologica e la necessità di uniformarsi agli standard europei hanno portato all’introduzione della Registered Electronic Mail (REM). Questo articolo esplora il percorso che ha portato dal sistema PEC alla nuova REM, evidenziando i cambiamenti, i benefici che questa transizione comporta e il ruolo fondamentale dell’AGID nell’adozione degli standard ETSI.

La PEC è stata introdotta in Italia con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 68 dell’11 febbraio 2005. Questo sistema ha permesso a cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni di inviare e ricevere comunicazioni con valore legale, garantendo sicurezza e tracciabilità. La PEC ha semplificato i processi burocratici, ridotto i costi di spedizione e migliorato l’efficienza delle comunicazioni ufficiali.

I limiti della PEC

Nonostante i numerosi vantaggi, la PEC presenta alcuni limiti:

  • compatibilità internazionale: la PEC è un sistema prevalentemente italiano, con limitata interoperabilità con altri sistemi di posta certificata utilizzati in Europa.
  • evoluzione normativa: la normativa europea ha introdotto nuovi standard per i servizi fiduciari elettronici, rendendo necessario un aggiornamento del sistema PEC per allinearsi a tali requisiti.

L’Evoluzione Normativa e il Regolamento eIDAS

Il Regolamento (UE) n. 910/2014 sull’identità digitale, noto come eIDAS (electronic IDentification Authentication and Signature), ha rappresentato un punto di svolta per l’interoperabilità dei servizi fiduciari elettronici in Europa. Questo regolamento ha stabilito un quadro normativo comune per l’identificazione elettronica e i servizi fiduciari, facilitando le transazioni digitali transfrontaliere.

L’eIDAS si propone di creare un mercato unico digitale europeo, dove i servizi elettronici siano riconosciuti e utilizzati in tutti gli Stati membri. Ciò include l’adozione di sistemi di posta elettronica certificata interoperabili, come la REM sviluppata al fine di superare i limiti della PEC, offrendo un sistema di comunicazione certificata interoperabile a livello europeo.

Principali Vantaggi della REM

  1. Interoperabilità europea: la REM consente la comunicazione certificata tra utenti di diversi paesi europei, garantendo la validità legale delle comunicazioni in tutti gli Stati membri. Questo è particolarmente vantaggioso per le aziende che operano a livello internazionale, facilitando gli scambi commerciali e le comunicazioni ufficiali.
  2. Identificazione del Titolare: la REM prevede un sistema di identificazione sicura del titolare dell’account e ciò aumenta il livello di fiducia e sicurezza nelle comunicazioni.
  3. Sicurezza avanzata: la REM adotta standard di sicurezza più elevati, conformi alle normative europee, offrendo maggiore protezione contro il rischio di frodi e manipolazioni. I messaggi inviati tramite REM sono criptati e firmati digitalmente, garantendo l’integrità e l’autenticità delle comunicazioni.
  4. Semplicità e accessibilità: la REM rende più semplice l’accesso ai servizi di posta certificata per cittadini e imprese europee, facilitando le interazioni transfrontaliere. Gli utenti possono inviare e ricevere comunicazioni certificate senza doversi preoccupare delle differenze normative tra i vari paesi.

Il Ruolo dell’AGID nell’adozione degli standard ETSI

L’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) ha svolto un ruolo cruciale nel coordinare l’adozione e l’implementazione della REM in Italia; AGID è responsabile di garantire che i servizi digitali pubblici e privati siano conformi agli standard europei, inclusi quelli definiti dall’European Telecommunications Standards Institute (ETSI), l’Istituto europeo per le norme di telecomunicazioni, organismo internazionale, indipendente e senza fini di lucro ufficialmente responsabile della definizione e dell’emissione di standard nel campo delle telecomunicazioni in Europa.

Gli Standard ETSI

Gli standard ETSI sono fondamentali per assicurare l’interoperabilità, la sicurezza e la qualità dei servizi di comunicazione elettronica in Europa. Per la REM, gli standard ETSI definiscono le specifiche tecniche e le best practices per la gestione e la sicurezza delle comunicazioni elettroniche certificate.

Criteri di Adozione degli Standard ETSI:

  1. Conformità normativa: assicurare che tutti i fornitori di servizi REM in Italia rispettino le normative europee e gli standard tecnici ETSI, garantendo così un livello uniforme di sicurezza e affidabilità.
  2. Interoperabilità: facilitare l’interoperabilità tra i diversi sistemi di posta certificata in Europa, permettendo alle comunicazioni di fluire senza problemi tra i vari paesi membri.
  3. Sicurezza e affidabilità: implementare misure avanzate di sicurezza per proteggere le comunicazioni elettroniche certificate da frodi e accessi non autorizzati.

Il Processo di transizione dalla PEC alla REM

La transizione dalla PEC alla REM ha richiesto un adattamento tecnologico e normativo; infatti, per adottare pienamente la REM, l’Italia ha dovuto aggiornare la propria legislazione per recepire il Regolamento eIDAS apportando modifiche al Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) e altre normative correlate. Un passo importante in questa direzione è stato il D.L. n. 135 del 14 dicembre 2018 (disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione) il quale, all’art. 8 comma 5 ha stabilito che:

“All’articolo 65 del decreto legislativo 13 dicembre 2017, n. 217, il comma 7 è sostituito dal seguente: «7. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti l’Agenzia per l’Italia digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità dei servizi di posta elettronica certificata di cui agli articoli 29 e 48 del decreto legislativo del 7 marzo 2005, n. 82, al regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE.”.

A far data dall’entrata in vigore del suindicato DPCM (ad oggi non emanato), l’articolo 48 del decreto legislativo n. 82 del 2005 sarà abrogato:

Art. 48

(Posta elettronica certificata)

  1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del
  2. decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le Linee guida.
  3. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta.
  4. La data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi alle Linee guida.

Sviluppo Tecnologico

I fornitori di servizi PEC hanno aggiornato le loro infrastrutture per supportare i nuovi standard REM, con l’adozione di nuove tecnologie di crittografia e autenticazione, nonché l’implementazione di sistemi interoperabili con quelli degli altri paesi europei.

Casi d’uso e benefici pratici della REM

Imprese internazionali

Le aziende che operano su scala internazionale possono trarre enormi benefici dalla REM. Ad esempio, un’azienda italiana che invia documenti legali o contratti a partner commerciali in altri paesi dell’UE può utilizzare la REM per garantire che tali comunicazioni siano riconosciute e valide in entrambi i paesi. Questo riduce i costi e i tempi associati alla gestione delle pratiche burocratiche internazionali.

Pubbliche Amministrazioni

Le pubbliche amministrazioni possono utilizzare la REM per migliorare l’efficienza e la sicurezza delle loro comunicazioni. Ad esempio, un ente pubblico italiano può inviare notifiche, avvisi o certificati a cittadini residenti in altri paesi dell’UE, assicurando che questi documenti siano legalmente validi e riconosciuti in tutta l’Unione Europea.

Cittadini

I cittadini possono beneficiare della REM per le loro comunicazioni ufficiali, come inviare richieste o ricevere risposte dalle amministrazioni pubbliche di altri paesi dell’UE. Ad esempio, uno studente italiano che studia in Francia può utilizzare la REM per inviare documenti ufficiali alla sua università italiana, garantendo che tali comunicazioni siano sicure e legalmente riconosciute.

Il passaggio dalla PEC alla REM rappresenta un significativo passo avanti nella digitalizzazione delle comunicazioni a valore legale in Italia; grazie alla REM, l’Italia potrà beneficiare di un sistema di posta certificata interoperabile a livello europeo, migliorando l’efficienza, la sicurezza e la semplicità delle comunicazioni digitali. È auspicabile che tale cambiamento non solo rafforzerà la fiducia nelle comunicazioni elettroniche, ma faciliterà anche l’integrazione del mercato unico digitale europeo, offrendo nuove opportunità per cittadini e imprese.

La REM, con la sua capacità di garantire la validità legale delle comunicazioni in tutta l’Unione Europea, rappresenta una svolta nella gestione delle comunicazioni digitali ufficiali e la sua adozione è un passo essenziale per l’Italia e per l’Europa nel loro complesso, verso un futuro più connesso e digitalmente avanzato.


Se la società è estinta è valido l’atto che viene notificato ai soci

La notifica può avvenire collettivamente e impersonalmente nell’ultimo domicilio dell’organizzazione o singolarmente a taluno di essi.

In tema di riscossione, l’atto impositivo intestato a società di persone o di capitali estinta è valido ed efficace, anche se notificato agli ex soci collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio della società (analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in caso di morte del debitore) o singolarmente a taluno di essi, non essendo necessaria l’emissione di specifici atti intestati e diretti ai medesimi, giacché l’estinzione determina un peculiare fenomeno, di tipo successorio, in virtù del quale i soci subentrano nelle medesime obbligazioni inadempiute della società, rispondendone illimitatamente o nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, a seconda che, “pendente societate”, fossero illimitatamente o limitatamente responsabili per i debiti sociali.

Così la Corte Suprema di Cassazione Civile, Sez. V sentenza n. 17404 del 24 giugno 2024 (udienza del 16 maggio 2024).


Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 06/06/2024) 28/06/2024, n. 17912

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAROTTA Caterina – Presidente

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere Rel.

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere

Dott. CASCIARO Salvatore – Consigliere

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29045/2021 R.G. proposto da

A.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Germanico n. 109, presso lo studio dell’avv. D’Amico, rappresentato e difeso dagli avv. Francesco Vincenzo Papadia ed Emanuele Procopio

– ricorrente –

contro

Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria

– intimata –

avverso la sentenza n. 256/2021 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, depositata il 27.5.2021;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6.6.2024 dal Consigliere Andrea Zuliani.

Il ricorrente, infermiere presso l’Ospedale di Locri, ottenne decreto ingiuntivo nei confronti dell’Azienda Sanitaria

Svolgimento del processo
Il ricorrente, infermiere presso l’Ospedale di Locri, ottenne decreto ingiuntivo nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria (di seguito, ASP), chiedendo il pagamento delle prestazioni aggiuntive rese nel servizio “dialisi estiva”, destinato anche a persone in ferie nella regione, pagate dall’ente negli anni antecedenti e successivi, ma non per l’anno 2013.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, riformando la pronuncia del Tribunale di Locri che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo, ha disatteso la domanda, revocando il decreto ingiuntivo e ritenendo che la vicenda non fosse regolata dal CCNL richiamato dal ricorrente, in quanto riguardante il personale dirigente, ma dal d.l. n. 402 del 2001, poi recepito dal CCNL 2008/2009, le cui norme prevedono la necessità di autorizzazione regionale, il ricorrere di certe condizioni soggettive e la contrattazione della tariffa, tutte circostanze la cui sussistenza non era stata allegata, senza contare che, contestualmente, gli impegni lavorativi e di spesa erano stati ridotti per rispettare i vincoli di bilancio.

Contro la sentenza della Corte d’Appello il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi, mentre l’ASP è rimasta intimata.

Nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 – bis.1 c.p.c. il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Deve preliminarmente dirsi che la notifica del ricorso per cassazione è regolare.

La sentenza di appello dà atto che la ASP era difesa in quella sede dall’avv. Rosa Lombardo. Il ricorso per cassazione risulta notificato il 17.11.2021 presso la casella Pec del predetto legale e ricorrono dunque i presupposti di cui all’art. 330 c.p.c., sub specie di notifica presso il procuratore costituito.

Pertanto, tenuto conto che la sentenza è stata pubblicata il 27.5.2021 e non risulta la sua notificazione, la proposizione del ricorso per cassazione è tempestiva.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 1375 e 2697 c.c. e degli artt. 36 e 111 della Costituzione, anche in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., e con esso si fa leva sul fatto che le prestazioni fossero state in concreto eseguite, su incarico della Azienda.

Dalla sentenza di appello si evince che la domanda ha riguardato la remunerazione di attività svolta dal ricorrente oltre il debito orario per l’assicurazione di prestazioni di dialisi “estiva” in favore anche di pazienti di altre regioni soggiornanti in Calabria. La Corte d’Appello, rettificando il richiamo svolto dal ricorrente alla contrattazione dirigenziale, ha riportato la pretesa a quella propria delle c.d. prestazioni aggiuntive, quali regolate fino al 31.12.2003, dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 402 del 2001, conv. con mod. in legge n. 1 del 2002 (con effetti poi prorogati dapprima al 31.12.2006 dall’art. 6 – quinquies d.l. n. 314 del 2004, conv. con mod. in legge n. 26 del 2005 e quindi al 31.5.2007 dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 300 del 2006, conv. con mod. in legge n. 17 del 2007 e quindi, ulteriormente, fino all’intervenire della contrattazione collettiva per effetto dell’art. 4 della legge n. 120 del 2007) e poi regolate, attraverso il richiamo alla medesima disciplina, dall’art. 13 del CCNL 10.4.2008 (normativo 2006 – 2009 ed economico 2006 – 2007) e dall’art. 12 CCNL 31.7.2009 (economico 2008 – 2009).

La Corte di merito ha in proposito ritenuto che, essendo mancate allegazione e prova dei fatti costitutivi, tra cui l’autorizzazione regionale e le condizioni soggettive dei lavoratori (prestazione di servizio a tempo pieno da almeno sei mesi; assenza di esenzioni da mansioni; etc.) e mancando una disciplina contrattuale definitoria dei compensi, la fattispecie non risultasse integrata e la domanda andasse quindi disattesa.

3. Il ragionamento della Corte territoriale è in sé corretto, sebbene non sufficiente, per quanto si andrà a dire, a sorreggere la reiezione della domanda.

4. L’ipotesi delle prestazioni “aggiuntive” è in effetti speciale, in quanto caratterizzata da elementi di fattispecie che vanno al di là della mera prestazione del lavoro su incarico datoriale, essendo necessario un previo controllo sulle risorse e di coerenza rispetto agli obiettivi sanitari, cui si riferisce evidentemente la “previa” autorizzazione regionale – esterna al datore di lavoro – richiesta dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 402 del 2001 citato, implicitamente confermata dalla normativa di proroga di cui si è detto ed altresì poi confermata dal rinvio alla disciplina pregressa operata dalla contrattazione collettiva, parimenti citata, che regola ratione temporis quanto oggetto di causa.

Giustamente la Corte territoriale aggiunge a tali requisiti quello della fissazione tariffaria specifica di tali prestazioni, da svolgere previa consultazione sindacale.

Tali elementi sono risultati carenti ed anzi si può dire che pacificamente essi non ricorrevano, sicché, una volta operata la qualificazione in tal senso della domanda, va da sé che la stessa dovesse essere disattesa.

In tal senso questa Suprema Corte già si è espressa, seppure rispetto alle prestazioni “aggiuntive” dei dirigenti medici ai sensi degli artt. 14, comma 6, del CCNL 2005 e 5, comma 2, del CCNL 2000 di Area (Cass. n. 9413/2023).

5. Tuttavia, l’apprezzamento dell’oggetto del contendere svolto dalla Corte territoriale è parziale e fondatamente il primo motivo di ricorso fa leva sul fatto che la ASP, quale datore di lavoro, richiese e recepì dal lavoratore le prestazioni svolte oltre il debito orario, da cui derivò anche per l’ente la percezione di “ricavi”, secondo quanto risulterebbe emergere dai documenti incorporati al ricorso per cassazione.

Lo svolgimento di lavoro oltre il debito orario non intercetta infatti, sotto il profilo della remunerazione, soltanto la fattispecie delle prestazioni c.d. “aggiuntive”, ma anche quella del lavoro straordinario, in ipotesi nella variante di cui all’art. 2126 c.c. ed è a tali ipotesi che l’insistenza del ricorrente sulla concreta esecuzione di prestazioni cui egli era stato “comandato” inevitabilmente riporta in esercizio il potere – dovere di individuare, una volta denunciata la violazione di legge, la disciplina normativa regolativa della fattispecie dedotta in causa.

Il tema diviene dunque quello della remunerazione di tali prestazioni sulla base della disciplina dello straordinario.

6. È indubbio che la contrattazione collettiva prevede (art. 34, comma 2, del CCNL 1998/2001; art. 31, comma 2, del CCNL 2016/2018; ora, art. 47, comma 2, del CCNL 2019/2021) che lo straordinario sia autorizzato dal dirigente.

Questa Suprema Corte ha tuttavia declinato il principio, cui va data continuità, secondo cui in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato, interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost., prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario se debitamente autorizzato e che, dunque, rispetto ai vincoli previsti dalla disciplina collettiva, la presenza dell’autorizzazione datoriale è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. (Cass. n. 23506/2022).

Assetto, questo, su cui è allineata la definizione di cause sostanzialmente identiche alla presente, con l’affermazione dell’ulteriore principio per cui, in tema di pubblico impiego privatizzato, il riconoscimento del diritto a prestazioni c.d. “aggiuntive” – ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 402 del 2001, conv. con mod. dalla l. n. 1 del 2002, richiamato ratione temporis dalla contrattazione collettiva del comparto sanità – è subordinato al ricorrere dei presupposti dell’autorizzazione regionale, della presenza in capo ai lavoratori di requisiti cc. dd. soggettivi e della determinazione tariffaria; tuttavia, pur in mancanza dei menzionati presupposti, l’attività lavorativa oltre il debito orario comporta il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica, il quale determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione (Cass. n. 18063/2023; analogamente, sempre sul servizio di dialisi estiva della ASP di Reggio Calabria, v. Cass. nn. 17641/2023 e 11946/2024).

Nel dare continuità a tali principi si ribadisce quindi che per autorizzazione, nell’ambito del lavoro straordinario, si intende il fatto che le prestazioni non siano svolte insciente vel prohibente domino, ma con il consenso del medesimo e che il consenso alle prestazioni può anche essere implicito. Tale consenso, come si è scritto sopra, una volta esistente, integra gli estremi che rendono necessario il pagamento e ciò anche ove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo.

I principi suesposti hanno del resto trovato continuità in fattispecie del tutto contigue, come quella della remunerazione a titolo di straordinario delle prestazioni rese a titolo di compenso incentivante, ove manchi la realizzazione dei presupposti propri di esso, ma vi sia superamento del debito orario (Cass. n. 25696/2023) o quella delle prestazioni rese a favore di terzi con il consenso della P.A. di appartenenza, sempre oltre il debito orario (Cass. n. 27842/2023).

6.1. Il collegio ritiene di ulteriormente precisare quanto segue.

Sul piano delle fonti, nel pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, l’attribuzione dei trattamenti economici è in effetti riservata alla contrattazione collettiva, sicché non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A., ma occorre, a pena di nullità, la conformità di tale atto alla contrattazione collettiva (Cass. nn. 11645/2021; 17226/2020).

Nei casi come quello di specie quanto accade è però che, sebbene l’autorizzazione prevista dal CCNL risponda ad ulteriori ragioni (programmatiche, di spesa, etc.) o risalga a fattispecie diversa da quella dello straordinario (ad es. attività da remunerare con compensi incentivanti di cui non si realizzino i presupposti), rispetto alla remunerazione del lavoratore ciò che conta è lo svolgimento del lavoro su incarico anche solo implicito del datore e non contro la volontà di questi, sicché non rileva il fatto che siano osservate forme, né che l’autorizzazione si manifesti per qualunque ragione come invalida o potenzialmente tale, oppure come inidonea (v. il caso dei compensi incentivanti) al suo scopo originario.

A ben vedere, quello che si realizza in tal modo non è un reale contrasto tra la norma del codice civile (art. 2126 c.c., qui in relazione all’art. 2108 c.c.) e le regole che disciplinano l’autorizzazione nella contrattazione collettiva e quindi di un contrasto tra le previsioni di legge e quest’ultima. Al di là del regime del rapporto tra le fonti, mutevole nelle diverse versioni normative del pubblico impiego privatizzato succedutesi nel tempo, attraverso l’applicazione dell’art. 2126 c.c. viene regolata una fattispecie ulteriore e comune, in tutto il diritto del lavoro, alle prestazioni subordinate svolte coerentemente con la volontà datoriale, ma in condizioni non conformi al regime di validità proprio di esse, le quali vanno ciononostante remunerate, ovviamente secondo il quantum previsto, per tali prestazioni e per quanto riguarda il pubblico impiego privatizzato, dalla contrattazione collettiva.

D’altra parte, la fattispecie di cui all’art. 2126 c.c. è indubbiamente espressiva, nell’evoluzione dell’ordinamento, del precetto di cui all’art. 36 Cost. e non a caso, recentemente, Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8, nel vagliare la legittimità dell’art. 2033 c.c., rispetto alla ripetizione di pagamenti indebiti nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato come l’art. 2126 c.c., in ragione della protezione da esso assicurata alla “causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta”, giustifica “sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo”, ponendosi, sotto quest’ultimo profilo, come uno dei parametri di equilibrio dell’ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte, ma inevitabilmente giustificando e corroborando la centralità della norma anche ove vista sotto il profilo della prestazioni retributive che essa impone siano adempiute, pur in assenza di validità, anche solo in parte, del rapporto di lavoro e delle prestazioni rese.

6.2. Ciò vale anche sotto il profilo delle regole di spesa.

È vero che, secondo questa Suprema Corte, le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo incoerente con esse è invalido (Cass. n. 5679/2022) e rende pertanto ripetibili eventuali pagamenti eseguiti sulla sua base (Cass. n. 14672/2022).

Tuttavia, una volta autorizzata e svolta la prestazione, non è sul lavoratore, in forza dell’asse sostanziale della disciplina di cui all’art. 36 Cost. e 2126 c.c., che possono gravare le conseguenze della divergenza rispetto agli impegni di spesa.

Tale divergenza può certamente impedire di riconoscere aumenti di corrispettivo non coperti da una regolare conduzione della contrattazione o di riconoscere speciali emolumenti di cui siano carenti i necessari presupposti quali previsti dalla contrattazione collettiva, ma non può essere di ostacolo al pagamento di una prestazione ulteriore a quella ordinaria che sia resa non insciente vel prohibente domino o comunque in modo incoerente con la volontà del datore. Ciò è già stato del resto affermato rispetto ad alcune fattispecie giunte alla disamina di questa Suprema Corte (v. Cass. n. 28938/ 2019, in tema di compenso per i turni di pronta reperibilità svolti in eccedenza ai limiti della contrattazione collettiva) e va qui ribadito anche rispetto alla presente ipotesi.

Semmai il tema si sposta sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni; ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati.

6.3. Restano al di fuori dal diritto alla retribuzione – a meno di prestazioni svolte contro norme a tutela del prestatore di lavoro – le nullità afferenti alla prestazione o alla sua richiesta che si riconnettano ad illiceità dell’oggetto o della causa.

Tale ipotesi è tuttavia palesemente estranea al caso di specie, in cui quella chiesta è la partecipazione infermieristica ad attività di dialisi estiva per pazienti di altre regioni e soggiornanti in Calabria e dunque una tipica prestazione sanitaria, propria dell’oggetto del rapporto di impiego e linearmente interna alla causa di un rapporto di lavoro subordinato.

7. Il primo motivo di ricorso va dunque accolto e ciò comporta l’assorbimento del secondo, con cui il ricorrente adduce la violazione dell’art. 111, comma 6, della Costituzione e degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), sostenendo che la motivazione della sentenza impugnata contenesse, nel denegare l’esistenza di un’autorizzazione, affermazioni inconciliabili e contraddittorie che avrebbero imposto di riconoscere dovuta la retribuzione almeno per le ore entro cui una certa delibera del Commissario straordinario ASP avrebbe ridotto l’impegno lavorativo e di spesa.

8. La cassazione della sentenza d’appello determina il rinvio alla medesima Corte territoriale, la quale verificherà l’esistenza del credito retributivo sulla base di quanto sopra precisato e quindi in ragione del superamento del debito orario e con riferimento, sotto il profilo della quantificazione, alle misure unitarie orarie proprie del lavoro straordinario secondo la contrattazione collettiva del tempo, senza attribuire rilievo ai limiti orari di ricorso allo straordinario eventualmente previsti dalla medesima contrattazione, né ad altri vizi degli incarichi con cui è stato disposto l’impiego del lavoratore nel servizio di dialisi estiva.

9. Può anche esprimersi, in continuità con i precedenti, il seguente principio: “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.”.

4. Si dà atto che, stante l’esito del ricorso, non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del D.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Reggio Calabria in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma il 6 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2024.


Atto consegnato al portiere dello stabile senza avviso al destinatario è affetto da nullità

La Corte Suprema di Cassazione chiarisce in quale ipotesi la consegna del plico al portiere dello stabile in cui risiede il destinatario debba considerarsi affetta da nullità.

L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti della società Delta s.r.l., esercente l’attività di gestione e acquisizione di alberghi, un avviso di accertamento, che la società impugnava.

La CTP respingeva il ricorso; la società impugnava la decisione di primo grado e la CTR di Firenze, accoglieva l’appello annullando l’atto di accertamento impugnato.

Avverso la sentenza di appello ricorre per Cassazione l’Agenzia delle Entrate.

La Corte Suprema di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, con sentenza n. 16300 del 12 giugno 2024, osserva che:

  1. l’Avvocatura dello Stato si è avvalsa per la notifica del servizio postale ai sensi della legge 21/01/1994 n. 53: la notifica effettuata presso la sede della società non è andata a buon fine, risultando la società irreperibile al numero civico e non risultando il nominativo.
  2. la notifica è stata tentata a mezzo del servizio postale al domicilio eletto nel procedimento di appello presso lo studio del difensore, individuato in due diversi indirizzi; per entrambe le raccomandate le cartoline di ritorno risultano essere state sottoscritte dal portiere dello stabile ove si presume che l’avvocato Tizio, difensore della società nelle fasi di merito, avesse uno studio professionale e quindi il proprio domicilio.
  3. non risulta, tuttavia, che al detto difensore sia stato inviato rituale avviso dell’avvenuta consegna del ricorso o comunque del plico al portiere dello stabile, come previsto dall’art. 7, comma 3, della legge n. 890 del 20/11/1982, richiamata dalla legge n. 53 del 1994.
  4. è principio consolidato che nel caso di notificazione degli atti processuali a mezzo del servizio postale, ai sensi del comma 6 dell’art. 7 della legge n. 890 del 20/11/1982, introdotto dall’art. 36, comma 2 quater, del d.l. n. 248 del 31/12/2007, convertito in legge n. 31 del 28/02/2008 la notificazione è nulla se il piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al destinatario stesso mediante lettera raccomandata.

Nel caso in esame – osserva La Corte Suprema di Cassazione – la difesa Erariale non ha chiesto di sanare la nullità del procedimento notificatorio e non risulta si sia attivata ai fini della ripresa dello stesso, dopo avere constatato la non ritualità della notificazione.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 16/05/2024) 24/06/2024, n. 17404

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere

Dott. NONNO GIACOMO Maria – Consigliere

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giulia – Consigliere

Dott. SALEMME Andrea Antonio – Consigliere Rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 20663/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis) che la rappresenta e difende

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA BARNABA TORTOLINI 13, presso lo studio dell’avvocato VERINO MARIO ETTORE (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIADENE CRISTIANO (Omissis)

– controricorrente –

avverso SENTENZA di COMM. TRIB. REG. del VENETO – VENEZIA n. 443/2017 depositata il 04/04/2017.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16/05/2024 dal Consigliere ANDREA ANTONIO SALEMME.

Svolgimento del processo
1. In data 28.10.2014, A.A., già “socio, amministratore unico e liquidatore” (come da sentenza in epigrafe) di B.B. COSTRUZIONI Srl, cancellata dal registro delle imprese il 13.11.2012, riceveva comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria n. (Omissis), intestata a B.B. COSTRUZIONI ed emessa da Equitalia Nord Spa, agente della riscossione per la Provincia di Treviso. A mezzo di detta comunicazione, Equitalia Nord informava che non risultava versato all’Erario l’importo di Euro 1.104.107,63, comprensivo degli interessi di mora calcolati fino al 3.10.2014, di cui: 1) Euro 49.730,00 a titolo I.V.A. relativa al 2010, oltre interessi, sanzioni, compensi di riscossione e diritti di notifica, indicati nella cartella di pagamento n. (Omissis) notificata da Equitalia Nord il 27.7.2013; 2) Euro 644.475,00 a titolo I.V.A. relativa al 2011, oltre interessi, sanzioni, compensi di riscossione e diritti di notifica, indicati nella cartella di pagamento n. (Omissis) notificata da Equitalia Nord il 28.8.2013.

Al momento della consegna della comunicazione, il A.A. faceva constare, in calce alla relazione di notifica, che la società era “estinta da circa due anni (il 13.11.2012)” e che era “impossidente” (come da controricorso).

2. Ciò avvenuto, il medesimo, in proprio e quale ex amministratore ed ex liquidatore della società, proponeva ricorso alla CTP di Treviso.

3. Nel contraddittorio di Equitalia Nord e dell’Agenzia delle entrate, con sentenza n. 470/05/2015, depositata in segreteria in data 25.6.2015, la CTP, affermato l’interesse ad agire del A.A., ed esclusa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175 del 2014, accoglieva il ricorso, annullando l’atto impugnato, posto che “la società era già estinta e pertanto non poteva essere destinataria di un atto come quello impugnato trattandosi di soggetto non più titolare di alcun diritto od obbligo”.

4. Proponeva appello l’Agenzia. Si costituiva il A.A. Si costituiva anche Equitalia Nord con controdeduzioni ed appello incidentale.

5. Con la sentenza in epigrafe, la CTR del Veneto – Mestre, ritenuta la tardività dell’appello incidentale di Equitalia Nord, rigettava nel merito l’appello agenziale, confermando la sentenza di primo grado in punto di non applicabilità dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175 del 2014, con conseguente “inesistenza” della “notifica in questione”.

6. Proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia con due motivi. Resisteva con controricorso il A.A.

7. Con requisitoria scritta datata 24 aprile 2024, il Sostituto Procuratore Generale in persona del Dott. Alberto Cardino chiedeva il rigetto del ricorso.

All’odierna pubblica udienza – cui la causa è chiamata a seguito dell’ordinanza interlocutoria resa ad esito dell’udienza camerale del 22 novembre 2023 per la novità del “thema” oggetto di giudizio – il medesimo Sostituto Procuratore Generale ribadisce le conclusioni di cui a detta requisitoria. Le difese delle parti pubblica e privata si riportano alle conclusioni di cui ai rispettivi atti, che brevemente illustrano.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente deve d’ufficio essere rilevata l’inammissibilità dell’originario ricorso proposto da A.A. nella qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, attesa l’estinzione di questa e dunque il venir meno della sua stessa soggettività, “a fortiori” processuale, per il tramite dell’ex legale rappresentante. Come ricordato da Cass., n. 16362 del 2020, “nel processo tributario, l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci”, discendendone “che i soci peculiari successori della società subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente”, “dovendo invece escludersi la legittimazione “ad causam” del liquidatore della società estinta (…) il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale”. In senso conforme, tra le tante, valga ricordare Cass., n. 32304 del 2019, secondo cui (in motivazione) “questa Corte è ferma nel ritenere che, con affermazioni estensibili tanto alle società di capitali, che a società di persone, associazioni non riconosciute e cooperative, la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore, sicché, eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, consegue l’annullamento senza rinvio ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito, trattandosi di impugnazione improponibile, poiché l’inesistenza della società è rilevabile anche d’ufficio (Cass., Sez. V, nn. 5736/16, 20252/15, 21188/14) (e) non essendovi spazio per ulteriori valutazioni circa la sorte dell’atto impugnato, proprio per il fatto di essere stato emesso nei confronti di un soggetto già estinto”.

2. Il ricorso resta scrutinabile solo in riferimento alla residua posizione del A.A. in proprio.

3. Con il primo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c. 2 n. 4 D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. (difetto assoluto di motivazione)”.

3.1. “La CTR ha respinto il primo motivo dell’appello limitandosi a rilevare che l’art. 28 c. 4 D.Lgs. 175/2014, che differisce al quinto anno successivo alla richiesta di cancellazione della società l’effetto della cancellazione stessa nei confronti delle pretese fiscali, non ha effetto retroattivo”. “Senonché, come evidenziava l’Ufficio con il secondo motivo di appello riportato in narrativa, se questa considerazione (…) poteva valere ad escludere pretese nei confronti della società cancellata basate sull’art. 28 c. 4 del D.Lgs. 175/2014 anteriormente all’entrata in vigore di quest’ultimo, non poteva valere ad escludere tali pretese sulla base dell’inopponibilità della cancellazione ed estinzione in forza del principio generale di divieto di abuso del diritto; né, alternativamente, il trasferimento della pretesa fiscale nei confronti dei soci, a seguito del fenomeno successorio che la cancellazione determina; in particolare in un contesto nel quale, poco prima della cancellazione, era stato posto in essere dallo stesso amministratore unico e poi liquidatore un processo di svuotamento della società a favore di altra società legata da vincoli familiari al suddetto amministratore unico (la Srl C.C. Fratelli posseduta dai figli del A.A.), che appariva chiaramente privo di alcuna valida ragione economica se non quella di eludere fraudolentemente la pretesa fiscale pendente nei confronti della società provocando l’estinzione di questa per cancellazione subito dopo il suddetto svuotamento. In tale contesto, secondo l’Ufficio, si dovevano ritenere inopponibili al fisco sia la cancellazione ed estinzione della società, sia, comunque, il trasferimento dei beni sociali dalla Srl B.B. alla Srl C.C. Fratelli”. “La CTR avrebbe quindi dovuto specificamente motivare circa gli elementi di fatto addotti dall’Ufficio”; invece si è limitata all’apodittica frase: “Anche la seconda censura proposta dall’Ufficio deve essere respinta in quanto sono irrilevanti le ragioni esposte dall’Ufficio a sostegno dell’attività svolta”.

3.2. Il motivo è manifestamente infondato.

La CTR, infatti, espressamente afferma che “la seconda censura proposta dall’Ufficio deve essere respinta in quanto sono irrilevanti le ragioni esposte dall’Ufficio a sostegno dell’attività svolta”. Tale affermazione, ben lungi dall’essere inesistente o meramente apparente, è invece effettiva, sia, come ovvio, dal punto di vista grafico che, però, anche dal punto di vista contenutistico. In particolare, sotto questo secondo profilo, la CTR, avendo ritenuto decisiva la questione formale dell’”inesistenza” della “notifica” della comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria oggetto di giudizio, “perché effettuata nei confronti di società già cancellata e a soggetto che non era più all’epoca liquidatore”, correttamente (dal suo punto di vista) ha tratto la conclusione che non venissero più in considerazione le ragioni di merito addotte dall’Ufficio a sostegno dell’”attività svolta”, con particolare riguardo, per quel che rileva, alla notifica stessa.

4. Un tanto consente di procedere alla trattazione del secondo motivo.

5. Con il secondo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 2495 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.

5.1. “In subordine, l’affermazione della CTR secondo cui le ragioni poste dall’Ufficio a base del secondo motivo di appello sarebbero state “irrilevanti”, incorre nelle violazioni di legge di cui alla presente rubrica”.

5.2. Il motivo di cui si tratta si sottrae all’inammissibilità protestata in controricorso, perché individua la “ratio decidendi” della sentenza impugnata meritevole di censura, formulando pertinente ragione di critica, articolata in diritto nel rispetto del paradigma censorio invocato.

5.3. Esso è fondato, ancorché alla stregua di una prospettiva non pienamente coincidente con quella rappresentatavi.

5.4. Ai fini della delibazione della censura in diritto non viene in linea di conto il pur evocato, dall’Agenzia, “contesto” di maturazione dei crediti erariali, “contesto nel quale, poco prima della cancellazione, era stato” – secondo la medesima – “posto in essere dallo stesso amministratore unico e poi liquidatore un processo di svuotamento della società”.

5.5. A venire in linea di conto è il tema in sé della validità di un preavviso di iscrizione ipotecaria intestato alla società estinta e notificato all’ex socio.

5.6. Questa S.C. ha più volte affermato – sia con riferimento alla notifica della cartella di pagamento intestata alla società (Cass. n. 30736 del 29/10/2021; Cass. n. 24793 del 05/11/2020; Cass. n. 31037 del 28/12/2017), sia con riferimento all’imputazione ai soci del reddito della società per trasparenza (Cass. n. 16365 del 30/07/2020; Cass. n. 23534 del 20/09/2019), sia, infine, con riferimento specifico all’atto impositivo (Cass. n. 30536 del 28/07/2021; Cass. n. 25487 del 12/10/2018) – che, a seguito dell’estinzione della società, l’atto intestato alla società estinta ben può essere notificato ai soci, anche collettivamente ed impersonalmente, presso l’ultimo domicilio della società, analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, D.P.R. n. 600 del 1973, per il caso di morte del debitore: ciò in quanto, a seguito dell’estinzione della società, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, che ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (cfr. Cass., Sez. U, nn. 6070, 6071 e 6072 del 12/03/2013).

Il principio di diritto è da ultimo compendiato da Cass. n. 753 del 09/01/2024 nei seguenti termini: “In tema di riscossione, l’atto impositivo intestato a società di persone o di capitali estinta è valido ed efficace, anche se notificato agli ex soci collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio della società (analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in caso di morte del debitore) o singolarmente a taluno di essi, non essendo necessaria l’emissione di specifici atti intestati e diretti ai medesimi, giacché l’estinzione determina un peculiare fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale i soci subentrano nelle medesime obbligazioni inadempiute della società, rispondendone illimitatamente o nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, a seconda che, “pendente societate”, fossero illimitatamente o limitatamente responsabili per i debiti sociali” (669949-02).

5.7. Ed in effetti svariate sono le pronunce che ritengono valide le notificazioni di avvisi di accertamento (Cass., n. 24793 del 05/11/2020; Cass., n. 23534 del 20/09/2019; Cass., n. 25487 del 12/10/2018; Cass., n. 12953 del 04/04/2017) e di cartelle di pagamento (Cass., n. 31037 del 28/12/2017) intestati alla società estinta, allorquando dette notificazioni siano state eseguite, successivamente all’estinzione, nelle mani di, o comunque a, uno dei soci.

5.8. Tanto premesso, non v’è ragione per cui le superiori conclusioni – che poggiano sul pur peculiare fenomeno di tipo successorio di cui s’è detto – non debbano valere anche per il preavviso di iscrizione ipotecaria, quale atto volto a preannunciare l’intendimento dell’Amministrazione di far valere “in executivis” la responsabilità bensì personale dell’ex socio, ma in forza, giust’appunto, della sua successione nell’obbligazione della società estinta.

5.9. I presupposti, invero, sono identici.

Relativamente ad avvisi e cartelle intestati alla società estinta e notificati all’ex socio, l’affermazione della loro validità ed efficacia in ragione della responsabilità di costui per il debito sociale è intesa a salvaguardare l’interesse dell’Amministrazione a procurarsi un titolo per tale debito anche nei confronti dell’ex socio sulla base del fatto in sé che questi è successore: ciò corrispondentemente alla “natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti, anche solo, ad esempio, in funzione dell’escussione di garanzie” (Cass. nn. 26758 e n. 10678 del 2022). Sicché, in definitiva, l’interesse dell’Amministrazione al titolo fonda sulla constatazione che il successore, ben lungi dal potersi reclamare estraneo, risponde del debito sociale per il solo verificarsi della successione, che lo rende nell’attualità personalmente responsabile di un debito pur non originariamente suo, ma a lui trasferitosi: ragion per cui il debito già sociale, per effetto della successione, diviene un debito individuale dell’ex socio, ovvero, da altro punto di vista, il debito individuale trova causa nel fenomeno successorio, costituendo il risultato dell’”individualizzazione per successione” del debito sociale.

Ed anche (anzi, per vero, “a fortiori”) relativamente al preavviso, avente la pura e semplice finalità di consentire al debitore (ossia, nella specie, l’ex socio) di presentare osservazioni per evitare l’adozione a suo carico dell’iscrizione, compulsandone l’adempimento (Cass. n. 25600 del 2021), e quindi diretta unicamente a portare ad esecuzione un titolo già conformato, si configura un identico interesse dell’Amministrazione, medesimamente fondato sulla predetta constatazione. D’altronde, l’ex socio, acquisita la qualità di successore, non può certo perderla o rinunciarvi.

In definitiva (così enunciandosi principio di diritto): anche il preavviso di iscrizione ipotecaria, intestato alla società estinta e notificato all’ex socio, è, come già predicato di avviso e cartella, valido ed efficace.

5.10. La CTR non ha ossequiato il superiore principio.

6. Concludendo:

– quanto alla posizione di A.A. nella qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, la sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio e, con pronuncia su ricorso ex art. 382 cod. proc. civ., deve dichiararsi inammissibile l’originario ricorso dal medesimo proposto in tale qualità, con integrale compensazione delle spese di tutti i gradi di giudizio, stante il rilievo d’ufficio;

– quanto alla posizione del medesimo in proprio, deve accogliersi il secondo motivo di ricorso per cassazione dell’Agenzia, rigettato il primo, con rinvio al giudice di merito, in relazione al motivo accolto, per nuovo esame e per le spese, comprese quelle del grado.

P.Q.M.
Quanto alla posizione di A.A. in qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, pronunciando su ricorso, dichiara inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio proposto dal medesimo in tale qualità, compensando integralmente tra le parti le spese di lite per tutti i gradi di giudizio.

Quanto alla posizione di A.A. in proprio, accoglie il secondo motivo del ricorso per cassazione, rigettato il primo, e, per l’effetto, in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, per nuovo esame e per le spese.

Conclusione
Così deciso a Roma, lì 16 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2024.


La notifica dell’avviso di accertamento interrompe la continuazione

La contestazione della violazione fissa il punto di arresto ai fini del beneficio, a prescindere dalla sua definitività e inoppugnabilità o dalla sua mancata impugnazione
In ambito tributario l’istituto della continuazione presuppone l’oggettivo perpetrarsi dell’illecito in periodi d’imposta diversi e mira ad evitare che la reiterazione porti ad una sanzione complessiva eccessivamente gravosa per il contribuente.
Il beneficio, tuttavia, si arresta in caso di cd. interruzione, che si realizza, ai sensi dell’art. 12, comma 6, del D.Lgs. n. 472/1997, per effetto della contestazione della violazione, senza che rilevi la sua definitività e inoppugnabilità o la sua mancata impugnazione.
Questo, in sintesi, il principio ribadito dalla V sezione della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 15799 del 6 giugno 2024.
Una società di persone si vedeva notificare plurimi avvisi di accertamento per reiterata, omessa dichiarazione del reddito prodotto con riferimento agli anni di imposta 2005-2010. Con correlati atti impositivi veniva accertato il reddito di partecipazione imputabile ai soci.
I molteplici atti venivano impugnati separatamente.
Riuniti i ricorsi, la CTP di Trieste li accoglieva, ridimensionando in parte la pretesa fiscale; applicava inoltre l’istituto del cumulo giuridico all’insieme degli atti accertativi, al fine di quantificare le sanzioni.
L’Erario proponeva appello che veniva però rigettato.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione, contestando l’applicazione del cumulo giuridico al complesso delle violazioni contestate, posto che si era verificato un evento interruttivo (la notifica degli atti impositivi relativi all’anno 2005) tale da escluderne l’operatività.
Per la Corte Suprema di Cassazione il ricorso è fondato.
La Corte Suprema di Cassazione ricorda che in tema di sanzioni tributarie l’istituto della continuazione presuppone l’oggettivo perpetrarsi dell’illecito in periodi d’imposta diversi e mira ad evitare che la sua reiterazione comporti una sanzione complessiva eccessivamente onerosa per il contribuente.
Il beneficio, ricorda la Corte, si arresta però in caso di cd. interruzione, che si realizza, ai sensi dell’art. 12, comma 6, del D.Lgs. n. 472/1997, per effetto della contestazione della violazione, senza che rilevi la sua definitività e inoppugnabilità o la sua mancata impugnazione.
Ciò che si pone a monte dell’atto, se della stessa indole, deve quindi essere unito ai fini della determinazione della sanzione, mentre ciò che è a valle resta escluso dal cumulo giuridico, salvo riconoscersi un’autonoma e rinnovata applicazione dell’istituto in caso di plurime violazioni anche da questo lato (Cass. n. 16017/2021).
Nel caso di specie la CTR aveva ritenuto applicabile la continuazione anche riguardo alla contestazione di violazione della stessa indole nei confronti dell’ente e dei due soci per tutte le annualità dal 2005 al 2010. Ciò, malgrado la sanzione irrogata per l’anno 2005 dovesse cumularsi con quelle per gli anni successivi fino al 2008, ma non anche a quelle del 2009 e del 2010, rispetto alle quali si era verificato l’evento interruttivo rappresentato dalla notifica degli atti impositivi inerenti all’annualità 2005.
Per tali motivi il ricorso dell’Erario è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio.


Non è nulla la notifica per assenza di valida sottoscrizione

Non è nullo, per assenza di valida sottoscrizione, l’avviso di accertamento nativo digitale ma notificato in versione cartacea, firmato digitalmente dal funzionario incaricato e dichiarato conforme all’originale informatico. La notifica, inoltre, può correttamente avvenire sia con Pec, sia a mezzo del servizio postale. A fornire questi principi è la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 16846/2024.

Un contribuente lamentava la nullità dell’avviso di accertamento per assenza di valida sottoscrizione. Rilevava che l’atto cartaceo notificato era una copia della versione digitale ed era stato notificato non via Pec ma attraverso il servizio postale.

Sia i giudici di primo grado, sia quelli di appello ritenevano l’atto nullo per difetto di sottoscrizione, anche perché era stato notificato, con firma digitale, a mezzo del servizio postale anziché tramite pec.

Per la Ctr, in particolare, solo la combinazione della sottoscrizione con firma digitale con l’invio a mezzo pec avrebbe consentito al contribuente un immediato controllo dell’autenticità del provvedimento notificato, oltre che l’accesso a tutte le informazioni ed atti correlati.

Nel ricorso per Cassazione, l’Agenzia lamentava, tra i vari motivi, che l’atto era stato sottoscritto digitalmente dal direttore dell’Ufficio con attestazione di conformità all’originale informatico resa dal funzionario in calce al provvedimento ed era corretta la notifica per il tramite del servizio postale.

La Corte Suprema di Cassazione ha accolto il ricorso. Innanzitutto, i giudici hanno confermato che il divieto di sottoscrizione digitale, vigente per un certo periodo, rispetto agli atti relativi all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale non poteva estendersi agli atti impositivi. Questi, infatti, non rientrano nell’ambito del controllo.

Inoltre, le copie analogiche di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte, a condizione che la loro conformità all’originale sia attestata da un pubblico ufficiale autorizzato. Circostanza che nel caso era incontestata.

Infine, non sussiste alcun necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo Pec: nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie a mezzo posta.

Nella vicenda, peraltro. l’atto era comunque giunto al destinatario che, infatti, l’aveva tempestivamente impugnato, trovando così applicazione anche il principio secondo cui, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo.


Il portalettere non ha l’obbligo di identificare il soggetto che riceve l’atto

Nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, il portalettere non ha l’obbligo di procedere alla identificazione del soggetto al quale consegna l’atto. Egli ha soltanto l’obbligo di attestare che, nel luogo e nella data indicati nell’avviso di ricevimento, in sua presenza un soggetto qualificatosi destinatario dell’atto ha apposto una firma.

Così si è espressa la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 14279/2024.

Un contribuente proponeva ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale avverso una cartella di pagamento che le era stata notificata dall’agente della riscossione sulla scorta di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva accertato nei suoi confronti un reddito da plusvalenze di natura finanziaria non dichiarato ed un reddito superiore rispetto a quello dichiarato.

L’avviso di accertamento era stato notificato a mezzo del servizio postale. Il contribuente disconosceva la firma apposta sul relativo avviso di ricevimento.

La Commissione Tributaria Provinciale dava torto al contribuente rigettando il ricorso e condannandolo al pagamento delle spese processuali.

Di diverso avviso la Commissione Tributaria Regionale adita dal contribuente la quale , dopo aver disposto una consulenza tecnica d’ufficio, accoglieva l’appello da quest’ultimo promosso ed annullava la cartella di pagamento impugnata e compensava le spese del doppio grado di giudizio.

Pertanto, l’Agenzia delle Entrate investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione deducendo l’erroneità della decisione dei giudici tributari di secondo grado evidenziando che:

  • la consulenza tecnica d’ufficio disposta in grado di appello, al fine di accertare l’apocrifia della sottoscrizione da parte del contribuente dell’avviso di ricevimento relativo all’atto di accertamento presupposto della cartella impugnata, era sostanzialmente superflua, tenuto conto che, ai fini della validità della notificazione non è sufficiente il semplice disconoscimento della firma, non avendo il contribuente contestato le altre risultanze della relata di notifica. Pertanto, la notifica si doveva considerare perfezionata nel momento in cui l’atto era entrato nella sfera di conoscibilità del destinatario;
  • spettava al contribuente fornire la prova che la sottoscrizione dell’avviso di ricevimento era avvenuta da parte di un soggetto non titolato, a lui del tutto estraneo e con conseguente impossibilità di avere conoscenza dell’atto;

Inoltre, deduceva che:

  1. ai fini del perfezionamento della notifica, l’agente postale non ha il compito di procedere all’identificazione del consegnatario dell’atto, e quindi all’accertamento della veridicità della dichiarazione che il consegnatario dell’atto gli rilasci (dichiarazione di essere, per l’appunto, il destinatario dell’atto). Pertanto, una volta che l’agente postale abbia raccolto la dichiarazione, seguita poi dalla firma della ricevuta, e così consegnato l’atto nelle mani di colui che ha assunto di essere il destinatario dello stesso, la sequenza notificatoria è da considerarsi legittima;
  2. l’avviso di ricevimento fa fede fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto;
  3. il ricorrente in primo grado aveva richiesto la querela di falso per accertare la falsità della sottoscrizione dell’avviso di ricevimento in questione, e che tale querela era stata dichiarata inammissibile con sentenza del Tribunale. Di conseguenza, la Commissione Tributaria Regionale non avrebbe potuto ammettere in grado di appello un nuovo esperimento istruttorio (la C.T.U. in caso di istanza di verificazione) in presenza dell’unico incombente richiesto in primo grado, e cioè la querela di falso.

I motivi del ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate sono stati ritenuti fondati dalla Corte Suprema di Cassazione la quale, nel decidere nel merito, ha rigettato il ricorso originariamente proposto dal contribuente avverso la cartella di pagamento, osservando che:

  • nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, “ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, con grafia illeggibile, nello spazio relativo alla firma del destinatario o di persona delegata, e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dal comma 3 dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, essendo irrilevante la circostanza che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 cod. proc. civ.” (Cass., sez. U., 27 aprile 2010, n. 9962; v. anche Cass. 30 marzo 2016, n. 6126);
  • gli avvisi di ricevimento si palesano suscettibili di provare, fino a querela di falso, la consegna degli atti ove ricorrano le seguenti condizioni: i) gli atti risultino consegnati all’indirizzo del destinatario; ii) la persona indicata come consegnataria dell’atto abbia apposto la propria firma (ancorché illeggibile) nello spazio dell’avviso di ricevimento relativo alla firma del destinatario o di persona delegata;
  • al fine di considerare validamente eseguita e perfezionata la notifica, la sequenza notificatoria che assume rilevanza, è unicamente quella prevista dai commi 1 e 2 dell’art. 7, della legge n. 890/1982. Pertanto, una volta che l’agente abbia raccolto la dichiarazione, seguita poi dalla firma della ricevuta, e così consegnato l’atto nelle mani di colui che ha assunto di essere il destinatario dello stesso, la sequenza notificatoria è legittima, rispondendo al modello legale, e dunque l’atto è da intendersi notificato al destinatario;

Nel caso di specie, ha concluso la Corte Suprema di Cassazione, al fine di contestare le risultanze dell’avviso di ricevimento, sarebbe dovuta intervenire una pronuncia di falsità a seguito di querela di falso, querela che è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale la cui decisione è passata in giudicato per non essere stata impugnata dal contribuente che aveva interesse a fare accertare la falsità del predetto avviso di ricevimento con conseguente perfezionamento del procedimento notificatorio.


E’ valido l’atto notificato al vecchio indirizzo prima dei 60 giorni dal trasferimento

Quando un contribuente trasferisce la propria residenza anagrafica da un Comune ad un altro, ai fini delle imposte sui redditi, la variazione ha effetto dal 60° giorno successivo a quello in cui si è verificata.

Di conseguenza, deve ritenersi valida la notifica di un avviso di accertamento al precedente domicilio, effettuato prima del decorso dei 60 giorni dal trasferimento, perché avvenuta nel termine di inopponibilità all’erario del mutamento del domicilio fiscale.

Il termine indicato dalla norma vale a consentire all’Amministrazione finanziaria di beneficiare, incondizionatamente, di un perimetro temporale adeguato ai fini dell’effettuazione della notifica di un atto al vecchio indirizzo del soggetto che ne è destinatario e che pure ha comunicato all’anagrafe di essersi trasferito.

Questo il principio espresso dalla Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 14435/2024.

Nella controversia in commento la CTP ha accolto il ricorso presentato da un contribuente avverso una cartella di pagamento emessa per effetto della revoca dell’agevolazione “prima casa”, in quanto gli avvisi di accertamento presupposti erano stati notificati oltre il termine di 30 giorni dalla variazione del domicilio fiscale al precedente indirizzo del contribuente, essendo applicabile l’articolo 60, comma 3, del DPR n. 600 del 1973 che dispone che le:

  • “variazioni e le modificazioni dell’indirizzo hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica.”

La CTR ha confermato la sentenza di prime cure respingendo l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, che aveva sostenuto la validità della notifica dell’atto prodromico effettuata al precedente domicilio fiscale, essendo opponibile all’Ufficio la variazione dell’indirizzo anagrafico e del domicilio fiscale solamente decorso il termine di 60 giorni di cui l’art. 58 del DPR n. 600/1973 che, al comma 5, che prevede che:

  • “Le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate.”

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione contro la decisione di secondo grado lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 58 e 60 del DPR n. 600/1973, in quanto, al caso di specie, deve trovare applicazione il citato articolo 58, secondo cui le variazioni del domicilio fiscale hanno effetto dal 60° giorno successivo a quello in cui si sono verificate, e non l’articolo 60 dello stesso DPR, richiamato dal giudice di appello nel testo ratione temporis vigente, che si applica alle variazioni di indirizzo nello stesso Comune le quali non implicano alcuna variazione del domicilio fiscale.

La Corte Suprema di Cassazione, nel ritenere fondata la tesi dell’Amministrazione finanziaria, ha ricordato che la notifica degli avvisi di accertamento deve essere eseguita, ai sensi del DPR n. 600/1973, art. 60, comma 1, lett. c), nel Comune del domicilio fiscale del contribuente.

Quando si ha variazione del domicilio fiscale?

Nel caso di persona fisica, il domicilio fiscale coincide con il luogo della sua residenza anagrafica.

Entrando nel merito della questione, l’art. 58, ultimo comma, del DPR n. 600/1973, prevede che:

  • “le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate.”

Si ha variazione del domicilio fiscale, ai sensi del comma 2 del suddetto art. 58, quando il contribuente trasferisce la propria residenza anagrafica in un altro Comune. Nel caso di specie, il contribuente ha mutato la propria residenza anagrafica il 2 gennaio 2013, mentre l’avviso di accertamento gli è stato notificato il 6 febbraio 2013.

La notifica, dunque, è valida perché avvenuta nel termine di inopponibilità all’erario del mutamento del domicilio fiscale, in quanto i 60 giorni indicati dalla norma valgono a consentire all’Amministrazione di beneficiare, incondizionatamente, di un perimetro temporale adeguato ai fini dell’effettuazione della notifica di un atto al vecchio indirizzo del soggetto che ne è destinatario e che pure ha comunicato all’anagrafe di essersi trasferito.

Non appare pertinente il richiamo all’art. 60, comma 3, del DPR n. 600/1973 (nel testo applicabile ratione temporis) in quanto tale norma, come noto, prevede che “le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica” e la norma non può essere invocata per sostenere che l’inefficacia della notifica dell’avviso di accertamento.

L’art. 60, comma 3, del DPR 600 del 1973 disciplina le variazioni dell’“indirizzo”, non quelle del “domicilio fiscale”.

La Corte Suprema di Cassazione ha ribadito a riguardo che i due concetti non coincidono: il domicilio fiscale è un luogo predeterminato dalla legge secondo criteri obiettivi (art. 58 DPR n. 600/1973).

L’“indirizzo”, invece, è il luogo fisico presso il quale il contribuente può essere reperito, ma sempre nell’ambito del domicilio fiscale stabilito dalla legge (art. 60 DPR n. 600/1973).

Sulla base di tali argomentazioni la Corte Suprema di Cassazione ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato l’originario ricorso del contribuente, con condanna al pagamento delle spese di giudizio.


Modulo per richiesta rimborso spese – anno 2024

Nel rimborso delle spese ricadono i costi degli spostamenti, e quindi di treni, automobili ed aerei, nonché dei mezzi pubblici. Vi sono inoltre i costi di vitto e alloggio, effettuati in strutture di ristorazione ed alberghiere.

E’ importante, al fine di ottenere il dovuto rimborso delle spese di viaggio, di tenere nota accurata di ogni spesa, redigendone una opportuna nota spese, con i seguenti dati:

  • data in cui la spesa è effettuata
  • luogo in cui la spesa è effettuata
  • importo della spesa effettuata
  • documentazione allegata comprovante l’importo (fattura o ricevuta)

Tale nota spese sarà poi consegnata/inviata all’Unità Operativa Vicolo Quasimodo 34 – 35020 Albignasego PD.

I costi chilometrici per utilizzo di mezzi di trasporto di proprietà

Tariffe ACI e trasferte nel comune

Nella realtà è frequente rilevare l’erogazione e la contabilizzazione di rimborsi chilometrici per l’utilizzo da parte di dipendenti e parasubordinati di mezzi di trasporto propri per conto e nell’interesse delle imprese in cui operano.

Il relativo costo viene determinato in base alle percorrenze e prendendo come riferimento le tariffe ACI che sono determinate in base ai seguenti parametri:

• categoria del veicolo utilizzato (autovettura, motociclo, ciclomotore, fuoristrada, autofurgone);

• elenco delle marche automobilistiche;

• tipo di alimentazione (es. benzina, gasolio, ecc.);

• periodo di utilizzo del veicolo.

In linea generale l’utilizzo da parte di dipendenti e parasubordinati di veicoli propri genera in loro favore il diritto al riconoscimento di un’indennità chilometrica a titolo di rimborso spese.

La stessa viene calcolata in base ai seguenti due elementi:

percorrenza effettuata per conto dell’impresa, determinata in chilometri;

costo chilometrico oggettivamente attribuibile al tipo di mezzo utilizzato.

Va preliminarmente precisato che se viene riconosciuto un costo superiore rispetto a quello effettivo per l’impiego di autoveicoli personali del dipendente o parasubordinato, il maggiore importo rispetto alla tariffa ACI genera un fringe benefit che deve venire computato fra gli emolumenti imponibili delle retribuzioni o dei corrispettivi, sia ai fini fiscali che previdenziali. È parimenti considerato fringe benefit il corrispettivo erogato che non risulti analiticamente giustificato in base alla percorrenza effettiva del mezzo per finalità aziendali.

L’utilizzo dell’auto del dipendente o parasubordinato può riguardare trasferte:

• poste in essere nel territorio del comune sede di lavoro;

• relative a tragitti fatti al di fuori del comune sede di lavoro.

Trasferte nel comune

In linea generale l’indennità chilometrica corrisposta per trasferte nel comune sede di lavoro costituisce sempre un emolumento imponibile ai fini IRPEF e per il calcolo dei contributi previdenziali.

Invece l’indennità chilometrica corrisposta per trasferte fatte con utilizzo di autovetture del dipendente e parasubordinato è considerata un rimborso spese e non va assoggettata a ritenute previdenziali e fiscali quando il relativo ammontare non supera il limite determinato dalla Tariffa ACI con riferimento al veicolo usato.

In ogni caso l’indennità in esame deve risultare esposta nel Libro Unico del lavoro, e deve venire documentata con un prospetto analitico predisposto e sottoscritto dal soggetto utilizzatore.

Scarica il modulo: Prospetto rimborso spese 2024


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 16/05/2024) 19/06/2024, n. 16846

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere Rel.

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere

Dott.ssa DONATI VISCIDO DI NOCERA PUTATURO Maria Giulia – Consigliere

Dott. SALEMME Andrea Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 11665-2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (Omissis), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

MAIN Srl in liquidazione, rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Gaetano Michele Maria de BONIS (pec: gaetanodebonis@pec.studiolegaledebonis.com), ed elettivamente domiciliata in Roma, alla piazza della Libertà, n. 10, presso lo studio legale dell’avv. Giampaolo BALAS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/02/2019 della Commissione tributaria regionale della BASILICATA, depositata in data 07/02/2019;

udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 16/05/2024 dal Cons. Lucio Luciotti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. A.A., che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La CTR della Basilicata con la sentenza impugnata rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate confermando la statuizione di primo grado che aveva dichiarato la nullità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della Main Srl in liquidazione relativamente all’anno d’imposta 2013 per difetto di sottoscrizione in quanto apposta in forma digitale sull’atto impositivo, mediante l’indicazione a stampa del nominativo del funzionario delegato, in violazione dell’art. 2, comma 6, del Codice dell’amministrazione digitale (cd. CAD), che prevede l’inapplicabilità delle disposizioni del Codice all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, ed anche per essere stato notificato, con tale firma digitale, a mezzo del servizio postale anziché tramite posta elettronica certificata. A tale ultimo riguardo sosteneva che soltanto la combinazione della sottoscrizione con firma digitale con l’invio dell’atto a mezzo pec avrebbe consentito al contribuente “un immediato controllo dell’autenticità del provvedimento notificato, oltre che l’accesso a tutte le informazioni ed atti correlati”. Riteneva, infine, che la dichiarazione di nullità dell’atto impositivo fosse assorbente degli altri motivi di impugnazione.

2. Avverso la sentenza d’appello l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui replica la società contribuente con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 18, 21, 24 e 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR omesso di pronunciare su due motivi di appello. Il primo, con cui aveva lamentato la violazione dell’art. 32, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 da parte dei giudici di primo grado, che non avevano dichiarato inammissibile la memoria che la società contribuente aveva deposito tardivamente, soltanto il giorno dell’udienza di trattazione. Il secondo, con cui aveva dedotto la violazione del combinato disposto dagli artt. 24 e 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992 da parte dei giudici di primo grado che non avevano dichiarato inammissibile la memoria depositata dalla società contribuente in quanto contenente eccezioni nuove rispetto a quelle dedotte con i motivi di ricorso.

2. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 32, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR omesso di rilevare e dichiarare l’inammissibilità della memoria che la società contribuente aveva deposito in primo grado tardivamente, soltanto il giorno dell’udienza di trattazione, e l’inutilizzabilità delle stesse da parte dei giudici di primo grado per fondare la statuizione poi confermata in sede di appello.

3. Con il terzo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 18, comma 2, 19, 21, comma 1, e 24, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, perché la CTR, “confermando la sentenza di primo grado, e ritenendo che il Cad “… non si applica all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, con la conseguenza che l’utilizzo di tali procedure da parte dell’Agenzia delle entrate è da considerarsi del tutto illegittimo e che il cad prevede, inoltre, che il documento firmato digitalmente sia inviato tramite Pec in un formato specifico e non a mezzo del servizio postale …”, ha condiviso la doglianza proposta dalla società contribuente per la prima volta nelle memorie illustrative”, benché nell’originario ricorso la società contribuente avesse dedotto soltanto l’illegittimità dell’atto impositivo per l’indicazione sostitutiva a mezzo stampa del nominativo del firmatario.

4. Con il quarto motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2, comma 6, del D.Lgs. n. 82 del 2005 per avere la CTR erroneamente ritenuto che la disposizione censurata si applicasse anche alla sottoscrizione degli avvisi di accertamento. Sostiene che l’atto impositivo impugnato era stato sottoscritto digitalmente del Direttore Provinciale dell’Ufficio con attestazione di conformità all’originale informatico resa dal funzionario in calce al provvedimento.

5. Con il quinto motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 60, comma 7, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 23, comma 1, del CAD (D.Lgs. n. 82 del 2005), per avere la CTR ritenuto obbligatoria, in presenza di sottoscrizione digitale dell’avviso di accertamento, la notifica dello stesso a mezzo posta elettronica certificata.

6. In applicazione del principio della ragione più liquida, devono esaminarsi preliminarmente il quarto ed il quinto motivo di ricorso.

7. Il quarto motivo è fondato in quanto la CTR ha escluso l’applicabilità agli atti impositivi della disciplina dettata dal codice dell’amministrazione digitale, erroneamente interpretando il comma 6 dell’art. 2 del CAD (D.Lgs. n. 85 del 2005).

8. Tale disposizione, nella versione applicabile alla fattispecie, relativa ad avviso di accertamento notificato il 21/11/2016 (così a pag. 7 del controricorso), e, pertanto, con le modifiche apportate dall’art. 2, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 179 del 2016, entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, prevedeva nella prima parte (successivamente modificata, come si dirà in prosieguo), che “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale (…)”.

9. Questa Corte si è più volte pronunciata sulla questione dedotta con il motivo (Cass., ordinanze n. 1150 del 21/01/2021; n. 1155 del 26/01/2021 e n. 1157 del 26/01/2021; più recentemente, Cass. n. 6142 del 07/03/2024 e Cass. n. 10829 del 22/04/2024) e sulla questione Cass., Sez. 6-5, 9 novembre 2021, n. 32692, è stata così massimata: “L’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui all’art. 2, comma 6, D.Lgs. n. 82 del 2005 (“ratione temporis” vigente dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi”.

10. Le argomentazioni svolte in tali pronunce, che il Collegio condivide, si fondono essenzialmente su tali passaggi:

– la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo eIDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici; infatti, ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13 novembre 2014;

– la regola generale è divenuta, quindi, il ricorso ai documenti informatici e le limitazioni ne costituiscono l’eccezione;

– una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico fanno propendere per una interpretazione dell’art. 2, comma 6, del CAD, ratione temporis vigente, nel senso che nell’esercizio delle attività e funzioni ispettive non rientrano gli atti impostivi;

– innanzitutto, sul piano terminologico gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo;

– la distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente. In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonché di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza. Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni. Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti. Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni. Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicché l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

– la diversa interpretazione fatta propria dai giudici di appello si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi. La modifica apportata all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, ad opera dell’art. 7-quater, comma 6, del D.L. n. 193 del 2016, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici. Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 del CAD dall’art. 2, lett. e), del D.Lgs. n. 217 del 2017 ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” (e conseguentemente alla lett. “d” ha soppresso le parole “ispettive e di controllo fiscale” di cui alla prima parte del comma 6) e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”. Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

11. Alla ritenuta applicabilità al caso di specie dell’art. 2, comma 6, CAD, nella versione vigente ratione temporis, consegue l’accoglimento del quinto motivo di ricorso, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

12. Ai sensi dell’art. 23 del CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

13. Nella specie risulta incontestato, perché ammesso dalla stessa controricorrente (pag. 33) che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale, che, a differenza di quanto sostiene la controricorrente, è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto formato digitalmente ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017), essendo l’attestazione di conformità riferita al contenuto integrale del documento originale informatico e quindi anche alla sottoscrizione apposta in formato digitale.

14. A ciò aggiungasi che nel caso di specie la conformità del documento analogico a quello digitale non risulta essere stata nemmeno disconosciuta dalla società contribuente, ai sensi del comma 2, prima parte, del citato art. 23 CAD, che prevede che “Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loto conformità non è espressamente disconosciuta”.

15. Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta. Come si è detto sopra, la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta del comma 6 all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 7-quater, comma 6, del D.L. n. 193 del 2016; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

16. Al riguardo deve osservarsi che non coglie nel segno il richiamo fatto dalla controricorrente all’art. 3-bis, comma 4-bis, del CAD per opinare la possibilità della notifica a mezzo posta dell’atto impositivo in mancanza del domicilio digitale. Infatti, la citata disposizione fa espresso riferimento alle “comunicazioni” e non alle “notificazioni”, invece espressamente regolati dall’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973.

17. Si aggiunga, infine, che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario che, infatti, l’ha tempestivamente impugnato. Trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156, terzo comma 3, C.P.C., ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo (cfr., tra le tante, Cass. Sez. U, n. 7665 del 2016; Cass. n. 27561 e n. 24568 del 2018).

18. Alla stregua di quanto fin qui detto possono affermarsi i seguenti principi di diritto.

“L’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui all’art. 2, comma 6, D.Lgs. n. 82 del 2005 (ratione temporis applicabile dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi”.

“La copia analogica dell’avviso di accertamento, sottoscritta digitalmente dal funzionario incaricato e dichiarata conforme all’originale informatico nel rispetto della previsione dell’art. 23 del D.Lgs. n. 82 del 2005, tiene luogo del menzionato originale ed è validamente notificata al contribuente, oltre che a mezzo posta elettronica certificata, anche a mezzo del servizio postale”.

19. L’accoglimento del quarto e quinto motivo di ricorso ha quale diretta conseguenza l’assorbimento dei primi tre motivi, incentrati (il secondo ed il terzo) sulla questione della tempestività delle censure di inapplicabilità al caso di specie dell’art. 2, comma 6, del CAD e del necessario invio a mezzo PEC dell’atto impositivo firmato digitalmente, in quanto introdotte per la prima volta in una memoria illustrativa, peraltro depositata oltre i termini di cui all’art. 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992, e (il primo) sull’omessa pronuncia della CTR sul motivo di appello espressamente formulato al riguardo.

23. In estrema sintesi, vanno accolti il quarto e quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. La sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il quarto e quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma in data 16 maggio 2024.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 22/05/2024) 12/06/2024, n. 16300

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere

Dott. ROSETTI Riccardo – Consigliere rel.

Dott. TARTAGLIONE Giuliano – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 05026/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

Contro

A.A. Srl, in persona del legale rappresentante p.t.;

– intimata –

avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. della TOSCANA n. 1304/31/2014 depositata il 30/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22 maggio 2024 dal consigliere Riccardo Rosetti.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti della società A.A. Srl, esercente l’attività di gestione e acquisizione di alberghi, l’avviso di accertamento n. T8V030502173/2010, con il quale rettificava, ai sensi degli articoli 39, comma 1, lettera b), 40 e 41-bis del D.P.R. 29/09/1973 n. 600 il reddito d’impresa della società per l’anno di imposta 2006 da una perdita di euro 926,00 a un reddito di euro 60.754,00 e tanto dopo aver disatteso l’interpello proposto dalla società al fine di ottenere la disapplicazione della normativa sulle società di comodo ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’articolo 30, comma 4-bis, della legge 23/12/1994 n. 724.

2. La società A.A. Srl impugnava l’atto di accertamento e la CTP di Siena, con la sentenza n. 278/01/2011 del 10/11/2011, respingeva il ricorso.

3. La società A.A. Srl impugnava la decisione di primo grado e la CTR di Firenze, con la sentenza 1304/31/2014 del 30.6.2014, accoglieva l’appello annullando l’atto di accertamento impugnato.

4. Avverso la sentenza di appello ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate con ricorso articolato su tre motivi; la società A.A. Srl non ha espletato attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli articoli 1, comma 2, e 36, comma 2, numero 4, del decreto legislativo 31/12/1992 n. 546, dell’articolo 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e dell’articolo 118 disp. att. cod. proc. civ. in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.

2. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione di legge, sotto vari profili, dell’articolo 30 della legge 724 del 1994 in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

3. Con il terzo motivo di ricorso con il quale l’Agenzia delle Entrate denuncia omesso esame di fatti decisivi della controversia oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.

4. Il Collegio ritiene che non sia necessario dare conto, specificamente, del contenuto delle singole censure, per quanto di seguito esposto.

5. L’Avvocatura dello Stato si è avvalsa per la notifica del servizio postale ai sensi della legge 21/01/1994 n. 53. La notifica effettuata presso la sede della società non è andata a buon fine, risultando la società irreperibile al numero civico e non risultando il nominativo. La notifica è stata tentata a mezzo del servizio postale al domicilio eletto nel procedimento di appello presso lo studio del difensore, individuato in due diversi indirizzi in Via (omissis) e in Via (omissis); per entrambe le raccomandate le cartoline di ritorno risultano essere state sottoscritte dal portiere dello stabile di via (omissis), in M, ove si presume l’avvocato Nicola Bottari, difensore di A.A. Srl nelle fasi di merito, avesse uno studio professionale e quindi il proprio domicilio. Non risulta, tuttavia, che al detto difensore sia stato inviato rituale avviso dell’avvenuta consegna del ricorso o comunque del plico al portiere dello stabile, come previsto dall’art. 7, comma 3, della legge n. 890 del 20/11/1982, richiamata dalla legge n. 53 del 1994.

6. Sul punto questa Corte è ferma (Cass. 04/12/2012, n. 21725 del; Cass. civ., Sez. III, 24/07/2023, n. 22095) nel ritenere che nel caso di notificazione degli atti processuali a mezzo del servizio postale, ai sensi del comma 6 dell’art. 7 della legge n. 890 del 20/11/1982, introdotto dall’art. 36, comma 2-quater, del D.L. n. 248 del 31/12/2007, convertito in legge n. 31 del 28/02/2008 la notificazione è nulla se il piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al destinatario stesso mediante lettera raccomandata. La difesa Erariale non ha chiesto di sanare la maturata la nullità del procedimento notificatolo e non risulta si sia attivata ai fini della ripresa dello stesso, dopo avere constatato la non ritualità della notificazione (Cass., Sez. U., 15/07/2016 n. 14594).

7. A tanto consegue, in adesione ai richiamati precedenti di questa Corte, che il ricorso dell’Agenzia delle Entrate deve essere dichiarato inammissibile.

8. Nulla per le spese. Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1-bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., Sez. U., 25 novembre 2013, n. 26280Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 24/09/2013) 25/11/2013, n. 26280; Cass., 14 marzo 2014, n. 5955).

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.

Conclusione
Così deciso, in Roma, il 22 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2024.