Furbetti del cartellino: licenziamento senza automatismi

La Corte Suprema di Cassazione, Sez. lav, con sentenza n. 8453 del 24 marzo 2023, ha stabilito che, secondo principi ormai acquisiti nel pubblico impiego privatizzato l’art. 55-ter del D.Lgs. n. 165/2001, inserito dal D.Lgs. n. 150/2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente. La Corte Suprema di Cassazione ha, inoltre, ribadito che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dall’art. 55-quater D.Lgs. n. 165/2001, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare, perché della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali.
Il fatto
La Corte d’appello di Genova respingeva il reclamo proposto da una dipendente comunale, con funzioni di coordinatrice dei Servizi educativi di prima infanzia, avverso la sentenza del Tribunale reiettiva dell’impugnativa di licenziamento per giusta causa: il licenziamento aveva fatto seguito a una contestazione relativa a plurime irregolarità nella registrazione della presenza in servizio, e dei relativi orari di entrata e uscita, ritenuta adeguatamente comprovata alla stregua delle risultanze delle indagini della Guardia di finanza che avevano dato luogo anche a un giudizio penale chiusosi poi con l’assoluzione della dipendente comunale.
La funzionaria comunale proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova.
Il ricorso veniva rigettato dalla Corte Suprema di Cassazione, con sentenza n. 8453 del 24 marzo 2023, con addebito alla parte soccombente delle spese processuali.
La decisione
La funzionaria comunale sosteneva che la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto che l’ingerenza indebita di militari della Guardia di finanza – e, dunque, di soggetti estranei all’UPD e non connotati da terzietà – nell’istruttoria disciplinare non costituiva violazione di legge, e aveva errato nel trascurare che il fatto costituente addebito disciplinare era stato, con sentenza penale di assoluzione (con formula “per insussistenza del fatto”), ritenuto insussistente: per la Corte Suprema di Cassazione il procedimento era stato instaurato, e concluso, dall’UPD competente e la dedotta nullità sarebbe al più seguita ove fosse stato instaurato da soggetto diverso rispetto a tale ufficio; sicché, la lamentata partecipazione o indebita ingerenza di soggetti estranei non si rifletteva, come opinava la difesa della ricorrente, in termini di nullità; per la Corte Suprema di Cassazione, non occorreva attendere l’esito del giudizio penale, poiché nel pubblico impiego privatizzato l’art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001, inserito dal D.Lgs. n. 150/2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass. n. 8410/2018; Cass. n. 29376/2018).
La ricorrente sosteneva, altresì, che la Corte d’Appello aveva ritenuto provato un addebito in via presuntiva, fondando l’inferenza su fatti e presunzioni non connotati da gravità, precisione e concordanza ed anzi smentiti da prove testimoniali, completamente ignorate e, pertanto, sottoponeva a un analitico riesame tutte le risultanze dell’istruttoria, assumendo che la Corte le avrebbe travisate: tale motivo è considerato dalla Cassazione, con la sentenza che qui si annota, inammissibile, poiché le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione (Cass. sez. Unite, n. 1785/2018) hanno precisato che la denuncia di violazione o falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c. si può formulare quando il giudice di merito affermi che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice del merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (Cass. n. 9054/2022); per la Corte Suprema di Cassazione, non può avere ingresso in questa sede il tentativo di prospettare una diversa ricostruzione dei fatti e/o di sottoporre a revisione le risultanze istruttorie, atteso che, così facendo, le doglianze, sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge per violazioni dei principi che sovrintendono alla prova per presunzioni, si rivelano più che altro finalizzate a un riesame del merito, chiaramente precluso in questa sede (Cass. n. 6960/2020).
La ricorrente rimproverava, inoltre, alla Corte territoriale di non aver valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi: la Corte Suprema di Cassazione, nel ribadire che anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dall’art. 55-quater D.Lgs. n. 165/2001, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perché della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali, puntualizza che ciò non risponde al vero.
Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto lede i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 della Costituzione) e quelli fondamentali di ragionevolezza (i.e., art.3 Cost, Corte Cost. n. 971/1988 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).
Per la Corte Suprema di Cassazione, è stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che “la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa”(Cass. n. 18326/2016): nel caso di specie, per la Corte Suprema di Cassazione, la pronuncia della Corte territoriale risulta rispettosa del principio di diritto sopra enunciato, poiché, dopo aver escluso, con accertamento di fatto non censurabile presso la Corte Suprema di Cassazione, la fondatezza delle giustificazioni fornite dalla dipendente comunale, aveva evidenziato che l’addebito contestato, per la sussistenza dell’elemento soggettivo (“quanto meno della colpa”) e per la sua gravità, era idoneo a integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche per le delicate e importanti funzioni svolte dalla lavoratrice, per il fatto che il suo servizio si svolgeva in maniera rilevante all’esterno con minor possibilità di controllo del Comune, vuoi per l’irrilevanza, in riferimento ad alcuni episodi, dell’assenza di benefici economici collegati alla falsa attestazione.
La materia del licenziamento disciplinare nel pubblico impiego è governata dal principio di proporzionalità e dunque alcun automatismo sanzionatorio può essere desunto dalla previsione di legge dell’illecito, essendo costituzionalmente garantita sia l’emersione delle difese nella sede procedurale, che la gradualità della risposta sanzionatoria, giocoforza parametrata ai profili oggettivi e soggettivi del caso concreto.
Per la Cassazione (Cass. 26/01/2016, n. 1351; Cass. 25/08/2016, n. 17335; Cass. 09/03/2017, n. 6099; Cass. 11/09/2018, n. 22075) non è ammesso alcun automatismo verso il licenziamento disciplinare nelle ipotesi di cui all’art.55-quater D.Lgs. n. 165/2001 dovendo la valutazione dell’amministrazione, nell’applicazione della massima sanzione espulsiva, muovere nell’apprezzamento del caso concreto, dell’utilità e natura del singolo rapporto, delle mansioni espletate dall’incolpato e del relativo grado di affidamento, dell’intenzionalità della condotta e della relativa intensità.
Riferimenti normativi:
Art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001
Art. 55-quarter, D.Lgs. n. 165/2001


Firma digitale e notifica cartacea: l’invito all’adesione è valido

Le norme del Codice dell’amministrazione digitale non sono applicabili alle attività e funzioni “ispettive e di controllo fiscale” ma valgono invece rispetto alle funzioni istituzionali di accertamento. Di conseguenza è legittimo l’invito all’adesione di cui all’articolo 5-ter del Dlgs n. 218/1997 redatto come originale informatico sottoscritto in formato digitale e notificato in copia analogica conforme secondo le regole ordinarie della trasmissione a mezzo del servizio postale.
Così si è espressa la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana nella sentenza n. 3 dello scorso 3 gennaio che, facendo applicazione dei principi elaborati in materia dal Collegio di legittimità, ha confermato la pronuncia di primo grado favorevole all’Ufficio.
Svolgimento del processo
Una società impugnava un avviso di accertamento dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale di Prato eccependo in via preliminare l’inesistenza dell’invito all’adesione notificatole dall’Ufficio ai sensi dell’articolo 5-ter del Dlgs n. 217/1997, invito che, a detta dell’istante, non avrebbe potuto essere formato e sottoscritto digitalmente e poi notificato in esemplare cartaceo, derivandone altrimenti la nullità dell’attività istruttoria.
L’adito giudice respingeva il gravame con sentenza che l’interessata appellava al giudice regionale: per quanto d’interesse, la contribuente ribadiva la censura relativa alle modalità di formazione dell’invito a comparire per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento.
La pronuncia del collegio regionale
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana ha confermato il decisum di prime cure ribadendo la non accoglibilità dell’eccezione relativa all’asserita nullità dell’invito all’accertamento con adesione redatto in originale informatico firmato digitalmente e notificato all’interessato in copia analogica dichiarata conforme.
In particolare, spiegano i giudici della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana riportandosi alla sentenza della Cassazione n. 1150/2021 richiamata dall’Ufficio nelle proprie difese, le norme del Codice dell’amministrazione digitale (Cad), “sono applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento svolte dall’Agenzia delle Entrate, mentre non possono essere applicate alle attività e funzioni “ispettive e di controllo fiscale””.
La pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, si legge nell’odierno arresto, per un verso è stata motivata valutando la differenza fra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo; per l’altro, “i Giudici di legittimità hanno confermato l’inesistenza di alcun necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC”.
Di conseguenza, secondo la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, nessuna norma impedisce di procedere alla notificazione, anche secondo le regole ordinarie della trasmissione a mezzo del servizio postale, della copia analogica di un documento conforme all’originale informatico, ragion per cui l’invito all’adesione “ben poteva essere redatto e sottoscritto in formato digitale, in quanto contenente l’analitica elencazione dei rilievi fiscali e la quantificazione del debito fiscale, conformemente a quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. 82/2005”.
Osservazioni
La fattispecie presa in esame dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana si ricollega ad un filone di contenzioso in cui i giudici fiscali sono stati chiamati a valutare la fondatezza dell’eccezione, sollevata dalle parti private, relativa all’asserita carenza di valida sottoscrizione di atti di accertamento che, formati come documento elettronico sottoscritto digitalmente, erano stati notificati dagli Uffici trasmettendo al destinatario copia analogica dell’atto, munita di attestazione di conformità all’originale, ma priva di firma autografa, essendo quest’ultima sostituita dall’indicazione a mezzo stampa del firmatario.
Diverse pronunce di merito – facendo leva sul disposto dell’articolo 2, comma 6, del Cad, che a decorrere dal 14 settembre 2016 stabiliva l’inapplicabilità della disciplina digitale relativamente, tra l’altro, “all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale …” – avevano infatti concluso nel senso che la firma a stampa era consentita soltanto per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate e che, invece, l’apposizione di una firma digitale all’originale informatico di un avviso di accertamento notificato non tramite Pec ma in formato analogico determinava la nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione.
Successivamente, in conseguenza delle modifiche apportate dal Dlgs n. 217/2017, a decorrere dal 27 gennaio 2018, nell’articolo 2 del “Codice”, per un verso, è stato eliminato nel comma 6 il riferimento alle parole “ispettive e di controllo fiscale”; per l’altro, è stato introdotto il comma 6-bis, in base al quale “Ferma restando l’applicabilità delle disposizioni del presente decreto agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.., sono stabiliti le modalità e i termini di applicazione delle disposizioni del presente Codice alle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.
Al riguardo, con sentenze n. 1150/2021 e 1557/2021, la Corte Suprema di Cassazione ha chiarito che, attraverso la riferita norma del Cad, il legislatore ha operato una distinzione tra gli atti “emessi ‘nell’esercizio’ delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, “a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive” (vale a dire gli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento quali ad esempio gli accessi, ispezioni e verifiche di cui agli articoli 32 del Dpr n. 600/1973 e 52 del Dpr n. 633/1972), rispetto ai quali la disciplina digitale non è applicabile, e gli atti “impositivi” (ad esempio, gli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria) per i quali detta regolamentazione digitale deve invece ritenersi pienamente operante.
Il Supremo collegio, sulla scorta del dato normativo, ha dunque sancito che anche in ambito tributario la regola è l’atto informatico mentre ogni limitazione all’uso dei mezzi digitali costituisce un’eccezione, e che di conseguenza nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata, anche secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta (Cassazione n. 1555/2021; negli stessi termini, da ultimo, Cassazione n. 37493/2022); perché “l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi” (Cassazione n. 36894/2022).
In definitiva, la pronuncia della Corte di giustizia tributaria della Toscana appare pienamente coerente con la consolidata ermeneutica di legittimità e con l’impostazione secondo cui la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento alla disciplina unionale, “impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici” (Cassazione n. 25910/2022).


Il Messo Comunale è tenuto a cercare il destinatario della cartella esattoriale

Il messo notificatore deve cercare il destinatario della cartella di pagamento, verificando l’eventuale cambio di indirizzo: lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza numero 7994 del 2023
La notifica degli atti impositivi va effettuata con la sola affissione presso l’albo comunale, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, solo quando il messo notificatore non recepisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale.
Così ha statuito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7994 del 20 marzo 2023.
Nel caso in esame la ricorrente impugnava la cartella esattoriale dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, contestando l’inefficacia dell’atto impugnato a causa dell’insussistenza del diritto dell’ufficio a richiedere il pagamento di somme afferenti al tributo dell’IRPEF, senza aver preliminarmente provveduto a notificare correttamente i prodromici avvisi di accertamento.
La CTP dichiarava inammissibile il ricorso proposto dalla contribuente, ritenendo che gli atti impositivi fossero stati regolarmente notificati. Stesso esito in appello perché la CTR rigettava l’impugnativa introdotta dalla contribuente e confermava la decisione assunta dalla CTP.
Il contribuente ha proposto ricorso in cassazione, censurando la violazione di legge in cui ritiene essere incorso il giudice del gravame, per non aver correttamente applicato il combinato disposto dagli artt. 140 c.p.c., e 60 del Dpr n. 600 del 1973, in ordine agli adempimenti relativi al procedimento di notificazione dei prodromici avvisi di accertamento in esame.
In particolare, il citato art. 60, comma primo, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973 contiene delle indicazioni specifiche sulla modalità di compimento del processo di notificazione di un atto tributario al contribuente irreperibile.
Infatti, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune, senza l’invio della raccomandata informativa, e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione.
La Corte Suprema di Cassazione ha inoltre precisato che la notificazione ai sensi dell’art. 60, comma 1, lett. e) del d.P.R. n. 600 del 1973 è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente.
Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al fuori del detto Comune.
La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata ex art. 60, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973 quando il notificatore non recepisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale.
Non avendo dato corretta attuazione a tali principi, la sentenza d’appello è stata cassata, con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado in diversa composizione.


Notifica a persone irreperibili ex art. 143 c.p.c.: presupposti

Con la sentenza n. 35022, del 29 novembre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente pronunciata sui presupposti affinché possa essere ritenuta valida la notifica di un atto giudiziario per irreperibilità del destinatario ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

La vicenda nasce dall’azione intrapresa da un avvocato, il quale conveniva innanzi al Tribunale il liquidatore di una società a responsabilità limitata chiedendo la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno subito in virtù di un credito vantato nei confronti della predetta società, che era stata cancellata dal registro delle imprese, senza che venisse saldato il suo credito. L’atto introduttivo del giudizio veniva notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Nella contumacia del convenuto, il Tribunale accoglieva la domanda attorea, accertando la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2495 del Codice civile in relazione all’art. 2491 ultimo comma c.c. I giudici di primo grado ritenevano che il liquidatore, già socio e amministratore unico della società debitrice, non potesse non essere a conoscenza dell’esposizione debitoria della società verso l’attore al momento della richiesta della cancellazione dal Registro delle Imprese.

Avverso la sentenza del Tribunale interponeva appello il convenuto originario, il quale deduceva preliminarmente la nullità della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado e, nel merito, l’assenza di responsabilità in capo al liquidatore medesimo con riferimento alla cancellazione della società debitrice dal registro delle imprese.

Il gravame veniva accolto dalla Corte di Appello, la quale dichiarava la nullità della notificazione della sentenza del Tribunale, munita della formula esecutiva, e del contestuale atto di precetto, nonché della notifica dell’atto di citazione di primo grado e degli atti conseguenti.

Pertanto, l’attore investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione deducendo, con il primo motivo del ricorso, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 143 c.p.c., avendo la Corte di Appello ritenuto non rispettose dei precetti normativi tanto la notificazione ex art. 143 c.p.c. della sentenza di primo grado in forma esecutiva e dell’atto di precetto, quanto la notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado eseguita anch’essa ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Il motivo del ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione la quale lo ha accolto senza rinvio, ribadendo il principio di diritto secondo cui «Il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto» (Cass. n. 40467/2021).

Come affermato dalla giurisprudenza degli stessi giudici di legittimità, hanno osservato che:

  1. ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638/2017 );
  2. Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107/2016);

3. l’ufficiale giudiziario deve comunque preliminarmente e concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.


Atto notificato ad un indirizzo diverso dalla residenza del destinatario: conseguenze

Con la sentenza n. 8463, pubblicata il 24 marzo 2023, la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata su quando può essere ritenuta nulla la notifica di un atto di citazione eseguita ad un indirizzo diverso da quello della residenza anagrafica del destinatario.

La vertenza approdata all’esame dei giudici della Suprema Corte nasce da un giudizio ex art. 702 bis c.p.c. promosso da un istituto bancario, creditore procedente in un pignoramento immobiliare, avente ad oggetto l’accertamento dell’avvenuta accettazione tacita da parte del debitore esecutato dell’eredità della madre defunta, tra i cui beni era ricompreso anche quello oggetto del pignoramento.

Il Tribunale dava torto alla banca rigettando il ricorso da quest’ultima proposto.

Di diverso avviso la Corte di Appello la quale, decidendo il gravame interposto dell’istituto bancario accertava che il convenuto originario era divenuto proprietario del bene pignorato, avendo tacitamente accettato l’eredità della madre.

Il giudizio innanzi alla Corte di Appello si svolgeva nella contumacia del convenuto. Il plico raccomandato contenente la citazione non era stato recapitato a quest’ultimo ed era stato restituito al mittente per compiuta giacenza.

L’originario convenuto proponeva, quindi, ricorso per cassazione deducendo:

  1. la nullità della sentenza e del procedimento di appello, stante la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello in quanto eseguita ad un indirizzo diverso dal proprio luogo di residenza e con il quale quest’ultimo non aveva, al tempo della notifica, nessun collegamento;
  2. che il ricorso era stato proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dalla pubblicazione della sentenza di appello, stante la sua qualità di contumace involontario, avendo avuto conoscenza della sentenza della Corte d’Appello quando il proprio difensore nel giudizio di esecuzione immobiliare aveva ricevuto la comunicazione dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione nella quale si faceva menzione della sentenza.

LA DECISIONE: Il motivo del ricorso è stato ritenuto infondato dai giudici della Corte di Cassazione i quali lo hanno rigettato osservando che:

  1. come affermato più volte dagli stessi giudici di legittimità le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora del destinatario di un atto, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale (Cass. civ. n. 19387/2015; Cass. civ. n. 11550/2013);
  2. al fine di fornire la prova della nullità della notifica della citazione per essere stata eseguita in luogo diverso dalla residenza effettiva del destinatario, non è sufficiente la sola produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notifica;
  3. nell’ipotesi in cui la notifica viene eseguita nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, secondo le forme previste dall’art. 140 c.p.c., si presume che in quel luogo si trovi la dimora del destinatario, il quale se intende contestarle in giudizio per fare dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne la prova;
  4. la prova contraria, idonea a vincere la presunzione scaturente dalle risultanze anagrafiche, può essere desunta da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni, come quelle desunte dall’indicazione di dimora abituale quale emerge dall’esecuzione del contratto intercorso tra le parti.

Nel caso esaminato, hanno concluso gli Ermellini, è emerso che:

  1. in data anteriore al cambiamento di residenza, come risulta dalla certificazione anagrafica prodotta dal ricorrente, questi risiedeva proprio all’indirizzo ove è stata effettuata la notifica dell’atto di appello;
  2. in occasione delle sottoscrizioni delle fideiussioni rilasciate a garanzia del credito per il quale successivamente la banca ha agito esecutivamente, il ricorrente aveva indicato come proprio indirizzo quello dove è stato notificato l’appello anche se dalla certificazione anagrafica prodotta risultava che il trasferimento presso il nuovo indirizzo era avvenuto due anni prima;
  3. le varie missive relative al credito azionato dalla banca, la notifica dell’atto di precetto a seguito del quale è stata introdotta la procedura esecutiva immobiliare, erano state inviate, sempre dopo il cambio della residenza anagrafica, all’indirizzo dove era stato notificato anche l’atto di appello, e il ricorrente aveva sottoscritto i relativi avvisi di ricevimento.

Uso di p.e.c. non ufficiale: la notifica è insanabile

Argomento di particolare interesse, nel contenzioso tributario, riveste la legittimità della notificazione della cartella di pagamento al contribuente, proveniente da un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante in nessuno dei pubblici elenchi degli indirizzi elettronici previsti per legge, ossia IPA, REGINDE o INIPEC.

Parimenti si ravvisa che, ai sensi dell’articolo 3 bis L. 53/1994, la notificazione con modalità telematica deve essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.

Sul punto, l’articolo 16 ter D.L. 179/2012 (convertito in legge, con modifiche, dalla L. 221/2012), rubricato “pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni”, al comma 1 dispone che: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6 bis, 6 quater e 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” e, pertanto, la notifica a mezzo p.e.c. è da intendersi validamente effettuata soltanto se effettuata a un indirizzo p.e.c. certificato ed inviata da un indirizzo p.e.c. anch’esso certificato.

Tra l’altro l’articolo 57 bis D.Lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, “CAD”), ha stabilito, al comma 1, che: “al fine di assicurare la pubblicità dei riferimenti telematici delle pubbliche amministrazioni e dei gestori dei pubblici servizi è istituto l’indice degli indirizzi della pubblica amministrazione e dei gestori di pubblici servizi, nel quale sono indicati gli indirizzi di posta elettronica certificata da utilizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informazioni e per l’invio di documenti a tutti gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici servizi ed i privati”.

Sulla base di tali presupposti è pacifico considerare che, nel caso in cui mancasse un tale accreditamento, è precluso al contribuente verificare la provenienza del messaggio e, in particolare, la sua attribuibilità alla specifica Amministrazione menzionata come mittente.

In altri termini, il Legislatore ha sancito la necessità che l’attività di notifica avvenga mediante l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti da pubblici elenchi, al fine di assicurare la necessaria certezza sulla provenienza e sulla destinazione dell’atto da notificare e ciò non può valere soltanto rispetto alla parte contribuente.

Nel contesto così delineato, è agevole affermare che non possa reputarsi valida la notifica effettuata dall’Ufficio avvalendosi di indirizzi non ufficiali, poiché ciò non consente l’assoluta certezza della provenienza dell’atto impugnato, atta a comprovare l’affidabilità giuridica del contenuto dello stesso, profili che devono invece essere entrambi garantiti, a salvaguardia della pienezza del diritto di difesa del contribuente.

Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi (Cass. Civ. 3093/2020).

La presenza dell’indirizzo del mittente in uno dei pubblici registri, previsti dalla legge, consente al destinatario la riconoscibilità del mittente, garantendo l’identità e la provenienza del messaggio di posta elettronica.

In definitiva, deve affermarsi che il vizio della notifica inviata attraverso p.e.c. non ufficiale comporta, quindi, una nullità insanabile, essendo minata proprio la certezza della provenienza della stessa.

Quanto sin qui osservato ha trovato conferma anche nelle recenti decisioni della giurisprudenza di merito.

In particolare, la sentenza n. 6507/17/2022 della CTR Lazio (oggi Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio) ha ribadito che la mancata dimostrazione dell’inserimento della casella di posta elettronica erariale nei registri pubblici “rende la notifica della cartella di pagamento originariamente impugnata inesistente e, come tale, non suscettibile di sanatoria. Atteso che all’inesistenza consegue l’impossibilità di operare la sanatoria, escludendo qualsiasi effetto per raggiungimento dello scopo ex articolo 156 c.p.c. perché “utilizzando un indirizzo p.e.c. non certificato e non inserito in pubblici registri, il messaggio di posta elettronica difetta di un requisito indispensabile a tal fine, non consentendo al destinatario di essere messo in condizioni di conoscerne il contenuto, senza correre il rischio di essere attaccato da c.d. “Malware””.


Corte di giustizia tributaria di secondo grado Lazio Roma, Sez. XVII, Sent., (data ud. 21/12/2022) 30/12/2022, n. 6507

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI II GRADO DEL LAZIO
DICIASSETTESIMA SEZIONE

riunita in udienza il 21/12/2022 alle ore 09:30 con la seguente composizione collegiale:
PANNULLO NICOLA, – Presidente
MERCURIO FRANCESCO, – Relatore
FRETTONI FRANCESCO, – Giudice
in data 21/12/2022 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
– sull’appello n. 3244/2021 depositato il 22/06/2021
proposto da
Agenzia Delle Entrate Riscossione – (…)
Difeso da
Adriano Rocco – (…)
ed elettivamente domiciliato presso avvadrianorocco@puntopec.it
contro
(…)
Difeso da
Maria Laura Vicari – (…)
ed elettivamente domiciliato presso marialauravicari@ordineavvocatiroma.org
Avente ad oggetto l’impugnazione di:
– pronuncia sentenza n. 1698/2021 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale ROMA sez. 29 e pubblicata il 15/02/2021
Atti impositivi:
– CARTELLA DI PAGAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2015
a seguito di discussione in pubblica udienza
Richieste delle parti:
Ricorrente/Appellante: come in atti.
Resistente/Appellato: come in atti.

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate – Riscossione, ha impugnato la sentenza n. 1698/2021, pronunciata il 04.02.2021 dalla Sez. 29 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma e depositata il 15.02.2021, che ha accolto il ricorso, proposto dal sig. G.G., codice fiscale (…), avverso la cartella di pagamento n. (…) relativa ad IRPEF, annualità 2015 dell’importo di Euro. 3.284,45.
Con il ricorso introduttivo in primo grado il ricorrente eccepiva l’omessa ed irregolare notifica della cartella tramite p.e.c.; l’omessa motivazione dell’atto; il corretto versamento delle imposte derivanti dalla propria dichiarazione; l’assenza di solidarietà tra sostituto e sostituito d’imposta, in relazione al mancato versamento delle ritenute d’acconto; l’omessa indicazione delle modalità di calcolo degli interessi.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate – Riscossione che eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva per le questioni di merito; mentre deduceva la regolarità della notifica effettuata tramite p.e.c. e la corretta motivazione della cartella.
Con la sentenza n. 1698/2021 la CTP di Roma accoglieva il ricorso, atteso che dalla documentazione fornita dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione risultava che la notifica della cartella di pagamento proveniva dall’indirizzo p.e.c. notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it e che tale indirizzo non risultava nell’elenco del Reginde (Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia), nonostante la ricorrente si fosse costituita in giudizio eccependo l’inesistenza della notifica.
L’Agenzia delle Entrate Riscossione ha interposto appello avverso la suddetta sentenza, eccependo: 1) la regolare notifica della cartella di pagamento, siccome avvenuta nel pieno rispetto della normativa speciale in materia di riscossione esattoriale, ritenendo sul punto inconferente la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 17346/2019; 2) la legittimità della cartella di pagamento redatta in conformità al modello ministeriale; 3) la pretestuosità dell’eccezione sul difetto di attestazione di conformità all’originale; 4) sanatoria per raggiungimento dello scopo; 5) nel merito, difetto di legittimazione passiva e richiesta di intervento adesivo dell’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale 1 di Roma; 6) legittimità della cartella esattoriale; 7) legittimità delle somme azionate a titolo di interessi e saggio. Conclude per l’accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza dichiarare la validità e l’esigibilità della stessa. Con vittoria di spese ed onorari del doppio grado di giudizio.
L’atto di appello pur essendo stato regolarmente notificato anche l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale 1 di Roma, non risulta costituita in giudizio.
Il sig. (…) si è costituito in giudizio, con proprie controdeduzioni, e contesta i motivi di appello poiché asseritamente infondati e ripropone le eccezioni formulate nel primo grado di giudizio. Preliminarmente eccepisce sull’inammissibilità della richiesta di intervento dell’ente impositore, posto che il giudizio di appello non può che svolgersi nei confronti delle parti già evocate nel primo grado di giudizio. Insiste che la sentenza di prime cure risulta immune dai vizi ascrittigli, avendo fatto corretta applicazione della normativa speciale e dei principi vigenti in tema di esistenza e notificazione di documenti informatici. Ribadisce che per la valida esistenza della notificazione di atti civili, amministrativi e stragiudiziali, come previsti dall’art. 3-bis della L. n. 53 del 1994, può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante, risultante da pubblici elenchi, come statuito anche dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 17346/2019. Ripropone l’eccezione di illegittimità della pretesa derivante dal mancato riconoscimento di ritenute d’acconto regolarmente operate dal ricorrente sui compensi (come risulta dalle relative parcelle) ma, presumibilmente, non versate dai sostituti di imposta. Conclude per il rigetto dell’appello e, per l’effetto, confermare la sentenza impugnata. Con vittoria di spese e compensi del doppio grado di giudizio, oltre accessori come per legge.
L’appellante ha replicato con memorie illustrative, in particolare precisa sull’eccezione di inammissibilità della richiesta di intervento dell’ente impositore e in ipotesi di mancato accoglimento debba essere tenuta indenne da qualsiasi conseguenza pregiudizievole. Ribadisce sulla fondatezza dei motivi di appello.
All’odierna trattazione in pubblica udienza le parte costituite illustrano le proprie ragioni, come in atti, e successivamente la causa viene posta in decisione.

Motivi della decisione

Il Collegio, preliminarmente, osserva che è inesistente la notificazione della cartella di pagamento proveniente da un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante in nessuno dei pubblici elenchi previsti per legge. In base all’art. 3-bis, L. n. 53 del 1994, la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. In particolare, l’art. 16-ter del D.L. n. 179 del 2012 ha previsto che, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale, si intendono per pubblici elenchi i tre registri: IPA, REGINDE e INI-PEC. Nel caso di specie la notifica proveniva dall’indirizzo “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it” non risultante, a nome di “Agenzia delle Entrate – riscossione” in nessuno dei citati registri. L’indirizzo da cui è giunta la cartella impugnata non è oggettivamente e con certezza riferibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione, non risultando nell’elenco del Reginde (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici gestito dal Ministero della Giustizia), né nella pagina ufficiale del sito internet dell’Agenzia Entrate Riscossione, né tantomeno nella pagina della CCIAA (Camera di Commercio di Roma). D’Altro canto, questo Collegio non si vuole discostare dalla recente pronuncia di questa Corte, resa con la sentenza 3514/2022 del 2 agosto 2022, che ha affermato “l’illegittimità della notifica effettuata con spedizione da un indirizzo di PEC (notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it) non risultante da alcun registro pubblico degli indirizzi elettronici IPA, REGINDE o INIPEC”. Precisando, ancora, che “L’art. 16 ter, del D.L. n. 179 del 2012 (convertito in legge, con modifiche, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221), rubricato “pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni”, al comma 1, dispone: “A decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6-bis, 6-quater e 62 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” e la notifica Pec si intende validamente effettuata soltanto se effettuata a un indirizzo Pec certificato ed inviato da un indirizzo Pec anch’esso certificato. Anche l’art. 57-bis, del D.Lgs. n. 82 del 2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, ‘CAD’), stabilisce, al comma 1, che “al fine di assicurare la pubblicità dei riferimenti telematici delle pubbliche amministrazioni e dei gestori dei pubblici servizi è istituito l’indice degli indirizzi della pubblica amministrazione e dei gestori di pubblici servizi, nel quale sono indicati gli indirizzi di posta elettronica certificata da utilizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informazioni e per l’invio di documenti a tutti gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici servizi ed i privati”. Se manca un tale accreditamento, è precluso al contribuente verificare la provenienza del messaggio e, in particolare, la sua attribuibilità alla specifica Amministrazione menzionata come mittente. In altri termini, il Legislatore ha sancito la necessità che l’attività di notifica avvenga mediante l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti dai pubblici elenchi, al fine di assicurare la necessaria certezza sulla provenienza e sulla destinazione dell’atto da notificare e ciò non può valere soltanto rispetto alla parte contribuente. Dunque, nel caso in esame, non può reputarsi valida la notifica effettuata dall’Ufficio avvalendosi di indirizzi non ufficiali, poiché ciò non consente assoluta certezza della provenienza dell’atto impugnato, atta a comprovare l’affidabilità giuridica del contenuto dello stesso, profili che devono invece essere entrambi garantiti, a salvaguardia della pienezza del diritto di difesa del contribuente. Ne consegue l’inesistenza giuridica della consegna informatica dell’atto tributario proveniente da indirizzo formalmente non opponibile al contribuente.
Il vizio della notifica inviata attraverso p.e.c. non ufficiale comporta, quindi, una nullità insanabile, essendo minata proprio la certezza circa la sua provenienza, a fronte dell’oggettiva impossibilità di riferire quell’indirizzo all’AdER, non essendo lo stesso rintracciabile in alcun pubblico elenco ufficiale, conseguendone la sua inesistenza e impossibilità di operare la sanatoria ex art. 156 c.p.c. Quanto sin qui osservato trova conferma anche negli ulteriori arresti della giurisprudenza di questa Commissione (oggi Corte di Giustizia), ex multis CTR Lazio, sentenza n. 915/2022, con cui è stato chiarito che la mancata dimostrazione dell’inserimento della casella di posta elettronica erariale nei registri pubblici rende la notifica della cartella originariamente impugnata inesistente e, come tale, non suscettibile di sanatoria. Atteso che all’inesistenza consegue l’impossibilità di operare la sanatoria, escludendo qualsiasi effetto per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c., perché: “utilizzando un indirizzo pec non certificato e non inserito in pubblici registri, il messaggio di posta elettronica difetta di un requisito indispensabile a tal fine, non consentendo al destinatario di essere messo in condizioni di conoscerne il contenuto, senza correre il rischio di essere attaccato da c.d. “Malware.”
Del resto, in linea con l’indirizzo di legittimità, atteso che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17346/2019, ha stabilito che la notifica deve essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici registri. Nel caso di specie, il messaggio pec inviato al contribuente risulta proveniente dal dominio “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”, del tutto sconosciuto e non presente nei pubblici registri, ove invece quale dominio riferito all’Agenzia delle Entrate Riscossione risulta: “protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it” nel registro IndicePA, valevole in materia tributaria e amministrativa (e pct@pec.agenziariscossione.gov.it nel registro ReGIndE per le notifiche in materia civile). Infatti, la presenza dell’indirizzo del mittente in uno dei pubblici registri, previsti dalla legge, consente al destinatario la riconoscibilità del mittente, garantendo l’identità e la provenienza del messaggio di posta elettronica. Ancora, più recentemente, con l’ordinanza n. 3093/2020, riprendendo la citata sentenza, la Suprema Corte ha confermato il predetto principio, affermando che “La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”.
Passando al merito della controversia, la ripresa a tassazione di una ritenuta fiscale operata alla fonte, in relazione al mancato versamento delle ritenute d’acconto del sostituto d’imposta, non può essere addebitata al sostituito, posto che la Suprema Corte, con la pronuncia resa a Sezioni Unite, n. 10387 del 12/4/2019, ha definitivamente sancito l’assenza di un vincolo di solidarietà, nei confronti del Fisco, tra il sostituto e il sostituito. In particolare i giudici di legittimità hanno ribadito il principio, per cui il professionista non può rispondere per l’omesso versamento delle ritenute d’acconto regolarmente effettuate, essendo il sostituto d’imposta l’unico responsabile di detta obbligazione tributaria. Tale pronuncia rammenta che la sostituzione e la solidarietà nell’imposta sono istituti distinti, che il versamento della ritenuta d’acconto costituisce un’obbligazione autonoma rispetto all’imposta, e che essa grava unicamente sul sostituto e trova la sua causa nel corrispondente obbligo di rivalsa.
In conclusione, assorbita ogni altra istanza, l’appello deve essere rigettato. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Giustizia Tributaria di II Grado del Lazio, Sezione 17a, definitivamente pronunciando, rigetta l’appello. Condanna l’appellante alle spese di giudizio che liquida in Euro 1.000,00 oltre accessori di legge, se dovuti.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2022.


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 05/11/2019) 10/02/2020, n. 3093

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 34135/2018 proposto da:

T.M., elettivamente domiciliato in Roma, V.le Angelico 38, presso lo studio dell’avvocato Roberto Maiorana, che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 333/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 14/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 05/11/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, T.M., cittadino del Mali, ha adito il Tribunale di Perugia impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Con ordinanza del 17/2/2017 il Tribunale di Perugia ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. L’atto di citazione in appello proposto dal T., corredato da quattro motivi1è stato dichiarato nullo dalla Corte di appello di Perugia, in difetto di costituzione del Ministero appellato, con sentenza del 14/5/2018, con dichiarazione di irripetibilità delle spese processuali.

La notifica dell’atto di citazione in appello era stata eseguita all’Avvocatura dello Stato di Perugia presso un indirizzo di posta elettronica (perugia.mailcert.avvocaturastato.it) diverso da quello (ads.pg.mailcert.avvocaturastato.it) risultante dal registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (c.d. REGINDE).

Poichè alla prima udienza la difesa dell’appellante, affermando di ritenere valida la notifica effettuata, aveva rifiutato il termine per il rinnovo della notifica al Ministero, la Corte di appello ha ritenuto la notifica nulla perchè ai sensi del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 17, comma 4 (regolamento emanato in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito in L. 22 febbraio 2019, n. 24) il sistema informatico dell’UNEP individua l’indirizzo di posta elettronica del destinatario dal registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (REGINDE), con unica regola applicabile in caso di notificazione al difensore della parte.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso T.M., con atto notificato il 14/11/2018, svolgendo cinque motivi, di cui gli ultimi quattro destinati solamente a riproporre le censure svolte con i quattro motivi di appello non esaminati dalla Corte territoriale, vertenti rispettivamente in tema di erronea valutazione delle dichiarazioni rese alla Commissione Territoriale, di erronea considerazione di inattendibilità delle prove e delle dichiarazioni rese, di mancata concessione della protezione sussidiaria nonostante le attuali condizioni sociopolitiche del Paese di origine e di mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 291 c.p.c. e del R.D. 1611 del 1933, art. 11.

Il ricorrente richiama una pronuncia del Tribunale di Milano e sostiene che la notifica all’Avvocatura doveva ritenersi valida perchè ai fini della validità della notifica a nulla rileva da quale elenco sia stato estratto l’indirizzo p.e.c. utilizzato, purchè si tratti di un elenco pubblico; l’elenco di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 12, non è pubblico ma ristretto alla consultazione di uffici giudiziari, ufficiali giudiziari, avvocati, esecuzioni e protesti; inoltre l’elencazione dei pubblici registri non è esclusiva ma tassativa e fondata sulla pubblica riconducibilità dell’indirizzo al soggetto.

L’esclusività della notificazione a indirizzi contenuti in pubblici elenchi non abroga la domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ex R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, che va ad aggiungersi a quella della L. n. 53 del 1994, ex art. 3 bis.

In ogni caso INI-PEC (acronimo per Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica certificata) non è un mero indirizzario informatico ma un pubblico elenco, tenuto conto di quanto disposto dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 ter, comma 1, convertito in L. 7 dicembre 2012, n. 221 e dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ossia del Codice dell’Amministrazione Digitale, nonchè dell’art. 149 bis c.p.c., commi 1 e 2, nonchè della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3 bis, comma 1.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

Motivi della decisione
1. Il Collegio osserva in linea preliminare che la giurisprudenza di questa Corte appare orientata in senso opposto a quello argomentato dal ricorrente e invece conforme alla decisione impugnata.

E’ stato affermato, sia pur ad altri fini, che in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, secondo le previsioni di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (convertito con modificazioni in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni in L. n. 114 del 2014), la notificazione dell’atto di appello va eseguita all’indirizzo p.e.c. del difensore costituito risultante dal REGINDE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicchè è nulla la notificazione effettuata – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra anche la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario (Sez. 6, 23/05/2019, n. 14140; Sez. 1, 18/01/2019, n. 1411).

Quanto, più in particolare, ai registri di indirizzi da cui le parti possono estrarre i recapiti di posta elettronica certificata utilizzabili ai fini della notificazione, questa Corte, in tempi recentissimi, ha più volte affermato che l’unico registro à cui occorre far riferimento è il REGINDE. Secondo la pronuncia della Sez. 3, 08/02/2019, n. 3709, il domicilio digitale previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, (convertito, con modifiche, in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito con modifiche in L. n. 114 del 2014), corrisponde all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e che, per il tramite di quest’ultimo, è inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (REGINDE) gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’effettiva difesa, sicchè la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo p.e.c. riferibile – a seconda dei casi – alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel REGINDE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dall’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI -PEC).

La citata pronuncia richiama quali precedenti conformi le decisioni della Sez. 6 del 14/12/2017, n. 30139 e del 25/05/2018, n. 13224: nel primo caso, la notifica dell’atto di appello era stata eseguita presso la cancelleria ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, senza ricorrere ai recapiti p.e.c. risultanti dai registri INIPEC e REGINDE; nel secondo caso, la notificazione a mezzo p.e.c. era stata eseguita a un indirizzo, diverso da quello risultante dal REGINDE e indicato dalla parte nella sua comparsa di risposta.

La stessa conclusione è stata raggiunta da Sez. 6, 05/04/2019, n. 9562, secondo la quale per i soggetti censiti all’interno del REGINDE l’unico indirizzo utilizzabile ai fini della notificazione è quello inserito in detto registro e non anche quello eventualmente presente in altri registri PEC, anche qualora gli stessi siano annoverati all’interno del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-ter; pertanto, in tema di notificazione a mezzo p.e.c., ai sensi del combinato disposto dell’art. 149 bis c.p.c. e del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter, introdotto dalla Legge di Conversione n. 221 del 2012, l’indirizzo del destinatario al quale va trasmessa la copia informatica dell’atto è, per i soggetti i cui recapiti sono inseriti nel Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (REGINDE), unicamente quello risultante da tale registro. Ne consegue, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la nullità della notifica eseguita presso un diverso indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario (in quel caso non risulta da quale registro fosse stato estratto l’indirizzo utilizzato e la Corte ha valorizzato quale elemento di non specificità del mezzo di ricorso l’omessa deduzione dell’estrazione dell’indirizzo utilizzato dal REGINDE).

Ancor più recentemente si sono pronunciate, sempre nella stessa direzione, le ordinanze della Sezione 6-1, del 27/9/2019 n. 24110 (ove non risultava da quale registro, diverso dal REGINDE, l’indirizzo utilizzato fosse stato estratto) e della Sezione 6-3, del 27/9/2019 n. 24160, in tema di notifica dell’atto di impugnazione (in cui l’indirizzo utilizzato era stato estratto da INIPEC, ma tale considerazione era stata espressa ad abundantiam rispetto ad una principale concorrente ratio decidendi).

Quest’ultima decisione è stata tuttavia corretta d’ufficio ex art. 391 bis c.p.c., con ordinanza del 15/11/2019 n. 29749 (pubblicata successivamente alla Camera di consiglio del 5/11/2019) che ha eliminato il riferimento, ritenuto erroneo, alla inidoneità oggettiva dell’estrazione dell’indirizzo p.e.c. dai registri INIPEC. La predetta ordinanza di correzione richiama in motivazione il contenuto della sentenza delle Sezioni Unite del 23/9/2018 n. 23620, che ha ritenuto che il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INIPEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il REGINDE di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INIPEC, che nel REGINDE. La sentenza della Sez. 1, 09/01/2019, n. 287 ha invece escluso la rimessione in termine per la parte che ha effettuato la notifica dell’atto processuale ad un indirizzo PEC non presente nel REGINDE; infatti solo ove l’esito negativo del processo notificatorio sia dipeso da un fatto oggettivo ed incolpevole, del quale la parte notificante deve offrire una puntuale e rigorosa dimostrazione, è possibile fissare un ulteriore termine per la notificazione.

1.2. L’ordinanza della Sez. 6-1, del 27/6/2019 n. 13746 ha invece ritenuto che un’analoga questione fosse stata proposta in termini astratti e teorici, privi della necessaria specificità perchè il ricorrente non aveva assunto chiaramente di aver estratto l’indirizzo utilizzato dal Registro INIPEC. Nella specie il ricorrente presuppone tale estrazione nella sua complessiva argomentazione, e l’afferma espressamente a pagina 8 (10-11 rigo, del ricorso).

1.3. Il “domicilio digitale” di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies e successive modifiche e integrazioni, prevede che, salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia.

Tale norma richiama anche gli (altri) elenchi di cui all’art. 6 bis e riguarda l’ipotesi specifica in cui la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario: eventualità ora scongiurata dalla disponibilità di un recapito di posta elettronica ut supra.

Il D.L. 18 otto 2012, n. 179, art. 16, comma 12 (modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 19, lett. b) e successivamente dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 47, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114) in tema di “Biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica” ha previsto che al fine di favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle pubbliche amministrazioni, le amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2 e successive modificazioni, comunicassero al Ministero della giustizia, con le regole tecniche adottate ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, entro il 30/11/2014 l’indirizzo di posta elettronica certificata conforme a quanto previsto dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 e successive modificazioni, a cui ricevere le comunicazioni e notificazioni. L’elenco formato dal Ministero della giustizia è consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati.

Tale norma non sancisce espressamente un privilegio di esclusività.

Il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis (c.d. Codice dell’amministrazione digitale), in tema di “Indice nazionale dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti” per favorire la presentazione di istanze, dichiarazioni e dati, nonchè lo scambio di informazioni e documenti tra i soggetti di cui all’art. 2, comma 2 e le imprese e i professionisti in modalità telematica, dispone l’istituzione del pubblico elenco denominato Indice nazionale dei domicilii digitali (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti, presso il Ministero per lo sviluppo economico (realizzato a partire dagli elenchi di indirizzi p.e.c. costituiti presso il registro delle imprese e gli ordini o collegi professionali).

Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 ter, comma 1 (modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45-bis, comma 2, lett. a), n. 1) convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114 e successivamente sostituito dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 5) in tema di “Pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni” prevede che a decorrere dal 15/12/2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, artt. 6-bis, 6-quater e 62, dall’art. 16, comma 12, dello stesso decreto, dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 16, comma 6, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonchè il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia.

L’art. 149 bis c.p.c., comma 2, in tema di “Notificazione a mezzo posta elettronica dispone che se procede ai sensi del comma 1, l’ufficiale giudiziario trasmette copia informatica dell’atto sottoscritta con firma digitale all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni. Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16, comma 2, convertito con modificazioni in L. 17 dicembre 2012, n. 221, ha aggiunto le parole: “o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni”.

La L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3-bis, dispone che la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi.

Sulla base di tali norme il ricorrente sostiene che il Registro INIPEC è un pubblico elenco e nega che la legge privilegi ai fini delle notifiche giudiziarie esclusivamente gli indirizzi contenuti nel REGINDE, come sostenuto dal richiamato orientamento giurisprudenziale.

3. Il contesto normativo e giurisprudenziale illustrato, secondo il Collegio, colora la questione preliminare processuale sollevata dal ricorso di un evidente interesse nomofilattico, che trascende il caso concreto e ne consiglia la trattazione in pubblica udienza.

P.Q.M.
La Corte:

rinvia la trattazione del ricorso alla pubblica udienza.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020


Buona Pasqua !!!


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 01/03/2023) 24/03/2023, n. 8463

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1720/2022 proposto da:

A.A., rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO CALDERARO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PURPLE SPV Srl , quale mandataria di CERVED CREDIT MANAGEMENT Spa , elettivamente domiciliata in ROMA VIA C. POMA 2, presso lo studio dell’avvocato GREGORIO TROILO, e rappresentata difesa dall’avvocato GIUSEPPE CINELLI, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1833/2020 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata l’11/12/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/03/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con ordinanza emessa ex art. 702 bis, in data 09/04/2018 il Tribunale di Agrigento rigettava la domanda di Banca delle Marche Spa in amministrazione straordinaria – creditore procedente nella procedura esecutiva immobiliare n. 175/2013 pendente presso il Tribunale di Agrigento – di accertamento dell’avvenuta accettazione tacita, da parte del debitore esecutato, A.A., dell’eredità della defunta madre B.B., deceduta in (Omissis), tra i cui beni era ricompreso anche il bene pignorato.

Avverso detta ordinanza la Cerved Credit Management Spa quale procuratrice di PURPLE SPV, successore di Banca delle Marche Spa per effetto della cessione dei crediti posti a fondamento della procedura esecutiva, propose appello e, nella contumacia dell’appellato, A.A., la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 1833 dell’11 dicembre 2020, in accoglimento del gravame, ha accertato che il convenuto era divenuto proprietario del bene pignorato, per avere tacitamente accettato l’eredità materna.

Il giudice di appello rilevava che l’accettazione tacita di eredità, che si ha quando il chiamato all’eredità compia un atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di compiere se non nella qualità di erede, può desumersi anche dal comportamento del chiamato che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare, sicchè mentre non sono idonei a tale scopo gli atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, l’accettazione tacita può evincersi dal compimento di atti che siano al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale che nella specie il convenuto aveva posto in essere, quanto ad un bene caduto in successione.

2. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso A.A. sulla base di un motivo.

La Cerved Credit Management, nella qualità di mandataria della Purple SPV Srl , resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

3. Con il motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento di appello, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 330, 160 e 170 c.p.c., stante la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello, deducendosi altresì che il ricorso è proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza di appello, attesa la qualità di contumace involontario del ricorrente, che ha avuto conoscenza della sentenza della Corte d’Appello solo in data 18/11/2021, quando il proprio difensore nel giudizio di esecuzione immobiliare ha ricevuto comunicazione dell’ordinanza del GE del 15/11/2021, nella quale si faceva menzione della sentenza oggi gravata.

Assume il ricorrente la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello, perchè eseguita ad un indirizzo diverso dal proprio luogo di residenza, e con il quale quest’ultimo non aveva collegamento alcuno al tempo della notifica.

Si rileva che l’atto di citazione in appello è stato notificato presso l’indirizzo di (Omissis), sebbene il ricorrente a decorrere dal 30.09.2008 sia residente in (Omissis), come da certificato storico di residenza.

Per l’effetto, il plico raccomandato contenente la citazione non è stato recapitato ed è stato restituito al mittente per compiuta giacenza. Attesa la nullità e/o inesistenza della detta notifica anche il giudizio di appello e la relativa sentenza sono nulli.

Il motivo è infondato.

Ritiene la Corte che colgano nel segno le argomentazioni difensive spese da parte controricorrente.

La tesi che è a sostegno del ricorso è essenzialmente correlata alla divergenza tra la residenza anagrafica ed il luogo presso cui è stata effettuata la notifica dell’atto di appello, traendosi da tale divergenza la conclusione necessitata della prevalenza della prima, idonea quindi ad inficiare radicalmente la validità della notifica compiuta presso il diverso indirizzo.

Tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale (Cass. n. 19387/2015; Cass. n. 11550/2013).

Pertanto, onde dimostrare la nullità della notifica della citazione, in quanto eseguita in luogo diverso dalla residenza effettiva del destinatario, non costituisce prova idonea la sola produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notifica (Cass. n. 19132/2004), essendosi anzi affermato che (Cass. n. 10107/2014) nell’ipotesi in cui la notifica venga eseguita, nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, secondo le forme previste dall’art. 140 c.p.c., è da presumere che in quel luogo si trovi la dimora del destinatario e, qualora quest’ultimo intenda contestare in giudizio tale circostanza al fine di far dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne la prova (conf. Cass. n. 15200/2005).

E’ stato altresì specificato che (Cass. n. 26985/2009) la prova contraria, idonea a vincere la presunzione scaturente dalle risultanze anagrafiche, può essere desunta da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni, come quelle desunte dall’indicazione di dimora abituale quale emerge dall’esecuzione del contratto intercorso tra le parti (conf. Cass. n. 17040/2003; Cass. n. 26985/2009; Cass. n. 17021/2015).

Una volta richiamati tali principi, ed avuto riguardo alle puntuali osservazioni svolte in controricorso, emerge che in data anteriore al cambiamento di residenza avvenuto nel (Omissis), come attestato dalla certificazione anagrafica prodotta dal ricorrente, questi risiedeva proprio all’indirizzo ove è stata effettuata la notifica dell’atto di appello.

Ancora risulta che nel 2010, in occasione della sottoscrizione delle fideiussioni, dalle quali è scaturito il credito che poi ha fatto sorgere la procedura esecutiva, cui è funzionale l’accertamento della qualità di erede oggetto del presente giudizio, il A.A. ha indicato come proprio indirizzo quello ove è stato notificato l’appello, sebbene, secondo la certificazione anagrafica prodotta, si fosse trasferito presso il nuovo indirizzo già da due anni.

Ancora, emerge che varie missive, sempre relative al rapporto creditorio oggetto di causa, nonchè la notifica del precetto che ha preceduto l’esecuzione immobiliare, sono state inviate, sempre dopo il mutamento di residenza anagrafica, all’indirizzo in (Omissis), pervenendo nella disponibilità del ricorrente che ha provveduto alla sottoscrizione dei relativi avvisi di ricevimento.

Infine, anche la notifica dell’atto di appello, avvenuta a mezzo posta ai sensi della L. n. 53 del 1994, consente di rilevare dall’avviso di ricevimento, riprodotto in ricorso, come l’ufficiale postale non abbia riferito dell’irreperibilità del destinatario, ma solo della sua temporanea assenza, avendo reperito anche una cassetta postale, evidentemente recante il nominativo del destinatario, nella quale ha immesso l’avviso.

I plurimi e concordanti elementi ora riassunti permettono di affermare che, a dispetto delle risultanze anagrafiche, non possa negarsi come anche l’indirizzo presso cui è stata effettuata la notifica dell’appello avesse un evidente legame con il ricorrente, e che quindi la censura mossa, che si fonda sulla sola asserita prevalenza delle risultanze anagrafiche, non sia idonea ad inficiare la conclusione circa la validità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado.

Il ricorso è pertanto rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

5. Poichè il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.300,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2023


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 01/02/2023) 24/03/2023, n. 8453

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. CASCIARO Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 5847-2022 proposto da:

A.A., domiciliato ope legis in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avv.ti ZOBOLI LUIGI ALBERTO e MORONI ALESSANDRO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI (Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avv.ti GIANNINI MARCO e PIZZORNI CRISTINA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 307/2021 della CORTE D’APPELLO DI GENOVA, pubblicata il 23/12/2021 R.G. n. 153/2021;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza del 01/02/2023 dal Consigliere Dott. SALVATORE CASCIARO. il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA visto il D.L. n. 28 ottobre 2020 n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 23 dicembre 2021, la Corte d’appello di Genova respingeva il reclamo proposto da A.A., dipendente del Comune di (Omissis) con funzioni di coordinatrice dei Servizi educativi di prima infanzia (funzionario D5, profilo tecnico), avverso la sentenza del Tribunale di Sanremo, a sua volta reiettiva dell’impugnativa di licenziamento per giusta causa intimato in data (Omissis).

Il licenziamento in parola aveva fatto seguito a una contestazione del (Omissis), relativa a plurime irregolarità nella registrazione della presenza in servizio, e dei relativi orari di entrata e uscita, ritenuta adeguatamente comprovata alla stregua delle risultanze delle indagini della Guardia di finanza che avevano dato luogo anche a un giudizio penale chiusosi poi, per la A.A., con l’assoluzione.

2. Per quanto ancora in discussione, la Corte territoriale, riteneva che l’UPD avesse autonomamente valutato gli atti del procedimento penale, accertando la violazione degli obblighi di attestazione delle presenze, profilo (questo) di rilevanza oggettiva, senza che potesse configurarsi una commistione tra il procedimento disciplinare e quello penale, con violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis comma 4.

Osservava che gli episodi contestati erano in realtà quattro (17 gennaio, 5 febbraio, 11 giugno e 16 settembre 2014), ma aggiungeva che anche uno solo di essi avrebbe potuto valere a giustificare il licenziamento; le condotte addebitate erano rimaste tutte comprovate, e, previa verifica dell’elemento intenzionale o colposo (quest’ultimo “quanto meno” configurabile nella specie), nonchè dell’assenza di scriminanti, il giudice d’appello avrebbe dovuto tener conto del “rigore della norma”, che tipizzava le condotte in esame come atte a giustificare il recesso, misura disciplinare senz’altro adeguata e proporzionata alla gravità delle infrazioni.

3. Non rilevava il fatto che la A.A. potesse non avere tratto benefici economici dalla falsa attestazione degli orari di servizio, atteso che ciò avrebbe potuto riguardare solo alcuni degli episodi descritti e non certo il primo di essi, che era il più grave in considerazione dei ripetuti “tentativi della ricorrente di alterare la realtà dei fatti”, con sicura lesione, anche per tal guisa, dell’elemento fiduciario, qui particolarmente intenso per le “delicate e importanti funzioni” svolte, con espletamento anche all’esterno degli uffici comunali e, dunque, inevitabile difficoltà di controllo da parte datoriale.

4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza A.A., articolato in cinque motivi, assistiti da memoria, opposti dal Comune di (Omissis) con controricorso.

5. La Procura generale ha rassegnato conclusioni scritte ex D.L. n. 137/2020, art. 23, comma 8 bis, conv. dalla L. n. 176/2000, e ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente, quanto alla produzione della sentenza penale di assoluzione in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., va osservato che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della “regula iuris” alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Ne consegue che va in questi casi ritenuta l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass. 27321 del 2021, Cass. 22376 del 2017, Cass. n. 23483 del 2010).

2. Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis comma 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La Corte d’Appello ha ritenuto erroneamente che l’ingerenza indebita di militari della Guardia di finanza – e, dunque, di soggetti estranei all’UPD e non connotati da terzietà – nell’istruttoria disciplinare non costituirebbe violazione di legge, e aveva errato nel trascurare che il fatto costituente addebito disciplinare era stato, con sentenza penale di assoluzione (con formula “per insussistenza del fatto”), ritenuto insussistente.

2.1 Il motivo è infondato.

Il procedimento è stato instaurato, e concluso, dall’UPD competente e la dedotta nullità sarebbe al più seguita ove fosse stato instaurato da soggetto diverso rispetto al già menzionato ufficio (Cass. n. 17357/2019); sicchè, la lamentata partecipazione o l’indebita ingerenza di soggetti estranei non si riflette, come opina la difesa della ricorrente, in termini di nullità.

Aggiungasi, in proposito, che la Corte di merito ha affermato, con valutazione di fatto incensurabile in questa sede, che nella specie l’UPD ha operato con autonoma valutazione della vicenda disciplinare; nè può sostenersi, sotto altro verso, che occorreva attendere l’esito del giudizio penale: secondo principi ormai acquisiti nel pubblico impiego privatizzato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, inserito dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass. n. 8410 del 2018; Cass. n. 29376 del 2018).

La censura è, nel resto, infondata.

Nella specie, la A.A. dà atto che, anche al momento della notifica del ricorso per cassazione, la sentenza della Corte d’appello di Genova non era ancora passata in giudicato (“passerà in giudicato, con ogni probabilità, nel corso del prossimo mese di giugno 2022”, così a a pag. 3 del ricorso), sicchè un problema di applicabilità della disposizione dell’art. 654 c.p.p. neppure si pone.

3. Con il secondo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). La Corte d’Appello ha ritenuto provato un addebito in via presuntiva, fondando l’inferenza su fatti e presunzioni non connotati da gravità, precisione e concordanza ed anzi smentiti da prove testimoniali, completamente ignorate. La ricorrente sottopone a un analitico riesame tutte le risultanze dell’istruttoria, assumendo che la Corte le avrebbe travisate.

3.1 Il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, n. 1785/2018) hanno precisato che la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c. si può formulare quando il giudice di merito affermi che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice del merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (cfr. Cass. n. 9054/2022).

Non può avere ingresso in questa sede il tentativo di prospettare una diversa ricostruzione dei fatti e/o di sottoporre a revisione le risultanze istruttorie, atteso che, così facendo, le doglianze, sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge per violazione dei principi che sovrintendono alla prova per presunzioni, si rivelano più che altro finalizzate a un riesame del merito, chiaramente precluso in questa sede (Cass. n. 6960/2020).

4. Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il motivo contesta la sussunzione nelle norme in rubrica di tre episodi. Quello del 5 febbraio 2014 in relazione al quale la Corte d’appello ha erroneamente affermato che non rilevasse accertare se la condotta sia stata colposa o dolosa. In realtà il fatto che la dipendente avesse avvertito il proprio dirigente del rientro anticipato a casa escluderebbe il dolo. Quello dell’11 giugno 2014 che non poteva essere sussunto nella fattispecie legale perchè connotato da assenza di danno per l’amministrazione e da mera colpa. Ed infine, quello de 16 settembre 2014 dove la Corte d’appello ha sussunto nella fattispecie legale un allontanamento estraneo all’orario di lavoro della ricorrente.

4.1 Il terzo motivo è inammissibile anzitutto per carenza di interesse.

Esso infatti censura le valutazioni del giudice d’appello in relazione a tre episodi: 5 febbraio 2014, 11 giugno 2014, 16 settembre 2014, non anche in riferimento a quello del 17.1.2014, peraltro ritenuto dal giudice d’appello come di maggiore gravità; eppure la Corte di merito, con passaggio argomentativo (si noti) non specificamente censurato e idoneo a sorreggere la motivazione, aveva rilevato in sentenza come comunque “anche un solo episodio di falsa attestazione delle presenze può valere a determinare il licenziamento”. Il motivo è comunque infondato per l’accertamento puntuale, contenuto nella sentenza impugnata, delle condotte contestate e l’assenza di circostanze scriminanti.

5. Con il quarto motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per avere la sentenza impugnata ritenuto proporzionato il licenziamento, senza considerare che l’accertata presenza di un elemento soggettivo connotato da mera colpa, unitamente agli altri elementi emersi in causa, avrebbe dovuto portare a concludere per una valutazione di segno opposto.

5.1 La censura, là dove è formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non è conforme al testo dell’art. 360 c.p.c. n. 5 come novellato del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, ed inoltre incontra l’ulteriore sbarramento della “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., norma introdotta dal medesimo D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a) e applicabile ai giudizi di appello instaurati, come nella specie, dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della medesima legge.

6. Con il quinto mezzo lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) si censura l’incoerenza della decisione in relazione “agli standards conformi ai valori dell’ordinamento” perchè la Corte di merito non avrebbe compiutamente valutato i fatti nella loro componente oggettiva e soggettiva che ne sminuiva la gravità.

6.1 Anche tale critica va disattesa.

Non risponde al vero che la Corte territoriale non abbia valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Si deve qui ribadire che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perchè della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali.

Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (Cost., artt. 4 e 35), del buon andamento amministrativo (Cost., art. 97) e quelli fondamentali di ragionevolezza (i.e., art. 3 Cost., cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).

E’ stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che “la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa” (Cass. n. 18326/2016).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, la fondatezza delle giustificazioni fornite dalla A.A., ha anche evidenziato che l’addebito contestato, per la sussistenza dell’elemento soggettivo (“quanto meno della colpa”) e per la sua gravità, era idoneo a integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche “per le delicate e importanti funzioni svolte dalla A.A.”, per il fatto che il suo servizio “si svolgeva in maniera rilevante all’esterno con minor possibilità di controllo del Comune”, vuoi per l’irrilevanza, in riferimento ad alcuni episodi, dell’assenza di benefici economici collegati alla falsa attestazione. La pronuncia risulta, pertanto, rispettosa del principio di diritto sopra enunciato.

7. Conclusivamente, alla stregua dei rilievi suesposti, il ricorso è da rigettare, con addebito alla parte soccombente delle spese processuali ex art. 91 c.p.c., liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro Euro. 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2023

 


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/03/2023) 22/03/2023, n. 8201

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. CANDIA Ugo – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15350-2018 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA Spa , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato GIANCARLO GRECO giusta procura speciale agli atti;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 228/3/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della SICILIA, depositata il 17/1/2018, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 17/3/2023 – tenutasi in modalità da remoto previo decreto di autorizzazione del Presidente del Collegio – dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Svolgimento del processo
la Commissione tributaria regionale della Sicilia, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello di A.A. avverso la pronuncia n. 4595/2014 della Commissione tributaria provinciale di Palermo con cui era stato respinto il ricorso proposto avverso intimazione di pagamento e relative cartelle esattoriali ad essa sottesa;

avverso la pronuncia della Commissione tributaria regionale Riscossione Sicilia Spa propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi;

A.A. è rimasto intimato.

Motivi della decisione
1.2. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56 e dell’art. 2719 c.c. e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente richiesto la produzione degli originali delle relate di notifica degli atti impugnati, pur non avendo il contribuente mai provveduto a disconoscere la conformità della documentazione prodotta in copia;

1.3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente affermato che, sulla base della citata norma, l’ente di riscossione abbia l’onere di esibire copia conforme della cartella impugnata “allorquando il contribuente ne richieda la copia”;

2.1. le doglianze, da esaminare congiuntamente, sono fondate;

2.2. in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, la prova del perfezionamento del procedimento di notifica e della relativa data è assolta, infatti, mediante la produzione della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento, recanti il numero identificativo della cartella, non essendo necessaria la produzione in giudizio della copia della cartella stessa (cfr. Cass. 21/7/20121 n. 20769, Cass. 11/10/2018, n. 25292, Cass. n. 11/10/2017, n. 23902);

2.3. in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio non è necessaria, dunque, la produzione in giudizio dell’originale o della copia autentica della cartella, essendo altresì sufficiente la produzione della matrice o della copia della cartella con la relativa relazione di notifica;

2.4. nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale dà conto dell’avvenuta produzione, da parte dell’agente della riscossione, delle copie fotostatiche delle relate di notifica degli atti impugnati dal contribuente, e dei relativi estratti di ruolo, e la conformità delle copie agli originali non risulta essere stata posta in discussione da quest’ultimo in sede di appello (ritualmente trascritto nel ricorso);

2.5. l’estratto di ruolo, inoltre, è l’equipollente della matrice, in quanto è la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale, che contiene tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l’ammontare della pretesa creditoria (cfr. Cass. 14/6/2019, n. 16121, Cass. 24/4/2018, n. 33563, Cass. 11/10/2017, n. 23902);

3. i motivi in esame devono essere dunque accolti e la sentenza deve essere cassata;

4. atteso che nell’originario ricorso il contribuente aveva impugnato l’intimazione di pagamento e le cartelle unicamente facendo valere l’omessa notifica di queste ultime, la causa può essere decisa nel merito con rigetto dell’originario ricorso;

5. le spese del merito devono essere compensate in ragione dell’evolversi della vicenda processuale mentre le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente; compensa le spese dei gradi di merito; condanna il contribuente a rifondere alla ricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.800,00 per compensi, oltre spese forfetarie, accessori di legge ed oltre Euro 200,00 per esborsi.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, tenutasi in modalità da remoto, della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, il 17 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/02/2023) 20/03/2023, n. 7994

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. LUME Federico – Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale stesa in calce al ricorso, dagli Avv.ti Gianfilippo Elti di Rodeano e Andrea Recchi, che hanno indicato recapito PEC, avendo la ricorrente dichiarato domicilio presso lo studio del primo difensore, alla via Paolo Emilio n. 28 in Roma;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

E Contro

Equitalia Sud Spa , in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2949, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 20.5.2015, e pubblicata il 25.5.2015; ascoltata la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio.

la Corte osserva.

Svolgimento del processo
1. L’Incaricato per la riscossione, Equitalia Sud Spa , notificava in data 12.5.2011 a A.A. la cartella di pagamento n. (Omissis) (Omissis) per l’importo di Euro 89.859,03, recante l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo degli avvisi di accertamento n. (Omissis), avente ad oggetto Irpef ed accessori in relazione all’anno 2004, e n. (Omissis), avente ad oggetto Irpef ed accessori con riferimento all’anno 2005, dichiaratamente notificati in data 30.12.2009.

2. L’odierna ricorrente impugnava la cartella esattoriale innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, contestando l’inefficacia dell’atto impugnato a causa dell’insussistenza del diritto dell’Ufficio a richiedere il pagamento di somme afferenti al tributo dell’Irpef, in riferimento agli anni 2004 e 2005, senza aver preliminarmente provveduto a notificare correttamente i prodromici avvisi di accertamento, peraltro non essendo da lei dovuta la somma richiesta. La contribuente comunque domandava, se del caso, di ridurre la pretesa di pagamento alla somma effettivamente dovuta. La CTP dichiarava inammissibile il ricorso proposto dalla contribuente, ritenendo che gli atti impositivi fossero stati regolarmente notificati.

3. A.A. spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita in primo grado, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale di Roma. La CTR rigettava l’impugnativa introdotta dalla contribuente e confermava la decisione assunta dalla CTP. 4. Avverso la pronuncia della CTR di Roma ha proposto ricorso per cassazione A.A., affidandosi a due motivi di impugnazione.

Resiste mediante controricorso l’Agenzia delle Entrate. Equitalia Sud Spa ha ricevuto la notificazione del ricorso in data 31.12.2015, ma non si è costituita nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
1. Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la contribuente contesta la violazione dell’art. 140 cod. proc. civ, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in cui è incorsa la CTR nell’aver erroneamente applicato le regole legali in materia di adempimenti necessari per il perfezionarsi della notifica a soggetti irreperibili.

2. Mediante il secondo strumento d’impugnazione, introdotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame dell’eccezione circa la mancata ricerca da parte dell’Ufficiale notificatore di persone idonee alla ricezione della notifica ai sensi dell’art. 139 c.p.c., e di richiesta di informazioni sull’eventuale trasferimento del contribuente.

3. Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente censura la violazione di legge in cui ritiene essere incorso il giudice del gravame, per non aver correttamente applicato il combinato disposto dagli artt. 140 c.p.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, 60, in ordine agli adempimenti relativi al procedimento di notificazione dei prodromici avvisi di accertamento in esame.

3.1. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 prevede che, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica, non è applicabile l’art. 143 c.p.c., espressamente escluso dalla disposizione di cui alla lett. f) della norma, che non esclude, però, la necessità che si provveda agli adempimenti di cui all’art. 140 c.p.c..

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), offre comunque delle indicazioni specifiche sulla modalità di compimento del processo di notificazione di un atto tributario al contribuente irreperibile, e detta “e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione”.

Siamo pertanto in presenza di un procedimento notificatorio che segue regole sue proprie e, (soltanto) per quanto non specificamente disciplinato, si svolge in applicazione delle previsioni di cui all’art. 140 c.p.c. ed alle norme dallo stesso richiamate, con particolare riferimento all’art. 139 c.p.c. ed alle ricerche del destinatario previste dalla disposizione.

3.2. La disciplina della notifica prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, prevede comunque deroghe significative rispetto alla disciplina prevista dall’art. 140 del codice di rito. Ai sensi della disciplina ordinaria, risultando irreperibile il destinatario, l’atto da notificare è depositato presso la casa comunale, con affissione di avviso, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e deve essergli data notizia mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), invece, l’avviso del deposito, sempre in busta chiusa e sigillata, non si affigge alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, bensì presso la casa comunale, e non è previsto l’invio della raccomandata informativa.

3.2.1. Tanto premesso il giudice del gravame ha osservato che “Nella fattispecie il Collegio evidenzia che l’Ufficio ha dimostrato l’intervenuta e regolare notifica degli atti sottesi alla cartella. Nel caso di effettuazione della notifica a soggetti assolutamente irreperibili il D.P.R. n. 600/73, art. 60, comma 1, lett. e) dispone che l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c. in busta chiusa e sigillata si affigge all’albo del comune e la notificazione si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione.

Pertanto, il provvedimento notificatorio si è concluso per compiuta giacenza non avendo il destinatario curato il ritiro.

Ritiene che la cartella di pagamento risulta ritualmente notificata” (sent. CTR, p. 4).

3.3. Dunque, pur dando atto la CTR che la questione relativa agli adempimenti necessari per la corretta notificazione degli avvisi di accertamento è risultata controversa sin dal primo grado del giudizio, il giudice dell’appello limita la sua analisi all’affissione dell’atto presso la casa comunale.

4. La pronuncia del giudice del gravame è sottoposta a specifica censura sul punto, perchè la ricorrente, richiamando plurima giurisprudenza di legittimità, evidenzia che “la notificazione ai sensi dell’art. 60, lett. e), è valida soltanto se non sia effettivamente possibile reperire l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente nel comune ove il medesimo ha il domicilio fiscale, malgrado le ricerche del messo notificatore, sempre che queste, secondo giudizio insindacabile in sede di legittimità, siano state sufficienti… l’unica parte redatta e sottoscritta dall’ufficiale postale… è quella relativa alla cartolina dalla quale risulta la mancata consegna per ‘irreperibilità’ non meglio precisata… nulla riferisce l’Ufficiale Postale in ordine alle motivazioni dell’irreperibilità nè delle cause per le quali non sia stata eseguita la consegna sul perchè il destinatario o altro possibile consegnatario non è stato rinvenuto in detto indirizzo… Alcuna attività ai sensi dell’art. 140 c.p.c. risulta effettuata dall’Ufficiale notificatore…” (ric., p. 7).5. Può allora ricordarsi come questa Corte regolatrice abbia già avuto modo di statuire che “la notificazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e) è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune” (evidenza aggiuta), Cass. sez. V, 12.2.2020, n. 3378. Non si è del resto mancato di chiarire, ancor più specificamente con riferimento alla vicenda processuale in esame, che “la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), quando il notificatore non reperisca il contribuente perchè trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale” (evidenza aggiunta), Cass. sez. V, 15.3.2017, n. 6788.Non si è attenuta a questi principi la impugnata CTR, ed il primo motivo di ricorso introdotto dalla contribuente deve essere pertanto accolto, cassandosi la decisione impugnata, con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio. Il secondo strumento di impugnazione rimane assorbito.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso proposto da A.A., assorbito il secondo, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio perchè, in diversa composizione, proceda a nuovo giudizio nel rispetto dei principi esposti, e provveda anche a regolare le spese di lite del giudizio di legittimità tra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2023


Modulistica anno 2023

Modulistica aggiornata con le modifiche apportate dalla riforma “Cartabia 2022”

Scarica: MODULISTICA 2023


Corte d’Appello Catanzaro, Sez. lavoro, Sent., 09/03/2023, n. 157

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte D’Appello di Catanzaro
SEZIONE LAVORO

La Corte, riunita in camera di consiglio, così composta:

1. dott.ssa Barbara Fatale – Presidente rel.

2. dott. Rosario Murgida – Consigliere

3. dott.ssa Giuseppina Bonofiglio – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa in grado di appello iscritta al numero 138 del Ruolo generale affari contenziosi dell’anno 2022 e vertente

TRA

M.A., con l’Avv. DURANTE EUGENIO, che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine del ricorso di primo grado, presso il cui studio, sito in Lamezia Terme, via S. Miceli n. 24/O, è elettivamente domiciliato

appellante
E
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS) (C.F.:.(…) – PIVA:(…)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Catanzaro, Via Milano, 9, presso l’ufficio legale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Teresa Pugliano, Giacinto Greco, Silvia Parisi e Francesco Muscari Tomaioli, giusta procura generale ad lites, ad atto Notaio Dott. P.C. ni, in R., lì (…), rep. (…), rogito (…)

appellato

e

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, p.iva (…), in persona del Legale Rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Catanzaro, Via V. Cortese n. 12 presso lo Studio dell’Avv. Vincenzo GALLO, da cui è rappresentata e difesa, giusta procura allegata alla memoria di costituzione in appello

appellato

Avente ad oggetto: appello avverso sentenza del Tribunale di Lamezia Terme. Obbligo contributivo

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato presso la cancelleria del Tribunale di Lamezia Terme, Giudice del lavoro, il 23.1.2013, M.A. ha chiesto di annullare e/o dichiarare nullo e/o di risolvere e/o rescindere e/o rettificare, e, comunque di dichiarare inefficace, l’accordo di rateazione perfezionato a seguito dell’istanza presentata dal medesimo M. il 29.1.2012 ed accettata da Equitalia Sud Spa con comunicazione del 14.2.2012, avente ad oggetto “Accoglimento dell’istanza di rateazione protocollo n. (…) del 31/01/2012 presentata dal CF: (…)”. Ciò poiché nell’accettazione della rateazione: a) è stato erroneamente computato l’importo pari ad Euro 269.213,15, riportato attraverso l’espresso richiamo della cartella di pagamento n. (…) e del sotteso Decreto Ingiuntivo n. 44/2001, che è titolo giudiziale in verità emesso per un credito di gran lunga inferiore e pari a L. 2.211.877 (quindi poco oltre i 2 milioni di L.); b) è stato erroneamente computato anche l’importo di Euro 56.182,89, riportato attraverso l’espresso richiamo della cartella di pagamento n. (…). Le dette somme, ed i relativi titoli, sono stati erroneamente inseriti da Equitalia nel piano di rateazione, e non erano presenti nella istanza del M., la quale non conteneva alcun importo né il riferimento ad alcuna specifica cartella di pagamento. Invero il M. aveva formulato l’istanza di rateazione in modo del tutto generico al solo fine di eliminare ogni pendenza nei confronti dell’agente della riscossione, chiedendo semplicemente e genericamente di rateizzare tutti i debiti in quel momento esistenti. Sulla scorta di tali vizi ed errori, il ricorrente ha chiesto la condanna dei convenuti Equitalia e Inps, in solido tra loro, alla restituzione delle corrispondenti maggiori somme non dovute, medio tempore versate, maggiorate di interessi e rivalutazione, dal dì del dovuto sino all’integrale soddisfo. Sempre nel ricorso, l’istante ha chiesto al Tribunale di accertare la prescrizione di tutti i crediti riportati nelle due cartelle sopra indicate, e nella specie l’intervenuta prescrizione decennale del credito INPS contenuto nel citato D.I. n. 47 del 2001, emesso dal Tribunale del Lavoro di Lamezia Terme in data 1.9.2001 per il valore di L. 80.848,596 (quindi oltre 80 milioni di L.), che è titolo non compreso nella cartella impugnata, ove si fa invece espresso riferimento al diverso decreto ingiuntivo n. 44/2001. Ciò poiché il credito contenuto nel decreto ingiuntivo n. 47/2001 era stato azionato – da ultimo – con la notifica dell’atto di pignoramento avvenuta il 21.12.2001, e questo ha rappresentato l’ultimo atto interruttivo della prescrizione. Invero la procedura è stata dichiarata estinta e dunque non si è mai formato alcun successivo atto e/o provvedimento che abbia potuto interrompere – nuovamente – la prescrizione decennale. Il relativo credito si è pertanto prescritto il 21.12.2011, dunque in epoca antecedente alla istanza di rateazione del M. (del 29.1.2012) e della sua accettazione da parte di Equitalia, e quindi, è ovvio, in epoca anteriore all’instaurazione del presente giudizio. In ogni caso ed infine, il ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni cagionati in seguito e per l’effetto della erronea e/o colposa e/o dolosa iscrizione a ruolo da parte dell’INPS e di Equitalia delle somme di cui alla ripetuta cartella n. (…), e dunque della fittizia esposizione debitoria cagionata in danno al ricorrente, costretto ad accettare una rateazione a condizioni ben più svantaggiose di quelle di cui avrebbe usufruito se fosse stato invitato a rateizzare solo le somme – ben più modiche – effettivamente dovute. Allo stesso modo ha eccepito la prescrizione del credito INAIL riportato nella cartella di pagamento n. (…).

In giudizio si sono costituiti i resistenti Equitalia, INPS ed Inail, i quali hanno chiesto il rigetto delle domande del ricorrente.

Il processo è stato istruito tramite prova per testi ed in via documentale, ed è stato dichiarato interrotto in data 19/01/2018, a seguito dell’assorbimento di Equitalia in Agenzia delle Entrate Riscossione. Esso è stato poi riassunto dal ricorrente in data 11/4/2018 tramite il deposito di ricorso in riassunzione.

Il Tribunale ha rigettato il ricorso alla luce delle seguenti argomentazioni:

“Ai fini della decisione ritiene opportuno questo Giudice che sia necessario fare alcune precisazioni. Riguardo al riconoscimento del debito e dell’effetto interruttivo della istanza di rateizzazione, la S.C. ha avuto modi confermare con decisioni dal n.12731 al 12735 del 2020 che “… Va rammentato che, in materia tributaria, non costituisce acquiescenza, da parte del contribuente, l’aver chiesto ed ottenuto, senza alcuna riserva, la rateizzazione degli importi indicati nella cartella di pagamento, atteso che non può attribuirsi al puro e semplice riconoscimento d’essere tenuto al pagamento di un tributo, contenuto in atti della procedura di accertamento e diriscossione (denunce, adesioni, pagamenti, domande di rateazione o di altri benefici), l’effetto di precludere ogni contestazione in ordine all’an debeatur, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario (Cass. n. 3347 del 2017). Correttamente, pertanto, la CTR ha escluso che l’istanza di rateazione avanzata dalla contribuente costituisse acquiescenza, rilevando, altresì, ai fini del decorso del termine di impugnazione, che la presentazione di tale istanza non comportava l’effettiva conoscenza della cartella di pagamento, ben potendo il contribuente richiedere il pagamento rateale per finalità (evitare di subire un’esecuzione o misure cautelar’) che non presuppongono il riconoscimento del debito. …” . Già con precedenti decisioni la S.C. ha avuto modo di affermare che “… Considerato che la Corte territoriale, confermando la decisione del giudice di primo grado – premesso che l’atto di riconoscimento di debito per avere effetto interruttivo della prescrizione deve essere univoco e sorretto da specifica intenzione ricognitiva, dovendosi escludere tale effetto escludere quando abbia finalità diverse – ha ritenuto che tale valore non potesse nel caso attribuirsi alla richiesta di rateizzazione, valorizzando le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società – già valutate dal giudice di primo grado – a conferma di una diversa volontà da parte del debitore, confermata a pochi mesi di distanza dalla presentazione dell’istanza di trattazione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado in cui si faceva anche valere l’intervenuta prescrizione. Il primo motivo di ricorso di Equitalia Servizi di Riscossione è dunque inammissibile, in quanto valorizza solo la presentazione dell’istanza di rateizzazione ed il pagamento di alcune delle rate, senza confutare la motivazione della Corte che ha avuto riguardo alla volontà ivi espressa dalla parte, quale ricostruita anche in base al comportamento complessivo da questa tenuto, ritenuta non univocamente significativa della volontà ricognitiva. …” (S.C. n.13506/2018) ed ancora con Ordinanza n.16098/2018 ha avuto modo di precisare ulteriormente che “… Con il primo motivo la ricorrente denuncia in rubrica violazione dell’art. 100 c.p.c., artt. 2 e 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sviluppando nel corpo dell’articolazione della censura, in relazione alla giurisprudenza della Corte ivi richiamata, l’argomentazione anche in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, rilevando l’erroneità dell’impugnata pronuncia nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l’originaria impugnazione proposta dal contribuente avverso le cartelle ed i ruoli in questione per il tramite di estratto di ruolo, quantunque le risultanze probatorie avessero dimostrato che il contribuente aveva acquisito piena conoscenza di tutte le cartelle in questione, la cui impugnazione doveva ritenersi quindi inammissibile perchè tardiva, non potendo assumersi – una volta notificate le cartelle – l’autonoma impugnabilità dell’estratto di ruolo quale atto interno dell’Amministrazione. Il motivo è manifestamente fondato alla stregua dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 2 ottobre 2015, n. 19704), che hanno chiarito che la tutela del contribuente può estendersi sì anche all’impugnazione delle cartelle e dei ruoli ad esse sottesi sempre che l’interesse all’impugnazione nasca effettivamente dalla conoscenza che se ne abbia, in assenza di notifica, solo per mezzo della consegna dell’estratto di ruolo, restando, al di fuori di detta ipotesi, non consentita l’impugnazione in sè dell’estratto di ruolo quale atto interno dell’Amministrazione. Di detto principio la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione, ritenendo che solo per una delle cartelle l’agente della riscossione avesse provato l’avvenuta rituale notifica. Per le altre cartelle per le quali l’agente della riscossione aveva prodotto documentazione comprovante la richiesta di rateizzazione del debito dalle stesse portato e finanche il pagamento di un certo numero di rate (17 su 72 del beneficio concesso), pur richiamando remoto precedente di questa Corte (Cass. sez. 1^, 19 giugno 1975, n. 2436), la sentenza impugnata se ne è in concreto discostata, perchè, se è vero che di per sè in materia tributaria, non può costituire acquiescenza da parte del contribuente l’avere chiesto ed ottenuto, senza riserva alcuna, la rateizzazione degli importi indicati nelle cartelle di pagamento, nondimeno il riconoscimento del debito comporta in ogni caso l’interruzione del decorso del termine di prescrizione e si pone quindi in maniera incompatibile con l’allegazione del contribuente di non avere ricevuto notifica delle cartelle. Ciò comporta, come chiarito più di recente anche da Cass. sez. 5, 8 febbraio 2017, n. 3347, che in tanto è possibile, comunque, la contestazione nell’an della pretesa tributaria, sempre che non siano scaduti i termini per la proposizione dell’impugnazione avverso le cartelle, nella fattispecie in esameampiamente decorsi all’atto della proposizione del ricorso in primo grado, avuto riguardo alla data del 15 gennaio 2012 dei provvedimenti che avevano autorizzato la rateizzazione del debito richiesta dal contribuente. Il ricorso è dunque fondato in relazione al primo motivo, ciò comportando l’assorbimento del terzo, e la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., perché la causa non avrebbe potuto essere proposta. …”. Alla luce di quanto sinora esposto, quindi, vista la giurisprudenza, non si può non confermare il principio che sottoscrivere un piano di rateizzazione con Agenzia delle Entrate Riscossione non costituisce riconoscimento del debito, ma può comportare al limite una riapertura dei termini di prescrizione, salvo che non siano già decorsi ed in mancanza legittimando eventualmente l’ente ad intraprendere nuove azioni esecutive in danno del debitore. Valutazione quest’ultima che sarà, eventualmente, affrontata ove dovesse presentarsi l’esigenza d’analisi di una simile circostanza nel caso in specie. In aggiunta a quanto si rende necessario precisare che la S. C. a Sezioni Unite, con la sentenza n.23397/2016 ha affermato il principio, costante in giurisprudenza di legittimità, non per ultime la n.18360 e n.18362 del 20020, n.1088 e n.6888 del 2019, la n.23418/2018, di cui deve farsi applicazione, secondo il quale “… La scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 3, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo sena determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo la L. n. 333 del 1993, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che, dal 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (D.L. n. 78 del 2010, art. 30, conv., con modif., dalla L. n. 122 del 2010). …”. Orbene, nel caso in esame, parte ricorrente lamenta, l’intervenuta prescrizione dei crediti INPS contenuti nella Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010, e conseguentemente l’illegittimo inserimento della stessa nell’istanza di rateizzazione, in quanto non più riscuotibili per previsione normativa, evidenziando identica questione per l’altra cartella contenente crediti per premi INAIL, il cui esame però è stato demandato alla competenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Catanzaro. Inoltre, lamenta che all’interno della cartella è indicato come titolo il decreto ingiuntivo n.44/2001, mentre i contributi risultano riferirsi al decreto ingiuntivo n.47/2001, di cui non si fa menzione, per cui lo stesso risulta essersi prescritto insieme ai contributi in esso contenuti. Ritiene questo Giudice che il ricorso sulla base della documentazione in atti ed in applicazione proprio dei principi della S.C., non possa esser accolto.

Atteso che i contributi contenuti nei due decreti ingiuntivi n.44 e n.47 del 2001 risultano regolarmente azionati per stessa ammissione di parte ricorrente, con un’esecuzione terminata con l’estinzione della procedura esecutiva il 28.02.2002, e trattandosi di titoli giudiziari la prescrizione è decennale e questa inizia a decorrere certamente dal 01.03.2002 per cui sino al 28.02.2012 non poteva verificarsi alcuna prescrizione dei crediti in essi contenuti. A ciò si aggiunga che la Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010 al di là della corretta o meno indicazione del decreto ingiuntivo ritenuto azionato, indica in modo inequivocabile i contributi e gli anni richiesti in pagamento e non essendo stata opposta, pur essendo stata regolarmente notificata, per stessa ammissione di parte ricorrente che ne ha allegato l’originale in atti, ha fatto sì che questi siano divenuti intangibili, con la conseguenza che l’eventuale loro prescrizione, ove possibile, ha iniziato a decorrere dal 08.10.2010, ancorché quinquennale, per gli anni non contenuti correttamente nel decreto ingiuntivo n.44/2001, per cui la loro prescrizione al limite poteva verificarsi solo dopo il 08.10.2015 . Per cui pur ipotizzando la possibilità di eccepirne la prescrizione dei contributi in essa contenuti, questa doveva esser fatta valere con la tempestiva opposizione alla cartella esattoriale, ma così non è stato, rendendo il suo contenuto irretrattabile, come da giurisprudenza richiamata. Negli atti di causa, fascicolo INPS, vi è un atto di precetto, regolarmente notificato al M. inerente il decreto ingiuntivo n.47/2001, considerato che si intima il pagamento di £.80.848.596 più accessori ecorrispondente all’importo del decreto richiamato, e notificato il precetto il 02.12.2002, per cui anche in questo caso gli importi dei contributi contenuti in detto titolo esecutivo giudiziario, in mancanza di altri atti interruttivi, si sarebbero prescritti a decorrere dal 01.12.2012. Da quanto sopra, essendo l’istanza di rateizzazione è del 31.01.2012, l’Agente della Riscossione ha correttamente inserito la Cartella Esattoriale n.(…), la quale non risulta esser prescritta e ne lo sono i contributi in essa contenuti, per le ragioni su esposte. Conseguenza di quanto sopra è che il ricorso risulta privo di fondamento, non essendoci alcuna prescrizione contributiva, né tantomeno risulta fondata l’affermazione di un abuso dell’Agente per la Riscossione nell’inserire la cartella in questione in quelle da rateizzare, per le ragioni su esposte. Riguardo alla Cartella Esattoriale contenente i crediti INAIL, per come già evidenziato, si è già disposto con Ordinanza d’incompetenza territoriale in favore del Giudice del Lavoro di Catanzaro, conseguentemente, la valutazione ha riguardato solo ed esclusivamente la Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 07.10.2010, sulla cui avvenuta notifica e non opposizione, nel termine di 40 gg dalla sua notifica ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. n. 46 del 1999, non vi è contestazione. Riguardo all’eccezione di inammissibilità avanzata da parte ricorrente inerente il deposito della memoria di costituzione da parte dell’INPS dopo al riassunzione avvenuta cartaceamente e non già per via telematicamente, questa oltre a presentarsi tardiva, perchè proposta all’odierna udienza e non già alla prima utile dopo la riassunzione, risulta essere generica e priva di riferimenti normativi e quindi inammissibile. La domanda è rigettata, le spese di lite, seguono la soccombenza, le quali vengono liquidate anche in favore dell’INAIL, attesa la rinnovata chiamata in giudizio nella riassunzione, nonostante né fosse stata dichiarata l’estromissione per incompetenza territoriale, e che per tutti si liquidano come da dispositivo”.

La sentenza è gravata d’appello da M.A., nei soli confronti di Agenzia Entrate Riscossione e dell’Inps, con atto depositato il 25 febbraio 2022.

Costituitisi in giudizio, gli appellati hanno rassegnato le conclusioni sopra riportate.

La Corte, acquisito il fascicolo telematico di primo grado, alla fissata udienza, sentiti i procuratori delle parti, decide come da allegato dispositivo.

Con il proposto gravame, il sig. M. lamenta che:

1) Il Tribunale ha correttamente rilevato che la richiesta di rateizzazione formulata dal ricorrente non comporta acquiescenza e che ha effetto interruttivo della prescrizione solo quando in essa vi sia atto di riconoscimento del debito univoco e sorretto da specifica intenzione ricognitiva, citando, tra le tante, Cass. civ. n. 13506/2018, salvo che alla data di rateizzazione non siano già decorso il termine prescrizionale (pagg. 7, 8 e 9). Il Giudice di prime cure ha poi correttamente delineato i termini della questione ove ha dedotto “Orbene, nel caso in esame, parte ricorrente lamenta, l’intervenuta prescrizione dei crediti INPS contenuti nella Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010, e conseguentemente l’illegittimo inserimento della stessa nell’istanza di rateizzazione”. Esso ha poi fatto, però, mal governo del principio sopra esposto, omettendo di rilevare l’intervenuta prescrizione del credito riportato nella ripetuta cartella n.(…), afferente il decreto ingiuntivo n. 44/2011. Invero, a parere del Giudice, posto che il titolo è stato azionato con la procedura esecutiva dichiarata estinta in data 28.2.2002, solo dopo il provvedimento di estinzione sarebbe iniziato il nuovo decorso del termine prescrizionale interrotto con l’atto di pignoramento, in concreto il termine inziale per la prescrizione cadrebbe in data 1.3.2002 mentre quello finale in data 28.2.2012 (in realtà, secondo l’errata tesi qui censurata, il decorso della prescrizione si sarebbe compiuto il giorno seguente, ossia l’1.3.2012). “Atteso che i contributi contenuti nei due decreti ingiuntivi n.44 e n.47 del 2001 risultano regolarmente azionati per stessa ammissione di parte ricorrente, con un’esecuzione terminata con l’estinzione della procedura esecutiva il 28.02.2002, e trattandosi di titoli giudiziari la prescrizione è decennale e questa inizia a decorrere certamente dal 01.03.2002 per cui sino al 28.02.2012 non poteva verificarsi alcuna prescrizione dei crediti in essi contenuti” (pag. 10). Tale statuizione è del tutto errata posto che il Tribunale ha ritenuto che il termine di prescrizione sia rimasto sospeso fino alla dichiarazione di estinzione, allo stesso modo di quanto avviene per i giudizi regolarmente esitati con sentenza. Ed invece il Tribunale non ha affatto considerato che “In caso di estinzione del processo, solo l’atto introduttivo del giudizio ha efficacia interruttiva istantanea della prescrizione,che ricomincia a decorrere dalla data di tale atto, non avendo efficacia interruttiva le attività processuali svolte nei processo estinto” (Cass. civ. n. 11016/2003). Dunque, il Tribunale avrebbe dovuto accertare, quale ultimo atto interruttivo, il pignoramento notificato il 21.12.2001, e avrebbe dovuto accertare e dichiarare l’intervenuta prescrizione del credito contenuto risalente al 21.12.2011, dunque in epoca antecedente alla istanza di rateazione del M. (del 29.1.2012) e della sua accettazione da parte di Equitalia, e dunque in epoca anteriore all’instaurazione del presente giudizio;

2) Sempre nella sentenza impugnata, in maniera contraddittoria, il Tribunale ha poi aggiunto che essendo il medesimo credito riportato nella cartella n.(…) notificata il 7.10.2010, esso è divenuto intangibile e che la sua prescrizione ha iniziato a decorrere dal 8.10.2020, ovvero dal giorno seguente al termine per la sua impugnazione. Anche in parte qua la pronuncia si rivela errata, posto che la cartella non può in alcun modo rappresentare atto interruttivo della prescrizione posto che essa è del tutto errata, sebben riferita al d.i. 44/2017 contiene in realtà il credito di cui al d.i. n. 47/2017. Essa non rappresenta certo atto nel quale si richieda in modo chiaro e non equivoco il pagamento di una certa somma di denaro. Al contrario, esso è atto manifestamente errato non certo in grado produrre effetto interruttivo. Non può essere certo condivisibile quanto affermato dal Tribunale, secondo cui la cartella non risulta esser prescritta (come è noto però la prescrizione non riguarda la cartella ma il diritto di credito) e ne lo sono i contributi in essa contenuti.

In via preliminare, si osserva che l’appellante ha espressamente dichiarato di non volere impugnare la parte di sentenza nella parte riguardante l’Inail, sicché i relativi capi devono reputarsi coperti da giudicato; del resto, trattandosi di cause scindibili, non si pone l’esigenza di integrazione del contraddittorio nei confronti del suddetto ente previdenziale.

Nel merito, l’appello non si presta ad essere accolto

Orbene, dalla disamina dell’atto di pignoramento (cfr fascicolo di primo grado di parte ricorrente) notificato il 21.12.2001 si evince che questo si riferisce ad entrambi i decreti ingiuntivi (44/01 e 47/01); d’altro canto, la cartella n. (…) (prodotta dallo stesso ricorrente), riguarda il decreto ingiuntivo 44/01 (lo si legge nella causale della cartella); la sua notifica (è pacifico tra le parti), risale al 7.10.2011, ed è dunque antecedente alla presentazione dell’istanza di rateazione (31.1.2012); nell’istanza che risulta depositata dall’odierno appellante nel suo fascicolo di primo grado, non si indicano le cartelle cui l’istanza è riferita (nel relativo spazio si fa riferimento al prospetto allegato, che però non è stato prodotto); tale istanza, peraltro, non reca il timbro di deposito presso il concessionario, diversamente da quella depositata da Equitalia in primo grado, nel proprio fascicolo, che risulta completa dell’indicazione delle cartelle cui l’istanza si riferisce – tra le quali figura anche la cartella qui in contestazione -, e che reca la sottoscrizione del ricorrente e la data.

Tali notazioni consentono di disattendere le questioni prospettate dall’appellante/opponente inerenti alla mancata conoscenza del contenuto dell’accordo di rateazione; è infatti evidente che, allorché il sig. M. lo sottoscrive, è pienamente consapevole dei titoli cui è riferito, compreso quello del cui inserimento qui si lamenta – che era a lui noto, visto che gli era stato previamente notificato.

Quanto all’eccezione di prescrizione, è vero che dopo l’estinzione del processo esecutivo non inizia a decorrere un nuovo termine di prescrizione, come avviene ai sensi di secondo comma di art. 2945 c.c. allorquando il processo si chiude con sentenza, ma è altrettanto vero che la notifica (7.10.2011) della cartella, riferita al decreto ingiuntivo n. 44/2011, è intervenuta entro dieci anni dalla notifica (21.12.2001) dell’atto di pignoramento ed il termine di prescrizione è decennale, perché si tratta di titolo di formazione giudiziale (il decreto ingiuntivo, appunto).

Ne discende che, quando viene inserito nell’istanza di rateazione, non era ancora prescritto.

Le considerazioni che precedono conducono al rigetto dell’appello e alla conseguente conferma della sentenza gravata.

Le spese del grado di lite seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da A.M., con ricorso in data 25 febbraio 2022, avverso la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, giudice del lavoro, n. 439/2021, resa in data 13 settembre 2021, così provvede:

1. rigetta l’appello;

2. condanna M.A. alla rifusione delle spese del grado di lite, che liquida, per ciascun appellato, in complessivi Euro 7120,00,00, oltre accessori come per legge dovuti;

3. dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato dovuto dall’appellante, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1 comma 17 L. n. 228 del 2012, salva verifica del requisito soggettivo di esenzione.

Conclusione
Così deciso in Catanzaro, nella camera di consiglio della Corte di appello, Sezione lavoro, 2 febbraio 2023.

Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2023.