8 marzo 2023

Oggi più che mai è importante lottare per i diritti delle donne: sono stati fatti grandi passi avanti ma non sono ancora abbastanza. Si sarà sicuramente sentito parlare del gender gap: si chiama così la differenza che c’è tra uomo e donna nella società, solo per il fatto di appartenere a due generi distinti. Gli uomini ricoprono ruoli professionali più importanti, le donne sono relegate alla cura. Basta aprire un giornale qualunque per capire che le donne vengono trattate diversamente: davanti al cognome (le poche volte che viene usato, più spesso si usa il nome di battesimo!) viene messo l’articolo “la”, oppure le professioni sono sempre declinate al maschile: il medico, il ministro, il presidente. Allo stesso modo, a parità di posizione professionale una donna guadagnerà meno, e quando nascono dei bambini questo divario si amplierà ulteriormente.

Per questo, anche se oggi le donne possono votare (in Italia) e partecipare a qualsiasi attività, iscriversi in qualsiasi università, non dare niente per scontato: la strada è ancora lunga ed è importante lottare ogni giorno per la parità, non soltanto regalare mimosa nel giorno della festa della donna!


Riunione Com.ne Normativa del 9 marzo 2023

Viene convocata la riunione della Commissione Normativa per giovedì 9 marzo 2023 alle ore 20:00 sul seguente Ordine del Giorno:
1) Riforma Cartabia 2022;
2) Varie ed eventuali

Leggi: RIUNIONE COMMISSIONE NORMATIVA del 09 03 2023: Considerazioni


Notifica nulla al difensore domiciliatario se non si accerta il rapporto

La Suprema Corte di Cassazione: è nulla la notifica al presunto difensore nel giudizio in cui è assente l’imputato, è nulla in via assoluta la notifica effettuata al difensore d’ufficio domiciliatario se prima non è stato accertato il rapporto tra i due soggetti.

È nulla la notifica eseguita al difensore d’ufficio domiciliatario dell’imputato se prima non si accerta che tra i due soggetti si è instaurato un rapporto effettivo. Lo ha ricordato la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 5897/2023.

Il difensore d’ufficio di un imputato ricorre presso la Suprema Corte di Cassazione sollevando diversi motivi aventi a che fare con violazioni procedurali:

  • mancato rilievo della nullità della elezione di domicilio effettuata da persona sordomuta in violazione dell’art. 119 c.p.c.;
  • omessa dichiarazione di nullità della sentenza di 1° grado perché, stante la mancata presenza dell’imputato, il giudice non ha rinviato l’udienza e non ha disposto la notifica dell’avviso all’imputato personalmente o la sospensione del processo in caso di impossibilità della notifica;
  • mancato rispetto dell’art. 420 quater c.p.p. poiché è stato disposto di procedersi nonostante l’assenza dell’imputato, senza prima rinviare l’udienza o notificare l’avviso personalmente all’imputato da parte della polizia giudiziaria.

Per la Suprema Corte di Cassazione, se il primo motivo è inammissibile, il secondo e il terzo sono fondati.

Al termine di una disamina assai complessa della normativa e della giurisprudenza in materia nella motivazione, ai fini del decidere, gli Ermellini ricordano e condividono infatti il principio di cui alla pronuncia della Sezione V della Suprema Corte di Cassazione n. 22752/2021, la quale ha sancito in sostanza che nel giudizio in assenza dell’imputato, è affetta da nullità assoluta la notifica del decreto di citazione a giudizio dell’imputato che viene eseguita presso il difensore d’ufficio domiciliatario, se prima non è si è provveduto ad accertare l’instaurazione effettiva del rapporto tra il difensore e l’imputato.


Comune invia PEC con destinatari in chiaro: ammonizione del Garante

L’invio con tale modalità ha comportato una comunicazione di dati personali in maniera non conforme al principio di liceità, correttezza e trasparenza e in assenza di una base giuridica

Tizia e Caia, entrambe partecipanti ad una procedura selettiva indetta da un Comune, hanno spiegato con i rispettivi reclami ex art. 77 Regolamento UE 2016/679 di aver richiesto tramite PEC alla responsabile del procedimento un cambio turno ai fini della prova stessa ed il Comune ha risposto loro mediante una raccomandata digitale che rivelava l’indirizzo PEC di tutti i destinatari.

Il Comune si è difeso sostenendo, in particolare, che l’evento è stato determinato “non da una mancata conoscenza […] della disciplina in materia di trattamento e protezione dei dati personali [da parte della dipendente che ha effettuato l’invio della PEC in questione] (tanto che la stessa ha partecipato a più corsi di formazione in materia) o delle istruzioni ad essa impartite dal titolare del trattamento, bensì da un mero errore materiale determinato dalla stanchezza conseguente all’eccessivo carico di lavoro in periodo pandemico e dall’aver condotto la procedura concorsuale di cui trattasi sia in qualità di responsabile del procedimento che in qualità di membro di commissione (a causa dell’esiguo numero di risorse umane in rapporto alle numerose attività da svolgersi in tutto l’ente)”.

L’Ufficio del Garante sulla base degli elementi acquisiti, delle verifiche compiute e dei fatti emersi a seguito dell’attività istruttoria, ha notificato al Comune, ai sensi dell’art. 166, comma 5, del Codice, l’avvio del procedimento per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 58.2 Gdpr, invitandolo a produrre scritti difensivi o documenti ovvero a chiedere di essere sentito dall’Autorità.

Nella memoria difensiva il Comune ha ribadito il carattere colposo (nella forma della colpa lieve) dell’errore, determinato dall’eccessivo carico di lavoro in periodo pandemico che, unitamente all’esiguità delle risorse umane dell’ente, ha fatto sì che la dipendente in questione fosse sottoposta ad eccessivo stress, “foriero di errori come quello verificatosi”; ed ha sottolineato i lievi effetti dell’accaduto.

Il Garante ha evidenziato che l’operazione di comunicazione di dati personali a terzi è ammessa per gli enti pubblici “solo quando prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento (v. art. 2-ter, commi 1 e 3, del Codice, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 8 ottobre 2021, n. 139, vigente al tempo dei fatti oggetto di reclamo)”.

L’autorità di controllo ha accertato l’invio del messaggio di posta elettronica certificata a nove partecipanti a una prova concorsuale, con gli indirizzi di posta elettronica degli stessi in chiaro, “così rivelando alle due reclamanti gli indirizzi di posta elettronica di altri sei candidati e a questi ultimi quelli delle due reclamanti, rendendo, inoltre, nota la circostanza che i destinatari – tutti candidati nell’ambito della procedura indetta dal Comune – avessero chiesto al Comune un cambio del proprio turno per effettuare una prova preselettiva”.

L’invio del messaggio di posta elettronica certificata in questione con le predette modalità ha comportato una comunicazione di dati personali in maniera non conforme al principio di liceità, correttezza e trasparenza e in assenza di una base giuridica, in violazione degli artt. 5.1, lett. a), e 6 del Gdpr, nonché 2-ter del Codice (nel testo, si ripete, antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 8 ottobre 2021, n. 139).

Il Garante ha quindi rilevato che le dichiarazioni rese dal Comune nel corso dell’istruttoria, seppure meritevoli di considerazione, “non consentono di superare i rilievi notificati dall’Ufficio con l’atto di avvio del procedimento e risultano insufficienti a consentire l’archiviazione del presente procedimento, non ricorrendo, peraltro, alcuno dei casi previsti dall’art. 11 del Regolamento del Garante n. 1/2019”.

È chiara “l’illiceità del trattamento di dati personali effettuato dal Comune, per aver comunicato a terzi i dati personali delle reclamanti e di altri sei partecipanti alla procedura concorsuale in questione”, in violazione delle disposizioni già citate.

Ciò nondimeno l’autorità di controllo, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto (episodio isolato e determinato da un semplice errore umano, esclusione di dati sensibili e di informazioni relative alle ragioni delle richieste di rinvio della prova dal trattamento, ridotta dimensione del Comune/titolare dotato di limitate risorse organizzative e finanziarie, condotta posta in essere nel contesto dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 – fase particolarmente concitata e critica anche sul piano dell’organizzazione e gestione delle attività istituzionali -, insussistenza di precedenti violazioni pertinenti commesse dal titolare del trattamento), ha stabilito di qualificare lo stesso come “violazione minore”, ai sensi del considerando 148 Gdpr e delle “Linee guida riguardanti l’applicazione e la previsione delle sanzioni amministrative pecuniarie ai fini del regolamento (UE) n. 2016/679”, adottate dal Gruppo di Lavoro Art. 29 il 3 ottobre 2017, WP 253, e fatte proprie dal Comitato europeo per la protezione dei dati con l’”Endorsement 1/2018” del 25 maggio 2018.

Il Garante per la protezione dei dati personali con provvedimento n. 419 del 15.12.2022 ha ritenuto sufficiente l’ammonimento del titolare del trattamento, ai sensi dell’art. 58.2, lett. b), Gdpr, non ricorrendo i presupposti per l’adozione di ulteriori misure correttive.


Cass. pen., Sez. IV, Ord., 13/02/2023, n. 5897

Leggi: Suprema Corte di Cassazione sentenza n. 5897-2023


Bilancio 2022

Atti relativi al Bilancio dell’Associazione dell’anno 2022 approvato dalla Giunta Esecutiva del 28.01.2023  e del Consiglio Generale del 31.01.2023 su delega dell’Assemblea Generale del 13.03.2021 al Consiglio Generale.

Leggi: Bilancio consuntivo 2022

Leggi: Relazione Bilancio 2022


La casella Pec piena impone la rinotifica al domicilio fisico

Se il legale del contribuente ha la casella di posta certificata piena, la notifica non si può ritenere effettuata, ma va rinnovata presso il domicilio fisico. La Corte Suprema di Cassazione (sentenza n. 2193/2023) dichiara inammissibile un ricorso dell’agenzia delle Entrate e fa una netta scelta di campo tra due orientamenti. Secondo la tesi disattesa dalla Corte Suprema di Cassazione, infatti, il responso “cassetta piena” è frutto di una negligenza del destinatario, che ha il dovere di «verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione». Se dunque il destinatario non rende disponile effettivamente il suo domicilio elettronico, il notificante può utilizzare l’atto come se la notifica fosse andata in porto.

Di diverso avviso la Corte Suprema di Cassazione. La Corte Suprema di Cassazione ammette – come valorizzato dal principio dal quale prende le distanze – che il lasciare la casella Pec satura «equivale ad un preventivo rifiuto di ricevere notificazioni tramite la stessa». Tuttavia questo non basta a fronte del fatto che le norme sul domicilio digitale non hanno soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, un luogo fisico valido – ed eventualmente associato al domicilio digitale – per la notificazione degli atti del processo.

Da qui il dovere di rinnovare tempestivamente la notifica non andata a buon fine anche se per “colpa” del destinatario. Un onere che – precisa la Corte Suprema di Cassazione – non deve apparire irragionevole a fronte dell’esistenza di una domiciliazione fisica, se presente, e del fatto che chi notifica può controllare subito l’esito della mancata consegna, attraverso il messaggio di rifiuto.

Questo anche nel caso di un giudizio la cui proposizione sia soggetta ai termini di decadenza.

«In definitiva la Corte Suprema di Cassazione sostiene  che se si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico, ciò non può, viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo di elezione appositamente eletto».

La Corte Suprema di Cassazione nega che l’orientamento opposto, ribadito anche dalla sentenza 26810/2022, possa essere supportato dall’articolo 149-bis, terzo comma, del Codice di rito civile secondo il quale in assenza di un espresso divieto di legge, la notifica si può eseguire con la Pec «anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo». Per la Corte Suprema di Cassazione si tratta di una norma neutra che si limita a prevedere il perfezionamento nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di Pec del destinatario.


Sono riaperte le iscrizioni al corso di formazione on line del 30-31 gennaio 2023

RIAPERTE LE ISCRIZIONI

si comunica che vengono riaperte le iscrizioni del corso di formazione avanzato on line in programma per il 30-31 gennaio 2023

Leggi: La Notificazione degli atti: Corso Avanzato


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 15/12/2022) 24/01/2023, n. 2193

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CRIVELLI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14092/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la stessa domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

A.A., (cf (Omissis)), rappresentata e difesa dall’avv. Sabrina Mariani, elettivamente domiciliata presso la stessa in Roma, via Gregorio VII, 186, il tutto come da procura in calce al controricorso del 12 giugno 2022;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 6270/2019, depositata il 12 novembre 2019.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre 2022 dal consigliere Alberto Crivelli.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia, in data 10 marzo 2016, notificava a A.A. intimazione di pagamento relativa a numerose cartelle. La contribuente impugnava la stessa sollevando questioni inerenti a vizi dell’intimazione e, limitatamente alle cartelle nn. (Omissis) e (Omissis), (dichiarazione dei redditi anni (Omissis)) decadenza. La CTP accoglieva il ricorso rilevando la mancata prova della notifica delle cartelle, oltre a ritenere fondate le altre censure all’atto impugnato. L’Agenzia proponeva gravame eccependo in particolare l’avvenuta notifica delle due cartelle sopra indicate rispettivamente in data (Omissis) e (Omissis). Il giudice d’appello respingeva il gravame, osservando che le notifiche del (Omissis) erano intervenute dopo l’intervenuta decadenza. Anche l’intimazione del (Omissis) era a sua volta tardiva rispetto al termine di decadenza quinquennale.

2. Ricorre dunque in cassazione l’Agenzia, affidando l’impugnativa a due motivi. Peraltro, la stessa procedeva al rinnovo della notifica via pec in data (Omissis), dopo che la precedente notifica, anch’essa via pec ed effettuata in data (Omissis) era stato “rifiutato dal sistema” in quanto la casella del legale della contribuente risultava “piena”, come risulta dal relativo messaggio. La contribuente, a seguito del suddetto rinnovo, si è costituita a mezzo di controricorso per eccepire la tardività dell’impugnativa e resistere nel merito. La difesa dell’Agenzia ha depositato memoria illustrativa in data (Omissis).

Motivi della decisione
1. Va anzitutto esaminata la questione inerente al perfezionamento della notifica, essendosi verificato che quella effettuata nel termine di legge per l’impugnazione era stata rifiutata dal sistema in quanto la casella di destinazione era “piena”.

In proposito si rileva che l’art. 16-sexies, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 – articolo rubricato “Domicilio digitale” e introdotto dall’art. 52, D.L. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114 del 2014 prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 del codice di procedura civile, quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale disposizione normativa, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c. per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis (Codice dell’amministrazione digitale), ovvero presso il Re.G.Ind.E, di cui al D.M. n. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo p.e.c., per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione.

La prescrizione del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 -sexies prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo p.e.c. del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel Re.G.Ind.E. La norma in esame, dunque, depotenzia la portata dell’elezione di domicilio fisico, la cui eventuale inefficacia non consente, pertanto, la notificazione dell’atto in cancelleria, ma la impone pur sempre e necessariamente alla p.e.c. del difensore domiciliatario, salvo l’impossibilità per causa al medesimo imputabile, e, al contempo, attenua l’efficacia prescrittiva l’art. 82, R.D. n. 37 del 1934, che, stante l’obbligo di notificazione tramite p.e.c. presso gli elenchi/registri normativamente indicati, può assumere rilievo unicamente in caso di mancata notificazione via p.e.c. per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria (Cass., sez. 3, 11/07/2017, n. 17048; Cass., sez. 3, 08/06/2018, n. 14914; Cass., sez. 6-2, 23/05/2019, n. 14140; Cass., sez. L, 20/05/2019, n. 13532; Cass., sez. 3, 29/01/2020, n. 1982; Cass., sez. 6-3, 11/02/2020, n. 3164; Cass., sez. 1, 03/02/2021, n. 2460).

Occorre a questo punto rilevare come una recente giurisprudenza di questa Corte equipari tale situazione all’avvenuta consegna della pec. Infatti “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello Spa zio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi” (Cass. 11/02/2020, n. 3164).

Tale decisione basa la propria ratio sull’art. 149-bis, comma 3, c.p.c., in tema di notificazioni a mezzo posta elettronica eseguite dall’ufficiale giudiziario, secondo cui “La notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario.”. La norma andrebbe letta alla luce del D.M. n. 179 del 2012. Va ricordato che il disposto dell’art. 20 comma 5 del D.M. n. 44 del 2011, in base al quale “Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello Spa zio disco a disposizione.”.

Sarebbe dunque onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di pec, finalizzato ad assicurare che gli effetti giuridici connessi alla notifica di atti tramite quel mezzo sia effettivo.

In proposito, dunque, per tale orientamento, rileva l’espressione “rendere disponibile” figurante nel citato disposto codicistico, che “individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario (Cass. 3164 DEL 2020). Si giustificherebbe così che “qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato” (ancora Cass. 3164 del 2020).

Nello stesso senso andrebbe letto il riferimento all’art. 138, comma 2, c.p.c., il quale considera il rifiuto del destinatario di ricevere la copia di un atto che si tenti di notificargli a mani proprie come equivalente ad una notificazione di tale genere. Il lasciare la casella di PEC satura equivale – nell’ottica della notifica telematica e in generale dell’attività svolta in via telematica, cui si aderisce con l’acquisizione del relativo indirizzo, vieppiù quando richiesto dalla legge – ad un preventivo rifiuto di ricevere notificazioni tramite la stessa.

1.2. Va però segnalato un diverso indirizzo, di cui è espressione Cass. 20/12/2021, n. 40758, in base al quale se la notificazione telematica non vada a buon fine per una ragione non imputabile al notificante – essendo invece addebitabile al destinatario per inadeguata gestione dello Spa zio di archiviazione necessario alla ricezione dei messaggi (Cass., 20/05/2019, n. 13532, Cass., 21/03/2018, n. 8029) – il notificante stesso deve ritenersi abbia il “più composito onere”, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domicilio (fisico) eletto, in un tempo adeguatamente contenuto (arg. ex Cass., Sez. U., 15/07/(Omissis), n. 14594, secondo cui “In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa”; Cass., 19/07/2017, n. 17864, Cass., 31/07/2017, n. 19059, Cass., 11/05/2018, n. 11485, Cass., 09/08/2018, n. 20700). Tale orientamento si fonda sul principio per cui dev’esser escluso che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 11/02/2021, n. 3557), e solo così potranno conservarsi gli effetti della originaria notifica. A tale stregua, il mancato perfezionamento della stessa per non avere il destinatario reso possibile la ricezione dei messaggi sulla propria casella p.e.c., pur chiaramente imputabile al destinatario, impone alla parte di provvedere tempestivamente (nei termini dimezzati che si sono indicati nella pronuncia a Sezioni Unite sopra ripotata) al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 e seguenti, c.p.c., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 16, comma 6, ultima parte, del (citato) D.L. n. 179 del 2012, prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo p.e.c. dal difensore si perfeziona al momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna (RAC) (Cass., 18/11/2019, n. 29851).

L’onere, incombente sul notificante pur a fronte del comportamento obiettivamente negligente del destinatario, appare ragionevole a fronte della persistente domiciliazione fisica (ovviamente se presente), con gli effetti (in caso di notifica del ricorso in cassazione e in generale di impugnazione) di cui all’art. 330 c.p.c., e del fatto che lo stesso notificante può subito controllare l’esito della mancata consegna, tramite appunto il messaggio di rifiuto. Tutto ciò sufficientemente accompagnato, grazie alle indicazioni giurisprudenziali sopra indicate, da elementi di certezza anche in caso di un giudizio la cui proposizione sia oggetto di un termine decadenziale, ed a fronte del fatto che in simili evenienze, al destinatario non viene consegnato nulla, ma soltanto, ai sensi del D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, , ” viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite 14 ai sensi dell’art. 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell’atto nella cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori”.

In definitiva “se si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico sopra richiamato, ciò non può viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo elettronico di ricezione appositamente eletto; e, parimenti, l’onere del notificante si articola diversamente, dovendo tenersi congruo conto della specifica elezione di domicilio fisica; pertanto, la notifica telematica al domicilio digitale sarà valida nell’ipotesi di avvenuta consegna, mentre, qualora vi sia una differente e specifica elezione di diverso domicilio (nell’odierna fattispecie, fisico), nell’eventualità di casella telematica piena” (presso il domicilio digitale più sopra ricordato) per insufficiente gestione dello Spa zio da parte del destinatario della notifica, il notificante dovrà, per tempo, riprendere il procedimento notificatorio presso il domicilio eletto, e ciò a valere solo nel caso specificato, altrimenti non potendo sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante” (ancora Cass. 40758 del 21).

1.3. Quanto agli argomenti spesi dall’altro orientamento (sostanzialmente riproposto da Cass. 12/09/2022, n. 26810), si può osservare che il disposto di cui all’art. 149-bis, comma 3, c.p.c., appare norma neutra ai fini in parola, prevedendosi, infatti, solo che “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”. L’onere di consentire un’effettiva disponibilità da parte del destinatario deve peraltro tener conto del predicato difetto di esclusività del domicilio digitale e della mancata elisione della prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico con effetti alternativi.

Quanto al D.M. n. 44 del 2011, art. 20, comma 5, trattasi di norma secondaria (come del resto osservato dalla stessa pronuncia suddetta). Nè decisivo pare il disposto di cui all’art. 138, secondo comma, c.p.c., posto che l’atteggiamento negligente consistente nel lasciare piena la casella non può essere equiparato al volontario di rifiuto di ricevere la notifica.

Circa poi l’ultimo precedente citato (Cass. n. 26810 del 22), lo stesso concerneva un caso differente, poichè non vi era stata valida elezione di domicilio fisico da parte dell’appellato, per cui il ricorso in cassazione venne notificato tramite deposito presso la cancelleria del giudice a quo (ex plurimis, Cass. 15/05/1996, n. 4502).

1.4. Calando i suesposti principi alla concreta fattispecie, a fronte della pacifica circostanza per cui la casella di posta elettronica certificata del legale della contribuente era piena, si ha l’elezione di domicilio fisico, come emerge dalla memoria di costituzione depositata in appello, ed in particolare dalla procura in calce alla stessa, in cui si legge che la stessa era elettivamente domiciliata presso il proprio legale in Roma, via di Santa Croce in Gerusalemme, 9; nonchè il ricevimento dell’avviso di mancata consegna all’Avvocatura notificante alla stessa data della notifica. In simile fattispecie, in cui in base a quanto precede non si è compiuta la fattispecie notificatoria mancando l’elemento della “consegna”, cui è subordinata l’esistenza della medesima, occorreva – appunto in base ai superiori rilievi – il rinnovo della notificazione stessa. La sua esecuzione solo due anni dopo, ben oltre quindi quello pari alla metà del termine stabilito (nel caso del ricorso in cassazione) dall’art. 325, comma 2, c.p.c., indicato come congruo dalla giurisprudenza delle sezioni unite (principio da ultimo fatto proprio da Cass. 24/10/2022, n. 31346), risulta quindi tardiva.

2. Alla stregua di quanto precede il ricorso deve intendersi inammissibile, con integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità, tenuto conto del fatto che la questione risultava ancora oggetto di contrastante soluzione al momento dell’introduzione del giudizio stesso.

Nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, non sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228 art.7, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non potendo tale norma trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Dichiara le spese del giudizio di legittimità interamente compensate fra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma,il 15 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2023


Cons. Stato, Sez. II, Sent., (data ud. 13/12/2022) 24/01/2023, n. 793

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9040 del 2017, proposto da

-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Zaccaglino, domiciliato in via digitale come da pubblici registri;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in via digitale come da pubblici registri e domicilio fisico in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.R.G.A. – della Provincia di Trento – Sezione Unica n. -OMISSIS- resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2022 il Cons. Fabrizio D’Alessandri e nessuno presente per le parti;

Svolgimento del processo
Parte appellante impugna la sentenza n.-OMISSIS-pronunciata dalla Sezione Unica del Tribunale Regionale Giustizia Amministrativa di Trento.

In particolare, l’odierno appellante, sottufficiale dell’aeronautica militare con il grado di maresciallo di prima classe, ha prestato attività nell’ambito dei servizi di meteorologia e climatologia dell’arma, con assegnazione presso il teleposto meteo di -OMISSIS-e, da ultimo, presso il teleposto meteo del -OMISSIS-

Nel 2008 il maresciallo, a seguito di diverbi professionali, ha subito un’aggressione da parte di un collega, e, successivamente a tale episodio, si è manifestata la patologia di seguito indicata, che ha dato origine ai provvedimenti qui impugnati.

Nel 2014 l’Amministrazione ha riconosciuto l’infermità “disturbo d’ansia in trattamento”, diagnosticata all’odierno appellante, come dipendente da causa di servizio (con decreto n. 672/D datato 14.03.2014), senza l’indicazione di ascrivibilità tabellare ai fini dell’equo indennizzo, non essendo il quadro clinico stabilizzato.

Successivamente, dopo un periodo di più di due anni di assenza dal servizio, la C.M.O. ha visitato il militare in data 24.10.2016 e, con verbale modello BL/S n. ACMOII167472 datato 24.10.2016, ha diagnosticato l’esistenza di un “disturbo dell’adattamento con umore depresso in trattamento” e lo ha giudicato non idoneo permanentemente al servizio militare, con collocamento in congedo assoluto e reimpiego nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero della difesa.

E’ stato, altresì, negato l’accertamento della interdipendenza o l’aggravamento da infermità già riconosciuta dipendente da causa di servizio.

L’infermità da ultimo diagnosticata corrisponde, secondo la suddetta commissione medica, alla tabella B del D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.

In sede di visita sopra indicata, l’odierno appellante è stato assistito dal proprio medico di fiducia, specialista in medicina legale, che ha formulato osservazioni ed eccezioni, in merito a una diversa valutazione medico legale rispetto a quella effettuata dalla CMO, relativa alla menomazione dell’integrità psico-fisica-sensoriale.

Lo stesso medico ha redatto anche propria relazione peritale in data 12.12.2016, nella quale ha concluso per una corretta attribuzione delle menomazioni subite, valutandole come corrispondenti alla V categoria della precitata tabella A della norma di riferimento.

Di pari tenore risulterebbero, inoltre, altre certificazioni mediche prodotte dall’odierno appellante.

Quest’ultimo, ritenendo che la sua patologia sia ascrivibile alla V categoria della tabella A del richiamato D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, ha impugnato dinanzi al T.A.R. il provvedimento gravato, contestando la determinazione della categoria e della tabella di ascrivibilità.

In particolare, l’odierno appellante, come dallo stesso dedotto, non ha impugnato il verbale che lo ha dichiarato inidoneo permanentemente al servizio militare incondizionato, in quanto non contesta l’affezione patologica esistente, bensì l’assegnazione a tabella e categoria effettuata dall’organismo sanitario militare che ha valutato la menomazione dovuta all’infermità ritenendola corrispondente alla tabella B di cui al D.P.R. n. 834 del 1981.

A seguito della notificazione del decreto ministeriale della Direzione Generale per il personale militare, con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, con effetto dalla data del 24.10.16, l’odierno appellante ha proposto motivi aggiunti.

Nello specifico ha contestato che il decreto gravato, notificato al dipendente, non risulta sottoscritto dal dirigente della 5^ Divisione, delegato con D.Dirig. n. 0700883 del 2016. Lo stesso, infatti, non risulterebbe sottoscritto né in forma cartacea, né in forma digitale e, in ogni caso, qualora si dovesse considerare come sottoscritto, sarebbe stato sottoscritto da un soggetto non abilitato.

La parte appellante ha, altresì, lamentato l’inidoneità della copia semplice (ovverosia non autentica) del decreto notificata all’odierno appellante a finalità legali, quale quella di determinare l’interruzione del rapporto di servizio.

L’adito T.A.R., con la sentenza gravata in questa sede ha rigettato sia il ricorso introduttivo che quello per motivi aggiunti.

L’appellante ha gravato la suindicata sentenza sostenendo l’erroneità e la carenza di motivazione del giudizio della C.M.O. che ha ascritto la patologia alla tabella B, in contrasto, peraltro, con altri pareri medico-legali che l’hanno, invece, riconosciuta come rientrante nella tabella A.

Ciò a fronte della decisione del giudice di prime cure di non disporre una verificazione o consulenza tecnica d’ufficio, pur in presenza di una questione inerente a una valutazione tecnica.

Quanto al gravame sui motivi aggiunti, l’appellante invoca il travisamento dei fatti da parte del T.A.R. che ha ritenuto che il decreto di congedo depositato in atti sia stato sottoscritto digitalmente dal titolare del potere di firma.

Il Giudice avrebbe omesso di osservare che il decreto depositato in giudizio dall’Amministrazione è diverso da quello partecipato al dipendente prima della causa e della proposizione dei motivi aggiunti.

Il decreto partecipato al ricorrente è, infatti, sottoscritto digitalmente da soggetto terzo non corrispondente al titolare del potere di firma del decreto di congedo.

L’Amministrazione, in corso di causa, ha provveduto a integrare e depositare il decreto regolarmente sottoscritto digitalmente dal dirigente della divisione ma l’atto notificato al ricorrente è, in effetti, sottoscritto digitalmente da diverso soggetto e ciò sarebbe documentalmente incontrovertibile.

Per tale ragione il ricorso per motivi aggiunti avrebbe dovuto essere accolto per un vizio fondamentale dell’atto gravato e cioè la sottoscrizione da parte di soggetto sprovvisto dei poteri di firma.

Analogamente, anche la doglianza espressa avverso la notifica senza valenza legale di una mera fotocopia del decreto di congedo avrebbe dovuto essere rilevata e opportunamente considerata dal Collegio di primo grado mentre, invece, quanto attuato è stato ritenuto pienamente legittimo.

La medesima parte appellante, invocando l’effetto devolutivo dell’appello, ha, infine, riproposto per intero i motivi di impugnazione prodotti in primo grado, nel ricorso principale e in quello per motivi aggiunti, riportandoli integralmente.

Si è costituta in giudizio l’Amministrazione appellata, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Nelle more del giudizio l’Amministrazione, con verbale del 7.01.20219, ha riconosciuto all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII e, conseguentemente la spettanza del trattamento di quiescenza privilegiato a partire dal 25/10/2016. Conseguentemente l’INPS, con determina n. 166693 del 14.10.2019, ha corrisposto il pagamento del trattamento di quiescenza privilegiato.

L’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha chiesto alle parti chiarimenti “Atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”.

I richiesti chiarimenti non sono stati resi dalle parti in quanto l’Amministrazione è rimasta silente, mentre parte ricorrente si è limitata meramente a dichiarare la sussistenza dell’interesse a ottenere una sentenza di merito, senza indicarne le ragioni.

Con ordinanza n. -OMISSIS- è stata reiterata richiesta di chiarimenti “Visto che l’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha disposto adempimenti istruttori e, in particolare, ha richiesto alle parti chiarimenti con la seguente motivazione “atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”; Rilevato che l’appellante ha depositato una mera dichiarazione di persistenza dell’interesse senza indicare le ragioni per cui, alla luce dell’intervenuto riconoscimento, permangono delle ragioni di concreta utilità alla definizione del giudizio di appello, mentre nulla ha indicato in merito l’Amministrazione intimata; Ritenuta la necessità, ai fini del decidere, di acquisire dall’Amministrazione e dal ricorrente chiarimenti in ordine ai concreti effetti dell’intervenuta ascrizione, con il verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, dell’infermità alla tabella A categoria VIII, in relazione alla sussistenza dell’attualità dell’interesse a ricorrere nel presente giudizio”.

Sia l’Amministrazione che l’appellante hanno reso i richiesti ulteriori chiarimenti.

L’appello è stato trattenuto in decisione all’udienza pubblica del 13.12.2022.

Motivi della decisione
1) Il ricorso deve essere rigettato.

2) Quanto all’interesse a ricorrere oggetto di richiesta di chiarimenti per entrambe le parti, il Collegio ritiene che il suddetto interesse si possa considerare persistente.

Infatti, da un lato, l’Amministrazione non ha ammesso l’ascrivibilità inziale della patologia attribuita alla Categoria 8^ (ora riconosciuta dal verbale BL/B n. 2 del 07.01.2019 della C.M.O. di -OMISSIS-) al momento dell’impugnata valutazione da parte della C.M.O. di -OMISSIS-, nel verbale n. II154895 del 24.10.2016, che l’aveva ricondotta alla Tabella B; dall’altro, tale nuova valutazione è stata effettuata, e ha spiegato i suoi effetti, solo ai fini del trattamento pensionistico di privilegio (corrisposto dal 25/10/2016) e non rispetto all’equo indennizzo.

3) Nel merito il ricorso si rivela infondato.

Come suindicato, l’infermità “disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti cronico in trattamento” è stata riconosciuta dall’Amministrazione come ascrivibile alla tabella A categoria VIII solo a seguito dell’accertamento contenuto nel Verbale sanitario del 7.1.2019 e ai fini del trattamento pensionistico privilegiato.

Da ciò non è evincibile che a tale categoria fosse ascrivibile l’indicata infermità al momento della valutazione impugnata effettuata diverso tempo prima (verbale del 24.10.2016).

4) In sede di appello parte appellante ha altresì ribadito l’erroneità della sentenza sostanzialmente in quanto: – l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, dovendo riconnettersi a patologie classificabili nella tabella A; – nella tabella B, allegata al D.P.R. n. 834 del 1981, non si rinvengono tipologie di patologia sofferte dalla medesima parte, presenti invece nella tabella A. La medesima parte appellante deduce, altresì, la mancata assunzione da parte del giudice di primo grado di una verificazione.

Cita al riguardo precedenti giurisprudenziali che classificano la patologia disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso nell’ambito della più volte richiamata tabella A, nonché le perizie di medici specialisti di fiducia.

5) Il Collegio rileva come sia granitica la giurisprudenza che sussume i giudizi medico legali formulati dalle commissioni mediche come rientranti nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che gli stessi non sono sindacabili se non nei casi di manifesta abnormità, illogicità, travisamento ed erroneità.

Nel caso di specie, il Collegio concorda con la valutazione del giudice di primo grado secondo cui non risultano profili di manifesta illogicità, travisamento ed erroneità che soli possano giustificare il sindacato del giudice sul giudizio diagnostico in esame.

Il giudice infatti in tali casi non può sostituire la valutazione dell’organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico nell’apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione.

La parte può contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso della discrezionalità tecnica, ma in tal caso ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente (e legalmente) investito della competenza ad adottare decisioni in attuazione dell’interesse pubblico, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

La sentenza impugnata ha rilevato come la diagnosi sia coerente con quelle precedenti effettuate dalla commissione medica e con le plurime certificazioni riguardanti l’infermità dell’interessato, sin dal 2009, e come la patologia sia ascrivibile nell’ambito della voce 2207 (nevrosi ansiosa), corrispondente alla tabella B.

Sul punto la parte appellante non ha specificamente evidenziato elementi di illogicità della sussunzione della patologia sofferta nell’ambito della voce ascrivibile a nevrosi ansiosa, limitandosi a fornire interpretazioni alternative delle risultanze mediche e prospettando la sussumibilità della patologia quale “Sindrome neurosiche lievi ma persistenti”, piuttosto che “Isteronevrosi di media gravità” oppure “psiconevrosi di media entità”.

In tal senso, pertanto, la parte appellante ha chiesto al giudice di sostituire il suo giudizio alla discrezionalità tecnica dell’Amministrazione al fine di inquadrare diversamente, quando al contrario avrebbe dovuto fornire elementi volti a comprovare l’illogicità della classificazione operata dall’Amministrazione e confermata dal giudice di prime cure.

Il sindacato sulla discrezionalità tecnica si sarebbe potuto positivamente effettuare solo nel caso in cui fosse stato positivamente dimostrato che la classificazione operata dall’amministrazione fosse affetta da travisamento di fatti, manifesta illogicità, palese incongruità, potendo il giudice valutare ab externo tali profili.

6) Infondata è altresì la censura d’appello relativa alla circostanza che l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B.

Il Collegio rileva innanzitutto come l’appellante non abbia specificamente criticato il ragionamento del giudice di prime cure sul punto, limitandosi a riproporre le censure di primo grado, in violazione del principio di specificità dei motivi di appello.

In ogni caso il Collegio ritiene di condividere l’iter argomentativo del T.A.R. che ha evidenziato

l’insussistenza di espresse disposizioni di legge che impediscono il riconoscimento dell’inidoneità al servizio militare in caso di patologie sussumibili nella tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, e rileva altresì che la direttiva del comando logistico dell’esercito, dipartimento di sanità, MDE24363/33204/Sez.Med.Leg/10.3.4.1 del 18 marzo 2009 precisa che “i limiti di categoria nell’ambito delle tabelle indicati al fine della idoneità non possono comunque essere applicati in modo tassativo, e che la valutazione dell’idoneità non segue i medesimi criteri dell’invalidità e non consegue automaticamente all’ascrivibilità a una determinata categoria e tabella. Pertanto la direttiva consente margini elastici di applicazione che, nella fattispecie, risultano essere giustificati dalla rilevata assunzione di psicofarmaci, determinante l’inidoneità al servizio indipendentemente dalla tabella in cui è annoverata la patologia”

7) Anche la censura d’appello riguardante il rigetto del ricorso per motivi aggiunti è infondata.

Il Consiglio concorda con la sentenza gravata che ha rilevato come sia, comunque, determinante la circostanza che l’Amministrazione abbia prodotto in primo grado copia del decreto dirigenziale che presenta la firma digitale del Dirigente abilitato, e dalla quale si evince che lo stesso decreto è stato sottoscritto digitalmente la stessa data di protocollo dell’atto del 2.12.2016.

L’atto quindi è stato effettivamente sottoscritto e dal soggetto competente e abilitato e non vi è quindi spazio per contestare l’inesistenza della sottoscrizione – con conseguente nullità secondo il tenore della norma dell’art. 21-septies, lett. a) della L. n. 241 del 1990 – vizi di forma invalidanti o profili di incompetenza.

Semmai la questione controversa si sposta sulla valenza della circostanza, asserita dall’appellante, che allo stesso sarebbe stata notificata una copia priva di firma e non autenticata.

Sul punto il Collegio ritiene di aderire a quanto indicato in sentenza ovverosia che “non essendo prevista nel caso di specie una formale notifica e trattandosi di una comunicazione mediante consegna a mani del decreto dirigenziale con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, la copia autentica non è necessaria”.

Inoltre, la notifica in forma non corretta non sarebbe idonea a inficiare l’atto, risultando la stessa condizione di efficacia, ma non di validità dell’atto, stante anche che il collocamento a riposo ha una sua decorrenza autonoma specificamente indicata nel 24 ottobre 2016 e, pertanto, non dipende dalla data di notifica.

Anche fosse vero che la copia notificata all’appellante fosse priva di firma, la notifica ha conseguito lo scopo di rendere conoscibile l’atto, né può dirsi che non risultasse certa la provenienza dello stesso, per cui la mancanza di sottoscrizione si presenterebbe quale elemento meramente formale inidoneo a inficiare l’atto.

Ciò tanto più in presenza del principio giurisprudenziale secondo cui la stessa mancanza di sottoscrizione di un atto non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti nei casi in cui detta omissione, come nella fattispecie in esame, non metta in dubbio la riferibilità dell’atto stesso all’organo competente (T.A.R. Sicilia Catania Sez. II, 12-11-2019, n. 2713 Cons Stato sez. IV 5 ottobre 2010 n. 7309; 11 maggio 2007 n. 2325; 23 febbraio2007 n. 981;Sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3414; Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8702; 5 dicembre 2010, n. 7309; 18 settembre 2009, n. 5622;18 dicembre 2007, n. 6517).

Nell’atto in questione era, infatti, chiaramente indicata l’autorità emanante e il nominativo del firmatario.

Tale principio deve ritenersi tanto più valido qualora, come nel caso di specie, il provvedimento sia stato effettivamente sottoscritto e solo la copia notificata al privato sia priva di sottoscrizione.

8). L’appello di palesa, infine, inammissibile nella parte in cui ha riproposto integralmente i motivi di impugnazione formulati in primo grado, sia nel ricorso principale che in quello per motivi aggiunti.

E, infatti, principio consolidato che in ambito amministrativo il principio della specificità dei motivi di impugnazione, posto dalla normativa di cui all’art. 101, comma 1, del D.Lgs. n. 104 del 2010, impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo (Cons. Stato Sez. VI, 11/01/2021, n. 342).

Innanzi al Consiglio di Stato, la pura e semplice riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizioni della sentenza gravata), si pone in contrasto con il generale principio della specificità dei motivi di appello nonché con il principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice (Cons. Stato Sez. II, 04/01/2021, n. 111).

9) Per le suesposte ragioni l’appello deve essere in parte rigettato, in parte dichiarato inammissibile, nei sensi esposti in motivazione.

Le specifiche circostanze inerenti al ricorso in esame costituiscono elementi che militano per l’applicazione dell’art. 92 c.p.c., come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. e depongono per la compensazione delle spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, in parte lo rigetta, in parte lo dichiara inammissibile..

Compensa le spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2022 con l’intervento dei magistrati:

Oberdan Forlenza, Presidente

Antonella Manzione, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere

Giancarlo Carmelo Pezzuto, Consigliere

Fabrizio D’Alessandri, Consigliere, Estensore


L’atto nativo digitale non richiede l’attestazione di conformità

La Corte Suprema di Cassazione enuncia il principio di diritto per il quale la produzione in giudizio di un documento in formato nativo digitale non richiede la attestazione di conformità all’originale perché la produzione avviene già in originale

Nella sentenza n. 981/2023 la Corte Suprema di Cassazione sancisce il principio in materia di processo telematico, ossia che quando si produce un atto nativo originale, non è necessaria l’attestazione di conformità all’originale, perché la produzione di fatto avviene in originale.

L’Agenzia delle Entrate notifica ad un contribuente un avviso di accertamento, che il destinatario impugna davanti alla CTP, che annulla l’atto perché non ritiene provata l’evasione contestata.

Decisione che l’Agenzia delle Entrate appella anche se anche in questa sede non vede accolte le proprie ragioni. Per la CTR manca la prova della notificazione dell’appello perché non è stata attestata la conformità dell’atto, dei suoi allegati e della ricevuta di attestazione e di consegna da parte del difensore dell’ente impositore appellante.

L’Agenzia delle Entrate non desiste e ricorre presso la Corte Suprema di Cassazione, contestando la motivazione della CTR, che a suo dire, erra nel ritenere inesistente la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello per assenza di attestazione della autenticità del ricorso, degli allegati e dell’attestazione di consegna, prodotti tutti in formato digitale.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie la doglianza dell’Agenzia delle Entrate. La CTR ha rigettato la doglianza dell’Agenzia partendo da un presupposto del tutto errato, ossia che il difensore abbia estratto e depositato copia analogica dell’atto di notifica e dei successivi documenti relativi al procedimento di notificazione.

Ragione per la quale, Corte Suprema di Cassazione afferma il seguente principio: “quando la produzione di un atto, nativo digitale, quale la notificazione a mezzo pec del ricorso in appello, degli allegati e dell’attestazione di consegna, avvenga in giudizio tramite l’allegazione al fascicolo processuale mediante modalità telematica, non è richiesta l’attestazione di conformità, all’originale dell’atto prodotto dal difensore”.

 


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 08/11/2022) 16/01/2023, n. 981

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO Maria Giulia – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la senteza n. 2642, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Calabria il 12.6.2020, e pubblicata il 22.10.2020;

ascoltata, nella camera di consiglio non partecipata dell’8.11.2022, la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva:

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate notificava ad A.A., quale titolare di ditta individuale esercente l’attività di bar, l’avviso di accertamento n. (Omissis), fondato sull’applicazione di metodo induttivo, mediante il quale recuperava a tassazione il maggior reddito ritenuto conseguito nell’anno 2013, nella misura di Euro 43.341,95.

2. Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di (Omissis), proponendo plurime censure, procedurali e di merito. La CTP riteneva che l’Amministrazione finanziaria non fosse riuscita a provare la ricorrenza di indizi gravi, precisi e concordanti, di evasione contributiva, ed annullava l’avviso di accertamento.

3. L’Agenzia delle Entrate spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita nel primo grado del giudizio, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Calabria, ed il contribuente non si costituiva. Il giudice dell’appello dichiarava inammissibile il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, a causa del difetto di prova della notificazione dell’atto introduttivo del gravame, per non essere stata attestata la conformità dell’atto, nativo digitale, “dei suoi allegati e della ricevuta di attestazione e di consegna” (sent. CTR, p. 3), dal difensore dell’Ente impositore impugnante.

4. Ha proposto ricorso per cassazione, avverso la decisione sfavorevole assunta dalla CTR, l’Amministrazione finanziaria, affidandosi ad un motivo di ricorso. La notificazione del ricorso è stata effettuata dall’Agenzia delle Entrate presso il difensore della contribuente costituito nel primo grado del giudizio, indicato anche quale domiciliatario, e l’atto è stato consegnato il (Omissis). L’intimato non si è costituito.

Motivi della decisione
1. Mediante il suo strumento di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Ente impositore contesta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, commi 1 e 2, del decreto MEF n. 163 del 2013, art. 5, comma 2, della L. n. 53 del 1994, art. 9, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16 bis, per avere la CTR erroneamente ritenuto inesistente la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello, documento nativo digitale, al domiciliatario di controparte, perchè il difensore dell’Amministrazione finanziaria non ha attestato l’autenticità del ricorso, degli allegati e dell’attestazione di consegna, tutti prodotti in forma digitale.

2. Preliminarmente occorre chiarire che il Collegio, rettificando la proposta del relatore, ritiene di aderire all’orientamento ora maggioritario di questa Corte, secondo cui deve ritenersi valida la notifica del ricorso per cassazione effettuata dall’Agenzia delle Entrate presso il procuratore domiciliatario costituito in primo grado di parte contribuente, rimasta contumace in grado di appello. Invero, le Sezioni Unite con sentenza 20.7.2016, n. 14916, hanno affermato che, sebbene in tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali si applichi, con riguardo al luogo della sua notificazione, la disciplina dettata dall’art. 330 c.p.c., tuttavia, in ragione del principio di ultrattività dell’indicazione della residenza o della sede e dell’elezione di domicilio effettuate in primo grado, sancito dal D.Lgs. n. 31.12.1992, n. 546, art. 17, comma 2, è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi del citato art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., ove la parte non si sia costituita nel giudizio di appello oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione. A tali consolidati principi si è uniformata la giurisprudenza successiva, evidenziando che il processo tributario ha un proprio regime di notificazione degli atti, disciplinato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 17, a tenore dei quali le notificazioni sono eseguite, salva la consegna a mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio e l’indicazione della residenza e del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi di giudizio.(cfr., Sez. V, 7.12.2016, n. 25117). Ora, nel caso in esame, il ricorso per cassazione risulta essere stato già notificato tempestivamente, tramite pec, alla parte contribuente presso il domicilio eletto in primo grado sicchè, alla luce dei principi appena esposti, la notifica è corretta con conseguente ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. sez. V, 27.4.2021, n. 11031; v. anche, nello stesso senso, ex multis, Cass. sez. V, 19.11.2020, n. 26308; Cass. sez. V, 8.2.2022, n. 3984).

3. Può quindi esaminarsi il motivo di ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui è incorso in errore il giudice dell’appello, nel ritenere l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione, per non avere il difensore della notificante Agenzia delle Entrate attestato l’autenticità del ricorso, degli allegati e della ricevuta di consegna del documento.

3.1. Occorre evidenziare subito che il ricorso in appello dell’Amministrazione finanziaria è stato redatto e notificato in forma digitale, e la notifica è stata effettuata a mezzo Pec presso il domiciliatario del contribuente. Quindi l’Agenzia delle Entrate ha depositato nel fascicolo processuale l’documenti digitali riportanti il ricorso e l’attestazione di consegna, sempre mediante modalità telematica. Non ricorre, pertanto, l’ipotesi che il notificante abbia estratto una copia analogica dell’originale telematico, ed abbia depositato tale copia in atti.

3.2. Il giudice dell’appello scrive che “difetta la prova della notificazione dell’atto introduttivo” dell’impugnazione innanzi a sè. “E’, infatti, principio generale che l’appellante debba fornire prova dell’avvenuta notifica a controparte dell’atto di gravame nei termini previsti dalla legge in qualsiasi modalità essa sia avvenuta: a mezzo di ufficiale giudiziario, del servizio postale o, più recentemente, a mezzo pec. In particolare in quest’ultima ipotesi, il difensore deve provvedere ai sensi della L. 21 gennaio 1994 n 53, art. 9, commi 1 bis e 1 ter che disciplina le notifiche nel settore civile, amministrativo e stragiudiziale (D.L. n. n 119/2018, art. 16, comma 3,) e prevede che l’avvocato estragga copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del D.Lgs. n. 7 marzo 2005, n 82l, art. 23, comma 1. Non essendo stati eseguiti questi incombenti, nè essendo stata fornita prova con alcun altro mezzo, l’appello va dichiarato inammissibile” (sent. CTR, p. 3).

3.2.1. La CTR è incorsa in equivoco, ed il giudice dell’appello ha proposto valutazioni inconferenti, tutte relative all’ipotesi in cui dell’originale digitale dell’atto di notifica, e degli ulteriori relativi al procedimento di notificazione, il difensore notificante abbia estratto e depositato copia analogica, il che non è avvenuto nel caso di specie.

3.3. Si trae conferma di quanto rilevato esaminando le norme richiamate dalla Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella sua decisione.

Il D.Lgs. n. 82 del 2005, all’art. 23, prevede infatti: “1. Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

– 2. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta. Resta fermo, ove previsto l’obbligo di conservazione dell’originale informatico.

– 2-bis. Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo” (evidenza aggiunta), e disciplina pertanto esclusivamente l’ipotesi che l’atto digitale sia stato copiato su supporto analogico, pertanto su carta, e sia stato successivamente depositato.

3.3.1. La CTR richiama anche il Dl n. 119 del 2018, art. 16, come conv., il quale, introducendo nel D.Lgs. n. 546 del 1992, l’art. 25 bis, ha previsto, al comma 1, lett. b), n. 3: “3. La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità ai sensi dei commi precedenti equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto ovvero presente nel fascicolo informatico” (evidenza aggiunta), e prevede pertanto che la copia cartacea munita di attestazione di conformità dell’atto informatico equivale all’originale, così come anche la copia informatica, in relazione alla quale non è richiesta l’attestazione di conformità. Tale conclusione risulta confermata dal testo di cui al comma 3 della medesima norma, la quale dispone: “In tutti i casi in cui debba essere fornita la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo di posta elettronica certificata e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, il difensore o il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, art. 53, provvedono ai sensi della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 9, commi 1-bis e 1-ter,. I soggetti di cui al periodo precedente nel compimento di tali attività assumono ad ogni effetto la veste di pubblico ufficiale” (evidenza aggiunta), pertanto il ricorso alla disciplina dell’attestazione richiamata è previsto nella sola ipotesi che non sia possibile fornire con modalità telematica la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo posta elettronica certificata, mentre tale procedura non deve essere attivata quando sia possibile fornire in modalità telematica la prova della notificazione eseguita mediante invio telematico.

3.3.2. Ancora, la CTR opera infine riferimento alla L. n. 53 del 1994, art. 9, il quale dispone: “1. Nei casi in cui il cancelliere deve prendere nota sull’originale del provvedimento dell’avvenuta notificazione di un atto di opposizione o di impugnazione, ai sensi dell’art. 645 del codice di procedura civile e dell’art. 123 delle disposizioni per l’attuazione, transitorie e di coordinamento del codice di procedura civile, il notificante provvede, contestualmente alla notifica, a depositare copia dell’atto notificato presso il cancelliere del giudice che ha pronunciato il provvedimento.

– 1-bis. Qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3-bis, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. (29), art. 23, comma 1.

1-ter. In tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1-bis.” (evidenza aggiunta). La disposizione fornisce quindi ulteriore evidenza che l’attestazione di conformità dell’atto depositato è richiesta soltanto nel caso in cui l’atto notificato sia allegato al fascicolo dibattimentale previa estrazione di copia analogica, e l’evento si verifica nel solo caso in cui non sia stato possibile procedere al deposito con modalità telematica dell’atto notificato con modalità telematica.

3.4. La ragione della scelta operata dal legislatore, che non richiede l’attestazione di conformità in relazione all’atto nativo digitale, il quale sia prodotto in giudizio in tale forma, mediante allegazione telematica al fascicolo dibattimentale, dipende dal fatto che, a differenza dei documenti su supporto cartaceo, in cui vi è un problema di conformità dell’atto depositato con l’originale, quando il deposito riguarda l’atto digitale, lo stesso non viene prodotto in “copia”, bensì in originale, essendo l’originale dell’atto suscettibile di ripetute riproduzioni, senza perdere le sue caratteristiche di essere un atto originale.

3.5. Pertanto, anche a prescindere dalla normativa secondaria richiamata dall’Ente impositore nel suo ricorso (cfr. ric., p. VIII s.), il deposito telematico di un documento telematico, secondo le previsioni dell’ordinamento vigente, non richiede attestazione di conformità da parte del difensore che lo produce.

4. Non rinvenendosi specifici precedenti in termini, sembra opportuno esprimere il principio di diritto secondo cui “quando la produzione di un atto, nativo digitale, quale la notificazione a mezzo Pec del ricorso in appello, degli allegati e dell’attestazione di consegna, avvenga in giudizio tramite l’allegazione al fascicolo dibattimentale mediante modalità telematica, non è richiesta l’attestazione di conformità all’originale dell’atto prodotto da parte del difensore”.

5. Non si è attenuta a questi principi la Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella pronuncia impugnata, e pertanto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate deve essere accolto, cassandosi la decisione del giudice dell’appello con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria, perchè proceda a nuovo giudizio.

La Corte,

P.Q.M.
accoglie il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, cassa la decisione impugnata e rinvia innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria che, in diversa composizione, procederà a nuovo giudizio, nel rispetto dei principi esposti, e provvederà anche a liquidare le spese di lite del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 08 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2023


Pensione anticipata: previsto il bonus Maroni per chi decide di restare al lavoro

In tema di pensione anticipata, la Legge di Bilancio 2023 prevede un incentivo per chi decide rimandare l’uscita e restare al lavoro. Si tratta di una riproposizione del bonus Maroni. Il datore di lavoro non versa all’ente previdenziale i contributi a carico del lavoratore, che rientrano nello stipendio netto
I lavoratori in possesso dei requisiti minimi per la pensione anticipata, ma che decidono di restare al lavoro possono beneficiare di un bonus che aumenta lo stipendio netto.
La Legge di Bilancio 2023, infatti, ripropone il cosiddetto bonus Maroni, con il quale si garantisce un aumento retributivo ai lavoratori che posticipano l’uscita.
L’agevolazione concede uno stipendio maggiore, in quanto la quota dovuta a titolo di contribuzione a carico del lavoratore confluisce nella retribuzione netta invece di essere versata all’ente di previdenza.
Al momento della pensione l’importo della liquidazione sarà pari, sulla base dell’anzianità contributiva maturata a quel momento, a quella spettante alla data della prima scadenza utile per il pensionamento.
Tra le novità della Legge di Bilancio 2023 in materia di pensioni, c’è il ritorno del cosiddetto bonus Maroni (articolo 1, comma 286).
Si tratta dell’incentivo, previsto inizialmente dalla legge n. 243/2004 per contenere le spese previdenziali, in favore di quei lavoratori che, pur essendo in possesso dei requisiti minimi per andare in pensione, decidono di continuare a lavorare.
Chi opterà per questa possibilità potrà beneficiare di uno stipendio netto comprensivo anche della quota di contributi dovuti all’INPS.
La percentuale rappresenta la contribuzione ai fini pensionistici (IVS – invalidità, vecchiaia e superstiti) a carico del lavoratore e versata dall’azienda all’ente di previdenza, pari al 9,19 per cento.
Nel 2023 i lavoratori possono accedere alla nuova forma di pensione anticipata che sostituisce la vecchia Quota 102. Si tratta di Quota 103, che permette l’uscita dal mercato del lavoro con 62 anni d’età e 41 di contributi.
Pertanto, chi nel corso dell’anno maturerà i requisiti per Quota 103 potrà scegliere di rinunciare al versamento dei contributi IVS. La somma non versata da parte dell’azienda all’ente di previdenza sarà corrisposta interamente al lavoratore.
Non ci sono cambiamenti per i datori di lavoro che continueranno a pagare lo stipendio dello stesso importo, mentre il lavoratore guadagnerà di più, in quanto riceverà l’intera somma destinata alla contribuzione.
Il lavoratore in possesso dei requisiti per la pensione anticipata e che intende continuare l’attività, se sceglie di usufruire del bonus Maroni, potrà beneficiare della decontribuzione in busta paga, accettando però l’importo della pensione maturato fino a quel momento.
Nel momento in cui, poi, il lavoratore andrà in pensione, l’importo della liquidazione sarà pari a quello che sarebbe spettato alla data della prima scadenza utile per il pensionamento, prevista dalla normativa vigente e successiva alla scelta di usufruire del bonus, sulla base dell’anzianità contributiva maturata al tale data.
L’importo del trattamento liquidato, quindi, sarà quello maturato al momento della prima scadenza utile per il pensionamento.
Ad ogni modo non vengono considerati gli adeguamenti delle pensioni per la rivalutazione al costo della vita durante il periodo di posticipo del pensionamento.
Le modalità di attuazione saranno stabilite da un apposito decreto del Ministero del Lavoro e del MEF, atteso entro la fine di gennaio.


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 09/11/2022) 16/01/2023, n. 982

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21204/2021 proposto da:

CERAMICA VIETRI ANTICO Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI, 17, presso lo studio dell’avvocato ORESTE CANTILLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GUGLIELMO CANTILLO;

– ricorrente –

contro

ADER – AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (C.F. (Omissis)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 769/9/2021 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA SEZIONE DISTACCATA di SALERNO, depositata il 27/01/2021;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 09/11/2022 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO DELLI PRISCOLI.

Svolgimento del processo
Rilevato che:

la parte contribuente impugnava una cartella di pagamento di cui la ricorrente assumeva aver appreso conoscenza mediante estratto di ruolo, non essendole stata mai notificata;

la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso della parte contribuente ma la Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello dell’Ufficio affermando che la circostanza (quand’anche esistente, in quanto la parte non ha dedotto alcun elemento di prova circa l’assenza dell’indirizzo dai pubblici elenchi) in virtù della quale l’indirizzo da cui è stata effettuata la notifica non sarebbe presente nel registro INI-PEC non vizia in radice il procedimento notificatorio non inficiando la presunzione di riferibilità della notifica al soggetto da cui essa risulta provenire, testualmente ricavabile dall’indirizzo del mittente.

La parte contribuente proponeva ricorso affidato ad un unico motivo di impugnazione, mentre l’Agenzia delle entrate si costituiva con controricorso.

Motivi della decisione
Considerato che:

con l’unico motivo di impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la parte contribuente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 6, per essere la notifica della cartella di pagamento nulla in quanto spedita non utilizzando l’indirizzo telematico corrispondente al domicilio digitale dell’Agenzia, come presente nei pubblici registri ((Omissis)) ma uno diverso ((Omissis)).

Il motivo di impugnazione è infondato.

Secondo questa Corte, infatti:

in tema di notificazione a mezzo PEC, la notifica del ricorso per cassazione effettuata dalla Procura Generale della Corte dei Conti, utilizzando un indirizzo di posta elettronica istituzionale, rinvenibile sul proprio sito “Internet”, ma non risultante nei pubblici elenchi, non è nulla, ove la stessa abbia consentito, comunque, al destinatario di svolgere compiutamente le proprie difese, senza alcuna incertezza in ordine alla provenienza ed all’oggetto, tenuto conto che la più stringente regola, di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 1, detta un principio generale riferito alle sole notifiche eseguite dagli avvocati, che, ai fini della notifica nei confronti della RA., può essere utilizzato anche l’Indice di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-ter, e che, in ogni caso, una maggiore rigidità formale in tema di notifiche digitali è richiesta per l’individuazione dell’indirizzo del destinatario, cioè del soggetto passivo a cui è associato un onere di tenuta diligente del proprio casellario, ma non anche del mittente: Cass. n. 15979 del 2022);

l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, sancito dall’art. 7 del cd. Statuto del contribuente, deve essere interpretato avendo riguardo ai canoni di leale collaborazione e buona fede, espressi dal successivo art. 10, la cui portata deve essere ricostruita alla luce dei principi di solidarietà economica e sociale e di ragionevolezza sanciti, rispettivamente, dagli artt. 2 e 3 Cost.: ne deriva che sono irrilevanti le violazioni formali che non abbiano arrecato un’effettiva lesione della sfera giuridica del contribuente.(Nella fattispecie, erano dedotti, senza indicare i conseguenti pregiudizi, l’omessa allegazione del processo verbale di contestazione, già in precedenza notificato, all’atto impugnato e la mancata indicazione nello stesso del responsabile del procedimento: Cass. n. 11052 del 2018).

La sentenza impugnata si è conformata ai suddetti principi laddove ha ritenuto valida la notifica proveniente da un indirizzo PEC ((Omissis)) dal quale era chiaramente evincibile il mittente pur se diverso da quello risultante dai pubblici registri ((Omissis)), circostanza questa della diversità degli indirizzi PEC – peraltro neppure provata dalla parte contribuente. Una diversa conclusione sarebbe smaccatamente contraria rispetto ai principi di buona fede, correttezza e solidarietà di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., e art. 2 Cost., tenendo conto che il contribuente non ha addotto alcun motivo in virtù del quale sarebbe stato leso in concreto il diritto di difesa. In effetti, secondo questa Corte, la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione; ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (Cass. n. 26419 del 2020; Cass. n. 29879 del 2021). Nella specie, anche ad accedere alla versione della parte contribuente, quest’ultima non ha mai realmente evidenziato quali pregiudizi sostanziali al diritto di difesa sarebbero dipesi dalla ricezione della notifica della cartella di pagamento non dall’indirizzo telematico corrispondente al domicilio digitale dell’Agenzia, come presente nei pubblici registri ((Omissis)) ma da uno diverso ((Omissis)), relativamente al quale però è evidente ictu oculi la provenienza dall’Agenzia delle Entrate – Riscossioni.

Il ricorso è dunque infondato e la condanna alle spese segue la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.880,00 per compensi, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2023


Messi comunali, il numero dipende dalla posta da consegnare

Qual è il numero giusto di messi comunali per un Comune?

Dipende dal numero di raccomandate da notificare, o di semplice corrispondenza ordinaria da spedire in un anno. Perché sia equo il rapporto tra addetti e numero di invii stimati, vanno rispettate le seguenti proporzioni: 
a)      un addetto ogni 120.000 pezzi di corrispondenza ordinaria da spedire nell’arco dell’anno;
b)      un addetto ogni 30.000 pezzi di raccomandata da spedire nell’arco di un anno;
c)      un addetto ogni 17.143 pezzi di notifiche eseguite a mezzo di messo comunale, da spedire nell’arco di un anno.
E’ quanto ha precisato Anac rispondendo a un grosso Comune capoluogo della Puglia, che aveva posto il quesito.

Prendendo atto dell’esito infruttuoso del ricorso al servizio postale manifestato dal Comune, l’Autorità ha fornito indicazioni valide anche per i servizi di notificazione di atti giudiziari e di ogni altro servizio postale gestito in proprio. Anac specifica inoltre che, nel caso il Comune o l’ente pubblico in questione decida di affidare ad un soggetto terzo di servizi postali la consegna delle raccomandate, tali appalti sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.

“Si tratta – scrive l’Autorità – di servizi in cui l’attività principale è rappresentata dalla distribuzione, il cui costo è composto, in misura assolutamente prevalente, dal costo sostenuto per il personale”. Intervenendo nello specifico del caso sollevato, Anac aggiunge: “Appare pertanto singolare che, nel caso di specie, il costo della manodopera non raggiunga il 50% del valore del contratto”.