Il tramonto della PEC: arriva la REM

La PEC sta per scomparire, sarà sostituita dalla REM – Registered Electronic Mail, la cosiddetta “PEC europea”, riguardo alla quale non è ancora stata definita una data di migrazione per i gestori.

Dopo un lungo ma indispensabile percorso la PEC sta per scomparire ma verrà immediatamente sostituita dalla cosiddetta PEC europea (il termine è comunicativo ma impreciso) che è la REM (Registered Electronic Mail). La posta elettronica certificata rappresenta il sistema storicamente più consolidato nell’ambito del governo elettronico. Nata nel 2005, fino ad oggi è rimasta pressoché identica a quella originale contrariamente alla sottoscrizione digitale che, pur essendo operativa dal 2001 ha subito molti adeguamenti compresi quelli susseguenti al Regolamento 910/2014 comunemente noto come eIDAS.

Nel seguito si descrive perché si è deciso di operare in questo modo, con quali normative e quali regole tecniche.Tutto comincia con il decreto legge n. 135 del 14 dicembre 2018 che ha stabilito che, con un DPCM, sentita l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) e il Garante per la protezione dei dati personali sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità della PEC, normata nel Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) negli articoli 29 e 48, al Regolamento eIDAS. Il medesimo CAD stabilisce che (articolo 1, comma 1-ter) che:

In contemporanea con l’entrata in vigore del citato DPCM, l’articolo 48 del CAD è abrogato e quindi, di conseguenza è abrogata la PEC. Per brevità non commentiamo quanto appena citato sul Regolamento eIDAS.  Il Regolamento eIDAS ha introdotto i Servizi Elettronici di Recapito Certificato (SERC) come servizi fiduciari (trust services). Come tali, questi possono essere qualificati e devono esserlo per soddisfare i requisiti richiesti dal Legislatore italiano.

Lo standard ETSI

L’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) per attuare quanto stabilito nel decreto legge ha attivato un gruppo di lavoro (nel seguito GdL) al quale sono stati invitati tutti i gestori di PEC, l’associazione di riferimento sul tema che è AssoCertificatori e UNINFO. L’obiettivo di AgID era quello di stabilire regole tecniche tali da garantire l’applicazione dei vigenti standard emessi da ETSI con l’obiettivo indispensabile di implementare i requisiti obbligatori di queste specifiche ma anche quelli opzionali. L’obiettivo finale e cruciale era quello di assicurare l’interoperabilità del sistema. Un sistema postale senza interoperabilità è ovviamente inutile. All’interno degli standard ETSI sui SERC il GdL ha correttamente scelto di lavorare sul modello REM basato sui protocolli tradizionali di posta elettronica valutando anche le migliori modalità realizzative per ottenere l’equilibrio tra la consolidata PEC e la REM, al fine di minimizzare il numero di modifiche da attuare per la migrazione.

L’analisi fatta dal GdL sull’allora vigente standard ETSI sull’interoperabilità della REM (EN 532-4) ha evidenziato alcune criticità che hanno reso indispensabile l’aggiornamento dello stesso. In questo senso il GdL ha attivato, con il contributo di UNINFO, il gruppo competente in ETSI (Comitato Tecnico ESI). Il risultato in ETSI è stato quello di definire una base operativa denominata REM Baseline che trattiamo ulteriormente tra breve. ETSI ha anche attivato dei test di interoperabilità (denominati Plugtests) che hanno portato alla necessità di una serie di aggiornamenti atti a eliminare le criticità emerse nei test.

La versione finale della specifica standard EN 319 532-4 è numerata 1.2.1 e datata maggio 2022. La REM baseline è descritta e dettagliatamente definita nella clausola (clause) C.1 dello standard. L’approccio seguito è quello delle garanzie minime da assicurare per la formazione del messaggio, il suo instradamento, la sua integrità, il non disconoscimento e ovviamente, quanto necessario per collocarsi all’interno dell’ecosistema eIDAS come l’interazione con gli elenchi di fiducia (Trusted List) e l’applicazione dei riferimenti temporali (marche temporali).

I risultati di AgID

AgID ha pubblicato due documenti sui risultati del GdL:

  • REM Services – Criteri di adozione standard ETSI – Policy IT
  • Regole tecniche per i servizi di recapito certificato a norma del regolamento eIDAS n. 910/2014 – Criteri di adozione standard ETSI – REM-Policy-IT

I due documenti sono coordinati tra loro. Nel primo al quale è allegato un dettagliato documento tecnico e pratico, si descrivono la soluzione tecnica e l’approccio utilizzato rispetto ad essa. Nel secondo sono stabilite le regole tecniche di dettaglio (AgID non ha utilizzato lo strumento delle Linee Guida) con la descrizione delle politiche specifiche adottate in Italia, rispettose dell’approccio ETSI ma anche orientate alla “compatibilità all’indietro” con la PEC. I requisiti obbligatori sono di ragionevole applicazione per tutte le politiche operative comunitarie. Nella REM Baseline è esplicitamente indicato cosa è incluso e cosa è escluso. È possibile applicare requisiti addizionali ma a ben precise condizioni che evitano di sovrapporsi ad essa; si deve agire “a strati”. Questo meccanismo preserva l’interoperabilità generale e favorisce il colloquio con gli altri sistemi presenti negli Stati membri.

In precedenza si era citato lo standard EN 319 532-4, ma questa specifica deve essere applicata insieme agli altri standard ETSI che sono ben undici (l’elenco è pubblicato nel documento delle regole tecniche a pagina 8). Visto l’aggiornamento dello standard sull’interoperabilità, ETSI ha previsto l’aggiornamento generale delle altre specifiche coinvolte soprattutto al fine di coordinare gli elementi descrittivi e operativi e coordinare il linguaggio adottato. Tutto ciò premesso vediamo la situazione dei SERC qualificati a livello comunitario e cosa devono aspettarsi i milioni di titolari delle caselle di PEC (AgID a giugno 2022 comunica nelle sue statistiche che erano attive 14.414.551 caselle). Consultando il cruscotto eIDAS vediamo che alla data ci sono 35 prestatori di servizi elettronici di recapito certificato (QeRDS – Qualified electronic Registered Delivery Services) è l’acronimo europeo per questo servizio).

Cosa cambia per gli utenti

Molti di questi servizi utilizzano protocolli non postali (web service), al momento nessun prestatore utilizza gli standard ETSI aggiornati ma opera con i protocolli tipici della posta elettronica (SMTP/IMAP e S/MIME) ma anche con tecniche di instant messaging. Naturalmente la disponibilità di un insieme di standard aggiornati alle esigenze di interoperabilità è la base per lo sviluppo del sistema di scambi di messaggistica certificata. Un ottimo modo per applicare questa opportunità può essere l’integrazione dei SERC nei sistemi di gestione delle transazioni digitali (DTM) sempre più diffusi sul mercato.

Per l’utente PEC non ci dovrebbero essere impatti significativi per l’esperienza operativa. L’interfaccia utente dovrebbe rimanere identica, il diverso formato delle ricevute ha impatto sui sistemi di gestione e conservazione delle stesse, ma nulla di complicato. Un problema da gestire è quello dei sistemi di protocollo delle pubbliche amministrazioni, i fornitori non sempre sono tempestivi nelle modifiche. In questo caso dovranno esserlo. Comunque la ricevuta tra gestori è già interoperabile e le ricevute utente possono essere trattate all’inizio come un file che sostituisce un altro file. L’accesso al sistema richiede un doppio fattore di autenticazione per conformità con le norme comunitarie, ma questo vincolo è sempre più necessario per una adeguata sicurezza del sistema.

Da PEC a REM: quando fare la migrazione

Non è ancora ufficialmente definita una data di migrazione dei gestori di PEC. Le regole per la qualifica, in capo ad AgID, sono le stesse già utilizzate per l’emissione di certificati di firma, sigillo e le marche temporali e ovviamente per tutti i servizi fiduciari. Alla data è vigente il regolamento AgID del 23 giugno 2017 che prevede per il candidato alla qualifica un capitale sociale di 5 milioni di euro e non è coordinato con le precedenti e non più applicabili regole di accreditamento per i gestori PEC. Questi ultimi avevano il requisito minimo di un milione di euro.

AgID nell’ambito delle procedure di qualifica dei prestatori del servizio di REM (SERC), qualora intenda mantenere i livelli precedenti di capitale sociale, dovrà aggiornare il regolamento sopra citato.


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 23/11/2022) 22/12/2022, n. 37493

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8541-2021 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (Omissis)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI, 268/A, presso lo studio dell’avvocato VALERIO CIONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO TROMBELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2131/8/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 30/09/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/11/2022 dal Consigliere Relatore Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate ricorre avverso la sentenza della CTR per la Lombardia che ha confermato la pronuncia della CTP di Milano dove erano apprezzate le ragioni della parte contribuente in tema di sottoscrizione digitale e notifica cartacea. Nel particolare, il collegio d’appello ha ritenuto nullo l’avviso di accertamento adottato nel 2016, sottoscritto digitalmente e notificato in forma cartacea, con attestazione di conformità della copia analogica dell’originale informatico ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, commi 1 e 2 bis.

Il ricorso è affidato ad unico motivo cui replica la parte contribuente con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2-bis – Codice dell’Amministrazione digitale, nella sostanza lamentando sia stato annullato un avviso di accertamento formato e sottoscritto digitalmente, ma notificato al contribuente in copia analogica, seppur con annessa dichiarazione di conformità all’originale.

Sul punto è già intervenuta questa Suprema Corte di legittimità affermando che la regola è l’atto informatico, rimanendo eccezione ogni limitazione all’uso dell’informatica. Con particolare riguardo al caso in esame, gli atti impositivi non figurano tra gli atti emessi “nell’esercizio delle attività o funzioni ispettive e di controllo fiscale”, trattandosi di atti ad essi successivi (cfr. Cass. V, n. 1555/2021). Peraltro, “nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta” (ancora n. 1555/2021, cit.).

Più in particolare, la notificazione della copia analogica di un atto impositivo è legittima se la sua conformità all’originale informatico è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, poichè tale attestazione è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto, conferendogli un valore probatorio equiparato all’originale informatico; viceversa, l’avviso di accertamento, notificato in formato cartaceo, contente la sola indicazione “firmato digitalmente” in corrispondenza del nominativo del funzionario, ma privo dell’attestazione di conformità, è nullo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, in quanto privo di sottoscrizione (cfr. Cass. VI – 5, n. 24681/2022).

Pertanto, il ricorso è fondato e merita accoglimento.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado per la Lombardia, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 18/10/2022) 16/12/2022, n. 36894

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3908-2021 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (Omissis), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

MAXIMILIANKAUTOMOBILI Srl IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1450/16/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA, depositata il 02/07/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/10/2022 dal Consigliere Relatore Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate ricorre avverso la sentenza della CTR per la Lombardia che ha confermato la pronuncia della CTP di Milano, ove sono state accolte le ragioni della parte contribuente in tema di firma digitale. Più in particolare, entrambi i collegi di merito rilevavano il vizio di sottoscrizione dell’atto impositivo, privo di autografo, ma indicato come copia conforme ad originale informatico sottoscritto digitalmente ed archiviato su supporto parimenti digitale di conservazione.

Il ricorso è affidato ad unico motivo, mentre è rimasta intimata la parte contribuente.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 2 e 23 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56. Più in particolare, il patrono erariale censura l’interpretazione degli articoli precitati che ritiene inapplicabili le disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale e della relativa sottoscrizione “all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e controllo fiscale”, intendendo con ciò anche gli atti impositivi e non solo quelli prodromici di ispezione e controllo.

Sul punto è intervenuta questa Corte, affermando che la citata disposizione limitativa riguarda solo le attività di controllo, ma non quelle di accertamento ovvero l’atto impositivo. Ed infatti, rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza. Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni. Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti. Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

Correttamente la rado dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi (cfr. Cass. V, n. 1557/2021).

L’orientamento ha trovato continuità, affermandosi che l’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6, (“ratione temporis” vigente dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi (cfr. Cass. VI-5, n. 32692/2021).

Pertanto, il ricorso è fondato e merita accoglimento.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado per la Regione Lombardia in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2022


Il Garante per la protezione dei dati personali; provvedimento n. 419 del 15.12.2022

Leggi: garante-privacy-provvedimento-419-2022 pdf


BUONE FESTE!!!


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 13/10/2022) 29/11/2022, n. 35022

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22607/2019 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in Roma Via Filippo Corridoni 19 presso lo studio dell’avvocato De Francesco Giandomenico, che si rappresenta e difende in proprio;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliato in Roma, Via della Scrofa 47 presso lo studio dell’avvocato Lucio Anelli, che lo rappresenta e difende unitamente gli avvocati Michael Longo e Gianluca Tessier;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2117/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 23/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/10/2022 dal cons. Lina RUBINO.

Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c. l’avv. A.A. convenne in giudizio il sig. B.B. in qualità di liquidatore della società Jesoloestate Srl , per sentirlo condannare al risarcimento del danno ex art. 2941 c.c., (rectius, art. 2491), u.c., in ragione del credito vantato dall’attore nei confronti della società in liquidazione.

2. Espose l’attore di essere creditore della società in liquidazione per la somma di Euro 26.599,78 e di aver inutilmente esperito l’azione esecutiva presso terzi; agì, pertanto, per l’accertamento della responsabilità personale del liquidatore per aver provveduto allo scioglimento e alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese senza aver preventivamente provveduto al pagamento del credito del A.A., avendogli reso in tal modo impossibile il recupero del credito dalla società estinta.

3. Il convenuto rimase contumace.

4. Il Tribunale di Venezia, in accoglimento della domanda attorea, accertò con la sentenza n. 567/2017 la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2495 c.c. in relazione all’art. 2491 c.c., u.c., ritenendo che il liquidatore, già socio e amministratore unico della società debitrice, non potesse non essere a conoscenza dell’esposizione debitoria della società verso l’attore al momento della richiesta della cancellazione dal Registro delle Imprese. Per l’effetto, condannò il sig. B.B. al pagamento della somma di Euro 26.599,78 oltre interessi legali ed al rimborso delle spese di lite.

5.Avverso tale decisione ha proposto appello l’B.B., deducendo preliminarmente la nullità della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado nonchè della sentenza di primo grado e, nel merito, l’assenza di responsabilità in capo al liquidatore medesimo con riferimento alla cancellazione della società debitrice dal registro delle imprese.

6.La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 2117/2019, pubblicata il 23.5.2019, notificata il 30.5.2019, qui impugnata, ha dichiarato la nullità della notificazione della sentenza n. 567/2017 munita della formula esecutiva e del contestuale atto di precetto, nonchè della notifica dell’atto di citazione di primo grado e degli atti conseguenti. Per l’effetto, ha rimesso la causa avanti al Tribunale di Venezia.

7.L’avv. A.A. propone ricorso per cassazione notificato il 24 luglio 2019, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso illustrato da memoria il sig. B.B.. La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. Il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
1.Preliminarmente, il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero per mancanza della sommaria esposizione dei fatti di causa, segnalando che il ricorrente non ne elabora una propria, autonoma ricostruzione, ma si limita a riportare testualmente la parte di esposizione dedicata al fatto contenuta nella sentenza di appello.

2. Il controricorrente eccepisce inoltre, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, per omessa indicazione degli atti e dei documenti su cui si fonda il ricorso.

3. Con il primo motivo di ricorso, prospettando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 143 c.p.c., il ricorrente censura la gravata decisione nella parte in cui ha ritenuto non rispettose dei precetti normativi tanto la notificazione ex art. 143 c.p.c. della sentenza di primo grado in forma esecutiva e dell’atto di precetto, quanto la notificazione, anch’ essa eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado. Sottolinea, in particolare, l’adeguatezza delle ricerche svolte al fine di reperire le informazioni relative alla residenza, al domicilio ed alla dimora del convenuto, avuto riguardo al criterio dell’ordinaria diligenza richiesta al notificante valutata in relazione ai parametri di normalità e buona fede di cui all’art. 1147 c.c., avendo richiesto, e poi fornito all’ufficiale giudiziario, il certificato di residenza dell’B.B., indicante la sua ultima residenza conosciuta, ed avendo l’ufficiale giudiziario ivi tentato la notifica, non giunta a buon fine in quanto il destinatario risultava trasferito, nonchè acquisito informazioni dai vicini, delle quali aveva verbalizzato l’esito negativo, in ordine al luogo di trasferimento del destinatario (v. pag. 12 del ricorso), e solo dopo il compimento di tali adempimenti avendo provveduto ad eseguire la notifica ex art. 143 c.p.c..

Precisa, altresì, che il rapporto professionale pregresso tra le parti, cessato molti anni addietro, non può essere considerato indice della possibilità di effettuare ricerche maggiormente accurate atteso il lungo periodo intercorso tra la cessazione del rapporto professionale e l’avvio del procedimento.

Evidenzia, parimenti, che il fatto che il ricorrente avesse proceduto a costituire in pegno le quote sociali della società di cui il resistente risultava amministratore unico ed unico socio e che quest’ultimo avesse attivato il servizio “seguimi” di Poste Italiane a nulla rileva ai fini della corretta individuazione della sua effettiva dimora o domicilio.

4. Con il secondo motivo, prospettando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 326 e 327 c.p.c., il ricorrente si duole della tardività dell’appello, notificato in data 25.9.2017, a fronte della notifica della sentenza di primo grado avvenuta ex art. 143 c.p.c. il 30.5.2017, oltre il termine breve di impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c. ed in ogni caso, oltre il termine lungo di sei mesi di cui all’art. 327 c.p.c., erroneamente indicato in un anno dalla Corte di Appello di Venezia.

5. Il rilievo relativo alla violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, per omissione della sommaria esposizione dei fatti di causa, è infondato.

Non può ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione che, in luogo di formulare una autonoma ricostruzione dei fatti di causa, ai fini della sommaria esposizione di essi, riproduca l’esposizione in fatto contenuta nella sentenza d’appello laddove, come nella specie, essa sia funzionale all’uso cui la esposizione sommaria è destinata, ovvero se la predetta esposizione dei fatti non è sovrabbondante ed è sufficientemente chiara allo scopo di ricostruire la vicenda processuale.

6.Il rilevo preliminare denunciante l’omessa indicazione degli atti e documenti su cui si fonda il ricorso e della loro collocazione, deve ritenersi privo di pregnanza, per le ragioni che seguono.

Il primo motivo di ricorso è volto in principalità a censurare la decisione della corte territoriale in ordine alla tempestività dell’appello, in quanto l’appello proposto è stato ritenuto tempestivo sul presupposto che la notifica della sentenza di primo grado fosse invalida.

L’esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata, riprodotta – legittimamente, come si è detto – nel ricorso, consente di esaminare il motivo senza aver bisogno di esaminare la relata di notifica della sentenza unitamente al precetto, in quanto dalla testuale riproduzione della esposizione in fatto del provvedimento impugnato emerge che la prospettazione della nullità sia della notificazione della citazione sia della nullità della notificazione della sentenza di primo grado era stata fatta dalla parte qui resistente adducendo che “le minimali informazioni assunte dall’Ufficiale giudiziario all’atto delle notifiche ex art. 143 c.p.c. non appaiono soddisfare il criterio di normale diligenza alla luce, etc.”.

La corte d’appello ha dunque giudicato sulla base di una prospettazione in fatto che presupponeva l’avvenuta notifica della sentenza (ed anche della citazione: questione, peraltro, che la sentenza esamina negli stessi termini solo a pag. 14, per rilevare la nullità della notificazione della citazione) ai sensi dell’art. 143 c.p.c., sulla base di informazioni assunte dall’Ufficiale Giudiziario, sebbene prospettate come “minimali”. Quella corte ha dunque giudicato della validità delle notifiche effettuate ai sensi dell’art. 143 c.p.c. in una situazione in cui l’Ufficiale Giudiziario si era recato nella località di ultima residenza del destinatario, aveva tentato la notifica, aveva riscontrato che il destinatario non abitava più sul posto ed aveva effettuato delle ricerche in loco, per appurare il luogo di trasferimento. Aveva dunque svolto adeguatamente il suo compito, nè la notifica, successivamente effettuata ex art. 143 c.p.c. poteva ritenersi invalida.

Il primo motivo è fondato, non avendo la corte di merito fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale “Il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la invalidità di una notificazione ex art. 143 c.p.c. la cui relata recava la mera indicazione di “vane ricerche eseguite sul posto” dall’ufficiale giudiziario, senza la specificazione delle concrete attività a tal fine compiute)” (Cass. n. 40467 del 2021).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638 del 2017). Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107 del 2016), il che val quanto dire, come affermato da Cass. n. 18385 del 2003, che “l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.

La notifica della sentenza di primo grado doveva ritenersi regolarmente eseguita, alla luce dei principi che precedono. Il primo motivo che in realtà si occupa solo della notifica della sentenza quanto alla motivazione anche critica è pertanto fondato.

Dall’accoglimento del primo motivo discende l’assorbimento del secondo, nonchè ai sensi dell’art. 382 c.p.c., la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, in quanto l’appello, notificato in data 25.9.2017 avverso la sentenza notificata in data 30 maggio 2017, era tardivo, essendo stato notificato ampiamente oltre il termine breve di trenta giorni fissato dall’art. 325 c.p.c..

Le spese di lite, del giudizio di legittimità e del giudizio di appello, seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata.

Pone le spese di lite a carico del controricorrente e le liquida, quanto al giudizio di appello, in Euro 3.000,00 oltre 200,00 per esborsi, e quanto al giudizio di legittimità in Euro 4.200,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali, iva ed accessori.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 13 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2022


Notifica tardiva del verbale: l’indirizzo errato al PRA non giustifica la PA

ll GdP di Alessandria accoglie il ricorso del contravventore perché il verbale gli è stato notificato oltre il termine di 90 giorni, non si può giustificare la PA che adduce a sua giustificazione l’indirizzo errato al PRA.
Non è certo colpa della ricorrente a cui è stata contestata la violazione del superamento del semaforo rosso, se la PA ha tardato nel notificargli il verbale. Il cambio di residenza è stato comunicato regolarmente dalla stessa al PRA, per cui il ritardo è da imputare solo alla Pubblica Amministrazione.
Questo quanto sancito dal Giudice di Pace di Alessandria nella sentenza n. 478/2022 (sotto riportata) che ha accolto il ricorso intrapreso dalla ricorrente.
Spetta alla PA attivarsi per verificare l’indirizzo di notifica
La conducente di un autoveicolo ricorre contro il verbale con il quale le è stata contestata la violazione dell’art. 146 comma 3 CdS, per essere passata nonostante il semaforo rosso. Violazione accertata tramite apparecchiatura elettronica.
Nel ricorso la donna contesta in via preliminare la tardività della notifica.
Il Giudice di Pace accoglie il ricorso in quanto lo stesso è stato portato alla notifica oltre il termine dei 90 giorni previsto dall’art. 201 del Codice della Strada a pena di decadenza.
Non regge la giustificazione addotta dalla PA, ossia che al PRA l’indirizzo a cui notificare il verbale risultasse errato.
La ricorrente ha infatti dimostrato, producendo il certificato storico di residenza, che la stessa ha provveduto a comunicare la variazione anagrafica in data 15.03.2021, per cui il ritardo nella trasmissione del cambio della residenza al PRA è attribuibile alla Pubblica Amministrazione.

Leggi: Giudice di Pace n. 478-2022 Alessandria


Sottoscritto il testo definitivo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Funzioni locali per il triennio 2019-2021

Il 16 novembre è stato sottoscritto in via definitiva il contratto per gli oltre 430.000 dipendenti degli Enti Locali, relativo al triennio 2019-2021.

Già dal prossimo mese di dicembre i lavoratori e le lavoratrici riceveranno in busta paga gli arretrati relativi agli incrementi salariali decorrenti dall’1-1-2019, pari complessivamente a circa il 5%, di cui il 3,78% sul tabellare.

Oltre all’aumento salariale, i punti salienti del rinnovo si possono identificare nel rafforzamento delle relazioni sindacali, nel miglioramento di alcuni istituti relativi ai congedi, nella disciplina del lavoro agile e da remoto e, soprattutto, nella riforma dell’ordinamento professionale e nel nuovo sistema di classificazione; di rilievo è anche l’introduzione dei differenziali stipendiali, in sostituzione del vecchio sistema delle fasce economiche all’interno delle categorie; per l’Area degli Operatori Esperti (già Cat. B) tali differenziali sono in numero massimo di 5 per un valore di € 650 ciascuno. Per i messi comunali e notificatori, prevalentemente ancora inquadrati in categoria B, il nuovo sistema di classificazione riveste particolare interesse: aldilà della trasposizione automatica dalla cat. B (1 e 3) all’area degli operatori esperti, per il personale in servizio c’è il vantaggio di poter accedere ai differenziali economici mantenendo la differenza retributiva di maggior favore già acquisita, cui andranno a sommarsi le quote di salario (differenziali) derivanti dalle successive progressioni economiche.

Da sottolineare anche le modifiche al sistema di accesso: per l’area degli operatori esperti è richiesto il possesso di un titolo (ad esempio una specifica qualificazione professionale) superiore a quello oggi previsto per l’accesso alla cat. B che è la scuola dell’obbligo; così pure il passaggio dall’area degli Operatori Esperti a quella degli Istruttori (ex cat. C) potrà avvenire, oltre che col possesso del titolo di scuola superiore di 2° grado e 5 anni di esperienza, con l’assolvimento dell’obbligo scolastico e una esperienza di almeno 8 anni nella categoria/area inferiore. In sede di contrattazione aziendale, compatibilmente con le risorse a tal fine destinate, saranno stabilite col confronto le modalità e le percentuali dei passaggi. Le graduatorie per l’accesso all’area superiore saranno formulate tenendo conto del titolo di studio, dell’esperienza maturata nell’area di provenienza e delle competenze professionali acquisite nei contesti lavorativi e mediante percorsi formativi.

Il nostro auspicio è che, in sede di confronto, le delegazioni sindacali svolgano un’adeguata azione nei confronti delle controparti, affinché le amministrazioni comunali riconoscano che la figura dell’agente notificatore, a seguito della evoluzione anche relativa alle nuove tecnologie, possa essere definitivamente collocata, nelle rispettive dotazioni organiche, nell’ Area degli Istruttori, posto anche il venir meno della declaratoria ex d.p.r. 347/83 che, inserendo il messo comunale nella esemplificazione degli appartenenti alla IV^ q.f., aveva in qualche modo limitato la scelta nell’inquadramento di tale profilo professionale.

Leggi: CCNL Comparto Funzioni Locali 2019-2021 – 16.11.2022


Riunione del Consiglio Generale del 17.12.2022

Ai sensi dell’art. 15 dello Statuto, viene convocata la riunione Consiglio Generale che si svolgerà sabato 17 dicembre 2022 in modalità webinar alle ore 8:30 in prima convocazione, e alle ore 10:30 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2022/2023;
  2. Attività formativa 2022/2023;
  3. Attività amministrativa;
  4. Piattaforma Nazionale delle notifiche;
  5. Varie ed eventuali.

Le modalità di accesso alla riunione verranno comunicate tramite mail 3 giorni prima dell’evento.
Leggi: Documentazione Riunione on line del GE e CG 17 12 2022
Leggi: CG 17 12 2022 Verbale


Cabina regia riunione


Art. 213 Misura cautelare del sequestro e sanzione accessoria della confisca amministrativa

Decreto legislativo 30/04/1992, n. 285
Nuovo codice della strada.
Pubblicato nella Gazz. Uff. 18 maggio 1992, n. 114, S.O.

Art. 213 Misura cautelare del sequestro e sanzione accessoria della confisca amministrativa 1414

In vigore dal 10 novembre 2021

  1. Nell’ipotesi in cui il presente codice prevede la sanzione accessoria della confisca amministrativa, l’organo di polizia che accerta la violazione provvede al sequestro del veicolo o delle altre cose oggetto della violazione facendone menzione nel verbale di contestazione della violazione.
  2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, il proprietario o, in caso di sua assenza, il conducente del veicolo o altro soggetto obbligato in solido, è sempre nominato custode con l’obbligo di depositare il veicolo in un luogo di cui abbia la disponibilità o di custodirlo, a proprie spese, in un luogo non sottoposto a pubblico passaggio, provvedendo al trasporto in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale. Il documento di circolazione è trattenuto presso l’ufficio di appartenenza dell’organo di polizia che ha accertato la violazione. Il veicolo deve recare segnalazione visibile dello stato di sequestro con le modalità stabilite nel regolamento. Di ciò è fatta menzione nel verbale di contestazione della violazione.
  3. Nelle ipotesi di cui al comma 5, qualora il soggetto che ha eseguito il sequestro non appartenga ad una delle Forze di polizia di cui all’articolo 16 della legge 1° aprile 1981, n. 121, le spese di custodia sono anticipate dall’amministrazione di appartenenza. La liquidazione delle somme dovute alla depositeria spetta alla prefettura-ufficio territoriale del Governo. Divenuto definitivo il provvedimento di confisca, la liquidazione degli importi spetta all’Agenzia del demanio, a decorrere dalla data di ricezione del provvedimento adottato dal prefetto.1417
  4. È sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui questo sia stato adoperato per commettere un reato, diverso da quelli previsti nel presente codice, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne.
  5. All’autore della violazione o ad uno dei soggetti con il medesimo solidalmente obbligati che rifiutino ovvero omettano di trasportare o custodire, a proprie spese, il veicolo, secondo le prescrizioni fornite dall’organo di polizia, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.8141416 ad euro 7.2611416, nonché la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi. In caso di violazione commessa da minorenne, il veicolo è affidato in custodia ai genitori o a chi ne fa le veci o a persona maggiorenne appositamente delegata, previo pagamento delle spese di trasporto e custodia. Quando i soggetti sopra indicati si rifiutino di assumere la custodia del veicolo o non siano comunque in grado di assumerla, l’organo di polizia dispone l’immediata rimozione del veicolo e il suo trasporto presso uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis. Di ciò è fatta menzione nel verbale di contestazione della violazione. Il veicolo è trasferito in proprietà al soggetto a cui è consegnato, senza oneri per l’erario, quando, decorsi cinque giorni dalla comunicazione di cui al periodo seguente, l’avente diritto non ne abbia assunto la custodia, pagando i relativi oneri di recupero e trasporto. Del deposito del veicolo è data comunicazione mediante pubblicazione nel sito internet istituzionale della prefettura-ufficio territoriale del Governo competente; la medesima comunicazione reca altresì l’avviso che, se l’avente diritto non assumerà la custodia del veicolo nei successivi cinque giorni, previo pagamento dei relativi oneri di recupero e custodia, il veicolo sarà alienato anche ai soli fini della sua rottamazione. La somma ricavata dall’alienazione è depositata, sino alla definizione del procedimento in relazione al quale è stato disposto il sequestro, in un autonomo conto fruttifero presso la tesoreria dello Stato. In caso di confisca, questa ha ad oggetto la somma depositata; in ogni altro caso la medesima somma è restituita all’avente diritto. Nel caso di veicoli sequestrati in assenza dell’autore della violazione, per i quali non sia stato possibile rintracciare contestualmente il proprietario o altro obbligato in solido, e affidati a uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis, il verbale di contestazione, unitamente a quello di sequestro recante l’avviso ad assumerne la custodia, è notificato senza ritardo dall’organo di polizia che ha eseguito il sequestro. Contestualmente, il medesimo organo di polizia provvede altresì a dare comunicazione del deposito del veicolo presso il soggetto di cui all’articolo 214-bis mediante pubblicazione di apposito avviso nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione. Qualora, per comprovate difficoltà oggettive, non sia stato possibile eseguire la notifica e il veicolo risulti ancora affidato a uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis, la notifica si ha per eseguita nel trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione della comunicazione di deposito del veicolo nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione.1418
  6. Fuori dei casi indicati al comma 5, entro i trenta giorni successivi alla data in cui, esauriti i ricorsi anche giurisdizionali proposti dall’interessato o decorsi inutilmente i termini per la loro proposizione, è divenuto definitivo il provvedimento di confisca, il custode del veicolo trasferisce il mezzo, a proprie spese e in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale, presso il luogo individuato dal prefetto ai sensi delle disposizioni dell’articolo 214-bis. Decorso inutilmente il suddetto termine, il trasferimento del veicolo è effettuato a cura dell’organo accertatore e a spese del custode, fatta salva l’eventuale denuncia di quest’ultimo all’autorità giudiziaria qualora si configurino a suo carico estremi di reato. Le cose confiscate sono contrassegnate dal sigillo dell’ufficio cui appartiene il pubblico ufficiale che ha proceduto al sequestro. Con decreto dirigenziale, di concerto fra il Ministero dell’interno e l’Agenzia del demanio, sono stabilite le modalità di comunicazione, tra gli uffici interessati, dei dati necessari all’espletamento delle procedure di cui al presente articolo.
  7. Avverso il provvedimento di sequestro è ammesso ricorso al prefetto ai sensi dell’articolo 203. Nel caso di rigetto del ricorso, il sequestro è confermato. La declaratoria di infondatezza dell’accertamento si estende alla misura cautelare ed importa il dissequestro del veicolo ovvero, nei casi indicati al comma 5, la restituzione della somma ricavata dall’alienazione. Quando ne ricorrono i presupposti, il prefetto dispone la confisca con l’ordinanza ingiunzione di cui all’articolo 204, ovvero con distinta ordinanza, stabilendo, in ogni caso, le necessarie prescrizioni relative alla sanzione accessoria. Il prefetto dispone la confisca del veicolo ovvero, nel caso in cui questo sia stato alienato, della somma ricavata. Il provvedimento di confisca costituisce titolo esecutivo anche per il recupero delle spese di trasporto e di custodia del veicolo.1419
  8. Il soggetto che ha assunto la custodia il quale, durante il periodo in cui il veicolo è sottoposto al sequestro, circola abusivamente con il veicolo stesso o consente che altri vi circolino abusivamente è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.9841416 ad euro 7.9371416. Si applica la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente. L’organo di polizia dispone l’immediata rimozione del veicolo e il suo trasporto presso uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis. Il veicolo è trasferito in proprietà al soggetto a cui è consegnato, senza oneri per l’erario. 1421
  9. La sanzione stabilita nel comma 1 non si applica se il veicolo appartiene a persone estranee alla violazione amministrativa.
  10. Il provvedimento con il quale è stata disposta la confisca del veicolo è comunicato dal prefetto all’ufficio competente del Dipartimento per i trasporti, la navigazione, gli affari generali e del personale per l’annotazione al P.R.A.1415

10-bis. Il provvedimento con il quale è disposto il sequestro del veicolo è comunicato dall’organo di polizia procedente ai competenti uffici del Dipartimento per la mobilità sostenibile di cui al comma 10 per l’annotazione al PRA. In caso di dissequestro, il medesimo organo di polizia provvede alla comunicazione per la cancellazione dell’annotazione nell’Archivio nazionale dei veicoli e al PRA.1420

________

1414Articolo modificato dall’art. 112, comma 1, lett. a), D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 360, a decorrere dal 1° ottobre 1993, dall’art. 19, comma 5, D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, dall’art. 1, D.M. 24 dicembre 2002, a decorrere dal 1° gennaio 2003, dall’art. 38, comma 1, lett. a), nn. 1), 2), 3) e 4), D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, dall’art. 1, D.M. 22 dicembre 2004, dall’art. 195, comma 3-bis del presente codice, a decorrere dal 1° gennaio 2005, dall’art. 5-bis, comma 1, lett. c), nn. 1) e 2), D.L. 30 giugno 2005, n. 115, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 agosto 2005, n. 168, dall’art. 2, comma 169, D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2006, n. 286, dall’art. 1, comma 1, D.M. 29 dicembre 2006, a decorrere dal 1° gennaio 2007, dall’art. 1, comma 1, D.M. 17 dicembre 2008, a decorrere dal 1° gennaio 2009, dall’art. 1, comma 1, D.M. 22 dicembre 2010, a decorrere dal 1° gennaio 2011, dall’art. 1, comma 1, D.M. 19 dicembre 2012, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall’art. 1, comma 1, D.M. 16 dicembre 2014, a decorrere dal 1° gennaio 2015, e dall’art. 1, comma 1, D.M. 20 dicembre 2016, a decorrere dal 1° gennaio 2017. Successivamente, il presente articolo è stato così sostituito dall’art. 23-bis, comma 1, lett. a), D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla L. 1° dicembre 2018, n. 132.

1415Comma così modificato dall’art. 5, comma 1, lett. i), D.Lgs. 29 maggio 2017, n. 98, a decorrere dal 1° gennaio 2020 ai sensi di quanto disposto dall’art. 7, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 98/2017, come modificato dall’art. 1, comma 1140, lett. b), L. 27 dicembre 2017, n. 205 e dall’art. 1, comma 1135, lett. b), n. 2), L. 30 dicembre 2018, n. 145.

1416Importo escluso dall’adeguamento previsto dall’art. 1, comma 1, D.M. 27 dicembre 2018, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del medesimo D.M. 27 dicembre 2018. Successivamente, il presente importo è stato così aggiornato dall’art. 1, comma 1, D.M. 31 dicembre 2020, a decorrere dal 1° gennaio 2021.

1417Comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lett. g-quinquies), n. 1), D.L. 10 settembre 2021, n. 121, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 novembre 2021, n. 156.

1418Comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lett. g-quinquies), nn. 2.1) e 2.2), D.L. 10 settembre 2021, n. 121, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 novembre 2021, n. 156.

1419Comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lett. g-quinquies), n. 3), D.L. 10 settembre 2021, n. 121, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 novembre 2021, n. 156.

1420Comma aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. g-quinquies), n. 4), D.L. 10 settembre 2021, n. 121, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 novembre 2021, n. 156.

1421La Corte costituzionale, con ordinanza 24 giugno – 20 luglio 2021, n. 159 (Gazz. Uff. 21 luglio 2021, n. 29, 1ª Serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 213, comma 8, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione.


Nuovo art. 213 del c.d.s.

Circolare A.N.N.A. 2022-003
Codice della strada –
Art. 213

Misura cautelare del sequestro e sanzione accessoria della confisca amministrativa

Nel 2003 è stato modificato l’art. 213 del Codice della Strada con l’introduzione del comma 2 quater, sollevando molte perplessità tra gli addetti di Polizia Stradale e tra coloro che dovevano notificare gli atti relativi, ovvero disporre la pubblicazione di quanto inviavano gli organi di polizia ai Comuni.

Prendiamo atto che nel dicembre 2018 tali modifiche sono state abrogate dal D.L. n. 113 del 04/10/2018 (il c.d. decreto sicurezza 1), convertito con modificazioni dalla L. n. 132 dell’01/12/2018, n. 132.

Per alcuni anni non è esistita più una norma che prevedesse la pubblicazione di qualsivoglia tipologia di documento all’Albo on Line del Comune sede della depositeria che “ospitava” il veicolo sequestrato.

Nella nuova formulazione introdotta dal D.L. 10.9.2021, convertito in L. 9.11.2021, n. 156 si prevede:

  1. Nell’ipotesi in cui il presente codice prevede la sanzione accessoria della confisca amministrativa, l’organo di polizia che accerta la violazione provvede al sequestro del veicolo o delle altre cose oggetto della violazione facendone menzione nel verbale di contestazione della violazione.
  2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, il proprietario o, in caso di sua assenza, il conducente del veicolo o altro soggetto obbligato in solido, è sempre nominato custode con l’obbligo di depositare il veicolo in un luogo di cui abbia la disponibilità o di custodirlo, a proprie spese, in un luogo non sottoposto a pubblico passaggio, provvedendo al trasporto in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale. Il documento di circolazione è trattenuto presso l’ufficio di appartenenza dell’organo di polizia che ha accertato la violazione. Il veicolo deve recare segnalazione visibile dello stato di sequestro con le modalità stabilite nel regolamento. Di ciò è fatta menzione nel verbale di contestazione della violazione.
  3. Nelle ipotesi di cui al comma 5, qualora il soggetto che ha eseguito il sequestro non appartenga ad una delle Forze di polizia di cui all’articolo 16 della legge 1° aprile 1981, n. 121, le spese di custodia sono anticipate dall’amministrazione di appartenenza. La liquidazione delle somme dovute alla depositeria spetta alla prefettura-ufficio territoriale del Governo. Divenuto definitivo il provvedimento di confisca, la liquidazione degli importi spetta all’Agenzia del demanio, a decorrere dalla data di ricezione del provvedimento adottato dal prefetto.
  4. È sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui questo sia stato adoperato per commettere un reato, diverso da quelli previsti nel presente codice, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne.
  5. All’autore della violazione o ad uno dei soggetti con il medesimo solidalmente obbligati che rifiutino ovvero omettano di trasportare o custodire, a proprie spese, il veicolo, secondo le prescrizioni fornite dall’organo di polizia, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.814 a euro 7.261, nonché la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi. In caso di violazione commessa da minorenne, il veicolo è affidato in custodia ai genitori o a chi ne fa le veci o a persona maggiorenne appositamente delegata, previo pagamento delle spese di trasporto e custodia. Quando i soggetti sopra indicati si rifiutino di assumere la custodia del veicolo o non siano comunque in grado di assumerla, l’organo di polizia dispone l’immediata rimozione del veicolo e il suo trasporto presso uno dei soggetti di cui all’articolo 214 bis. Di ciò è fatta menzione nel verbale di contestazione della violazione. Il veicolo è trasferito in proprietà al soggetto a cui è consegnato, senza oneri per l’erario, quando, decorsi cinque giorni dalla comunicazione di cui al periodo seguente, l’avente diritto non ne abbia assunto la custodia, pagando i relativi oneri di recupero e trasporto. Del deposito del veicolo è data comunicazione mediante pubblicazione nel sito internet istituzionale della prefettura-ufficio territoriale del Governo competente; la medesima comunicazione reca altresì l’avviso che, se l’avente diritto non assumerà la custodia del veicolo nei successivi cinque giorni, previo pagamento dei relativi oneri di recupero e custodia, il veicolo sarà alienato anche ai soli fini della sua rottamazione. La somma ricavata dall’alienazione è depositata, sino alla definizione del procedimento in relazione al quale è stato disposto il sequestro, in un autonomo conto fruttifero presso la tesoreria dello Stato. In caso di confisca, questa ha ad oggetto la somma depositata; in ogni altro caso la medesima somma è restituita all’avente diritto. Nel caso di veicoli sequestrati in assenza dell’autore della violazione, per i quali non sia stato possibile rintracciare contestualmente il proprietario o altro obbligato in solido, e affidati a uno dei soggetti di cui all’articolo 214 bis, il verbale di contestazione, unitamente a quello di sequestro recante l’avviso ad assumerne la custodia, è notificato senza ritardo dall’organo di polizia che ha eseguito il sequestro. Contestualmente, il medesimo organo di polizia provvede altresì a dare comunicazione del deposito del veicolo presso il soggetto di cui all’articolo 214 bis mediante pubblicazione di apposito avviso nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione. Qualora, per comprovate difficoltà oggettive, non sia stato possibile eseguire la notifica e il veicolo risulti ancora affidato a uno dei soggetti di cui all’articolo 214 bis, la notifica si ha per eseguita nel trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione della comunicazione di deposito del veicolo nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione.
  6. Fuori dei casi indicati al comma 5, entro i trenta giorni successivi alla data in cui, esauriti i ricorsi anche giurisdizionali proposti dall’interessato o decorsi inutilmente i termini per la loro proposizione, è divenuto definitivo il provvedimento di confisca, il custode del veicolo trasferisce il mezzo, a proprie spese e in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale, presso il luogo individuato dal prefetto ai sensi delle disposizioni dell’articolo 214 bis. Decorso inutilmente il suddetto termine, il trasferimento del veicolo è effettuato a cura dell’organo accertatore e a spese del custode, fatta salva l’eventuale denuncia di quest’ultimo all’autorità giudiziaria qualora si configurino a suo carico estremi di reato. Le cose confiscate sono contrassegnate dal sigillo dell’ufficio cui appartiene il pubblico ufficiale che ha proceduto al sequestro. Con decreto dirigenziale, di concerto fra il Ministero dell’interno e l’Agenzia del demanio, sono stabilite le modalità di comunicazione, tra gli uffici interessati, dei dati necessari all’espletamento delle procedure di cui al presente articolo.
  7. Avverso il provvedimento di sequestro è ammesso ricorso al prefetto ai sensi dell’articolo 203. Nel caso di rigetto del ricorso, il sequestro è confermato. La declaratoria di infondatezza dell’accertamento si estende alla misura cautelare ed importa il dissequestro del veicolo ovvero, nei casi indicati al comma 5, la restituzione della somma ricavata dall’alienazione. Quando ne ricorrono i presupposti, il prefetto dispone la confisca con l’ordinanza ingiunzione di cui all’articolo 204, ovvero con distinta ordinanza, stabilendo, in ogni caso, le necessarie prescrizioni relative alla sanzione accessoria. Il prefetto dispone la confisca del veicolo ovvero, nel caso in cui questo sia stato alienato, della somma ricavata. Il provvedimento di confisca costituisce titolo esecutivo anche per il recupero delle spese di trasporto e di custodia del veicolo.
  8. Il soggetto che ha assunto la custodia il quale, durante il periodo in cui il veicolo è sottoposto al sequestro, circola abusivamente con il veicolo stesso o consente che altri vi circolino abusivamente è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.984 a euro 7.937. Si applica la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente. L’organo di polizia dispone l’immediata rimozione del veicolo e il suo trasporto presso uno dei soggetti di cui all’articolo 214 bis. Il veicolo è trasferito in proprietà al soggetto a cui è consegnato, senza oneri per l’erario.
  9. La sanzione stabilita nel comma 1 non si applica se il veicolo appartiene a persone estranee alla violazione amministrativa.
  10. Il provvedimento con il quale è stata disposta la confisca del veicolo è comunicato dal prefetto al P.R.A. per l’annotazione nei propri registri.

10-bis. Il provvedimento con il quale è disposto il sequestro del veicolo è comunicato dall’organo di polizia procedente ai competenti uffici del Dipartimento per la mobilità sostenibile di cui al comma 10 per l’annotazione al PRA. In caso di dissequestro, il medesimo organo di polizia provvede alla comunicazione per la cancellazione dell’annotazione nell’Archivio nazionale dei veicoli e al PRA.

Pertanto, NON SI DEVE PUBBLICARE all’Albo on Line la copia del verbale di accertamento (il verbale ove è indicata la sanzione pecuniaria amministrativa), la copia del verbale di sequestro del veicolo e neppure l’avviso con il quale l’Organo di Polizia comunica al proprietario di detto veicolo che se entro un predeterminato numero di giorni non ritira/non da disposizioni relative allo stesso il medesimo viene confiscato e ceduto al custode/acquirente.

Si segnala che la pubblicazione all’Albo on Line è attualmente prevista in relazione a un UNICO AVVISO PUBBLICO che deve contenere solo i DATI ESSENZIALI (per rispettare la normativa sulla Privacy) indicati solitamente, insieme ad altri, nei tre documenti precitati (li ricordiamo: verbale sanzionatorio, verbale di sequestro ed avviso con il quale si comunica ____).

Detto UNICO AVVISO PUBBLICO deve essere compilato e fatto pervenire dall’Organo di Polizia che ha accertato la violazione in questione; qualora ciò non avvenga e siano inviati “solo” i tre documenti precitati, riteniamo NON POSSIBILE (o, per dirla in altro modo, è vietata) la pubblicazione di tali tre documenti all’Albo on Line, anche se questa è esplicitamente richiesta dall’Organo di Polizia, perché tale pubblicazione NON è prevista da nessuna norma di legge o di regolamento e violerebbe le norme vigenti sulla privacy.

Si ritiene, pertanto, che il Messo Comunale/Addetto all’Albo, qualora riceva una richiesta di pubblicazione all’Albo on line del Comune del verbale di sequestro, debba RESTITUIRE l’atto all’Ente richiedente precisando che deve essere pubblicato un avviso.

Tale avviso deve essere redatto dall’Ente emittente e NON dal Messo Comunale. Esso dovrà contenere i dati previsti dal decreto dirigenziale previsto dal comma 6.

Attualmente tale decreto non è stato ancora emesso.

In assenza di un apposito modulo predisposto a livello ministeriale l’Associazione A.N.N.A. suggerisce, a puro scopo esemplificativo, il sotto riportato fac-simile di COMUNICAZIONE/AVVISO PUBBLICO DI AVVENUTO DEPOSITO.

Ad ogni buon fine si precisa che la pubblicazione all’Albo Pretorio (on Line) della COMUNICAZIONE/AVVISO PUBBLICO DI AVVENUTO DEPOSITO va fatta per il numero di giorni previsto (30 giorni pieni, escludendo quello di pubblicazione e quello di defissione), nel Comune ove è stato effettuato il sequestro (indipendentemente da quello ove il veicolo è depositato/custodito) e che la referta di detta pubblicazione va inviata all’Organo di Polizia che la ha richiesta allegando copia analogica (cioè cartacea), od ancor meglio digitale, dell’AVVISO PUBBLICO pubblicato all’Albo Pretorio (on Line).

 FAC-SIMILE DELL’AVVISO PUBBLICO/COMUNICAZIONE DI AVVENUTO DEPOSITO

AVVISO PUBBLICO/COMUNICAZIONE DI AVVENUTO DEPOSITO (*)

DA PUBBLICARE PER TRENTA GIORNI ALL’ALBO PRETORIO (ON LINE) DEL COMUNE DI ________ (__)

AI SENSI E PER GLI EFFETTI DELL’ART. 213 COMMA 5 DEL VIGENTE CODICE DELLA STRADA.

Il Comandante della ______________ (___)

COMUNICA

che in data ______ si è proceduto a depositare presso il custode-acquirente (articolo 214-bis CdS)  _____ il veicolo marca ____, targato ____, telaio ____, di colore ____ sequestrato con verbale n° ____/____ ai sensi dell’art. ______ del CdS a seguito del verbale n° _____/____ di contestazione della violazione (__________________) prevista e punita dall’art. _____ del CdS – il veicolo è stato sequestrato in assenza dell’autore della violazione.

Ad ogni buon fine

SI AVVISA

che qualora la notifica “ordinaria” del verbale di contestazione, unitamente a quello di sequestro recante l’avviso ad assumerne la custodia, per comprovate difficoltà oggettive non sia stata possibile ed il veicolo risulti ancora affidato ad uno dei soggetti di cui all’ articolo 214-bis CdS, LA NOTIFICA SI HA, COMUNQUE, PER ESEGUITA nel trentesimo giorno successivo a quello della pubblicazione nell’Albo Pretorio (on Line) del Comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione della presente comunicazione di avvenuto deposito del sopracitato veicolo.

Luogo e data __________                                                                IL COMANDANTE

                                                                                                         ___________________ 

 

(*) Avviso da pubblicare per trenta giorni consecutivi all’Albo Pretorio (on Line) del comune ai sensi e per gli effetti dell’art. 213 comma 5 del vigente Codice della Strada.

Novembre 2022

Scarica: Circolare A.N.N.A. 2022-003 Codice della strada – Art. 213


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 29/09/2022) 27/10/2022, n. 31845

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 9385 del ruolo generale dell’anno 2019, proposto da:

A.A., (C.F.: (Omissis)) rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso, dall’avvocato Rocco Luigi Girolamo (C.F.: (Omissis));

– ricorrente –

nei confronti di:

COMUNE di MILANO (C.F.: non indicato), in persona del Sindaco, legale rappresentante pro tempore;

AGENZIA delle ENTRATE – RISCOSSIONE (C.F.: non indicato), in persona del legale rappresentante pro tempore;

COMUNE di CESANO BOSCONE (MI) (C.F.: non indicato), in persona del Sindaco, legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Milano n. 9193/2018, pubblicata in data 18 settembre 2018;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del 29 settembre 2022 dal Consigliere TATANGELO Augusto.

Svolgimento del processo
A.A. ha proposto opposizione avverso due cartelle di pagamento che le sono state notificate dal locale agente della riscossione (Equitalia Sud Spa , cui è successivamente subentrata l’Agenzia delle Entrate – Riscossione), in virtù di crediti iscritti a ruolo dai Comuni di Milano e di Cesano Boscone per sanzioni derivanti da infrazioni al codice della strada.

L’opposizione è stata rigettata dal Giudice di Pace di Milano.

Il Tribunale di Milano ha confermato la decisione di primo grado. Ricorre la 1Mirizzi, sulla base di due motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli enti intimati.

E’ stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c., rinviata alla data odierna per consentire la rinnovazione della notificazione del ricorso all’Agenzia delle Entrate – Riscossione; la rinnovazione è stata effettuata da parte ricorrente in data 27 maggio 2022 (entro il termine perentorio all’uopo assegnato, che scadeva in data 12 giugno 2022; l’atto notificato è stato altresì tempestivamente depositato in Cancelleria, ai sensi dell’art. 371 bis c.p.c., in data 16 giugno 2022).

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2729 e 1335 c.c., artt. 83 e 320 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 – Illogicità e contraddittorietà della decisione impugnata rispetto a principi già costantemente espressi da Codesto Supremo Collegio”.

La ricorrente contesta la decisione impugnata nella parte in cui, con la stessa, il tribunale (con riguardo alle sole sanzioni irrogate dal Comune di Cesano Boscone) ha escluso la dedotta estinzione del credito per la sanzione irrogata in virtù della mancata decisione del prefetto sul suo ricorso amministrativo nei termini previsti dall’art. 204 C.d.S., avendo ritenuto non provata la regolare presentazione del suddetto ricorso, a causa della mancata produzione dell’avviso di ricevimento della relativa raccomandata, di cui era stata contestata dal comune la ricezione.

1.1 Con il motivo di ricorso in esame sono formulate, in primo luogo, censure di carattere processuale.

Sostiene, infatti, la ricorrente che la contestazione della avvenuta ricezione del ricorso al prefetto, da parte del Comune di Cesano Boscone, non sarebbe avvenuta in modo rituale, in quanto contenuta “nell’ambito di una nota di accompagnamento al tardivo deposito di documentazione da parte di un funzionario delegato privo di nomina e/o delega”.

Si deduce, in altri termini, che il comune non si sarebbe regolarmente costituito nel giudizio di primo grado davanti al giudice di pace (in quanto la sua costituzione sarebbe avvenuta senza assistenza di legale, per mezzo di un funzionario che non avrebbe documentato i propri poteri e, comunque, tardivamente): di conseguenza, le contestazioni avanzate dallo stesso non avrebbero potuto essere prese in considerazione.

Si afferma, altresì, che la contestazione della mancata ricezione del ricorso al prefetto non sarebbe avvenuta in modo sufficientemente specifico, in quanto il funzionario delegato si sarebbe limitato ad affermare che non “risultava presentato alcun ricorso” ma non avrebbe espressamente affermato che “non risulta pervenuto o ricevuto” il ricorso al prefetto, di cui era stato documentato l’invio a mezzo del servizio postale con lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ richiamato, in proposito, il doc. C, pag. 1, rigo 8, del fascicolo di parte appellante (si tratta della copia dell’atto di costituzione del Comune di Cesano Boscone in primo grado, avvenuta a mezzo di funzionario delegato).

1.1.1 Orbene, si premette che nella sentenza impugnata si afferma espressamente che il Comune di Cesano Boscone si era costituito nel procedimento davanti al giudice di pace, contestando il “ricevimento di qualsiasi ricorso da parte della opponente”.

La ricorrente non specifica, in verità, nel ricorso, se, in quale atto ed in quali esatti termini aveva contestato la regolarità della costituzione in giudizio del comune, nel corso del giudizio di primo grado, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

In ogni caso, anche a prescindere da ciò, è assorbente sul punto la considerazione che la censura relativa alla regolarità della costituzione dell’ente creditore della sanzione amministrativa a mezzo di funzionario delegato, per difetto di procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c. o, comunque, per difetto di prova dei relativi poteri, è infondata in diritto, sulla base dei principi affermati nella giurisprudenza di questa Corte, secondo i quali “in materia di difesa delle pubbliche amministrazioni in giudizio, al funzionario delegato non sono applicabili la disciplina della procura al difensore e i relativi principi, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini della regolarità della costituzione del delegato, la mera dichiarazione di agire in tale sua qualità, senza necessità di documentarla con atti di delega o di mandato, e non assumendo rilevanza la diversità del funzionario che assume detta difesa rispetto a quello che abbia sottoscritto il ricorso; ciò perchè l’investitura dei pubblici funzionari nei poteri che dichiarano di esercitare nel compimento di atti inerenti al loro ufficio si presume, costituendo un aspetto della presunzione di legittimità degli atti amministrativi” (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 10867 del 07/05/2018, Rv. 648500 – 01; conf.: Sez. 6 – L, Ordinanza n. 19027 del 16/09/2011, Rv. 618845 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 9842 del 24/04/2010, Rv. 612614 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 4872 del 01/03/2007, Rv. 595084 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 7065 del 14/04/2004, Rv. 572048 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 9710 del 17/07/2001, Rv. 548268 – 01).

1.1.2 Neanche le censure relative all’irregolarità della costituzione dell’ente comunale, in quanto avvenuta tardivamente (avvenuta dopo la sua dichiarazione di contumacia e la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, a dire di parte ricorrente) possono trovare accoglimento.

E’ di certo infondato in diritto l’assunto per cui si tratterebbe di una costituzione del tutto inefficace, perchè tardiva: la costituzione della parte che è stata dichiarata contumace può, infatti, avvenire in qualsiasi momento del procedimento, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni (art. 293 c.p.c.). L’ulteriore censura con la quale si afferma che le contestazioni formulate dal comune in sede di costituzione (che si assume tardiva) sarebbero da ritenere inammissibili in quanto svolte dopo il maturarsi delle preclusioni processuali, difetta invece di specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, dal momento che, a sostegno della stessa, viene richiamato nel ricorso esclusivamente il documento C del fascicolo di appello (si tratta dell’atto di costituzione del Comune di Cesano Boscone in primo grado, a mezzo di funzionario delegato, come già rilevato): da tale documento emerge, in effetti, che la comparsa di costituzione e risposta del Comune di Cesano Boscone era stata depositata in Cancelleria in data 12 dicembre 2014; non viene però richiamato nel ricorso, in modo adeguatamente puntuale e preciso, il contenuto degli atti processuali (in particolare, quello dei verbali di udienza) dai quali dovrebbe desumersi che tale costituzione sarebbe avvenuta dopo la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni.

In proposito è, comunque, opportuno ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento davanti al giudice di pace la contestazione delle pretese avversarie e dei fatti nonchè delle prove allegati a sostegno delle medesime, può essere svolta dal convenuto anche nel caso in cui lo stesso sia rimasto contumace alla prima udienza e si sia costituito solo all’udienza che venga tenuta successivamente alla prima (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7238 del 29/03/2006, Rv. 589550 – Data pubblicazione 27/10/2022 01; Sez. 2, Sentenza n. 11946 del 08/08/2003, Rv. 565767 01).

1.1.3 Infine, l’interpretazione data dal tribunale alla contestazione in concreto formulata dal comune in relazione ai fatti allegati da parte attrice, riferita alla mancata ricezione del ricorso della A.A. (l’ente ha testualmente affermato, nella sua comparsa di costituzione: “non risulta presentato nessun ricorso al prefetto”), non è censurabile nella presente sede, spettando al giudice del merito l’interpretazione degli atti processuali; in ogni caso, essa risulta del tutto ragionevole e corretta e, dunque, è condivisa da questa Corte.

Il comune ha, in effetti, espressamente dedotto che non risultava mai “presentato” alcun ricorso al prefetto, espressione che è del tutto adeguata ad esprimere una specifica contestazione in relazione alla circostanza di fatto che il ricorso amministrativo della ricorrente fosse pervenuto nella sfera di conoscenza della prefettura e, dunque, anche che fosse mai stato ricevuto quello da lei inviato per mezzo del servizio postale.

1.2 Una volta chiarito che non possono trovare accoglimento le censure relative alla regolarità della costituzione dell’ente comunale in primo grado e quelle relative alle sue contestazioni riguardanti la mancata ricezione del ricorso che la ricorrente assume di avere inviato alla prefettura a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, va affrontata la questione relativa alla prova della effettiva ricezione della suddetta raccomandata (in mancanza della quale non è possibile, ovviamente, ritenere intervenuta l’estinzione del credito avente ad oggetto la sanzione amministrativa, per la mancata decisione del prefetto sul ricorso nel termine di legge, come correttamente affermato in diritto dal tribunale).

La ricorrente ha documentato esclusivamente l’invio della raccomandata con avviso di ricevimento ma, nonostante le contestazioni del comune, il quale – come ampiamente chiarito – ha negato che il ricorso fosse mai stato ricevuto, non ha prodotto il relativo avviso di ricevimento nè, come ha espressamente precisato il giudice di secondo grado, ha giustificato in qualche modo tale mancata produzione.

La ricorrente sostiene che avrebbe dovuto essere ritenuta sufficiente la prova dell’invio della raccomandata, richiamando l’indirizzo interpretativo secondo il quale, ai fini dell’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., sarebbe sufficiente al mittente la dimostrazione dell’invio della lettera raccomandata al destinatario, anche senza la produzione del relativo avviso di ricevimento, in quanto l’invio farebbe sorgere una presunzione di avvenuta consegna della stessa (in base al dato di comune esperienza del normale funzionamento del servizio postale): in altri termini, secondo tale indirizzo, al mittente basterebbe documentare di avere inviato la raccomandata, per far sorgere l’onere del destinatario di dimostrare di non averla ricevuta affatto (o di non averne comunque avuto conoscenza), per un disservizio postale o per altra ragione (un siffatto indirizzo è, in effetti, in qualche modo rinvenibile in alcune massime tratte da decisioni di questa stessa Corte; cfr., ad es.: Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 511 del 11/01/2019, Rv. 652130 – 01; Sez. L, Sentenza n. 24015 del 12/10/2017, Rv. 646099 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 17204 del 19/08/2016, Rv. 641040 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 13488 del 20/06/2011, Rv. 618337 – 01).

L’indicato indirizzo interpretativo, espresso in termini del tutto generali, può certamente ritenersi applicabile nelle ipotesi in cui una missiva sia inviata a mezzo raccomandata semplice, ovvero nei casi in cui non sia contestata la avvenuta consegna della stessa, ma solo il suo effettivo contenuto o, comunque, l’avvenuta conoscenza di esso da parte del destinatario.

D’altra parte, secondo le opportune precisazioni svolte, nell’ambito di un diverso indirizzo di questa stessa Corte, più puntualmente riferibile alle missive inviate a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, la presunzione di cui all’art. 1335 c.c. richiede sempre la dimostrazione che l’atto sia giunto nella sfera di conoscibilità del destinatario e la relativa prova è a carico del mittente, il quale, di conseguenza, non può limitarsi a documentare di avere spedito la raccomandata, ma deve anche provare che la stessa sia stata correttamente recapitata, secondo le norme del servizio postale, producendo quindi l’avviso di ricevimento o quello di compiuta giacenza. Nell’ambito di quest’ultimo indirizzo si trova, del resto, ulteriormente precisato, in varie decisioni, che, nel caso in cui il mittente abbia documentato l’invio di un atto a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento e il destinatario non contesti che la lettera sia stata consegnata presso il suo indirizzo, ma ne contesti il contenuto o l’effettiva conoscenza dello stesso, ciò è sufficiente ai fini dell’operatività della presunzione di cui all’art. 1335 c.c., onde sarà il destinatario a dover dimostrare che l’atto consegnato non avesse il contenuto postulato dal mittente, ovvero che egli non ne abbia potuto avere conoscenza per altre ragioni; al contrario, laddove il destinatario contesti in radice di avere ricevuto la lettera raccomandata, ai fini della presunzione di cui all’art. 1335 c.c., sarà necessario che il mittente dimostri l’avvenuto recapito della stessa secondo le disposizioni che regolano il servizio postale, eventualmente producendo, quindi, l’avviso di ricevimento, se esistente (cfr. Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 19232 del 19/07/2018, Rv. 649874 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6725 del 19/03/2018, Rv. 648491 – 01; Sez. L, Sentenza n. 12822 del 21/06/2016, Rv. 640371 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 24703 del 19/10/2017, Rv. 647221 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9303 del 08/06/2012, Rv. 622825 – 01; Sez. L, Sentenza n. 10849 del 11/05/2006, Rv. 589781 – 01).

Il Collegio, con riguardo ai casi di spedizione postale avvenuta a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, condivide le precisazioni da ultimo illustrate.

In diritto, infatti, i rilievi alla base delle stesse risultano certamente conformi alle disposizioni di cui agli artt. 1335 e 2697 c.c.. Del resto, anche sulla base dei principi di vicinanza e disponibilità delle prove, appare del tutto ragionevole, in caso di contestazione della ricezione di un atto inviato a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, onerare il mittente della produzione dello stesso, cioè di un documento nella sua piena disponibilità, mentre sarebbe evidentemente irragionevole onerare il destinatario di una prova negativa (cioè quella di non aver mai ricevuto la raccomandata) che, se anche sul piano dell’astratta logica si potrebbe ritenere possibile fornire, di fatto finirebbe per risolversi in una sorta di probatio diabolica.

La necessità della produzione dell’avviso di ricevimento per la verifica dell’avvenuta consegna della missiva deve poi affermarsi, con ancora maggior certezza, nel caso in cui si discuta di un atto recettizio che, per espressa disposizione di legge, debba essere necessariamente inviato a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

La ragione di una siffatta previsione di legge, cioè l’obbligo imposto in via normativa di utilizzare il servizio di raccomandazione con avviso di ricevimento (e non quello semplice), si giustifica evidentemente proprio per l’esigenza di semplificare le questioni di prova della ricezione dell’atto ed al fine di disporre, anche in giudizio, di una documentazione (semplice e immediata) idonea ad attestare l’esito dell’invio onde poter consentire la verifica dell’operatività della presunzione di cui all’art. 1335 c.c.; non può quindi dubitarsi che, in siffatte ipotesi, in caso di contestazioni, sia onere del mittente produrre la predetta documentazione che è, ovviamente, in suo possesso e, comunque, nella sua piena disponibilità, in quanto a lui viene di regola inviata dal gestore del servizio postale (e, in mancanza, è per lui sempre possibile ottenerne un duplicato).

Di conseguenza, laddove il mittente non produca in giudizio l’avviso di ricevimento relativo ad un atto che, per legge, debba essere obbligatoriamente inviato a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento e di cui sia contestata la consegna, almeno laddove tale mancata produzione non sia adeguatamente giustificata e/o non sussistano altri elementi di prova che dimostrino l’avvenuta consegna della raccomandata, il giudice di merito non può ritenere dimostrata l’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., solo sulla base della prova dell’invio della raccomandata.

Le conclusioni appena illustrate risultano altresì – ad avviso del Collegio – coerenti con l’evoluzione degli indirizzi interpretativi, anche di questa stessa Corte, in relazione ad una diversa materia che presenta peraltro analogie con la problematica qui in esame: quella della prova della notificazione degli atti processuali (e impositivi), per il caso in cui il procedimento di notificazione previsto dalla legge richieda, tra l’altro, ai fini del corretto e regolare perfezionamento della notificazione stessa, l’invio di una comunicazione al destinatario, da effettuarsi a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Anche nei casi in cui il procedimento di notificazione è, per legge, integrato (e completato) con il mero invio della comunicazione in questione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, si è progressivamente affermato il principio di diritto per cui l’esito dello stesso va sempre documentato ai fini della verifica della regolarità della notificazione e – ciò che più rileva ai fini della problematica qui in esame – si è costantemente ritenuto che tale documentazione debba essere sempre fornita dal mittente, esclusivamente mediante la produzione dell’avviso di ricevimento.

In proposito, è quindi opportuno richiamare, a ulteriore sostegno (sia pure indiretto) della soluzione qui accolta, i principi di diritto da ultimo affermati dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 2) della L. n. 890 del 1982, art. 8 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informativa” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 10012 del 15/04/2021, Rv. 660953 – 01; conf.: Sez. 3, Ordinanza interlocutoria n. 34346 del 15/11/2021, Rv. 662983 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 36562 del 25/11/2021, Rv. 663059 – 01; si tratta di decisioni che si pongono in continuità con le sentenze della Corte Costituzionale n. 346 del 1998, in tema di notifica a mezzo del servizio postale e, soprattutto, n. 3 del 14 gennaio 2010, in relazione al procedimento notificatorio di cui all’art. 140 c.p.c., nonchè con i coerenti indirizzi di questa Corte in ordine alla necessità della produzione, da parte del notificante, dell’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa”: cfr., ad es., Cass., Sez. 5, Sentenza n. 21132 del 02/10/2009, Rv. 609852 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 25985 del 10/12/2014, Rv. 633554 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9782 del 19/04/2018, Rv. 647736 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 4657 del 21/02/2020, Rv. 657348 – 01).

E’ opportuno sottolineare che quella affrontata nei precedenti appena richiamati costituisce una tematica non coincidente con quella esaminata nella presente sede, che ha ad oggetto l’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., non il regolare perfezionamento di un procedimento notificato-rio disciplinato dalla legge. Esistono, peraltro, evidenti punti di contatto, almeno per quanto riguarda la sussistenza, in generale, di un onere del mittente di produrre l’avviso di ricevimento al fine di documentare l’esito dell’invio delle raccomandate spedite con questo tipo di servizio postale, come è del resto ragionevole che avvenga, proprio in considerazione della peculiare caratteristica di tale servizio, che si connota per offrire una documentazione sufficientemente certa dell’esito dell’invio della missiva.

In definitiva, vanno ribaditi ed affermati nella presente sede i seguenti principi di diritto:

“in caso di missive inviate a mezzo del servizio postale tramite raccomandata, non può ritenersi necessaria la produzione dell’avviso di ricevimento, ai fini dell’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., sia nel caso in cui non sia contestata l’avvenuta consegna della missiva da parte del servizio postale, sia nel caso in cui l’atto di cui si discute sia stato legittimamente inviato a mezzo di raccomandata semplice, senza avviso di ricevimento;

il mittente deve invece produrre l’avviso di ricevimento, nel caso in cui lo stesso sia disponibile e certamente in tutti i casi in cui si discuta di un atto recettizio che, per espressa disposizione di legge, debba essere necessariamente inviato a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento;

in tali ultimi casi, laddove la mancata produzione dell’avviso di ricevimento da parte del mittente non sia adeguatamente giustificata e/o non sussistano altri elementi di prova che dimostrino l’avvenuta consegna della raccomandata, il giudice di merito, in caso di contestazioni, non può ritenere dimostrata l’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., solo in virtù della prova dell’invio della raccomandata, ma dovrà verificare l’esito dell’invio in primo luogo sulla base delle risultanze dell’avviso di ricevimento e, comunque, valutando ogni altro mezzo di prova utile e la sua decisione non sarà sindacabile in sede di legittimità, trattandosi di un accertamento di fatto ad esso riservato”.

1.3 Applicando tali principi di diritto al caso di specie, deve concludersi per l’infondatezza delle censure formulate dalla ricorrente.

Il ricorso al prefetto per l’opposizione alle sanzioni derivanti da infrazioni al codice della strada, infatti, ai sensi dell’art. 203 C.d.S., commi 1 e 2, se presentato a mezzo del servizio postale, va obbligatoriamente inviato con lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

La ricorrente ha prodotto solo la prova dell’invio della raccomandata con avviso di ricevimento ma, nonostante le contestazioni del comune, il quale ha espressamente negato fosse mai stato ricevuto il ricorso al prefetto in questione, non ha prodotto l’avviso di ricevimento, nè ha giustificato in qualche modo tale mancata produzione.

Il tribunale, premesso che il Comune di Cesano Boscone aveva “contestato il ricevimento di qualsiasi ricorso da parte della opponente”, ha affermato che, di conseguenza, non era sufficiente la prova dell’invio della raccomandata ma occorreva la produzione dell’avviso di ricevimento o, quanto meno, occorreva fornire la giustificazione della ragione per cui lo stesso non era stato prodotto, ciò anche sulla base del principio della vicinanza della prova.

In mancanza di ciò, ha ritenuto non sufficientemente provata, in fatto, la regolare proposizione del ricorso.

Dunque, la decisione censurata, per un verso, risulta conforme ai principi di diritto più sopra enunciati e, per altro verso, ha ad oggetto un accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., artt. 2223 e 2697 c.c., del D.M. n. 55 del 2014 in tema di liquidazione delle spese giudiziali in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Erronea determinazione delle spese di lite a carico della parte soccombente – Errato richiamo ai parametri di legge, con quantificazione superiore anche ai massimi, in assenza di motivazione”.

La ricorrente contesta la liquidazione delle spese del giudizio di appello, a suo carico e in favore di Equitalia Sud Spa e del Comune di Milano, sostenendo che la stessa sarebbe avvenuta in violazione dei parametri tariffari.

Il motivo è fondato.

Il compenso massimo, anche considerando tutte le voci della tariffa, per lo scaglione nella specie pacificamente applicabile (quello inferiore a Euro 1.100,00) ammonta infatti a Euro 1.172,00; sono stati invece liquidati dal tribunale Euro 1.215,00, in favore di ciascun ente appellato, senza alcuna motivazione in proposito. Sussiste quindi la denunciata violazione dei parametri tariffari (per l’affermazione del principio per cui i limiti minimi e massimi delle tariffe sono derogabili esclusivamente sulla base di apposita motivazione, affinchè siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo, cfr., ex multis: Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 14198 del 05/05/2022, Rv. 664685 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 19989 del 13/07/2021, Rv. 661839 – 03; Sez. 3, Ordinanza n. 89 del 07/01/2021, Rv. 660050 02; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 29606 del 11/12/2017, Rv. 647183 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26608 del 09/11/2017, Rv. 646828 – 01; Sez. 6 – L, Ordinanza n. 2386 del 31/01/2017, Rv. 642544 – 01).

La decisione impugnata va, pertanto, cassata sul punto.

Non essendo, peraltro, necessari ulteriori accertamenti di fatto, il punto può essere deciso nel merito.

Ritiene la Corte equo liquidare le spese del giudizio di appello, in favore di ciascuno degli enti sopra indicati, in base ai valori medi di tariffa, quindi per un complessivo importo di Euro 630,00, per competenze, per ciascuno di essi, oltre accessori di legge.

3. Il primo motivo del ricorso è rigettato; è accolto il secondo motivo, la sentenza impugnata è cassata in relazione e, decidendo nel merito, sono liquidate in complessivi Euro 630,00 le spese del giudizio di secondo grado, in favore di ciascuno degli enti costituiti e vittoriosi in quel grado (Equitalia Sud Spa e Comune di Milano).

Le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra le parti, sussistendo motivi sufficienti a tal fine, in considerazione del solo parziale accoglimento del ricorso.

P.Q.M.
La Corte:

rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo, cassa in relazione la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida in complessivi Euro 630,00 le spese del giudizio di secondo grado, in favore di ciascuno degli enti costituiti e vittoriosi in quel grado (Equitalia Sud Spa e Comune di Milano) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 29 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2022


Assenza temporanea del destinatario, senza prove la notifica è inesistente

La Commissione tributaria regionale della Puglia con la sentenza n. 2387/26/2022 (presidente e relatore Ventura) ha affermato che la notifica delle cartelle di pagamento in caso di irreperibilità relativa del destinatario, temporaneamente assente al momento della consegna, è inesistente se nel corso del giudizio l’amministrazione finanziaria non fornisce la prova di aver rispettato la sequenza procedurale normativa.


Circolare 2022-004: Decreto di esproprio: competenza notificatoria

 

 

Leggi: Circolare 2022-004 Decreto di esproprio-Competenza notificatoria


Corte cost., Sent., (data ud. 12/09/2022) 13/10/2022, n. 209

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto e quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, promossi complessivamente dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con ordinanza del 22 novembre 2021 e dalla Corte costituzionale con ordinanza del 12 aprile 2022, iscritte, rispettivamente, ai numeri 3 e 50 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 4 e 19, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 settembre 2022 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 12 settembre 2022.

1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

1.1.- Il rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio d’impugnativa avverso avvisi di accertamento con i quali il Comune di Napoli contestava a M. M. il mancato pagamento dell’IMU (anni dal 2015 al 2018) in relazione alla sua abitazione principale in Napoli.

Più precisamente, la CTP espone che: a) il contribuente, “assumendo di possedere i requisiti di legge e provandoli documentalmente”, avrebbe rivendicato il diritto all’esenzione sul presupposto che l’immobile costituisse residenza anagrafica e dimora abituale dell’intero nucleo familiare; b) il Comune di Napoli avrebbe negato tale diritto perché il nucleo familiare non risiederebbe “interamente” nel medesimo immobile, atteso che il coniuge risulterebbe aver trasferito la propria residenza nel Comune di Scanno.

1.2.- Ad avviso del giudice a quo, alla spettanza dell’agevolazione, come pure alla praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, osterebbe la “presenza di un “diritto vivente” espresso dall’organo istituzionalmente titolare della funzione nomofilattica” (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4166; sezione quinta civile, ordinanza 17 giugno 2021, n. 17408), che, con “un univoco indirizzo interpretativo”, riterrebbe preclusivo del beneficio “il solo fatto che un componente della famiglia risieda in altro Comune”; ciò, peraltro, nonostante la diversa interpretazione sostenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze (circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012) secondo cui, in caso di residenza e dimora di un componente il nucleo familiare in un comune diverso, l’agevolazione sarebbe dovuta, poiché “il limite quantitativo”, stabilito dalla norma censurata, sarebbe espressamente riferito ai soli immobili nel medesimo comune.

1.3.- In punto di rilevanza, il rimettente afferma che dall’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale dipenderebbe l’esito della controversia della quale è investito.

1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTP ritiene che l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, così come interpretato dalla Corte di cassazione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

La norma censurata, inoltre, lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

1.5.- Con atto depositato il 15 febbraio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.

1.6.- In data 15 febbraio 2022, in applicazione dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, è stata depositata un’opinione scritta a cura dell’associazione Camera degli avvocati tributaristi del Veneto, ammessa con decreto del Presidente del 17 febbraio 2022.

2.- Nel corso del giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare.

Segnatamente, nella suddetta ordinanza questa Corte anzitutto ha precisato – dopo aver dichiarato non fondate le relative eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale – che il petitum della CTP è circoscritto a un intervento additivo sul quinto periodo del citato art. 13, comma 2, al fine di attingere al riconoscimento, attualmente precluso dal diritto vivente, dell’esenzione IMU per l’abitazione principale del nucleo familiare situata in un determinato comune, anche quando la residenza anagrafica di uno dei suoi componenti sia stata stabilita in un immobile ubicato in altro comune.

Quindi, questa Corte ha rilevato che, tuttavia, “le questioni sollevate dal giudice a quo in relazione a tale specifica norma sono strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, che, ai fini del riconoscimento della suddetta agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore ma anche del suo nucleo familiare”.

Infatti, in forza di tale disciplina “la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale viene meno al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”.

Pertanto, sarebbe tale previsione a determinare un trattamento diverso del nucleo familiare rispetto non solo alle persone singole ma anche alle coppie di mero fatto, poiché, sino a che il rapporto non si stabilizzi nel matrimonio o nell’unione civile, la struttura della norma consentirebbe a ciascuno dei partner di accedere all’esenzione IMU per la rispettiva abitazione principale.

Da qui la conclusione che “la risoluzione della questione avente ad oggetto la regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, nella parte in cui stabilisce il descritto nesso tra il riconoscimento della agevolazione IMU per l’abitazione principale e la residenza anagrafica e la dimora abituale del nucleo familiare, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, ordinanza n. 18 del 2021)”.

2.1.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 ha ravvisato la sussistenza di un contrasto della indicata regola generale con gli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost.

In particolare, quanto al primo dei suddetti parametri, nella fattispecie in esame questa Corte ha dubitato “dell’esistenza di un ragionevole motivo di differenziazione tra la situazione dei possessori degli immobili in quanto tali e quella dei possessori degli stessi in riferimento al nucleo familiare, quando, come spesso accade nell’attuale contesto sociale, effettive esigenze comportino la fissazione di differenti residenze anagrafiche e dimore abituali da parte dei relativi componenti del nucleo familiare”.

Quanto, poi, al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., si è parimenti dubitato “della maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”; ciò anche richiamando la sentenza n. 179 del 1976, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni dell’imposta complementare e dell’imposta sui redditi sul cumulo dei redditi dei coniugi.

Infine, quanto all’art. 31 Cost., si è osservato che la disciplina in oggetto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

2.2.- Di conseguenza, questa Corte ha disposto la sospensione del giudizio sollevato dalla CTP con l’ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022.

2.3.- Nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. n. 2022, in data 3 maggio 2022 la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia) ha depositato, in qualità di amicus curiae, un’opinione scritta – ammessa con decreto del Presidente del 16 giugno 2022 – argomentando a sostegno dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

In particolare, ad avviso dell’associazione, nella disciplina dell’IMU il sintagma “nucleo familiare” mancherebbe di un preciso significato, così da costituire un elemento di irragionevolezza nell’ordinamento tributario. Sarebbero, pertanto, del tutto replicabili le motivazioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 179 del 1976 che – seppure in tema di imposizione diretta – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle norme che, in violazione degli artt. 3, 31 e 53 Cost., irragionevolmente avevano riservato ai “coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio”.

Inoltre, secondo la Confedilizia, lungi dall’introdurre ragionevolmente un “nuovo soggetto passivo” – quale cambiamento sistemico sulla scorta delle esperienze straniere – il riferimento al nucleo familiare sarebbe stato introdotto in funzione di “mere esigenze contabili”, tralasciando del tutto la considerazione dell’evidente evoluzione sociale e delle esigenze di mobilità nel mondo del lavoro, ciò che renderebbe sterile qualsiasi tentativo di giustificare la disposizione censurata con finalità antielusive (anche in ragione del potere di vigilanza e controllo demandato ai comuni impositori).

Motivi della decisione
1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata, così come interpretata dalla Corte di cassazione, violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

Essa inoltre lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alla provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

2.- Nel corso del citato giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé le questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare. Ciò nel presupposto che le questioni sollevate dalla CTP di Napoli sono “strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale” stabilita appunto dal censurato quarto periodo.

Segnatamente, la norma censurata, facendo venire meno la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale “al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”, irragionevolmente ne discriminerebbe il trattamento rispetto non solo alle persone singole, ma anche alle coppie di mero fatto.

La disciplina contrasterebbe poi con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., posto che non sarebbe riscontrabile una “maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”.

Il citato art. 13, comma 2, quarto periodo, lederebbe, infine, l’art. 31 Cost., in quanto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

3.- Preliminarmente, i giudizi promossi dalla CTP di Napoli con ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022 e da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 possono essere riuniti e decisi con unica sentenza, poiché hanno ad oggetto questioni fra loro connesse, anche in considerazione dello stretto rapporto tra le previsioni coinvolte, riguardanti, rispettivamente, i periodi quinto e quarto del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato.

3.1.- Il carattere pregiudiziale delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da questa Corte rispetto alla decisione di quelle sollevate dalla CTP di Napoli ne impone la previa trattazione.

4.- Le questioni sollevate da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 sono fondate.

Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile.

Tale è invece proprio l’effetto prodotto dal censurato quarto periodo dell’art. 13, comma 2, perché, in conseguenza del riferimento al nucleo familiare ivi contenuto, sino a che non avviene la costituzione di tale nucleo, la norma consente a ciascun possessore di immobile che vi risieda anagraficamente e dimori abitualmente, di fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto: i partner in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, perché ciascuno di questi potrà considerare il rispettivo immobile come abitazione familiare.

La scelta di accettare che il proprio rapporto affettivo sia regolato dalla disciplina legale del matrimonio o dell’unione civile determina, invece, l’effetto di precludere la possibilità di mantenere la doppia esenzione anche quando effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti.

Soprattutto, poi, nel diritto vivente, il suddetto riferimento al nucleo familiare è interpretato nel senso di precludere addirittura ogni esenzione ai coniugi che abbiano stabilito la residenza anagrafica in due abitazioni site in comuni diversi; secondo questa interpretazione, in tal caso, infatti, nessuno dei loro immobili potrà essere considerato abitazione principale e beneficiare dell’esenzione.

Per comprendere come si sia giunti a tale esito, criticato in dottrina, è opportuno ricostruire l’evoluzione del quadro normativo che ha caratterizzato il beneficio in questione (che, nelle varie fasi della sua esistenza giuridica, ha assunto anche il carattere di semplice agevolazione, oltre quello, più recente, di completa esenzione dall’IMU).

5.- Il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’IMU (istituita dall’art. 8 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, recante “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale”), che subordinava il riconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale alla sussistenza del solo requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale del possessore dell’immobile: a questi veniva riconosciuto il diritto all’esenzione in termini oggettivi, del tutto a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Ciò che rilevava, ai fini della identificazione della abitazione principale, era, infatti, che egli si trovasse a risiedere e dimorare abitualmente in un determinato immobile.

Il riferimento al nucleo familiare nemmeno figurava nella successiva formulazione, con la quale “è stata disposta l’anticipazione dell’introduzione dell’IMU al 2012” (sentenza n. 262 del 2020), ovvero l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, dove l’agevolazione – consistente non più in un’esenzione, ma in una riduzione dell’aliquota – era riconosciuta, anche in questo caso, per l’immobile nel quale “il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Pertanto, sino a quel momento, se due persone unite in matrimonio avevano residenze e dimore abituali differenti, a ciascuna spettava l’agevolazione per l’abitazione principale.

5.1.- Solo con l’art. 4, comma 5, lettera a), del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 2012, n. 44, che è intervenuto su diversi aspetti della disciplina dell’IMU, è stata modificata la definizione di abitazione principale, introducendo, in particolare, il riferimento al nucleo familiare ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione.

Segnatamente, il comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, è stato così modificato e integrato: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disciplina è stata poi confermata dalla L. n. 147 del 2013 che ha reintrodotto la completa esenzione dell’abitazione principale dal 1 gennaio 2014 per tutte le categorie catastali abitative, tranne quelle cosiddette di lusso (A/1, A/8 e A/9), ed è stata quindi ribadita nel comma 741, lettera b), dell’art. 1 della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022) all’interno della disciplina della cosiddetta “nuova IMU”, divenuta sostanzialmente comprensiva anche del tributo sui servizi indivisibili (TASI).

5.2.- La nuova formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, come convertito, è stata interpretata in senso vieppiù restrittivo dalla giurisprudenza di legittimità, applicando il criterio “di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez. 5, 11 ottobre 2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 3 febbraio 2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte Cost. 20 novembre 2017, n. 242)” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 24 settembre 2020, n. 20130).

La Corte di cassazione, infatti, in una prima fase, disattendendo una diversa interpretazione inizialmente proposta dal Ministero dell’economia e delle finanze con la circolare n. 3/DF del 2012 (diretta a riconoscere, nel silenzio della norma, il beneficio per ciascuno degli immobili, ubicati in comuni diversi, adibiti a residenza e dimora), ha ritenuto che l’agevolazione spettasse per un solo immobile per nucleo familiare, non solo nel caso di immobili siti nel medesimo comune, come del resto espressamente recita il suddetto comma 2 dell’art. 13, ma anche in caso di immobili situati in comuni diversi (situazione non espressamente regolata dalla disposizione in oggetto); ciò a meno che non fosse fornita la prova della rottura dell’unità familiare. Infatti solo “la frattura” del rapporto di convivenza comporta “una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale non potrà essere più identificata con la casa coniugale (vedi da ultimo: Cass., Sez. 5, n. 15439/2019)” (Corte di cassazione, ordinanza n. 17408 del 2021).

La giurisprudenza di legittimità ha poi compiuto un ulteriore passaggio ed è giunta a negare ogni agevolazione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, facendo leva sulla necessità della coabitazione abituale dell’intero nucleo familiare nel luogo di residenza anagrafica della casa coniugale (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 19 febbraio 2020, n. 4170 e n. 4166 del 2020, poi confermate dall’ordinanza n. 17408 del 2021). Dunque, “nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed autonoma rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 17 gennaio 2022, n. 1199).

In altri termini, si è ritenuto che per fruire del beneficio in riferimento a una determinata unità immobiliare sia necessario che “tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare non solo vi dimorino stabilmente, ma vi risiedano anche anagraficamente” (Corte di cassazione, ordinanza n. 4166 del 2020; ribadita in ordinanze n. 17408 del 2021 e n. 4170 del 2020): l’esenzione è stata quindi subordinata alla contestuale residenza e dimora unitaria del contribuente e del suo nucleo familiare.

Il diritto vivente è pertanto giunto alla conclusione, prima anticipata, di negarne ogni riconoscimento nel caso contrario, “in cui i componenti del nucleo familiare hanno stabilito la residenza in due distinti Comuni perché quello che consente di usufruire del beneficio fiscale è la sussistenza del doppio requisito della comunanza della residenza e della dimora abituale di tutto il nucleo familiare nell’immobile per il quale si chiede l’agevolazione” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 25 novembre 2021, n. 36676).

5.3.- È in reazione a tale approdo della giurisprudenza di legittimità, giunto quindi a negare ogni esenzione sull’abitazione principale se un componente del nucleo familiare risiede in un comune diverso da quello del possessore dell’immobile, che il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215. La relazione illustrativa all’emendamento governativo che ha introdotto tale disposizione espressamente precisa, infatti, l’intenzione di superare gli ultimi orientamenti della Corte di cassazione (sono citate le ordinanze della Corte di cassazione n. 4170 e n. 4166 del 2020).

L’art. 1, comma 741, lettera b), della L. n. 160 del 2019 è stato pertanto integrato prevedendo che: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

6.- La ricostruzione dell’evoluzione normativa mette in evidenza, in sintesi, come si sia realizzato, nella struttura della misura fiscale in oggetto, il passaggio dalla considerazione di una situazione meramente oggettiva (la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile, prescindendo dalla circostanza che si trattasse di soggetti singoli, coabitanti, coniugati o uniti civilmente) al rilievo dato a un elemento soggettivo (la relazione del possessore dell’immobile con il proprio nucleo familiare).

La descrizione dello sviluppo giurisprudenziale ha poi evidenziato come l’introduzione di questo elemento soggettivo si sia risolta, infine, nell’esito di una radicale penalizzazione dei possessori di immobili che hanno costituito un nucleo familiare, i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con la originaria formulazione prevista nel D.Lgs. n. 23 del 2011.

A tale esito il diritto vivente sembra essere pervenuto per un duplice motivo.

Da un lato l’assenza, nella disciplina dell’IMU, di una specifica definizione di “nucleo familiare”, a fronte di diversi riferimenti presenti – a vario titolo e oltre quelli civilistici – nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, a quello stabilito ai fini dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) dall’art. 3 del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, recante “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)”, oppure a quello, stabilito però esclusivamente con riguardo all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) dall’art. 5, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). Dall’altro la dichiarata esigenza di interpretare restrittivamente le agevolazioni tributarie; esigenza che peraltro non appare contestabile in riferimento a un’agevolazione del tipo di quella in esame (si veda al riguardo il punto successivo).

Ciò che, nell’insieme, conferma come l’effettiva origine dei problemi applicativi determinati dagli approdi del diritto vivente si ponga, in realtà, a monte, ovvero nel censurato quarto periodo del comma 2, dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, che ha introdotto nella fattispecie generale dell’agevolazione il riferimento al nucleo familiare, piuttosto che nel quinto periodo del medesimo comma censurato dalla CTP di Napoli, che ne disciplina, invece, solo una specifica ipotesi.

È per tale motivo che questa Corte ha ritenuto, dato il “rapporto di presupposizione” tra le questioni (ordinanza n. 94 del 2022), di sollevare dinanzi a se stessa quella sulla disciplina, appunto, a monte.

7.- Ciò precisato, è fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost.

Va, in primo luogo, chiarito che l’agevolazione in oggetto non rientra tra quelle strutturali, essendo senza dubbio inquadrabile tra quelle in senso proprio (sentenza n. 120 del 2020). Inoltre, se da un lato, essa si può ritenere rivolta a perseguire la finalità di favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione” (art. 47, secondo comma, Cost.), dall’altro esenta le abitazioni principali dei residenti dalla più importante imposta municipale (l’IMU), determinando un effetto poco lineare rispetto ai principi che giustificano l’autonomia fiscale locale: se gran parte dei residenti è esentata dall’imposta, questa finirà per risultare a carico di chi non vota nel comune che stabilisce l’imposta.

In difetto di una chiara causa costituzionale l’esenzione in oggetto è pertanto riconducibile a una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; ciò che evoca per costante giurisprudenza un sindacato particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio (sentenza n. 120 del 2020).

8.- Nella questione che questa Corte si è autorimessa, tuttavia, viene direttamente in rilievo il contrasto della norma censurata con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 31 e 53 Cost. e solo indirettamente il tema dell’estensione di un’agevolazione a soggetti esclusi.

In altri termini, nonostante una eadem ratio sia comunque identificabile nelle varie situazioni in comparazione – perché se la logica dell’esenzione dall’IMU è quella di riferire il beneficio fiscale all’abitazione in cui il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la dimora abituale, dovrebbe risultare irrilevante, al realizzarsi di quella duplice condizione, il suo essere coniugato, separato o divorziato, componente di una unione civile, convivente o singolo -, la questione non è direttamente rivolta a estendere l’esenzione, quanto piuttosto a rimuovere degli elementi di contrasto con i suddetti principi costituzionali quando tali status in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio.

9.- In un contesto come quello attuale, infatti, caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale.

In tal caso, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e – si noti bene – la dimora abituale in un determinato immobile (cioè un dato facilmente accertabile, come si preciserà di seguito, attraverso i dovuti controlli) determina una evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore.

Non vi è ragionevole motivo per discriminare tali situazioni: non può, infatti, essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 28 gennaio 2021, n. 1785). Né a tale possibilità si oppongono le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, della L. 20 maggio 2016, n. 76, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”).

Inoltre, il secondo comma dell’art. 45 cod. civ., contemplando l’ipotesi di residenze disgiunte, conferma la possibilità per i genitori di avere una propria residenza personale.

Nella norma censurata, invece, attraverso il riferimento al nucleo familiare, tale ipotesi finisce per determinare il venir meno del beneficio, deteriorando così, in senso discriminatorio, la logica che consente al singolo o ai conviventi di fatto di godere pro capite delle esenzioni per i rispettivi immobili dove si realizza il requisito della dimora e della residenza abituale.

D’altra parte, a difesa della struttura della norma censurata nemmeno può essere invocata una giustificazione in termini antielusivi, motivata sul rischio che le cosiddette seconde case vengano iscritte come abitazioni principali.

In disparte che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, va precisato che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 10, lettera c), punto 2, del D.Lgs. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale.

In conclusione, la norma censurata, disciplinando situazioni omogenee “in modo ingiustificatamente diverso” (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2020), si dimostra quindi in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale.

10.- Altresì fondata è la censura riferita all’art. 31 Cost.

Va premesso che, come hanno rilevato numerosi studi dottrinali, il sistema fiscale italiano si dimostra avaro nel sostegno alle famiglie. E ciò nonostante la generosità con cui la Costituzione italiana ne riconosce il valore, come leva in grado di accompagnare lo sviluppo sociale, economico e civile, dedicando ben tre disposizioni a tutela della famiglia, con un’attenzione che raramente si ritrova in altri ordinamenti.

In tale contesto l’art. 31 Cost., statuisce: “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.

In questo modo tale norma suggerisce ma non impone trattamenti, anche fiscali, a favore della famiglia; li giustifica, quindi, ove introdotti dal legislatore; senz’altro si oppone, in ogni caso, a quelli che si risolvono in una penalizzazione della famiglia.

Di qui la violazione anche dell’art. 31 Cost. da parte della norma censurata in quanto ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che, come si è visto, ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione IMU (o alla doppia esenzione) solo in caso di “frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi” e conseguente “disgregazione del nucleo familiare”.

11.- Fondata, infine, è anche la censura relativa all’art. 53 Cost.

Avendo come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili, l’IMU riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito.

Appare pertanto con ciò coerente il fatto che nella sua articolazione normativa rilevino elementi come la natura, la destinazione o lo stato dell’immobile, ma non le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente.

Ciò salvo, in via di eccezione, una ragionevole giustificazione, che nel caso però non sussiste: qualora, infatti, l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti, viene ovviamente meno la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare, ovvero la convivenza in un unico immobile, fattispecie che per tabulas nel caso in considerazione non si verifica.

Sotto tale profilo, le ragioni che spingono ad accogliere la censura formulata in relazione all’art. 53 Cost. rafforzano l’illegittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 3 Cost.; infatti “ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione” (sentenza n. 10 del 2015).

12.- Conclusivamente deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale del quarto periodo del comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dalla L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

13.- L’illegittimità costituzionale del censurato quarto periodo del comma 2 dell’art. 13, nei termini descritti, determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.

13.1.- Innanzitutto comporta l’illegittimità costituzionale consequenziale del quinto periodo del medesimo comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, che stabilisce: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disposizione, infatti, risulta incompatibile con la ratio della decisione di questa Corte sul quarto periodo del medesimo comma 2, poiché lascerebbe in essere le descritte violazioni costituzionali all’interno dello stesso comune, dove, in caso di residenze e dimore abituali disgiunte, una coppia di fatto godrebbe di un doppio beneficio, che risulterebbe invece precluso, senza apprezzabile motivo, a quella unita in matrimonio o unione civile.

È ben vero che la necessità di residenza disgiunta all’interno del medesimo comune rappresenta una ipotesi del tutto eccezionale (e che come tale dovrà essere oggetto di accurati e specifici controlli da parte delle amministrazioni comunali), ma, da un lato, date sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori; dall’altro, mantenere in vita la norma determinerebbe un accesso al beneficio del tutto casuale, in ipotesi favorendo i nuclei familiari che magari per poche decine di metri hanno stabilito una residenza al di fuori del confine comunale e discriminando quelli che invece l’hanno stabilita all’interno dello stesso.

13.2.- L’illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata anche con riguardo alla lettera b) del comma 741, dell’art. 1 della L. n. 160 del 2019, dove, in relazione alla cosiddetta “nuova IMU”, è stato identicamente ribadito che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Con riferimento al primo periodo di tale disposizione la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Con riferimento al secondo periodo essa investe, invece, l’intera disposizione.

13.3.- Deve, infine, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale anche dell’ultima formulazione del medesimo comma 741, lettera b), secondo periodo, all’esito delle modifiche apportate con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. n. 146 del 2021, come convertito, che dispone: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

Rispetto a tale disciplina risultano replicabili le motivazioni, sopra esposte, che hanno condotto all’accoglimento delle questioni che questa Corte si è autorimessa.

Infatti, consentendo alla scelta dei contribuenti l’individuazione dell’unico immobile da esentare, la novella disancora, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica.

14.- Da ultimo questa Corte, ritiene opportuno chiarire che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale ora pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli artt. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione IMU con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta.

Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci.

15.- L’accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale del successivo quinto periodo del medesimo comma, determinano l’inammissibilità per sopravvenuta carenza di oggetto delle questioni sollevate con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 3 del 2022 dalla CTP di Napoli (ex multis, ordinanze n. 102 del 2022, n. 206 e n. 93 del 2021, n. 125 e n. 105 del 2020, n. 71 del 2017).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), primo periodo, della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019;

5) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019, come successivamente modificato dall’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215;

6) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 settembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 13 ottobre 2022.