Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26972

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 734/2006 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato GELERA Giorgio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAL LAGO UGO, giusta a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA Giorgio, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

ULSS/(OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1933/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/2008 dal Presidente Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Ugo DAL LAGO, Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A.L., sottoposto nel (OMISSIS) ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel (OMISSIS) in seguito ad inutili terapie antalgiche.

Nel (OMISSIS) convenne in giudizio il Dott. S.F. e la U.L.S.S. n. (OMISSIS) (in seguito n. (OMISSIS)) di (OMISSIS), assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all’attore la somma ulteriore di L. 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di L. 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall’assicuratore dei convenuti.

Con sentenza n. 1933/04 la corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame dell’ A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all’integrità fisica dell’ A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c., nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l’ A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso S.F..

L’intimata U.L.S.S. n. (OMISSIS) non ha svolto attività difensiva.

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al c.d. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal c.d. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”: tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 cod. pen. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c., ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c., e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c., nè l’art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c., in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c., in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c., nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c., e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. “danno estetico” che del c.d. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c., nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.U. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c., in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c., si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte Cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.U. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2 (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 734/06. 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d’appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado.

Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all’epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell’atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.

Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.

La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di “vergogna” provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.

Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l’art. 345 c.p.c., comma 2, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d’ostacolo all’ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perchè vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.

2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.

Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell’aspetto concernente i rapporti sessuali, allorchè dipenda da una lesione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell’integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno “esistenziale” (punto 4.9).

Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato”.

Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13).

Nella specie, in primo grado, l’attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell’attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l’appello, l’attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.

La decisione non è corretta.

La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell’attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del “danno esistenziale” subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l’attuale ricorrente s’era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all’epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.

La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall’appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell’ambito del danno biologico.

3. All’accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d’appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.

4. La sentenza va dunque cassata.

5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all’ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero – anche in base a semplice inferenza presuntiva – che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all’eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d’ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).

6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.

7. Ricorrono i presupposti di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2, in materia di protezione dei dati personali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Venezia in diversa composizione;

dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Comune notifica in ritardo gli atti del fisco? Deve pagare i danni

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 26118/2008) ha stabilito che deve risarcire il danno la Pubblica Amministrazione che tarda la notifica degli avvisi Iva o di altri atti da notificare nell’interesse dell?Amministrazione finanziaria. Vedi nell’area “Normativa” il commento.


Cass. civ. Sez. V, (ud. 09-10-2008) 05-11-2008, n. 26542

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.V.V., elettivamente domiciliato in Roma, Via A. Granisci 14, presso l’avv. GIGLIO Antonella, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Maurizio Leone, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, ed Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 263/01/04 del 2/7/04;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 9/10/08 dal Relatore Cons. Dott. Paolo D’Alessandro;

Udito l’avv. Maurizio Leone;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.V.V. propone ricorso per Cassazione, illustrato da successiva memoria, in base a due motivi, contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che ha rigettato l’appello da lui proposto contro la pronuncia di primo grado che aveva a sua volta respinto i ricorsi proposti dal contribuente contro due cartelle di pagamento, impugnate sul presupposto del vizio di notifica dei rispettivi atti di accertamento.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 2003, nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica.

Il ricorrente in sostanza lamenta l’erroneità della sentenza per avere ritenuto valide le notifiche degli atti di accertamento effettuate, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nei Comuni di Rapallo e di S. Giorgio a Cremano, in epoche in cui egli risultava, dai certificati anagrafici, residente a (OMISSIS).

1.1.- Il mezzo è fondato.

1.2.- Va premesso che, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, è stato espunto dall’ordinamento, con conseguente espansione della regola generale, secondo la quale l’effetto delle variazioni anagrafiche, ai fini delle notifiche, è immediato.

Invero, seppure, nella motivazione della sentenza, si afferma che il legislatore ben può prevedere che l’effetto della variazione, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, non sia immediato, purché l’eventuale dilazione sia contenuta in termini ragionevoli, tale indicazione è appunto rivolta al solo legislatore, rimanendo escluso che l’interprete possa, per proprio conto, individuare un termine di dilazione degli effetti della variazione, non previsto dalla legge.

Il nuovo termine dilatorio di trenta giorni, introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 27, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto 2006, n. 248, non può d’altro canto certamente applicarsi riguardo a notificazioni eseguite prima della entrata in vigore del D.L..

1.3.- Ciò, posto, deve osservarsi, nel merito, che, quanto alla cartella n. (OMISSIS), il giudice tributario precisa che i relativi atti di accertamento risultano notificati, ex art. 140 c.p.c., presso la casa comunale di (OMISSIS), in data 21/12/01, pur avendo il contribuente trasferito la propria residenza in (OMISSIS) il 10/12/01. Lo stesso giudice ritiene tuttavia valida la notificazione, pur tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, sul rilievo che il contribuente, nella successiva dichiarazione per l’anno 2001, presentata il 26/7/02, aveva indicato quello di Rapallo come domicilio fiscale al 31/12/01.

La decisione è evidentemente erronea.

Come già ricordato, per effetto della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, ai fini delle notificazioni, le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente hanno effetto dal momento stesso della avvenuta variazione anagrafica e non, come previsto dall’originario testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dal sessantesimo giorno successivo.

Ne consegue pertanto che la notificazione ex art. 140 c.p.c., effettuata, undici giorni dopo la variazione anagrafica, nel comune di precedente residenza ((OMISSIS)) deve ritenersi radicalmente nulla, non rilevando che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 2001, presentato nel luglio del 2002, abbia indicato, come residenza fiscale al (OMISSIS), il Comune di (OMISSIS), non potendo tale, in ipotesi non veritiera, dichiarazione spiegare alcun effetto rispetto ad una notificazione precedentemente effettuata.

Nemmeno, d’altro canto, assume alcun rilievo la circostanza che il D.V., nella diversa veste di rappresentante legale della A.P.M. s.a.s., di cui era socio al 55%, avesse impugnato i medesimi accertamenti, ritualmente notificati alla società ma non a lui come socio.

1.4.- Parimenti, quanto alla cartella n. (OMISSIS), gli atti di accertamento presupposti risultano notificati, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., in S. Giorgio a Cremano il 29/12/99 e il 10/11/98, laddove deve aversi per pacifico – essendo espressamente ammesso dai controricorrenti (a pag. 5 del controricorso) – che il D.V., in base al certificato anagrafico, è stato residente a (OMISSIS) dal (OMISSIS) al (OMISSIS).

Anche in tal caso, dunque, le notifiche risultano nulle, essendo privo di rilievo il fatto che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 1999, presentato nel luglio 2000, abbia indicato il comune di S. Giorgio a Cremano come domicilio fiscale per l’anno 1999. 2.- Resta assorbito il secondo motivo, relativo a difetto di motivazione.

3.- La sentenza impugnata va pertanto cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dei ricorsi introduttivi del contribuente.

La sopravvenienza, dopo il giudizio di primo grado, della sentenza di illegittimità costituzionale giustifica l’integrale compensazione delle spese.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie i ricorsi introduttivi del contribuente; compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 9 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2008


Va licenziato chi si fa timbrare il cartellino da un collega. Anche se non c’è danno per l’Ente

Linea dura della Cassazione contro i dipendenti che si fanno timbrare il cartellino dai colleghi. Per i giudici del Palazzaccio, infatti, in casi del genere si perde il posto di lavoro. La Corte (sezione lavoro sentenza 26239/2009) sottolinea che il licenziamento, risulta equo anche se all’azienda non deriva “un danno economico” giacché è sufficiente il fatto che si sia realizzata una “lesione dei doveri di lealtà” nei confronti dell’azienda. E’ stato così confermato il licenziamento di una dipendente che lavorava presso una clinica di Torino che aveva fatto timbrare il cartellino prima di essere entrata a lavoro avvalendosi della collaborazione di una collega. Ne era seguito l’immediato licenziamento disciplinare che veniva convalidato dal Tribunale di Torino e dalla Corte d’Appello. La donna si era rivolta alla Cassazione per chiedere l’applicazione di una sanzione più lieve considerato che la timbratura del cartellino fatta da un’altra collega non aveva comportato un danno economico all’azienda. La Corte ha respinto il ricorso sottolineando che “la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito appare logica e coerente” giacché, i giudici di merito hanno motivato facendo riferimento alla “lesione del vincolo fiduciario a prescindere dal danno patrimoniale subito dalla società”. Risulta dunque “congrua la sanzione irrogata vista la gravita’ dell’addebito contestato”.


Cass. civ. Sez. I, (ud. 19-09-2008) 30-10-2008, n. 26118

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI PORTO MANTOVANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso l’avvocato ROMANELLI GUSTAVO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARRI A. CLAUDIO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 662/2003 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 22/08/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2008 dal Consigliere Dott. GIANCOLA MARIA CRISTINA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ROMANELLI GUIDO FRANCESCO, per delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Patrone Ignazio, per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 12 – 20.04.2000, il Tribunale di Brescia respingeva le domande proposte nel 1994, dal Ministero delle Finanze nei confronti del Comune di Porto Mantovano, volte al risarcimento dei danni derivati dalla erronea e tardiva notificazione di un avviso di rettifica per IVA in danno di un contribuente, dall’amministrazione statale demandata ai messi comunali, in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Il Tribunale riteneva che con riferimento alle notificazioni di atti nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria, il Comune non fosse tenuto a rispondere dei danni arrecati dal messo comunale, ancorchè dipendente dell’ente locale.

Con sentenza del 2.04 – 22.08.2003, la Corte di appello di Brescia accoglieva l’impugnazione proposta dal Ministero delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate e conclusivamente condannava l’ente locale al risarcimento dei danni in favore dell’Agenzia delle Entrate, subentrata nel rapporto controverso, liquidandoli all’attualità in complessivi Euro 56.612,54, oltre agli interessi legali ex art. 1282 c.c.. La Corte distrettuale riteneva in sintesi:

che non potesse essere condiviso il presupposto della decisione impugnata, aderente ad un risalente arresto giurisprudenziale della Corte dei Conti, secondo cui la richiesta dell’amministrazione finanziaria di notifica di un atto d’imposizione fiscale determinasse l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione della stessa richiedente che, invece, in aderenza al principio affermato da questa Suprema Corte e pregevolmente argomentato, il Comune avrebbe dovuto rispondere del danno, in ragione della violazione del rapporto di preposizione gestoria intercorrente con l’Amministrazione finanziaria e qualificabile in termini di mandato ex lege, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra la medesima Amministrazione finanziaria ed i messi comunali, operanti alle esclusive dipendenze dell’ente locale che la richiesta dell’Amministrazione finanziaria di notificazione di un avviso di rettifica tributaria al contribuente, pervenuta al Comune di Porto Mantovano, il 22 dicembre 1989, avrebbe dovuto essere attuata secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che, invece, non solo erano rimaste inosservate ma, inoltre, si erano concluse con l’inoltro di una lettera raccomandata, il 12 gennaio 1990, dopo la scadenza del termine decadenziale del 30.12.1989, che in particolare la procedura concretamente seguita dal messo incaricato della notificazione, concretatasi tra l’altro nella affissione all’Albo pretorio, “preceduta” dalla reiterata apposizione di avvisi alla porta dell’abitazione del destinatario, dell’intero atto da notificare in luogo del prescritto avviso dell’avvenuto deposito di esso nella casa comunale, fosse o meno riconducibile all’art. 140 c.p.c., in ogni caso non era stata compiuta nel rispetto delle previste formalità nè esaurita in un solo giorno, come sarebbe stato possibile che con decisione del 1990, confermata dalla Commissione di secondo grado, il giudice tributario aveva accolto il ricorso del contribuente, riconoscendo fondata l’eccezione dallo stesso proposta di tardività della notificazione e di conseguente decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla pretesa fiscale che quanto alla determinazione del risarcimento, l’Amministrazione finanziaria poteva giovarsi della presunzione di corrispondenza del danno all’ammontare delle imposte e degli accessori al cui recupero l’avviso di rettifica era volto, a ciò aggiungendosi che nel ricorso proposto dinanzi alla Commissione tributaria il contribuente si era limitato ad eccepire la tardità della notificazione dell’avviso, senza sollevare alcuna eccezione di merito avverso la pretesa impositiva che sul punto il Comune aveva opposto una generica contestazione, omettendo di dedurre e provare l’insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’obbligazione tributaria, ed anzi addossando alla controparte l’onere di provare la fondatezza della pretesa fiscale che il fallimento del contribuente era sopravvenuto dopo quattro anni dai fatti controversi, ragione per cui non poteva nemmeno ritenersi che il recupero del credito tributario non avrebbe potuto essere attuato prima dell’apertura della procedura concorsuale, nell’ambito della quale, del resto, il credito in questione avrebbe assunto collocazione privilegiata che sino alla data della pronuncia giudiziale, all’amministrazione statale competeva anche la rivalutazione del credito e, con decorrenza dal 31.12.1989, il ristoro del danno da lucro cessante per il ritardo nel pagamento, oltre agli interessi legali sulla somma finale, ai sensi dell’art. 1282 c.c., e con decorrenza dalla data dell’attuata liquidazione.

Avverso questa sentenza il Comune di Porto Mantovano ha proposto ricorso per Cassazione notificato il 16.04.2004, fondato su due motivi ed illustrato da memoria. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso notificato il 26.05.2004.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il Comune di Porto Mantovano denunzia:

“Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”.

Contesta conclusivamente l’applicabilità del principio secondo cui il Comune deve rispondere dell’operato del messo comunale anche quando la notificazione sia avvenuta ad istanza di diverso ente pubblico e segnatamente dell’Amministrazione finanziaria. Sostiene, inoltre, che la notificazione doveva aversi per rituale, essendo avvenuta in ossequio alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e che comunque è mancata la precisazione delle modalità in concreto seguite dal messo municipale, cui ancorare la valutazione d’inosservanza delle prescrizioni legali.

Il motivo in tutti i suoi profili non ha pregio, sostanziandosi essenzialmente in critiche o generiche ed apodittiche o contrarie in linea meramente enunciativa, avulsa da concreti riferimenti a decisive risultanze istruttorie inficianti gli accertamenti in fatto compiuti dai Giudici di merito. In primo luogo, anche attenendosi all’orientamento ormai costante di questa Corte di legittimità – non smentito dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale relativa al diverso tema del riparto di giurisdizione tra AGO e Giudice contabile relativamente ai giudizi di responsabilità amministrativa nei confronti dei messi notificatori dei Comuni (in tema, tra le altre, Cass. S.U. 200319662) – i Giudici di merito hanno ineccepibilmente qualificato come mandato ex lege il conferimento – attuato ratione temporis in base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. a), (preceduto dal D.P.R. n. 645 del 1958, art. 38) – da parte dell’Amministrazione finanziaria al Comune di Porto Mantovano (R.D. n. 383 del 1934, art. 273, comma 4), del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione dell’avviso tributario di rettifica nonchè escluso che tale iniziativa potesse sostanziarsi in un rapporto diretto tra l’amministrazione pubblica e i messi comunali, per essere questi dipendenti dell’ente locale e, quindi, per avere agito, anche nell’esecuzione del compito in questione, in adempimento degli obblighi derivanti dal loro rapporto di impiego con il Comune (Cass. SU 199002083; 199710929; 199805987; 199900360, 20020711, in tema cfr anche Cass. SU 200506409).

Ampio e logico conto, dunque, è stato dato delle ragioni sottese alla decisione (e così pure chiarito il discostamento da quelle di cui al richiamato, diverso e peraltro risalente arresto della Corte dei Conti), espressamente ricondotte, in aderenza al dettato normativo, al rapporto di dipendenza che astringe i messi municipali al Comune, nell’ambito della cui struttura organizzativa sono stabilmente e gerarchicamente inseriti, con conseguente sia assoggettamento al potere dell’ente di controllo e verifica dell’esatto adempimento degli obblighi inerenti al loro servizio e sia configurabilità delle connesse responsabilità.

In secondo luogo la Corte distrettuale, verificata anche la tempestività della richiesta della P.A. di notificazione dell’avviso rispetto al tempo occorrente per il relativo adempimento, ha del pari irreprensibilmente escluso che le modalità che in concreto il messo comunale aveva seguito fossero aderenti alle formalità imposte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 comma 1, per la notificazione degli atti al contribuenti; ciò sia in rapporto a quanto prescritto dall’ivi richiamato art. 140 c.p.c., che in rapporto a quanto invece previsto in via residuale dalla lett. e) del cit. comma (in tema, cfr. tra le altre Cass. 199704587), rilevando in sintesi che in ogni caso era anche mancato il deposito dell’atto presso la casa comunale, l’avviso al contribuente di tale deposito, secondo le diverse forme imposte dai due tipi alternativi di notifica, e, quanto alla prima anche l’invio (e non la ricezione) della prescritta raccomandata con avviso di ricevimento in data anteriore alla scadenza del termine imposto a pena di decadenza per l’esperibilità della pretesa fiscale.

D’altra parte inammissibili perchè nuovi e comunque inconferenti si palesano i rilievi del Comune inerenti alla conoscenza che il contribuente aveva di fatto potuto avere dell’avviso fiscale o all’errore scusabile in cui era incorso il messo comunale, inidonei per un verso ad elidere il danno subito dalla Amministrazione per effetto della mancata tempestiva conoscenza legale dell’atto da parte del contribuente, acclarata dal Giudice tributario, e per altro verso la responsabilità contrattuale del Comune verso l’amministrazione statale, connessa al negligente svolgimento del demandatogli mandato ex lege.

Con il secondo motivo di ricorso il Comune deduce “Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: errata valutazione del danno sotto il profilo della motivazione e dell’onere probatorio e in relazione agli artt. 1277 e 1244 c.c., in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”, essenzialmente riferendosi alla prova del pregiudizio ed ai criteri applicati per la relativa liquidazione.

Anche tale motivo in tutte le sue articolazioni non è fondato.

Premesso che si verte in tema di responsabilità contrattuale (in tema cfr, Cass. SU 200200711; Cass. 200303397; 200411469), irreprensibilmente la Corte territoriale appare avere ritenuto non solo il Comune inadempiente all’incarico ricevuto e, quindi, tenuto a risarcire il danno subito dall’Amministrazione finanziaria, ma anche che quest’ultima tramite presunzioni aveva fornito, come era suo onere, la prova dell’esistenza e dell’entità del pregiudizio sofferto.

Come noto, infatti, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta, pertanto, al Giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità.

Nella specie, il ragionamento decisorio seguito dalla Corte distrettuale non appare affetto da alcuna illogicità o contraddittorietà laddove, anche in linea con i principi già ripetutamente affermati in questa sede (Cass. Su 198400878; Cass. 19960327, 199805263; 199805987; 200309370; 200411469), ha ritenuto dall’amministrazione finanziaria provati in via presuntiva l’esistenza e l’ammontare del danno in questione, correlandosi sia all’entità della pretesa fiscale dalla quale l’amministrazione era stata dichiarata decaduta dal giudice tributario e sia al tenore dell’impugnativa svolta dal contribuente in sede tributaria, muta in ordine a profili di merito della pretesa azionata in sede tributaria.

D’altra parte i Giudici di merito nell’esaminare le tesi difensive avverse, hanno rilevato l’assenza in punto di esistenza del danno di qualsiasi deduzione o prova contraria da parte del Comune, rilievo che rende meramente accademica e, quindi, inammissibile per difetto di interesse, la censura del medesimo ente locale inerente alla eccessiva gravosità dell’onere probatorio a suo carico teoricamente configurato dalla medesima Corte.

Quanto alla liquidazione del risarcimento, in primo luogo la Corte distrettuale appare avere adeguatamente e logicamente argomentato la svalutazione della tesi sostenuta dal Comune della compromissione totale o parziale delle possibilità della amministrazione finanziaria di recupero del credito in ragione del sopravvenuto fallimento del contribuente, riferendosi alla pluriennale distanza di tempo intercorsa tra la vicenda controversa e la successiva apertura della procedura concorsuale, in cui, comunque al credito fiscale sarebbe spettata collocazione privilegiata. In secondo luogo ineccepibile risulta pure la qualificazione del risarcimento dovuto dall’ente locale come debito non di valuta ma di valore (tra le numerose altre, Cass. 200209517), soggetto, dunque, anche al cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, trattandosi di debito d’indole risarcitoria da inadempimento di un’obbligazione non pecuniaria (ma ex mandato) e non per legge direttamente rapportato all’entità della pretesa fiscale pregiudicata, ma a questa solo commisurato per equivalente pecuniario.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del Comune soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore delle parti intimate e controricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune di Porto Mantovano a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed all’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000,00, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2008


Cass. civ. Sez. II, (ud. 29-09-2008) 27-10-2008, n. 25860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COLARUSSO Vincenzo – Presidente

Dott. ODDO Massimo – rel. Consigliere

Dott. SCHERILLO Giovanna – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L. – rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a mancata integrazione margine del ricorso dagli avv.ti Ruotolo Domenico e Daniela del foro di Verona ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via A. Bertoloni, n. 26, presso l’avv. Rulli M. Grazia;

– ricorrente –

contro

D.M. – rappresentato e difeso in virtù di procura speciale in calce al controricorso dall’avv. Mignone Roberto, presso il quale è elettivamente domiciliato in Salerno, alla via SS. Martiri Salernitani, n. 66;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno n. 2 del 12 gennaio 2004 – notificata il 10 febbraio 2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2008 dal Consigliere Dott. Oddo Massimo;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lo Voi Francesco, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto notificato il 7 aprile 1993, B.L. convenne D.M. davanti al Tribunale di Salerno e, esponendo di essere figlia ed unica erede del padre B.G., deceduto il (OMISSIS), e che il convenuto, profittando della degenerazione delle facoltà cognitive e critiche del defunto, aveva da questo acquistato il 22 maggio 1989 al prezzo di L. 270 milioni, un locale commerciale in Salerno, il cui valore all’epoca del trasferimento era di L. 600 milioni, domandò la declaratoria della nullità o l’annullamento della compravendita stipulata dal suo dante causa perché compiuto in pregiudizio di un soggetto in stato d’incapacità naturale.

Si costituì il D. e, contestandone la fondatezza, chiese il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, il risarcimento del danno per avergli la trascrizione della domanda dell’attrice impedito l’accensione di un mutuo.

Integrato il contraddittorio nei confronti di B.W., poi estromessa dal giudizio, nonché di L.G., B. A. e V., S. e G.M., rimasti contumaci, il Tribunale con sentenza del 31 agosto 2001 rigettò sia la domanda dell’attrice che quella riconvenzionale del convenuto.

La B. propose gravame avverso la decisione e la Corte di appello di Salerno il 12 gennaio 2004 dichiarò inammissibile l’impugnazione perchè, “anche al di là della notifica alle altre parti oltre il termine, perentorio, assegnato dal Giudice”, l’atto di integrazione del contraddittorio, disposto nella prima udienza dal consigliere istruttore, non era “stato affatto notificato ai signori G.A. S. e G., risultati trasferiti”.

La B. è ricorsa con due motivi per la cassazione della sentenza, l’intimato D. ha resistito con controricorso notificato il 14 maggio 2004 ed entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sull’omessa notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio, avendo il Giudice dichiarato l’inammissibilità dello appello senza verificare se l’omissione fosse dipesa da fatto imputabile unicamente alla negligenza dell’ufficiale giudiziario, pur non avendo egli certificato l’attività svolta per verificare l’avvenuto trasferimento dei destinatati della notifica appreso da “alcuni vicini” e l’appellante avesse fatto istanza di offrire una prova orale e documentale della correttezza dell’indirizzo indicato nell’atto. Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., e falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., giacché, costituendo l’eventuale trasferimento dei destinatali della notifica una causa di omessa notificazione non addebitabile alla parte onerata, il Giudice doveva escludere la decadenza dell’appellante dal termine per integrare il contraddittorio e, secondo una interpretazione estensiva dell’art. 184 bis c.p.c., conforme al principio costituzionale dell’effettività del contraddittorio, doveva fissare un nuovo termine per l’integrazione.

Il primo motivo è inammissibile.

Nel caso in cui l’ufficiale giudiziario attesti il mancato rinvenimento del destinatario della notifica di un atto nel luogo (di residenza, dimora o domicilio) indicato dal richiedente e la notizia appresa dai vicini del suo trasferimento altrove, la prima attestazione ed il contenuto estrinseco della seconda sono assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale, mentre la notizia appresa dai terzi è assistita da una presunzione di veridicità iuris tantum (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 11 aprile, 2000, n. 4590), che non consente al Giudice di disconoscere, in assenza di prova contraria risultante dagli atti del procedimento o fornita dalle parti, la regolarità dell’attività svolta dall’ufficiale giudiziario e gli effetti che ad essa ricollega l’ordinamento nel caso in cui si risolva nell’omessa notifica di un atto nel termine perentorio fissato dalla legge o stabilito dal Giudice.

La parte che in sede di legittimità si dolga dell’attendibilità attribuita dal Giudice all’attestazione dell’ufficiale giudiziario dell’impossibilità di effettuare la notificazione di un atto per non avere egli rinvenuto il suo destinatario nell’indirizzo indicato ed avere appreso dai vicini il suo trasferimento altrove è quindi onerata dal principio di autosufficienza del ricorso alla specificazione degli atti non esaminati od inadeguatamente valutati dal Giudice dai quali emerge il fondamento della sua doglianza e/o i mezzi richiesti nel giudizio a riprova di essa, elencandoli ed indicandone esattamente il tenore onde consentire una verifica della loro ammissibilità e decisività. A tanto non ha soddisfatto la ricorrente, atteso che la sua sola affermazione della legittimità della propria istanza di offrire valida prova orale e documentale”(nei termini che solo il prosieguo del gravame avrebbe potuto consentire)” dell’effettiva abitazione dei notificandi nell’indirizzo da lei indicato negli atti di integrazione del contraddittorio non consente di apprezzare la correttezza del contrario assunto della sentenza che l’appellante aveva omesso di dedurre e provare di non avere potuto provvedere alla notifica per fatti ad essa non imputabili.

Il secondo motivo è infondato.

In seguito alle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2000, nn. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005, nel caso, in cui il Giudice dell’impugnazione abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio, è sufficiente e necessario al fine del rispetto del termine assegnato per la notifica dell’atto alle parti pretermesse che entro detto termine l’atto sia consegnato all’ufficiale giudiziario e, conseguentemente, la parte notificante non incorre nella decadenza correlata alla sua inosservanza ove, in caso di iniziale esito negativo della notifica per causa alla stessa non imputabile, provveda senza ingiustificata soluzione di continuità allo svolgimento di tutte le ulteriori attività occorrenti al perfezionamento del procedimento notificatorio di cui è onerata, anche se questo avvenga oltre la data stabilita dal Giudice (cfr.: Cass. civ., sez. 5^, sent. 12 marzo 2008, n. 6547; Cass. civ., sez. 2^, sent. 19 marzo 2007, n. 6360).

Nel caso di esito negativo della notifica per causa alla stessa imputabile o di ingiustificata soluzione di continuità delle ulteriori attività occorrenti alla notifica, la parte onerata non si sottrae, quindi, alla decadenza dal termine assegnatole ed all’inammissibilità dell’impugnazione che ne deriva a norma dell’art. 331 c.p.c., giacchè la fissazione di un nuovo termine per l’integrazione del contraddittorio equivarrebbe alla concessione di una proroga di un termine perentorio, espressamente vietata espressamente dall’art. 153 c.p.c.. E’ vero che a tale divieto è stato ritenuto possibile derogare, peraltro non in ragione dell’applicabilità anche alla fase di proposizione delle impugnazioni dell’istituto della rimessione in termini, che l’art. 184 bis c.p.c., limita alla fase istruttoria, bensì della rilevanza da riconoscere, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 331 c.p.c., ad una situazione di forza maggiore certa ed obiettiva, che abbia impedito alla parte l’osservanza del termine stesso, dovendo escludersi che la sanzione di inammissibilità dell’impugnazione prevista per la sua inosservanza, in quanto rivolta a colpire l’incuria e la negligenza della parte, possa tradursi in danno il soggetto che provi di non essere stata in grado di rispettare il termine fissato dal Giudice per fatti ad essa non imputabili.

A tale fine, tuttavia, deve tenersi conto che il termine per l’integrazione del contraddittorio viene concesso non soltanto per il conferimento dell’incarico all’ufficiale giudiziario, ma anche per lo svolgimento di tutte le attività ad esso prodromiche, quali le indagini di stato civile ed anagrafiche eventualmente necessarie per individuare i soggetti destinatari della notifica ed il luogo ove questa deve essere eseguita, ed è normalmente stabilito dal Giudice in misura di tale ampiezza da permettere alla parte anche di rimediare eventuali errori nei quali sia incorsa nella notificazione dell’atto (Cass. civ., sez. 1^, sent. 14 ottobre 2005, n. 20000).

Di tal che, se la notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio sia mancata per avere la parte onerata richiesto la notifica all’ufficiale giudiziario, come in specie, due giorni prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento senza alcun preventivo accertamento della residenza, del domicilio o della dimora dei notificandi, facendo affidamento sull’avvenuta notifica di altro atto del procedimento in epoca remota, e la parte si sia successivamente astenuta da qualsiasi altra attività diretta al perfezionamento di essa senza prospettare nessun ostacolo al loro compimento, non è ravvisabile alcuna situazione di forza maggiore che abbia impedito alla parte l’osservanza dell’onere del quale era gravata.

Al contrario nel suo comportamento è ravvisabile una colpevole negligenza sia perché si è posta in condizione di verificare l’esito della notifica soltanto all’atto o dopo la scadenza del termine stabilito dal Giudice, nonostante l’incognita di una variazione nel lungo periodo dell’abitazione dei destinatari e l’agevole possibile riscontro dell’attuale loro residenza anagrafica e sia perché si è disinteressata della negatività di tale esito facendo ingiustificatamente incorrere il processo in una stasi che proprio la fissazione del termine perentorio per l’integrazione era diretta ad evitare.

All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 2.800,00, di cui Euro 100,00, per spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2008


Dipendenti pubblici hanno idee politiche diverse dai vertici? Non possono essere emarginati

I funzionari pubblici che emarginano i dipendenti per le loro idee politiche, possono essere puniti per il reato di abuso d’ufficio. Lo ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione che, con la Sent. n. 37354/2008, rigettando il ricorso presentato da alcuni funzionari di una Pubblica Amministrazione, nel caso di specie, ha chiarito che “quanto al merito della vicenda, deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dott.ssa […] all’istituendo Ufficio Studi e la successiva istituzione dello stesso presso il […] una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’Organo esecutivo del […]”.


Agenzia delle Entrate: inviti, comunicazioni, questionari e altro: corretta notificazione

Tra gli atti che giungono dall’Agenzia delle Entrate, inerenti l’attività di controllo affidatagli, vi sono non solo avvisi di accertamento e di liquidazione, ma anche inviti al contribuente a presentarsi per acquisizione di informazioni o richieste di documenti o invii di questionari, al fine di definire l’esatta imposizione fiscale cui gli stessi devono essere sottoposti.

Di tutte queste attività proprie dell’Agenzia delle Entrate si fa riferimento nel DPR 600/1973 artt. 32 e 33, cioè gli articoli che trattano dei poteri degli uffici delle imposte e in particolare delle attività inerenti la loro applicazione.

Come per le imposte sui redditi, anche per l’IVA sono previste attività similari di controllo, negli articoli 51 e 52 del DPR 633/1972, che sembrano ricalcare in linea di massima le disposizioni dei sopra citati artt. 32 e 33.

Tuttavia mentre per le attività di controllo sulle imposte dei redditi, sono espressamente previste le notificazioni dei relativi atti, ai sensi dell’art. 60, non altrettanto è previsto per le comunicazioni inviate al contribuente ai fini della corretta esazione dell’IVA. Infatti in questo caso, gli inviti, comunicazioni o questionari in genere sono effettuati mediante lettera raccomandata A.R., tranne alcuni casi, per i quali la mancanza di risposta, comporta una reiterazione nell’invio al contribuente, questa volta tramite notificazione, ai sensi dell’art. 60 del DPR 600/1973.

In linea generale, dunque, sarà necessario provvedere a queste notificazioni con le modalità di notifica degli atti finanziari, poiché l’individuazione del caso specifico, di non facile soluzione a seconda dell’imposta e della situazione, crea inutili rischi all’attività del Messo Comunale.


Notificazione alla società: valida anche se eseguita a un non addetto alla ricezione

Si presume valida la notifica alla società eseguita dall’Ufficiale Giudiziario nelle mani di un soggetto che si trovava nei locali della sede sociale, anche se questi non è legato alla società da un rapporto di dipendenza.

Cassazione civile Sentenza 03/10/2008, n. 24622


TESSERAMENTO 2009

TESSERAMENTO 2009
L’Assemblea Generale, nella seduta del 12.09.2008, ha deliberato le quote per il tesseramento 2008 che rimangono invariate:
1. Tipo A – Messi Comunali: € 60,00
2. Tipo B – Messi del Giudice di Pace e di Conciliazione: € 60,00;
3. Tipo C – Ufficiali Giudiziari: € 60,00;
4. Tipo D – Messi Provinciali: € 60,00;
5. Tipo E – Comuni fino a 10.000 abitanti: € 100,00;
6. Tipo F – Comuni con popolazione da 10.001 a 100.000 abitanti: € 150,00;
7. Tipo G – Comuni con popolazione oltre i 100.001 abitanti: € 200,00;
8. Tipo H – Altri Enti: € 250,00;
9. Tipo I – Soggetti privati: € 250,00.


Decreto-legge 31 dicembre 2007, n 248 (Legge milleproroghe)

Approvato in via definitiva il ddl di conversione del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante “proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria” (cosiddetto “milleproroghe“).

Il capo I in particolare, reca proroghe di termini in diversi settori: difesa, beni culturali e turismo, lavoro e previdenza, salute, università, giustizia, infrastrutture e trasporti, personale delle pubbliche amministrazioni, agricoltura, sviluppo economico, ambiente e interno.

Una seconda parte del provvedimento contiene disposizioni di carattere finanziario che intervengono nei settori dei tributi, della borsa, dell’accisa sul gas metano, dei servizi radiotelevisivi, del dissesto finanziario degli enti locali, dell’inadempimento di alcuni concessionari per la riscossione e del conto disponibilità del Tesoro per il servizio di tesoreria della Banca d’Italia.

Altri articoli concernono il trattamento del Fondo per il trattamento di fine rapporto e norme relative alla violazione dell’obbligo delle comunicazioni nei confronti dell’ISTAT.

La terza parte prevede incentivi e contributi a favore di di associazioni sportive dilettantistiche e di soggetti disabili per i quali, in particolare, si dispongono alcuni finanziamenti.

Sono previsti anche contributi statali per il finanziamento di interventi in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali e per la salvaguardia del patrimonio culturale ebraico in Italia.

Vi sono norme concernenti le sanzioni amministrative erogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato e disposizioni riguardanti la partecipazione dell’Italia alla ricostituzione delle risorse per i fondi delle banche internazionali.


Legge Finanziaria 2008

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ( legge finanziaria 2008 )
Legge n. 244 del 24 Dicembre 2007, G.U. n. 300 del 28 Dicembre 2007 (suppl.ord.)
Testo ripubblicato nella G.U. n. 10 del 12 Gennaio 2008 (suppl.ord.)


Cass. civ. Sez. V, (ud. 09-07-2008) 03-10-2008, n. 24622

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE ed AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui Uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 sono elettivamente domiciliati;

– ricorrenti –

contro

C.C.A. – COOPERATIVA CUSTODI AUTOMOBILI S.C.A.R.L., con sede in (OMISSIS), in Liquidazione Coatta Amministrativa, in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 04 della Commissione Tributaria Regionale di Genova – Sezione n. 17, in data 25/01/2005, depositata il 24/02/2005;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09 luglio 2008 dal Relatore Cons. Dott. Antonino Di Blasi;

Vista la richiesta scritta del Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La società contribuente, impugnava in sede giurisdizionale la cartella esattoriale, portante carico tributario, derivante da avviso di rettifica IVA, – relativo all’anno 1994 -, in precedenza notificato e non impugnato.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Genova, accoglieva il ricorso, con decisione che veniva confermata in appello dalla CTR. In particolare, quest’ultima, riteneva di dover confermare l’operato dei Giudici di primo grado, – che avevano annullato la cartella esattoriale -, anzitutto, in accoglimento della preliminare eccezione, secondo cui il presupposto avviso di accertamento non era stato regolarmente notificato a mani delle persone, abilitate alla ricezione ex art. 145 c.p.c., di poi, anche per le ragioni di merito, esplicitate nell’appellata decisione.

Con ricorso notificato l’11-15 aprile 2006, il Ministero e l’Agenzia hanno chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’intimata, non ha svolto difese in questa sede.

Con istanza 30.01.2007, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso, per manifesta fondatezza, ex art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
La Corte;

Visto il ricorso, come sopra proposto e notificato, con cui l’impugnata decisione viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e per omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, nonchè per motivazione apparente ed illogica, violazione dell’art. 100 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, ed omessa motivazione su punto decisivo della controversia;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che l’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze è a ritenersi inammissibile, in quanto non è stato parte nel giudizio di appello – cui ha partecipato solo l’Agenzia delle Entrate di (OMISSIS) – ed il ricorso risulta notificato l’11-15 aprile 2006, quindi, dopo la data dell’1 gennaio 2001, a decorrere dalla quale l’Agenzia delle Entrate è subentrata all’Amministrazione delle Finanze nei rapporti giuridici già facenti capo a quest’ultima;

Ritenuto che i Giudici di appello hanno confermato la decisione di primo grado, con argomentazione non coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale e sulla base di generiche espressioni di condivisione della decisione di primo grado;

Considerato, infatti, sotto il primo profilo, che l’affermazione della CTR – secondo la quale la notifica della cartella era a ritenersi nulla, per essere stata effettuata a mani di un socio e non già di alcuno dei soggetti contemplati nell’art. 145 c.p.c., si pone in contrasto con il principio secondo cui “La disposizione dell’art. 46 c.c., secondo cui, qualora la sede legale della persona giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima, vale anche in tema di notificazione, con conseguente applicabilità dell’art. 145 c.p.c.; ne consegue che, ai fini della regolarità della notificazione di atti a persona giuridica presso la sede legale o quella effettiva, è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica stessa da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventualmente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza – sicché, qualora dalla relazione dell’Ufficiale Giudiziario o postale risulti in alcuna delle predette sedi la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere alle sue dipendenze, non era addetta neppure alla ricezione di atti, per non averne mai ricevuto incarico alcuno” (Cass. n. 12754/2005, n. 11804/2002);

Considerato, altresì, per l’altro aspetto, che la mera espressione di condivisione della decisione di primo grado nel merito, non assolve all’obbligo motivazionale, non risultando indicati i concreti elementi utilizzati, al fine di riconoscere la legittimità e fondatezza delle doglianze della contribuente;

Considerato, in proposito, che costituisce principio consolidato e condiviso, sia quello secondo cui “la motivazione di una sentenza per relationem ad altra sentenza, è legittima quando il giudice, riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione” (Cass. n. 1539/2003; n. 6233/2003; n. 2196/2003; n. 11677/2002), sia pure quell’altro secondo cui è configurabile l’omessa motivazione, “quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logico- giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (Cass. n. 890/2006, n. 1756/2006, n. 2067/1998);

Considerato, in buona sostanza, che le espressioni adoperate dalla C.T.R. non solo appaiono inadeguate sotto il profilo giuridico e della coerenza logico formale, rivelando un sintomo d’ingiustizia nella soluzione della questione di fatto, ma pure rivelano decisive pretermissioni di elementi, che ove esaminate e valutate, avrebbero, ragionevolmente, potuto indurre ad un diverso decisum;

Considerato, conclusivamente, che il ricorso va, per tali ragioni, accolto, con assorbimento di ogni altro profilo di doglianza, e, per l’effetto cassata l’impugnata sentenza, la causa va rinviata ad altra sezione della C.T.R. della Liguria, la quale, procederà al riesame e, attenendosi ai richiamati principi, pronuncerà, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze; accoglie l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio, ad altra sezione della C.T.R. della Liguria.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2008.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2008


Cass. pen. Sez. VI, (ud. 17-06-2008) 01-10-2008, n. 37354

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGINIO Adolfo – Presidente

Dott. OLIVA Bruno – Consigliere

Dott. SERPICO Francesco – Consigliere

Dott. MILO Nicola – rel. Consigliere

Dott. COLLA Giorgio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) E.A., nato (OMISSIS);

2) F.M., nato (OMISSIS);

3) D.R., nato (OMISSIS);

4) FI.Ma., nato (OMISSIS);

avverso la sentenza 25/10/2007 della Corte d’Appello di Torino;

Visti gli atti, la sentenza denunziata e i ricorsi;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Nicola Milo;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DELEHAYE E., che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di E. e F. e l’annullamento senza rinvio per D. e Fi. per non avere commesso il fatto;

udito il difensore di p.c. avv. R. Borasio, che ha concluso per il rigetto o l’inammissibilità dei ricorsi;

uditi i difensori dei ricorrenti avv. MUSSA C. (per E. e F.), avv. C. Rossa e avv. M. Pellerino (per D. e Fi.), che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con riferimento al solo aspetto che è oggetto della sollecitata verifica di legittimità, va rilevato, in punto di fatto, che, a seguito di gravame del P.M., la Corte d’Appello di Torino, con sentenza 25/10/2007, in riforma – tra l’altro – della decisione assolutoria con formula di merito (fatto non costituisce reato) emessa – il 7/4/2006 – dal locale Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di E.A., F.M., D.R. e Fi.Ma. in ordine al reato di abuso d’ufficio rubricato originariamente sotto il capo a), perchè estinto per prescrizione.

L’addebito mosso agli imputati è di avere, l’ E. quale sindaco di (OMISSIS), il F. quale segretario generale, il D. e il Fi. quali componenti della Giunta comunale, adottato, tra il 1995 e il 1999, una serie di atti, in palese violazione di legge, finalizzati a danneggiare la dirigente del detto Comune, Dr.ssa B.M., invisa ai detti amministratori, la quale venne esonerata dalle funzioni esercitate (vice segretario, collaborazione esterna con l’Associazione dei Comuni) e assegnata – il 5/10/1999 -all’Ufficio Studi, istituito con decreto sindacale del successivo 3 novembre, a cui faceva seguito la Delib. Giunta 1 dicembre 1999, Ufficio rimasto assolutamente inoperativo, tanto che, nel 2001, a seguito del commissariamento del Comune, la B. venne destinata a sovrintendere anche la ripartizione commercio.

Il Giudice distrettuale, all’esito di un’approfondita analisi dei vari atti amministrativi adottati e sulla base delle testimonianze acquisite agli atti, evidenziava che “l’affrettata scelta di assegnare la B. all’Ufficio Studi non ancora costituito, quindi l’istituzione ex novo di detta struttura organizzativa in via d’urgenza, da parte del sindaco e poi da parte della Giunta… nascondeva di fatto la volontà di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento… di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l’esatto contrario in termini di pubblica utilità”.

Hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati. Il D. e il Fi. hanno denunciato la violazione della legge processuale, con riferimento all’art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 522 c.p.p., avendo la sentenza ricostruito la vicenda relativa all’istituzione dell’Ufficio Studi in maniera difforme da quella oggetto di contestazione. Tutti, poi, hanno dedotto la violazione della legge penale e di altre norme di cui si deve tenere conto nell’applicazione della stessa, sostenendo, con argomentazioni varie e articolate, che nella loro condotta sarebbe difettato il requisito della “violazione di legge o di regolamento” e, quindi, uno degli elementi strutturali del reato contestato, e hanno lamentato, inoltre, la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

I ricorsi non sono fondati.

La doglianza di natura processuale del D. e del Fi. è priva di pregio.

Osserva, invero, la Corte che per aversi mutamento del fatto, con conseguente violazione del principio di correlazione di cui all’art. 521 c.p.p., occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa. Conseguentemente l’indagine volta ad accertare la violazione del principio richiamato non va esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale tra contestazione e sentenza, ma deve tenersi conto della concreta possibilità avuta dall’imputato, attraverso l’iter del processo, di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione, circostanza quest’ultima verificatasi nella specie nel corso della lunga e approfondita istruttoria dibattimentale, con l’effetto che la denunciata violazione della regola processuale deve ritenersi del tutto insussistente.

Quanto al merito della vicenda, deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dr.ssa B. all’istituendo Ufficio Studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di Carmagnola, una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’Organo esecutivo del Comune e al segretario generale F., che affiancava ed ispirava l’azione del primo. Non manca la sentenza, inoltre, di motivare sotto il profilo fattuale, in maniera adeguata e logica, la conclusione alla quale perviene in relazione al ritenuto abuso d’ufficio posto in essere dagli imputati, illecito – però – dichiarato estinto per prescrizione. I corrispondenti motivi di ricorso non tolgono valenza agli argomenti in fatto e diritto su cui riposa la sentenza di merito.

Quanto alla deduzione difensiva, fatta anche nel corso dell’odierna discussione orale, del D. e del Fi. circa la loro asserita buona fede e l’errore scusabile sulla legge extrapenale, essendosi essi limitati a prendere parte all’atto deliberativo della Giunta, ritenendolo perfettamente regolare, e circa il connesso vizio di motivazione su tali specifici punti della sentenza di merito, va osservato che, stante la causa estintiva del reato, non è rilevabile in questa sede il denunciato vizio della sentenza impugnata, perché, pur a volerlo ritenere meritevole di una qualche considerazione, ciò comporterebbe l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito, il che è incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento, ex art. 129 c.p.p., comma 1, per intervenuta estinzione del reato.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali. Non essendo stata mai pronunciata, nei precedenti gradi di merito, la condanna degli imputati per il reato loro ascritto, non possono porsi a loro carico, almeno allo stato, le spese sostenute dalla costituita parte civile, spese che dovranno essere liquidate, in base al relativo esito, nell’eventuale giudizio civile che potrà instaurarsi tra le parti contrapposte.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2008


Elezione di domicilio presso l’Ambasciate o il Consolato straniero

Non è valida l’elezione di domicilio effettuata presso un’ambasciata o un consolato straniero. Secondo la Cassazione, è invalida ed inidonea agli scopi di legge l’elezione di domicilio presso un’ambasciata o un consolato straniero, non essendo consentito procedere a notificazione in detti luoghi caratterizzati da extraterritorialità.

Cassazione penale Sentenza, Sez. Fer., 01/09/2008, n. 34503.