Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 13/04/2021) 27/04/2022, n. 13088

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23461-2015 proposto da:

EQUITALIA SUD SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA Premuda 1/A, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO DIDDORO, rappresentata e difesa dall’avvocato TIZIANA PANE;

– ricorrente –

contro

D.B.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO 10, presso lo studio dell’avvocato ANNA BEI, rappresentato e difeso dagli avvocati FILIPPO MASSARA, e DARIO PALMARINI;

– controricorrente e ricorrente incidentale e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 2479/2015 della COMM.TRIB.REG.CAMPANIA, depositata il 13/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE D’AURIA.

Svolgimento del processo
La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso proposto da D.B.P. con cui il predetto deduceva di non aver ricevuto alcuna notifica per la cartella esattoriale n. (OMISSIS), di cui era venuto a conoscenza solo con il rilascio di copia dell’estratto ruolo consegnato il 13.7.11.

Si doleva inoltre che in ogni caso tale cartella non sarebbe stata notificata nei termini di decadenza previsti dalla legge.

La Ctp adita dichiarava inammissibile il ricorso nei confronti dell’estratto del ruolo.

Proponeva appello il contribuente che evidenziava che il ricorso era stato proposto contro la cartella e non contro il ruolo, indicato solo per specificare la data della avvenuta conoscenza circa l’esistenza della cartella mai notificata.

Si costituivano sia Equitalia Sud che l’agenzia delle Entrate.

La CTR in accoglimento dell’appello dichiarava prescritto il diritto alla riscossione della pretesa.

Proponeva ricorso in cassazione Equitalia sud spa, affidandosi a tre motivi così sintetizzabili:

1) Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19 e 21 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

2) Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

3) Violazione dell’art. 2946 c.c., nella parte in cui il giudice ha ritenuto prescritto nel termine quinquennale la pretesa fiscale. Si costituiva con controricorso il contribuente che chiedeva il rigetto del ricorso, ed a sua volta proponeva ricorso incidentale affidandosi a due motivi:

violazione degli artt. 138, 139 e 140 ss. c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3.

omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e cioè la prescrizione quinquennale maturata già al momento della notifica della cartella avvenuta nel 2004 per una pretesa iva relativa all’anno 1997, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si costituiva anche l’Agenzia delle Entrate con memoria limitandosi ad affermare che la costituzione era diretta solo alla eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
Va in via preliminare esaminata la deduzione del controricorrente con cui si chiede la dichiarazione dell’inammissibilità del ricorso per tardivita, essendo stato promosso dopo la scadenza del termine breve, decorrente dal 16.6.2015.

Tale eccezione è infondata. Per quello che qui interessa, come si evince dalle stesse considerazioni indicate da esso controricorrente, tale comunicazione era finalizzata ad ottenere la cancellazione della ipoteca collegata alla pretesa fiscale. Come è noto il termine breve per le impugnazioni si attiva solo a seguito della notificazione della sentenza, ai sensi del combinato disposto degli artt. 285 e 326, e da eseguire eseguita al procuratore costituito. Al fine di far decorrere il termine breve occorre che la condotta processuale posta in essere non deve essere equivoca ma deve essere tale da porre in condizione il suo destinatario specifico, e nel caso il procuratore costituito, in quanto munito delle necessarie competenze tecniche in grado di percepire non solo il contenuto del provvedimento, ma anche in modo chiaro l’intenzione del notificante. Nel caso non solo l’atto era diretto alla cancellazione della ipoteca e non a far decorrere il termine breve ma neppure risulta notificato al procuratore costituito ma solo al concessionario come si legge nel controricorso, sicchè la doglianza è infondata.

Con il primo motivo il ricorrente si duole che la ctr, abbia ritenuto ammissibile il ricorso introduttivo sebbene l’atto impugnato fosse un estratto di ruolo.

Il motivo come prospettato è infondato.

Vero è che l’impugnazione non è ammessa quelle volte in cui il contribuente si procuri un estratto di ruolo in cui sia riportato il credito erariale trasfuso nella cartella di pagamento precedentemente notificata, giacchè in tal caso si produrrebbe l’effetto distorto di rimettere in termini il debitore rispetto alla possibilità di impugnare la cartella nel caso in cui al medesimo fosse nota la sua esistenza ed il suo contenuto per effetto di regolare notificazione, ma nel caso il contribuente ha dedotto nel ricorso introduttivo di non aver ricevuto alcun atto da cui potersi desumere l’esistenza di una pretesa erariale. Pertanto, confermando l’indirizzo giurisprudenziale affermato dalle Sezioni unite secondo cui “Il contribuente può impugnare la cartella di pagamento della quale – a causa dell’invalidità della relativa notifica – sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione; a ciò non osta il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, u.p. in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato – impugnabilità prevista da tale norma non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e quindi non escluda la possibilità di far valere l’invalidità stessa anche prima, giacchè l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 19704 del 02/10/2015, Rv. 636309). Nel caso il privato – contribuente ha inteso far valere le sue ragioni immediatamente avverso la cartella esattoriale non notificata o invalidamente notificata, della cui esistenza era venuto a conoscenza solo attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta. Correttamente quindi la Ctr ha ritenuto consentito al contribuente impugnare, attraverso l’estratto di ruolo, la cartella di pagamento deducendone la nullità per difetto di notificazione, salvo poi verificare nel merito se la notifica vi sia stata o meno.

Con il secondo motivo il ricorrente si duole che la Ctr rilevando l’intervenuta prescrizione della pretesa ha violato il principio della correlazione tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c..

Tale affermazione è erronea in quanto il privato contribuente già con l’impugnazione dell’estratto del ruolo aveva dedotto la prescrizione in senso lato come peraltro riportato nella descrizione della vicenda processuale contenuta nel ricorso per cassazione, senza minimamente accennare alla prescrizione prima della notifica della cartella e quella successiva per l’ovvia ragione che aveva dedotto di non aver ricevuto alcuna notifica.

Correttamente quindi il giudice, una volta accertato l’intervenuta notifica della cartella, ha valutato se comunque fosse decorsa la prescrizione dopo tale notifica della cartella, ritenendo la deduzione comunque oggetto del contraddittorio e del ricorso originario, sia pure per un tempo più ristretto, e cioè non ab origine della pretesa ma a partire dalla notifica della cartella essendo il pregresso immodificabile per mancata impugnazione.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce che la ctr ha individuato il termine quinquennale di prescrizione in ordine alla pretesa fiscale contenuta nella cartella, in violazione dell’art. 2946 c.c..

Il motivo è in parte fondato.

Questa Corte, nel dirimere la questione, (Cass. 21623/15; 20153/14; 15619/14 ed altre) nel suo excursus logico, ha stabilito che il termine di decadenza, entro cui va emessa la cartella di pagamento, riguarda solo l’esercizio del potere impositivo-accertativo, non già quello di riscossione. Una volta esauritasi la fase di accertamento del credito tributario (non diversificandosi, da questo punto di vista, l’ipotesi in cui la definitività della pretesa scaturisca da giudicato, invece che dalla mancata opposizione dell’atto di accertamento, come nella specie), trova applicazione la disciplina della realizzazione di un credito certo, liquido ed esigibile, per regola assoggettata all’unico limite della prescrizione decennale ex 2946 c.c. (Sez. 5 n. 13418 del 30/06/2016). Per quanto riguarda i cediti erariali nel caso iva, oltre a sanzioni ed interessi, al fine di determinare il tempo necessario alla prescrizione, bisogna distinguere in relazione alla causa del credito. Mancando una pronuncia giurisdizionale, naturalmente, non può parlarsi di giudicato e, quindi coerentemente va applicato il principio affermato da questa Corte secondo cui “L’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di autoaccertamento e di autotutela della P.A., ha natura di atto amministrativo che cumula in sè le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato: la decorrenza del termine per l’opposizione, infatti, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione” (Cass. 12263/07). La mancata impugnazione della cartella quindi produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale. Orbene l’impugnata sentenza ha ritenuto sussistente tout court il termine di prescrizione breve quinquennale per l’intero credito tributario. Tale termine deve ritenersi correttamente applicato per le sanzioni, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 3 in forza del quale “il diritto alla riscossione della sanzione irrogata si prescrive nel termine di cinque anni” e per gli interessi moratori in virtù di quanto previsto dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4). Per quanto riguarda la pretesa collegata al tributo IVA, in assenza di una espressa previsione, si prescrive nel termine ordinario decennale ex art. 2946 c.c., non potendosi applicare la disciplina dell’estinzione per decorso quinquennale prevista dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4) per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. L’obbligazione avente ad oggetto il tributo pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale ha carattere autonomo ed unitario ed un pagamento non è mai legato ai precedenti e risente di nuove ed autonome valutazioni in ordine al presupposti ben potendo anche non essere effettuato se per quell’anno al contribuente non sia ascrivibile alcun fatto generatore di imposizione fiscale. Dalle decisioni dianzi riportate emerge con tutta evidenza che dalla definitività della cartella di pagamento possono decorrere diversi termini prescrizionali in ragione dei diversi tributi.

In particolare, occorre verificare, di caso in caso, se trova applicazione il termine ordinario decennale o se invece risulta applicabile un termine breve come, ad esempio, quello quinquennale per le prestazioni da effettuarsi periodicamente ai sensi dell’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4, ovvero altro termine breve, o per le sanzioni.

Pertanto per il credito iva va applicato il termine decennale mentre per le sazioni ed interessi va applicato il termine quinquennale, sicchè la sentenza impugnata va cassata affinchè il giudice del rinvio sui adegui a tale principio determinando il dovuto.

Per quanto riguarda l’appello incidentale proposto dal contribuente, esso è infondato.

Con il primo motivo la parte deduce che la Ctr non ha esaminato la questione del maturarsi della prescrizione con riferimento alla fase antecedente alla notifica della cartella.

Il motivo è inammissibile, come si è detto, la mancata impugnazione della cartella ha reso immodificabile la pretesa contenuta nella cartella non impugnata e quindi correttamente non poteva essere esaminata la questione della prescrizione, rimettendolo in termini per una opposizione non proposta.

Con il secondo motivo la parte deduce la nullità della notifica della cartella in quanto il L.R. a cui sarebbe stata consegnata la cartella non era nè zio nè convivente.

Nel caso il ricorrente incidentale non dubita che l’atto sia stato consegnato in via (OMISSIS), secondo il giudice sua abitazione, ma nega che il ricevente fosse parente convivente.

E’ sufficiente in proposito considerare che l’art. 139 c.p.c. fa discendere la presunzione “iuris tantum” di conoscenza da parte del destinatario dell’atto di citazione notificatogli, idonea alla instaurazione del rapporto processuale, dalla sua consegna fatta, nella casa di sua abitazione, a “persone di famiglia”, salva prova contraria, dalla loro presenza occasionale in quel luogo (vedansi “ex multis” le pronunzie di questa corte nn 10248/91, 1403/96 e 599/98)…

Ora la prova contraria, per la quale non era necessaria formulare la querela di falso, come emerge dalle valutazioni del giudice di merito non era stata data, e tale valutazione di fatto spettava in via esclusiva al giudice di merito, e nel caso neppure era stato dedotto il vizio di motivazione ma solo violazione di legge. Nel caso la relata rivela che la consegna è avvenuta nell’abitazione del contribuente, indicato sulla busta, a mani di persona convivente. Secondo il giudice proprio il fatto che dal 18 4 1996 il contribuente risulta formalmente residente proprio in via (OMISSIS), ha concluso che la residenza di fatto fosse in via (OMISSIS) già al momento della notifica. La presunzione semplice di conoscenza di quell’atto da parte dell’odierno ricorrente, conseguente alla consegna a persona “familiare”, rinvenuta nella sua abitazione, non può ritenersi superata dalla certificazione anagrafica, come correttamente valutato dalla Ctr. Inoltre l’assenza del consegnatario dell’atto nell’elenco delle persone componenti il nucleo familiare facente capo al contribuente non esclude infatti la convivenza di fatto, sulla quale si fonda la presunzione di conoscenza dell’atto, di quel soggetto con il destinatario medesimo.

Pertanto, in accoglimento del terzo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Ctr della Campania in diversa composizione, che provvederà anche alle spese di questo grado.

Dal rigetto dell’appello incidentale, consegue la condanna del ricorrente incidentale ai sensi del D.P.R. n. 115 del 1992, art. 13.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo e secondo motivo, in accoglimento del 3 motivo cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Ctr della Campania che provvederà anche per le spese del grado di legittimità.

Rigetta il ricorso incidentale.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2022


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Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 08/03/2022) 21/04/2022, n. 12706

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22833/2019 R.G. proposto da:

STUDIO LEGALE M. ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE, rappresentata e difesa dall’avvocato Pompilio Massafra, elettivamente domiciliata in Roma, via Baldo degli Ubaldi 272;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, RISCOSSIONE ROMA CAPITALE (GIA’ COMUNE DI ROMA);

– intimati –

avverso la sentenza n. 450/2019 della CORTE D’APPELLO DI ROMA, depositata il 23/1/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dell’8/3/2022 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.

Svolgimento del processo
che:

– la Studio Legale M. Associazione Professionale conveniva in giudizio l’agente della riscossione Gerit S.p.A. e il Comune di Roma domandando la declaratoria di invalidità del fermo amministrativo dell’autoveicolo tg. (OMISSIS) e delle cartelle di pagamento (asseritamente non notificate) poste a fondamento del medesimo, nonchè il riconoscimento dell’estinzione del credito vantato dal Comune per intervenuta decadenza e prescrizione;

– il Giudice di Pace dichiarava la propria incompetenza e rimetteva le parti innanzi al Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia;

– il giudice di primo grado, con la sentenza n. 20931/2011, confermava la propria competenza; in esito alla discussione orale del 24/7/2013, accoglieva la domanda dell’Associazione Professionale, qualificata come opposizione all’esecuzione, e dichiarava l’invalidità del fermo amministrativo e l’estinzione dell’obbligazione di pagamento derivante dalle cartelle esattoriali per intervenuta prescrizione del diritto di credito;

– Equitalia Sud S.p.A., subentrata a Gerit S.p.A. nella riscossione, impugnava la decisione;

– la Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 450 del 23/1/2019, accoglieva l’appello e, in totale riforma della pronuncia di primo grado, respingeva l’opposizione proposta;

– avverso la suddetta sentenza la Studio Legale M. Associazione Professionale proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi;

– Agenzia delle Entrate – Riscossione (succeduta alle società del gruppo Equitalia) depositava memoria per la partecipazione alla discussione; l’intimata Roma Capitale (già Comune di Roma) non svolgeva difese nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
che:

– col primo motivo la ricorrente deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., L. n. 890 del 1982, art. 6 e D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per avere la Corte di merito ritenuto valida la notifica di alcune delle cartelle di pagamento sebbene le stesse fossero state consegnate al portiere e difettassero sia l’attestazione riguardante il mancato rinvenimento di persone preferibilmente abilitate alla ricezione, sia la raccomandata informativa circa l’avvenuta notificazione a soggetto diverso dal destinatario;

– indipendentemente dalle lacune del ricorso – che, in violazione dell’art. 366 c.p.c., trascura di riportare il testo degli atti relativi alla notificazione delle cartelle, oggetto della censura per violazione delle menzionate disposizioni – la censura è comunque infondata;

– infatti, come già statuito da questa Corte, “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito ha ritenuto invalida la notifica della cartella sull’erroneo presupposto che, essendo stata ricevuta dal portiere, occorresse, a norma dell’art. 139 c.p.c., l’invio di una seconda raccomandata)” (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 12083 del 13/06/2016, Rv. 640025-01; nello stesso senso, Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 28872 del 12/11/2018, Rv. 651834-01);

– il riferimento del ricorso al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), è inappropriato, sia perchè la disposizione non riguarda la notificazione della cartella di pagamento (per la quale si applica, appunto, il D.P.R. n. 602 del 1973, citato art. 26; v. Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 5278 del 22/2/2019), sia perchè non si verte dell’ipotesi in cui “nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente”;

– col secondo motivo si deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., per avere il giudice di merito affermato che l’appellata (totalmente vittoriosa in primo grado) non aveva reiterato le precedenti difese ed eccezioni e che, dunque, le stesse non potevano essere esaminate; al contrario, afferma la ricorrente che era stata esplicitamente rinnovata, nella comparsa di risposta, l’eccezione di prescrizione (quinquennale) del diritto di riscuotere la sanzione amministrativa;

– analogamente, ma sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con la terza censura si propone doglianza per “errata, omessa ed insufficiente motivazione… circa la mancata riproposizione in grado di appello dell’eccezione di intervenuta prescrizione delle pretese dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti”;

– i suesposti motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto deducono sotto diversi aspetti la medesima violazione da parte del giudice d’appello: essi sono fondati, dovendosi ricondurre le censure – emendata quella del terzo motivo dall’incongruo riferimento al vizio motivazionale di cui al testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, abrogato da quasi dieci anni – all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – nella comparsa di risposta in appello – trascritta nel ricorso parzialmente, ma in maniera sufficiente all’illustrazione della censura e alla sua comprensibilità da parte della Corte – l’Associazione Professionale aveva riproposto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 346 c.p.c. (v. Cass., Sez. U., Sentenza n. 7700 del 19/04/2016 e Cass., Sez. U., Sentenza n. 11799 del 12/05/2017), la doglianza relativa alla prescrizione del diritto di credito dell’ente impositore;

– l’odierna ricorrente, risultata totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre impugnazione incidentale della decisione di prime cure e la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare i profili che, rimasti assorbiti dalla pronuncia dal Tribunale, erano stati riproposti nel secondo grado;

– per quanto esposto, la sentenza impugnata, che a tanto non ha proceduto, va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, affinchè esamini anche l’eccezione suddetta;

– si rimette al giudice del rinvio la regolazione delle spese, anche del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
la Corte:

dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso;

accoglie il secondo e il terzo motivo;

cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 8 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 13/01/2022) 08/04/2022, n. 11461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27032-2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso cui è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

ART. DESIGN s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 426/10/2020 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata in data 23/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 13/01/2022 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

1. L’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo, cui non replica l’intimata Art. Design s.r.l., per la cassazione della sentenza della CTR del Lazio, in epigrafe indicata, pronunciata In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di tre cartelle di pagamento n. (OMISSIS), n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), relative agli anni d’imposta 2010 e 2011, che la predetta società contribuente sosteneva non essergli mai state notificate e di cui era venuta a conoscenza in data 30/07/2015 a seguito di rilascio di estratti di ruolo da parte del concessionario alla riscossione. Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR rigettava l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo che “dalla documentazione prodotta dall’appellate non emerge chiaramente la ritualità della notifica” delle cartelle, in quanto “eseguita nello stabile, composto da più piani abitativi, ubicato al (OMISSIS) ma a soggetti non chiaramente riconducibili alla soc. Art. Design (tale sig.ra A. non riconducibile all’Art. Design e studio D.R., di cui in atti non vi sono elementi da cui dedurre il collegamento con la soc. contribuente).

2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380-bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Motivi della decisione
che:

1. Con il motivo di ricorso, con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, dell’art. 2700 c.c., e della L. n. 890 del 1982, art. 7, la ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto nulla la notificazione delle cartelle di pagamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), benchè effettuate presso la sede legale della società contribuente con consegna del plico a persona qualificatasi come impiegata.

3. Pare opportuno premettere che il ricorso ha ad oggetto soltanto le due cartelle sopra indicate, giacchè, per come desumibile dall’esposizione dei fatti di causa (ricorso, pag. 2), con riferimento alla terza, n. (OMISSIS), l’Agenzia delle entrate neppure aveva proposto appello avverso la sentenza di primo grado che aveva annullato la cartella per non essere stata fornita dall’amministrazione finanziaria alcuna prova della sua notificazione alla società contribuente, sicchè in relazione a tale ultima cartella si è formato il giudicato interno.

4. Ciò precisato, ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato e vada accolto.

5. Al riguardo va ricordato che “Ai fini del perfezionamento della notifica diretta effettuata, a mezzo posta, dall’incaricato della riscossione è sufficiente la consegna del plico al domicilio del destinatario, senza nessun altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la propria firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltrechè sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente, essendo la notifica valida anche se manchi l’indicazione delle generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, trattandosi di adempimento non previsto da alcuna norma” (Cass. n. 946 del 2020); “ne consegue che se, come nella specie, manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur tuttavia valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata” (Cass. n. 11708 del 2011). Si è quindi precisato (cfr. Cass. n. 28895 del 2011) che “In ipotesi di consegna dell’atto da notificare presso lo studio del legale domiciliatario a mani di soggetto in esso rinvenuto”, ma è lo stesso a dirsi in caso di notifica presso la sede legale di una società, “la qualità di persona addetta alla ricezione si presume per la sua presenza nel locale in questione, restando, quindi, onere del destinatario della notifica dare dimostrazione dell’inidoneità del soggetto medesimo alla ricezione degli atti, allegando e provando la casualità della sua presenza, l’esistenza di un rapporto di lavoro non legato all’attività professionale o la mancanza di delega al riguardo”.

6. Orbene, a tali arresti giurisprudenziali non si è attenuta la CTR che ha ritenuto nulla la notificazione delle cartelle di pagamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), benchè effettuate all’indirizzo della società contribuente con consegna del plico a persona qualificatasi come impiegata, con la conseguenza che, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Commissione tributaria regionale del Lazio per esame delle questioni rimaste assorbite.

7. La CTR, quale giudice del rinvio, valuterà anche l’incidenza nel presente giudizio – in cui la contribuente assume di non aver ricevuto la rituale notifica delle cartelle di pagamento, di cui era venuta a conoscenza solo occasionalmente, attraverso il rilascio da parte dell’agente della riscossione dell’estratto di ruolo – dello ius superveniens di cui al D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, art. 3-bis, convertito in L. 17 dicembre 2021, n. 215, dettato in materia di “non impugnabilità dell’estratto di ruolo e limiti all’impugnabilità del ruolo”, alla stregua dell’emananda pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte sulla questione – di cui è stata investita con ordinanza interlocutoria n. 4526 del 2022 della Sezione Quinta proprio a seguito dell’entrata in vigore della citata disposizione -, relativa alla portata applicativa della stessa, ed in particolare se tale norma abbia natura sostanziale (con efficacia ex nunc), attenendo al presupposto impositivo, o processuale, e se, ed entro quali limiti, possa ritenersi ancora valido il principio affermato da S.U. n. 19704 del 2015, secondo cui il contribuente – che assuma di non aver ricevuto la rituale notifica di provvedimenti impositivi e che scopra “occasionalmente” la sussistenza di iscrizioni a ruolo – può impugnare “in via diretta” tali atti tributari, con tutela “anticipata”, quindi prima della loro rituale notificazione nei suoi confronti mediante l’impugnazione degli estratti di ruolo.

8. La CTR provvederà, altresì, alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 03/03/2022) 08/04/2022, n. 11469

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12831/2016 R.G. proposto da:

E.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco Di Mauro, con domicilio eletto in Roma, via Padre Semeria n. 33, presso lo studio, giusta procura in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, già Comunità Montana Colline del Fiora.

– intimata –

e Equitalia Sud s.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5994/1715 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 16/11/2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 marzo 2022 dal Consigliere Dott. De Masi Oronzo.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
E.F., dichiaratamente proprietario di un immobile sito in (OMISSIS), impugnava, davanti alla Commissione tributaria Provinciale di Roma, la cartella di pagamento di contributi di bonifica, per l’anno 2011??’, dovuti alla Comunità Montana Colline del Fiora ed il giudice adito, con sentenza n. 26647/39/14, dichiarava la propria incompetenza per territorio in favore della Commissione tributaria Provinciale di Grosseto.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello proposto dal contribuente, nei confronti dell’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora e di Equitalia Sud s.p.a., e decidendo nel merito rilevava che l’Ente impositore aveva dimostrato, mediante il deposito “relazione e cartografie, con indicate le proprietà del ricorrente”, le opere idrauliche e manutentive che avevano determinato “in capo agli immobili del ricorrente, un reale e concreto beneficio”, cioè “un concreto vantaggio di natura fondiaria al bene stesso, aumentandone il valore”, essendo le opere in grado di preservare il bene dalle acque, rendendolo più sicuro “sotto il profilo idrogeologico”. Aggiungeva il giudice di appello la ininfluenza della mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, essendo il “piano generale di bonifica (…) atto della Regione e non dell’ente delegato” e consentendo la Legge Regionale n. 34 del 1994 Imposizione contributiva “con l’emanazione, appunto, di un perimetro di contribuenza provvisorio”.

Il contribuente propone cinque motivi di ricorso, illustrati con memoria, per la cassazione della sentenza, mentre l’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora ed Equitalia Sud s.p.a. sono rimaste intimate. Fissato all’udienza pubblica odierna, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina (successivamente prorogata) dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Con il primo motivo di ricorso il contribuente lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 148, 149, c.p.c., artt. 168, 171, c.p.p., della L. n. 890 del 1982, art. 3, in tema di notifica degli atti a mezzo posta, nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, in quanto la CTR ha omesso di pronunciare sulla eccezione, articolata nel ricorso introduttivo e riproposta nelle controdeduzioni in appello, concernente l’inesistenza della notifica della cartella. Deduce, in particolare, la mancata osservanza da parte dell’Agente della riscossione delle modalità prescritte dalla legge, avendo spedito l’atto a mezzo raccomandata A/R senza curarsi della redazione della relata di notifica, come richiesto in generale dagli artt. 148 e 149 c.p.c., rendendo impossibile verificare se la consegna all’ufficio postale sia stata eseguita da uno dei soggetti abilitati.

Con il secondo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 125 c.p.c., per non avere la CTR rilevato la dedotta nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento.

Con il terzo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 860 c.c. e della L.R. Toscana n. 34 del 1994, artt. 3 e 4, per non avere la CTR considerato non rilevante il beneficio generale derivante dalle opere di bonifica laddove invece occorre un beneficio diretto e specifico, cioè un incremento di valore dell’immobile soggetto a contributo, in rapporto causale con le opere di bonifica e con la loro manutenzione.

Con il quarto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del R.D. n. 215 del 1933, art. 10, comma 2 e L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, per non avere la CTR considerato che l’onere di provare il predetto beneficio specifico ricade sull’Ente impositore e che la Delibera del Consiglio Regionale che ha delimitato la superficie di ha 42.668 del comprensorio nel quale opera la Comunità Montana Colline del Fiora non risulta trascritta presso la Conservatoria dei RR.II..

Con il quinto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto del Contribuente, per non avere la CTR rilevato la dedotta carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, non essendo possibile evincere per quali opere di bonifica il contributo consortile è stato richiesto e quale sia il vantaggio fondiario che lo giustifica.

Con il sesto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 2, per non avere la CTR disposto consulenza tecnica d’ufficio al fine di acquisire i dati fattuali necessari per decidere nel merito la causa, non essendo all’uopo sufficienti gli atti (cartografie ed elencazioni di opere) predisposte dall’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora.

Le censure sono infondate.

Quanto alla prima censura, concernente la notifica a mezzo del servizio postale della cartella di pagamento, che la CTR ha fatto rientrare tra le questioni “assorbite e superate, perchè irrilevanti alla luce dell’esito del giudizio”, l’odierno ricorrente prescinde dall’orientamento della Corte (Cass. n. 28995/2018) secondo cui “la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia, in quanto il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto (l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, Cass. n. 21257 del 2014) e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni”.

Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto censurare la correttezza della valutazione espressa dalla Corte di assorbimento dei motivi ulteriori, lamentando un vizio di motivazione del tutto omessa, e non sollevare un vizio di omessa pronuncia.

In ogni caso, in merito alla fondatezza della doglianza è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.(Cass. n. 6395/2014, n. 4567/2015, n. 20918/2016).

Con seconda censura il ricorrente deduce la nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento, essendo ad avviso dell’impugnante insufficiente il “fatto che sia indicato un responsabile del procedimento”.

Premesso quanto innanzi osservato in ordine all’ammissibilità della doglianza per come formulata e per quanto è dato comprendere, la stessa si incentra sulla mancanza di autografia della sottoscrizione e la Corte ha precisato, in tema di tributi regionali e locali, che “qualora l’atto di liquidazione o di accertamento sia prodotto mediante sistemi informativi automatizzati, la sottoscrizione di esso può essere legittimamente sostituita, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, individuato da apposita determina dirigenziale”. (Cass. n. 2062872017).

La censura, del resto, neppure pone specificamente in dubbio che il nominativo apposto sulla cartella rispondesse in effetti a funzionario dell’Agente della riscossione regolarmente investito del relativo potere di emissione e sottoscrizione.

La Corte, invero, ha statuito che ” è tuttavia sufficiente, al fine di non incorrere nella detta nullità (D.L. n. 248 del 2007, ex art. 36, comma 4-ter), l’indicazione di persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa” (Cass. n. 3533/2016).

La terza e la quarta censura, scrutinabili congiuntamente in perchè strettamente connesse, concernono la mancanza di utilità fondiaria specifica e la distribuzione del relativo onere della prova, vanno disattesa alla stregua della normativa regionale applicabile ratione temporis (cfr., in particolare, la L.R. Toscana 13 maggio 1994, n. 34).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, mentre in assenza di “perimetro di contribuenza” o -si aggiunge -in assenza del piano di classifica e, ancora, in caso di mancata valutazione dell’immobile del contribuente nel “piano di classifica”, grava sul Consorzio l’onere di provare sia la qualità, in capo al contribuente, di proprietario di immobile sito nel comprensorio sia il conseguimento, da parte del fondo del contribuente, di concreti benefici derivanti dalle opere eseguite, qualora vi siano un “perimetro di contribuenza” e un “piano di classifica” inclusivi dell’immobile del contribuente, come deve ritenersi nel caso in esame, spetta al contribuente che impugni la cartella esattoriale, affermando l’insussistenza del dovere contributivo, l’onere di provare l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, e segnatamente l’inesecuzione o il non funzionamento delle opere da questo previste, che sono cosa ben diversa dalla mera negazione del beneficio fondiario, poichè il vantaggio diretto ed immediato per l’immobile, che costituisce il presupposto dell’obbligo di contribuzione, ai sensi dellart. 860 c.c. e R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, deve ritenersi presunto in ragione dell’avvenuta approvazione del medesimo piano di classifica e della comprensione dell’immobile nel perimetro di intervento consortile. (Cass. n. 23320/2014, n. 13167/2014, n. 4761/2012, n. 17066/2010, 26009/2008).

Emerge dalla sentenza impugnata, che riferisce pure dell’esistenza di un perimetro di contribuenza provvisorio delimitante l’area interessata dalle “opere pubbliche idrauliche e di bonifica” ed includente anche l’immobile per cui è causa, e a fortiori dal piano di classifica, che l’Ente impositore ha provato la realizzazione delle opere idrauliche e le attività di manutenzione, e con ciò ha provato anche “un reale e concreto benefico” di natura fondiaria per l’immobile del contribuente “legato al rischio idraulico evitato”.

A tal fine, la CTR ha inteso valorizzare, con valutazione del materiale probatorio riservata esclusivamente al giudice di merito, la conferma della sussistenza del beneficio fondiario – “legato al rischio idraulico” – “risulta dalla relazione prodotta in primo grado, nella quale, anche con l’ausilio di cartografie, con indicate le proprietà del ricorrente e le opere fatte presso di esse” essendo “possibile riscontrare anche visivamente tutte le attività dell’ente e apprezzare la contiguità con gli immobili del contribuente”.

Sulla scorta di quanto precede, quindi, il giudice di appello si è convinto che l’onere della prova contraria gravante sul contribuente medesimo non fosse stato adeguatamente assolto e che le relative deduzioni difensive si risolvessero in generiche contestazioni circa l’asserita insanabile assenza di un concreto vantaggio fondiario.

Quanto al dedotto profilo di illegittimità consequenziale al carattere provvisorio del perimetro di contribuenza ed alla mancata trascrizione del medesimo, va osservato come l’adozione di un perimetro di contribuenza provvisorio rientrasse tra le previsioni della L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 4.

Non merita, pertanto, censura la sentenza della CTR la cui ratio decidendi si incentra proprio sull’affermazione, conforme alla richiamata giurisprudenza di legittimità, della accertata sussistenza del presupposto dell’obbligo contributivo costituito dalla inclusione dell’immobile nel perimetro consortile e dalla conseguente la presunzione di vantaggio fondiario.

Quanto al profilo di illegittimità concernente la mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, adempimento previsto dalla L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 2, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, al fine di darne “notizia al pubblico”, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, il rapporto impositivo si svolge nei soli confronti del diretto consorziato, il quale aveva modo di verificare l’effettiva ricomprensione del proprio immobile all’interno di esso mediante semplice consultazione del piano di classifica con il quale era stato adottato, dato accessibile, pur in difetto di trascrizione, in quanto portato da una delibera di approvazione regolarmente pubblicata e depositata.

La Corte, in proposito, ha avuto modo di chiarie che “in tema di pianificazione territoriale degli interventi in materia di bonifica, la trascrizione del provvedimento di “perimetrazione della contribuenza” prevista dal R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, comma 2, derivando l’effetto dell’opponibilità degli atti ai terzi direttamente dalla legge, che prevede la costituzione dell’onere reale e la connessa prestazione patrimoniale vincolata all’utilità fondiaria, assolve esclusivamente alla funzione di mera pubblicità-notizia, in quanto adempimento di natura meramente dichiarativa, diretto a soddisfare l’esigenza della localizzazione degli interventi di bonifica ed a rendere pubblico il perimetro di contribuenza, e non integra “principio fondamentale” ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 3,. Ne consegue che la previsione, con norma regionale, della pubblicazione sul BURL del provvedimento amministrativo della Giunta regionale del piano di classifica e riparto, volto alla delimitazione territoriale dei fondi assoggettati a contributo, costituisce forma legittima di pubblicità legale diversa, idonea al raggiungimento dello scopo”. (Cass. n. 13167/2014, n. 7364/2012, n. 2838/2012).

La quinta censura, concernente la dedotta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, per carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, si appalesa inammissibile alla luce della giurisprudenza della Corte secondo cui, “in tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso”. (Cass. n. 28570/2019 e n. 16147/2017).

In ogni caso, il ricorrente a torto si duole della non esaustività della motivazione della cartella impugnata – profilo implicitamente disatteso dal giudice di appello che nella sentenza dà conto del relativo motivo d’appello – considerato che, come anche evidenziato dal Pubblico Ministero, nonostante la stessa constasse di “ben dodici pagine” (ricorso per cassazione, pag. 34) e deduce la mancata indicazione dei lavori per i quali il contributo era stato richiesto, della inerenza degli stessi all’immobile di proprietà, del beneficio apportato, dell’esattezza dei relativi calcoli, senza considerare che pur volendo considerare la cartella attraverso la quale il consorzio procede, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, art. 21, alla riscossione dei contributi, come atto sostanzialmente impositivo, tale motivazione ben può essere adottata per relationem, ad altri atti fondanti l’imposizione, conosciuti o conoscibili dal contribuente in quanto soggetti a pubblicità (Cass. SS.UU. n. 11722/2010 che richiama SS.UU. n. 26009/2008).

La doglianza oggetto d’esame appare incentrata sul fatto che la CTR ha ritenuto provato il beneficio fondiario anche se esso “(n)on è indicato nella cartella, non lo spiega la Comunità interpellata sul punto, non lo si comprende dagli atti prodotti nel giudizio, ove si evocano piani di classifica, indici numerici, formule discorsi di principio, regole programmatiche, definizioni (…)”.

Così argomentando, però, si finisce per confondere il profilo della legittimità formale dell’atto impugnato con quello della fondatezza della pretesa impositiva, la quale afferisce alla distribuzione dell’onere della prova della sussistenza del beneficio apportato al fondo, non già all’esclusione dell’obbligazione del consorziato che, nel caso di specie, propone una nozione di beneficio fondiario non in linea con la giurisprudenza della Corte.

E’, infatti, il piano di classifica che individua i benefici derivanti dalle opere di bonifica, stabilisce i parametri per la quantificazione dei medesimi e i conseguenti indici per la determinazione dei contributi, così come è il piano di riparto delle spese consortili che determina, sulla base della spesa prevista nei bilanci, la ripartizione dei contributi a carico di ciascuna proprietà interessata all’adempimento dei fini istituzionali del consorzio di bonifica sicchè l’obbligazione di motivazione della cartella ben può essere assolta rimandando a detti documenti, non necessariamente da allegare o trascrivere Inoltre, in tema di contributi consortili, vale il principio per cui “allorquando la cartella esattoriale emessa per la riscossione dei contributi medesimi sia motivata con riferimento ad un “piano di classifica” approvato dalla competente autorità regionale, è onere del contribuente che voglia disconoscere il debito contestare specificamente la legittimità del provvedimento ovvero il suo contenuto, nessun ulteriore onere probatorio gravando sul consorzio, in difetto di specifica contestazione”. (Cass. SS.UU. n. 26009/2008).

Quanto, infine, alla sesta censura, concernente i mezzi istruttori delle commissioni tributarie, va osservato che, con un ragionamento motivazionale il cui risultato sfugge ad un controllo da parte della Corte, che non ha il potere di riesaminare nel merito la causa, il giudice di appello mostra di aver apprezzato sul piano probatorio la documentazione offerta dall’Ente impositore, ritenendola idonea e sufficiente per sostenere la pretesa tributaria, per cui appare improprio il richiamo al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che prevede la possibile acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, in via eccezionale, considerato che la disposizione “preclude al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo”. (Cass. n. 18976/2007).

Sulla scorta di quanto sin qui illustrato il ricorso va integralmente respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 03/03/2022) 08/04/2022, n. 11431

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 28163/2022 R.G. proposto da:

E.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco Di Mauro, con domicilio eletto in Roma, via Padre Semeria n. 33, presso lo studio, giusta procura speciale in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, già Comunità Montana Colline del Fiora.

– intimata –

nonchè Equitalia Sud s.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2416/38/15 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 23/4/2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 marzo 2022 dal Consigliere Dott. Oronzo De Masi.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
E.F., dichiaratamente nudo proprietario dal 2003 di un immobile sito in (OMISSIS), impugnava, davanti alla Commissione tributaria Provinciale di Roma, la cartella di pagamento di contributi di bonifica, per l’anno 2012, dovuti alla Comunità Montana Colline del Fiora ed il giudice adito, con sentenza n. 299/23/13, in accoglimento del ricorso, annullava l’atto impugnato.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello dell’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, succeduto alla Comunità Montana Colline del Fiora per effetto della L.R. n. 34 del 1994, rilevando invece che il perimetro di contribuenza, nel caso di specie, ” è stato delimitato con Delib. di assemblea dell’Ente, del 17/3/05, n. 3 ed i proprietari di immobili che ricadono nel comprensorio di bonifica così delimitato, sono tenuti all’obbligo contributivo, ai sensi dell’art. 860 c.c., indipendentemente dalla prova, da parte del Consorzio, sull’effettività del vantaggio specifico per il contribuente” e che la pretesa avanzata dal Consorzio di bonifica è fondata “poichè il presupposto della stessa è costituito dalla sola inclusione del fondo di proprietà del contribuente nel perimetro consortile, dovendosi ragionevolmente presumere l’utilità che da questo fatto, comunque, deriva indipendentemente dall’effettivo, diretto, specifico beneficio derivante all’immobile dalle opere eseguite dal Consorzio”.

Il contribuente propone cinque motivi di ricorso per la cassazione della sentenza, illustrati con memoria, mentre Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora ed Equitalia Sud s.p.a. sono rimaste intimate. Fissato all’udienza pubblica odierna, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina (successivamente prorogata) dettata dal D.L. n. 137 del 2020, sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, inserito dalla L. di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Con il primo motivo di ricorso il contribuente lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 148, 149 c.p.c., degli artt. 168 e 171 c.p.p., della L. n. 890 del 1982, art. 3, in tema di notifica degli atti a mezzo posta, nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, in quanto la CTR ha omesso di pronunciare sulla eccezione, articolata nel ricorso introduttivo e riproposta nelle controdeduzioni in appello, concernente l’inesistenza della notifica della cartella. Deduce, in particolare, la mancata osservanza da parte dell’Agente della riscossione delle modalità prescritte dalla legge, avendo spedito l’atto a mezzo raccomandata A/R senza curarsi della redazione della relata di notifica, come richiesto in generale dagli artt. 148 e 149 c.p.c., rendendo impossibile verificare se la consegna all’ufficio postale sia stata eseguita da uno dei soggetti abilitati.

Con il secondo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 860 c.c. e L.R. Toscana n. 34 del 1994, artt. 3 e 4, per non avere la CTR considerato non rilevante il beneficio generale derivante dalle opere di bonifica laddove invece occorre un beneficio diretto e specifico, cioè un incremento di valore dell’immobile soggetto a contributo, in rapporto causale con le opere di bonifica e con la loro manutenzione.

Con il terzo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del R.D. n. 215 del 1933, art. 10, comma 2, e della L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, per non avere la CTR considerato che l’onere di provare il predetto beneficio specifico ricade sull’Ente impositore e che la Delib. del Consiglio Regionale che ha delimitato la superficie di ha 42.668 del comprensorio nel quale opera la Comunità Montana Colline del Fiora non risulta trascritta presso la Conservatoria dei RR.II..

Con il quarto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto del Contribuente, per non avere la CTR rilevato la dedotta carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, non essendo possibile evincere per quali opere di bonifica il contributo consortile sia stato richiesto e quale sia il vantaggio fondiario che lo giustifica.

Con il quinto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 125 c.p.c., per non avere la CTR rilevato la dedotta nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento.

Le censure sono infondate.

Quanto alla prima, concernente la notifica a mezzo del servizio postale della cartella di pagamento, che la CTR ha fatto rientrare tra le questioni “assorbite e superate, perchè irrilevanti alla luce dell’esito del giudizio”, l’odierno ricorrente prescinde dall’orientamento della Corte (Cass. n. 28995/2018) secondo cui “la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia, in quanto il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto (l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, Cass. n. 21257 del 2014) e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni”.

Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto censurare la correttezza della valutazione espressa dalla Corte di assorbimento dei motivi ulteriori, lamentando un vizio di motivazione del tutto omessa, e non sollevare un vizio di omessa pronuncia.

In ogni caso, in merito alla fondatezza della doglianza, è sufficiente richiamare la giurisprudenza della Corte secondo cui, “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal cit. art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.(Cass. n. 6395/2014, n. 4567/2015, n. 20918/2016).

La seconda e la terza censura, scrutinabili congiuntamente in perchè strettamente connesse, concernono la mancanza di utilità fondiaria specifica e la distribuzione del relativo onere della prova, vanno disattese alla stregua della normativa regionale applicabile ratione temporis (cfr., in particolare, la L.R. Toscana 13 maggio 1994, n. 34).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, mentre in assenza di “perimetro di contribuenza” o -si aggiunge -in assenza del piano di classifica e, ancora, in caso di mancata valutazione dell’immobile del contribuente nel “piano di classifica”, grava sul Consorzio l’onere di provare sia la qualità, in capo al contribuente, di proprietario di immobile sito nel comprensorio sia il conseguimento, da parte del fondo del contribuente, di concreti benefici derivanti dalle opere eseguite, qualora vi siano un “perimetro di contribuenza” e un “piano di classifica” inclusivi dell’immobile del contribuente, come deve ritenersi nel caso in esame, spetta al contribuente che impugni la cartella esattoriale, affermando l’insussistenza del dovere contributivo, l’onere di provare l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, e segnatamente l’inesecuzione o il non funzionamento delle opere da questo previste, che sono cosa ben diversa dalla mera negazione del beneficio fondiario, poichè il vantaggio diretto ed immediato per l’immobile, che costituisce il presupposto dell’obbligo di contribuzione, ai sensi dell’art. 860 c.c. e del R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, deve ritenersi presunto in ragione dell’avvenuta approvazione del medesimo piano di classifica e della comprensione dell’immobile nel perimetro di intervento consortile. (Cass. n. 23320/2014, n. 13167/2014, n. 4761/2012, n. 17066/2010, 26009/2008).

Emerge dal ricorso per cassazione – e niente di diverso risulta dalla sentenza impugnata che riferisce dell’esistenza di un perimetro di contribuenza provvisorio delimitante l’area interessata dalle “opere idrauliche e manutentive” e includente anche l’immobile per cui è causa – che la cartella di pagamento faceva menzione al piano di classifica (pag. 9 del ricorso) ed il contribuente non ha neppure allegato l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, essendosi limitato a contestare il difetto di motivazione della cartella e, nel merito della pretesa, ad asserire in modo generico che vi sarebbe stata assenza insanabile di beneficio fondiario, avuto riguardo al dedotto necessario nesso di causalità con opere determinate.

A fronte del dato pacifico di causa costituito dall’inserimento dell’immobile del contribuente nel perimetro consortile (sia pure provvisorio), nonchè della mancata contestazione, da parte di quest’ultimo, del piano di classifica e di ripartizione approvato dall’autorità regionale, gravava sul contribuente medesimo l’onere di superare la presunzione relativa di vantaggiosità specifica, mediante prova contraria (Cass. n. 23542/2019, n. 18387/2019).

Non merita, pertanto, alcuna censura la sentenza della CTR la cui ratio decidendi si incentra proprio sull’affermazione, conforme alla richiamata giurisprudenza di legittimità, della accertata sussistenza del presupposto dell’obbligo contributivo costituito dalla inclusione dell’immobile nel perimetro consortile e dalla conseguente la presunzione di vantaggio fondiario.

Quanto al profilo di illegittimità per mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, adempimento previsto dalla L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 2, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, al fine di darne “notizia al pubblico”, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, il rapporto impositivo si svolge nei soli confronti del diretto consorziato, il quale aveva modo di verificare l’effettiva ricomprensione del proprio immobile all’interno di esso mediante semplice consultazione del piano di classifica con il quale era stato adottato, dato accessibile, pur in difetto di trascrizione, in quanto portato da una delibera di approvazione regolarmente pubblicata e depositata.

La Corte, in proposito, ha avuto modo di chiarie che “in tema di pianificazione territoriale degli interventi in materia di bonifica, la trascrizione del provvedimento di “perimetrazione della contribuenza” prevista dal R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, comma 2, derivando l’effetto dell’opponibilità degli atti ai terzi direttamente dalla legge, che prevede la costituzione dell’onere reale e la connessa prestazione patrimoniale vincolata all’utilità fondiaria, assolve esclusivamente alla funzione di mera pubblicità-notizia, in quanto adempimento di natura meramente dichiarativa, diretto a soddisfare l’esigenza della localizzazione degli interventi di bonifica ed a rendere pubblico il perimetro di contribuenza, e non integra “principio fondamentale” ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 3. Ne consegue che la previsione, con norma regionale, della pubblicazione sul BURL del provvedimento amministrativo della Giunta regionale del piano di classifica e riparto, volto alla delimitazione territoriale dei fondi assoggettati a contributo, costituisce forma legittima di pubblicità legale diversa, idonea al raggiungimento dello scopo”. (Cass. n. 13167/2014, n. 7364/2012, n. 2838/2012).

La quarta censura, concernente la dedotta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, per carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, si appalesa inammissibile in quanto, “in tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso”. (Cass. n. 28570/2019 e n. 16147/2017).

La parte ricorrente si duole a torto della non esaustività della motivazione della cartella impugnata – profilo implicitamente disatteso dal giudice di appello – nonostante la stessa constasse di “ben dodici pagine” e deduce la mancata indicazione dei lavori per i quali il contributo era stato richiesto, della inerenza degli stessi all’immobile di proprietà, del beneficio apportato, dell’esattezza dei relativi calcoli, senza considerare che pur volendo considerare la cartella attraverso la quale il consorzio procede, ai sensi dell’art. 21, R.D. n. 215 del 1933, alla riscossione dei contributi, come atto sostanzialmente impositivo, tale motivazione ben può essere adottata per relationem, ad altri atti fondanti l’imposizione, conosciuti o conoscibili dal contribuente in quanto soggetti a pubblicità (Cass. SS.UU. n. 11722/2010 che richiama SS.UU. n. 26009/2008).

Nella specie, è il piano di classifica che individua i benefici derivanti dalle opere di bonifica, stabilisce i parametri per la quantificazione dei medesimi e i conseguenti indici per la determinazione dei contributi, così come è il piano di riparto delle spese consortili che determina, sulla base della spesa prevista nei bilanci, la ripartizione dei contributi a carico di ciascuna proprietà interessata all’adempimento dei fini istituzionali del consorzio di bonifica.

Inoltre, in tema di contributi consortili, vale il principio per cui “allorquando la cartella esattoriale emessa per la riscossione dei contributi medesimi sia motivata con riferimento ad un “piano di classifica” approvato dalla competente autorità regionale, è onere del contribuente che voglia disconoscere il debito contestare specificamente la legittimità del provvedimento ovvero il suo contenuto, nessun ulteriore onere probatorio gravando sul consorzio, in difetto di specifica contestazione”. (Cass. SS.UU. n. 26009/2008).

Con l’ultima censura il ricorrente deduce la nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento, essendo ad avviso dell’impugnante insufficiente il “fatto che sia indicato un responsabile del procedimento”.

La doglianza, per quanto è dato comprendere, si incentra sulla mancanza di autografia della sottoscrizione e la Corte ha precisato, in tema di tributi regionali e locali, che “qualora l’atto di liquidazione o di accertamento sia prodotto mediante sistemi informativi automatizzati, la sottoscrizione di esso può essere legittimamente sostituita, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, individuato da apposita determina dirigenziale”. (Cass. n. 20628/2017).

La censura, del resto, neppure pone specificamente in dubbio che il nominativo apposto sulla cartella rispondesse in effetti a funzionario dell’Agente della riscossione regolarmente investito del relativo potere di emissione e sottoscrizione.

La Corte, invero, ha statuito che ” è tuttavia sufficiente, al fine di non incorrere nella detta nullità (D.L. n. 248 del 2007, ex art. 36, comma 4-ter), l’indicazione di persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa” (Cass. n. 3533/2016).

Sulla scorta di quanto sin qui illustrato il ricorso va integralmente respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Buona Pasqua! 2022

La Pasqua ci insegna che i momenti difficili serviranno come riflessione e preparazione ad un futuro migliore con rinnovati sentimenti di amore e solidarietà.

Buone feste!


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 24/02/2022) 04/04/2022, n. 2442

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5399 del 2021, proposto da Università degli Studi di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

D. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

C. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Chiara Clementi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), n. 00417/2021, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di C. Società Cooperativa Sociale Onlus e di D. Società Cooperativa Sociale Onlus;

Visti tutti gli atti della causa;

Viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 febbraio 2022 il Cons. Francesco De Luca e udito per la parte appellante l’avv. dello Stato Maria Teresa Lubrano Lobianco;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, l’Università degli Studi di Brescia appella la sentenza n. 417 del 2021, con cui il Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha accolto il ricorso di prime cure, proposto dalla D. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità anche D.O.) e diretto ad ottenere l’annullamento degli atti relativi alla procedura di gara per l’affidamento del servizio di portierato e custodia indetta dal medesimo Ateneo appellante.

In particolare, secondo quanto dedotto in appello:

– l’Università degli Studi di Brescia ha indetto in data 23 maggio 2019 una procedura aperta per l’affidamento del servizio di portierato e custodia dei propri uffici e dei relativi servizi ausiliari di supporto con finalità di promozione e tutela dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, per il periodo 1 maggio 2020 – 30 aprile 2026, con importo a base d’asta di € 2.047.500,00;

– alla procedura di gara hanno preso parte la C. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità, anche C.O.) e la D.O.: all’esito della valutazione delle offerte, la C.O. si è classificata alla prima posizione con 94,51 punti (di cui 64,51 per l’offerta tecnica e 30 per l’offerta economica), mentre la D.O., gestore uscente del servizio, si è classificata alla seconda posizione con il punteggio di 84,57 (di cui 59,78 punti per l’offerta tecnica e 24,79 punti per l’offerta economica);

– la D.O. ha impugnato, con un primo ricorso proposto dinnanzi al Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, il provvedimento di aggiudicazione della procedura, deducendo l’inattendibilità dell’offerta presentata dall’aggiudicataria, incentrata sulla valorizzazione di un prezzo asseritamente inidoneo a garantire la copertura dei costi dei servizi aggiuntivi promessi nell’offerta tecnica;

– il Tar adito ha accolto il ricorso, ritenendo inattendibile il giudizio di congruità dell’offerta prima classificata formulato dalla stazione appaltante, annullando per l’effetto l’aggiudicazione dell’appalto, dichiarando l’inefficacia del contratto stipulato e ordinando all’Amministrazione di riattivare la procedura valutativa dal punto in cui era intervenuto l’annullamento;

– l’Università ha rinnovato il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, provvedendo ad aggiudicare nuovamente la gara in favore della C.O.;

– la D.O. ha impugnato anche tale secondo provvedimento di aggiudicazione, ritenendo che pure la nuova valutazione di congruità dell’offerta fosse inficiata da vizi di legittimità; il ricorso è stato notificato presso la sede dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Brescia, anziché presso la sede dell’Ateneo;

– l’Ateneo, in ragione della supposta nullità della notificazione del ricorso, non si è costituito in giudizio; il Tar ha rimesso in termini la ricorrente, ritenendo scusabile l’errore in cui la stessa era incorsa nella notificazione del ricorso e, per l’effetto, ha assegnato un termine per la rinnovazione della notifica presso la sede dell’Ateno;

– l’Ateneo, ricevuta la notificazione del ricorso, si è costituito in giudizio, eccependo, in via pregiudiziale, l’illegittimità della rimessione in termini per l’insussistenza dell’errore scusabile ravvisato dal Tar;

– il Tar, rigettando l’eccezione pregiudiziale dell’Ateneo, ha accolto il ricorso, escludendo la congruità dell’offerta della prima classificata; per l’effetto, il primo giudice ha annullato l’aggiudicazione e ha dichiarato inefficace il contratto stipulato dall’Università.

2. L’Ateneo, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l’erroneità con due complessivi motivi di impugnazione.

3. Le società cooperative C. e D. si sono costituite in giudizio, la prima aderendo alle conclusioni svolte dall’Ateneo, la seconda resistendo all’appello.

4. La Sezione, con ordinanza n. 5205 del 24 settembre 2021, in accoglimento dell’istanza cautelare articolata nel ricorso in appello, ha sospeso l’efficacia dell’esecutività della sentenza appellata.

5. Le parti private, in vista dell’udienza pubblica di discussione dell’appello, hanno depositato memoria difensiva, insistendo nelle rispettive conclusionali. La Cooperativa D.O. ha pure depositato repliche alle avverse deduzioni.

6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 24 febbraio 2022.

7. Il ricorso in appello è articolato in due motivi di impugnazione: il primo, diretto a censurare il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso di primo grado per nullità della sua notificazione; il secondo, rivolto contro le statuizioni riferite al merito della vertenza e, dunque, alla ravvisata illegittimità delle operazioni valutative, svolte dall’Amministrazione, in ordine alla congruità dell’offerta selezionata.

8. In particolare, con il primo motivo di appello viene dedotta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, degli artt. 144 e 145 c.p.c., nonché dell’art. 37 c.p.a. – Inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso introduttivo – Nullità della sentenza impugnata”.

8.1 Secondo la prospettazione attorea, il Tar avrebbe errato nel ritenere scusabile l’errore commesso dalla ricorrente nell’esecuzione della prima notificazione del ricorso principale di primo grado, avvenuta nullamente in data 7.12.2020 presso l’Avvocatura Distrettuale di Brescia, in violazione degli artt. 1, 11 e 43 R.D. n. 1611 del 1933, nonché degli artt. 144 e 145 c.p.c.

In particolare, il Tar ha ritenuto che l’errore fosse giustificato dalla qualificazione erronea, recata nel Regolamento di Ateneo, del patrocinio erariale come patrocinio obbligatorio, quando, invece, dalle difese svolte dalla ricorrente in primo grado si desumerebbe che l’errore sarebbe stato provocato, più che dall’utilizzo, nell’ambito del regolamento di ateneo, della locuzione “obbligatorio” riferita al patrocinio erariale, dalla qualificazione, sempre ad opera del Regolamento di ateneo, del relativo patrocinio come “ex lege”.

Tale ultima qualificazione del patrocinio erariale delle Università come legale dovrebbe, tuttavia, ritenersi corretta ai sensi della L. n. 68 del 1989 e dell’art. 43 R.D. n. 1611 del 1933, facendosi questione, anche per le amministrazioni diverse da quelle statali, comunque di un patrocinio ex lege, nonché “organico e esclusivo”, originando il rapporto tra Avvocatura ed ente assistito direttamente dalla legge.

La distinzione tra Amministrazioni statali e amministrazioni pubbliche autonome, ai fini della sottoposizione al patrocinio erariale, dunque, non rileverebbe per la natura del relativo rapporto, discorrendosi sempre di patrocinio legale, ma per la disciplina processuale applicabile, in quanto per le Amministrazioni autonome, quale dovrebbe ritenersi l’Ateneo, non opererebbe la regola di cui all’art. 11 R.D. n. 1611 del 1933, che prescrive la notificazione degli atti processuali presso l’Avvocatura dello Stato.

Si tratterebbe di un regime delineato direttamente dalla legge, dal contenuto precettivo chiaro, che non avrebbe potuto generare alcun errore scusabile in ordine alla sua portata applicativa; né avrebbe potuto argomentarsi diversamente sulla base di quanto previsto dal Regolamento di Ateneo che, pur impiegando la locuzione “obbligatorio” (per qualificare il patrocinio dell’Avvocatura nei confronti dell’Università), non potrebbe far dubitare della natura giuridica del soggetto patrocinato e della conseguente disciplina processuale applicabile.

L’errore de quo, dunque, non potrebbe ritenersi scusabile, in quanto frutto di una non corretta interpretazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, nonché 144 e 145 c.p.c., come tale da ascrivere al soggetto notificante.

Per l’effetto, facendosi questione di errore non scusabile, il Tar avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità e/o l’irricevibilità del ricorso di primo grado: né avrebbe potuto sostenersi che la costituzione in giudizio dell’Ateneo avesse sanato l’originario vizio processuale, in quanto l’Amministrazione si era costituita soltanto dopo la rimessione in termini disposta dal Tar e al fine di eccepire l’inammissibilità del ricorso.

8.2 Il motivo di appello è infondato.

8.3 Preliminarmente, si evidenzia la necessità di procedere alla correzione della motivazionale alla base della sentenza di primo grado, in quanto il rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio, come si osserverà infra, non può essere giustificato in ragione della scusabilità dell’errore in cui è incorso il notificante (secondo quanto ritenuto dal Tar), ma per la necessità di provvedere, comunque, alla rinnovazione della notificazione nelle ipotesi di sua nullità, a prescindere dalla imputabilità o dalla scusabilità dell’errore commesso dal notificante.

La correzione della motivazione non può, tuttavia, condurre all’accoglimento del motivo di appello, non permettendo di giungere ad un diverso esito del giudizio di primo grado.

Difatti, in ragione dell’effetto devolutivo proprio dell’appello, la contraddittorietà o l’erroneità della motivazione giudiziale non determinano l’annullamento con rinvio della sentenza gravata (non ricorrendo alcuna delle fattispecie di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a.), né comportano la riforma della pronuncia di prime cure, ammissibile soltanto ove si giunga ad un diverso esito della controversia.

Pure di fronte ad una motivazione contraddittoria o erronea, occorre verificare in sede di appello se il contenuto dispositivo della decisione assunta dal Tar – nella specie di rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità opposta dall’Ateneo – sia comunque corretto.

8.4 Al riguardo, si osserva che l’appellante argomenta le proprie deduzioni sul presupposto per cui la nullità della notificazione del ricorso di primo grado, derivante da una causa imputabile al ricorrente (come tale inidonea ad integrare gli estremi dell’errore scusabile), non seguita da una spontanea costituzione della parte intimata, sia motivo di inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso.

Tale presupposto, all’esito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 44, comma 4, c.p.a., per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 9 luglio 2021, non può tuttavia essere condiviso.

Con tale sentenza, in particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, dell’Allegato 1 (codice del processo amministrativo) al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della L. 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), limitatamente alle parole “, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante,”.

A fronte di una notificazione del ricorso nulla, all’esito dell’intervento della sentenza n. 148 del 9 luglio 2021 cit., deve, dunque, sempre ordinarsi la sua rinnovazione, a prescindere dall’imputabilità o scusabilità dell’errore del notificante (Consiglio di Stato, sez. II, 20 dicembre 2021, n. 8436), con la conseguente necessità di assegnare alla parte ricorrente un nuovo termine che, ove rispettato, consente la sanatoria in via retroattiva del relativo vizio processuale.

Tale precetto, desumibile dall’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a., risultante dalla predetta dichiarazione di parziale incostituzionalità, deve trovare applicazione anche nel caso di specie, facendosi questione di un rapporto processuale ancora non esaurito.

Come precisato da questo Consiglio, infatti, “non v’è dubbio che l’efficacia ex tunc della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, alla stregua dell’articolo 30, comma 3, della L. 11 marzo 1953, n. 87, non trova in questo caso limite in “rapporti esauriti”, essendo tuttora pendenti i presenti giudizi senza che sia intervenuto alcun giudicato” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 dicembre 2021, n. 8303).

Nella presente sede, pertanto, la questione afferente alle conseguenze discendenti dalla nullità della notificazione del ricorso, non essendo preclusa dalla formazione di un giudicato interno (in quanto oggetto di apposito motivo di impugnazione), deve essere esaminata alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.

Di conseguenza, non subordinando tale disposizione la rinnovazione della notificazione nulla alla scusabilità dell’errore in cui sia incorso il ricorrente, l’Ateneo non può fondatamente contestare l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto nullamente notificato presso l’Avvocatura Distrettuale anziché presso la propria sede istituzionale.

Tale vizio non potrebbe, infatti, configurare una causa di inammissibilità o irricevibilità del ricorso di primo grado, imponendo soltanto la rinnovazione della notificazione ai fini della regolare costituzione del contraddittorio processuale; il che è puntualmente avvenuto nella specie, attraverso l’ordine di rinnovazione impartito dal Tar, la cui esecuzione ha permesso di sanare il relativo vizio di notificazione; ciò a prescindere dal riferimento (non più rilevante all’esito dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.) operato dal primo giudice alla supposta scusabilità dell’errore del ricorrente.

In conclusione, tendendo l’Ateneo a valorizzare una circostanza (inescusabilità dell’errore del notificante) non più rilevante ai fini del trattamento processuale della nullità della notificazione del ricorso, sempre da rinnovare in caso di mancata costituzione della parte intimata, non può accogliersi il primo motivo di appello, in quanto inidoneo a condurre alla riforma della decisione al riguardo assunta dal primo giudice.

9. Con il secondo motivo di appello vengono censurate le statuizioni riferite al merito della vertenza, con cui il Tar ha ritenuto anomala ed incongrua l’offerta presentata dalla prima classificata.

9.1 L’Ateneo, prendendo specifica posizione sulle singole voci di costo reputate incongrue dal primo giudice – alla base del giudizio di inaffidabilità dell’offerta recato nella sentenza gravata – deduce la correttezza dell’operato del RUP e della Commissione di gara, ritenendo che sia stata verificata con ogni legittimo strumento (ivi compresa una ricerca di mercato) l’attendibilità dei costi proposti dall’aggiudicataria

In particolare:

– con riferimento alle divise in dotazione al personale, la stima dei costi effettuata dalla società aggiudicataria sarebbe risultata in linea con il prezzo di analoghi prodotti reperibili sul mercato, come confermato da apposita verifica in rete legittimamente svolta dalla stazione appaltante; il Tar, peraltro, avrebbe errato nel ritenere necessaria una sostituzione integrale con cadenza annuale delle divise in dotazione, non risultando un tale impegno dall’offerta tecnica dell’aggiudicataria, stante l’emersione di una spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale, come confermato dai giustificativi dell’aggiudicataria; del resto, l’usura di un capo di abbigliamento sarebbe soggetta a variabili in ragione della tipologia del capo, che comunque potrebbe avere una durata ben superiore a quella annuale;

– con riferimento alle bacheche elettroniche, si sarebbe in presenza di “migliorie a costo zero” relative a “B.E.G.C.: Sistema Automatizzato di gestione chiavi”, descritte al punto 1.1.c come “cassetta portachiavi” e oggetto di rappresentazione fotografica; in assenza di ulteriori specifiche, dunque, la descrizione proposta dall’aggiudicataria e la fotografia allegata sarebbero compatibili con quanto dichiarato nelle giustificazioni; l’Amministrazione avrebbe pure valutato la compatibilità dei costi di mercato con l’offerta complessiva, non potendosi ritenere corretto il giudizio di prime cure – secondo cui il preventivo impiegato dalla stazione appaltante per valutare la congruità dell’offerta sarebbe riferito ad un prodotto diverso da quello oggetto di offerta – tenuto conto, altresì, che pure l’armadio con serratura intelligente di cui all’allegato 16 delle produzioni di primo grado consisterebbe in uno strumento di custodia delle chiavi suscettibile di essere utilizzato tramite “automazione”, attraverso l’impiego di comandi da remoto o di smartphone;

– con riferimento al responsabile sociale del progetto, parimenti, le statuizioni di prime cure non potrebbero ritenersi corrette, in quanto l’Amministrazione, sulla base di un parere di un consulente del lavoro (all’uopo acquisito) neppure esaminato dal Tar, avrebbe correttamente confermato l’inquadramento lavorativo del responsabile designato alla luce delle indicazioni fornite dal Tar Brescia con la precedente sentenza n. 598/2020, con conseguente mancata emersione di costi aggiuntivi a carico dell’aggiudicataria;

– con riferimento ai beni strumentali a magazzino, sarebbe provata la loro presenza a magazzino e, comunque, il costo indicato dall’aggiudicataria (€ 800-900) risulterebbe in ogni caso compatibile con l’utile dichiarato;

– con riferimento all’utile di impresa, alla stregua delle doglianze svolte dall’Ateneo, emergerebbe la correttezza della valutazione operata in sede amministrativa, con la valorizzazione di un utile, pari a quello dichiarato in offerta, suscettibile di sostenere l’offerta, tenuto conto pure delle dimensioni societarie della C. e della sua natura giuridica di Onlus, non avente fine di lucro e per la quale, dunque, dovrebbe ammettersi pure la presentazione di un’offerta senza utile.

9.2 Le censure impugnatorie sono infondate; il che esime il Collegio dallo statuire sull’eccezione di inammissibilità delle relative censure – per violazione dell’art. 101 c.p.a. – opposta dalla D.O. con memoria del 20.9.2021.

9.3 Preliminarmente, giova richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 167), secondo cui la verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzata ad accertare la complessiva attendibilità e serietà della stessa, sulla base di una valutazione che ha natura globale e sintetica e che costituisce, in quanto tale, espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato all’Amministrazione, in via di principio insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che per ragioni legate alla eventuale (e dimostrata) manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato dell’Amministrazione, tale da rendere palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.

Trattandosi, quindi, di valutare l’offerta nel suo complesso, il giudizio di anomalia non ha a oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze, mirando piuttosto ad accertare se essa in concreto sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto; pertanto, la valutazione di congruità, globale e sintetica, non deve concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo; con la conseguenza che, se anche singole voci di prezzo o singoli costi non abbiano trovato immediata e diretta giustificazione, non per questo l’offerta va ritenuta inattendibile, dovendosi, invece, tener conto della loro incidenza sul costo complessivo del servizio per poter arrivare ad affermare che tali carenze siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Salvo il caso in cui il margine positivo risulti pari a zero, peraltro, non è dato stabilire una soglia di utile al di sotto della quale l’offerta va considerata anomala, potendo anche un utile modesto comportare un vantaggio significativo.

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, deve verificarsi, dapprima, se la valutazione amministrativa in ordine alla congruità delle singole voci di costo in contestazione possa ritenersi frutto di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; all’esito, se gli eventuali manifesti errori così riscontrati siano idonei a determinare una complessiva inattendibilità e inaffidabilità dell’offerta selezionata.

Nello svolgere tali verifiche si deve anche tenere conto di una peculiarità dell’odierno giudizio, rappresentata dalla preesistenza di una sentenza di annullamento (n. 598 del 2020), passata in giudicato, intervenuta tra le stesse parti e in relazione alla medesima procedura, con cui il Tar Lombardia, Brescia, ha già annullato le operazioni valutative svolte dall’Amministrazione in relazione alla congruità dell’offerta selezionata.

Il pregresso giudicato di annullamento risulta, infatti, idoneo a produrre sia un effetto preclusivo, impedendo all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di ripetere le illegittimità già riscontrate in giudizio, sia un effetto conformativo, imponendo all’Amministrazione di assumere le determinazioni di competenza (relative alla stessa vicenda amministrativa in cui è stato adottato il provvedimento annullato in giudizio) nel rispetto dei criteri direttivi discendenti dalla relativa pronuncia giurisdizionale.

9.4 Sulla base di tali premesse è possibile soffermarsi sulle singole censure impugnatorie svolte dall’Ateneo, seguendo l’ordine espositivo alla base del ricorso in appello.

10. In primo luogo, deve essere esaminata la censura riguardante il costo delle divise in dotazione al personale.

Tale censura, sopra sintetizzata, è infondata.

10.1 L’incongruità del costo delle divise in parola era stata già rilevata dal Tar Lombardia, Brescia, nella sentenza n. 598 del 2020 cit., con cui erano state accolte le doglianze attoree ivi articolate, anche in relazione “alle divise complete per i 19 addetti impiegati nell’esecuzione del servizio (due per ciascun addetto), il cui costo indicato dalla controinteressata (€uro 25,00 l’una), palesemente fuori mercato, non emerge né da preventivi del fornitore, né dal documento di trasporto versato in atti. Sicché, l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimane una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità”.

Tale capo decisorio, in quanto recato in una sentenza rimasta inoppugnata, deve ritenersi espressivo di un accertamento ormai irretrattabile, idoneo a conformare il concreto rapporto amministrativo attuato inter partes, rientrando nel perimetro oggettivo del relativo giudicato di annullamento.

Al fine di delimitare la portata del giudicato, occorre infatti procedere ad una lettura congiunta di dispositivo e motivazione, da correlarsi con la causa petendi introdotta dal ricorrente, intesa come titolo dell’azione proposta, e del bene della vita che ne forma l’oggetto (“petitum” mediato): il giudicato, in particolare, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, comprese le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia – che ne costituiscono il giudicato implicito – e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione – che costituisce il giudicato esplicito – formandone l’indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248).

La sentenza di annullamento cit. pronunciata dal Tar Lombardia risultava incentrata, altresì:

– sulla genericità delle deduzioni della controinteressata, riferite alla possibilità di godere di forti sconti risultando un grande operatore del settore;

– su un preciso presupposto, dato dall’offerta, a cura dell’aggiudicatario, di divise complete per 19 addetti, due per ciascun addetto, con un costo indicato dalla controinteressata pari a € 25,00 l’una.

Ne deriva che:

– le dimensioni e la presenza nel mercato della C., di per sé, non possono costituire elementi utilmente valorizzabili per giustificare i costi esposti dal concorrente, occorrendo al riguardo una circostanziata prova da fornire a cura della controinteressata;

– l’offerta di due divise per ogni addetto costituisce una premessa alla base della sentenza n. 598/20 cit., integrando una circostanza fattuale compresa nel perimetro del pregresso giudicato di annullamento, come tale, non revocabile in dubbio in sede amministrativa o nella presente sede giurisdizionale.

10.2 Tale ultimo presupposto, peraltro, è coerente con l’offerta presentata dall’aggiudicataria e con i giustificativi dalla stessa prodotti in sede procedimentale.

In particolare, avuto riguardo all’offerta tecnica (pag. 3 – doc. 5 ricorso di primo grado), emerge che l’abbigliamento previsto per lo svolgimento del servizio constava:

– per le operatrici, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”; nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”;

– per gli operatori uomini, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”, nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”.

Con i giustificativi del 28.11.2019 (all. 6 ricorso di primo grado) la C.O. ha rappresentato che il costo annuale accantonato per ogni operatore in relazione ai costi aziendali in materia di sicurezza sarebbe stato pari ad € 150,00, di cui € 35,00 per visita, € 25,00 per divisa, € 25,00 per dpi, € 25 per corso sicurezza, € 20 per corso pulizie ed € 20,00 per varie; con la precisazione che si trattava di costo approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto pure che la fornitura di alcuni dispositivi di protezione individuale non sarebbe avvenuta in ogni singolo anno di un appalto e gli attestati in materia di sicurezza avrebbero dovuto essere già in possesso del personale attualmente svolgente il servizio, essendo comunque inclusi nel costo orario minimo tabellare.

L’aggiudicataria, nell’ambito dei giustificativi del 21.9.2020 (all. 3 ricorso di primo grado), ha preso posizione sui rilievi formulati dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020, secondo cui il costo di € 25,00 per ogni divisa sarebbe risultato fuori mercato, ritenendo “la perfetta congruità del relativo costo per come a suo tempo indicato nell’offerta tecnica”, come emergente dalla fattura emessa da un fornitore trasmessa dalla stessa aggiudicataria alla stazione appaltante, che avrebbe comprovato “la operatività di quelle economie di scala che connotano per vari settori i rapporti commerciali del presente operatore economico con i propri fornitori”.

Dalla documentazione in atti emerge, dunque, che:

– l’offerta tecnica presentata dall’aggiudicatario prevedeva due divise per ciascun addetto, utilizzabili rispettivamente nella stagione fredda e nella stagione calda di ciascun anno;

– il costo annuale per divisa è stato quantificato nei primi giustificativi del 2019 in € 25,00 annui (tali giustificativi, peraltro, riguardavano soltanto una divisa, in contrasto con quanto previsto nell’offerta, incentrata su due divise per addetto, per la stagione fredda e calda);

– nei giustificativi del 2020 si è inteso prendere posizione sui rilievi svolti dal Tar Lombardia, Brescia, secondo cui sarebbe stato ingiustificato il costo di € 25,00 per ogni divisa, ritenendo tale costo congruo, come confermato da apposita fattura all’uopo prodotta.

10.3 Ne deriva che, diversamente da quanto ritenuto dall’Amministrazione (secondo cui “il costo indicato dall’aggiudicataria in merito alle divise deve ritenersi come spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale”), i documenti in parola confermano che l’impegno contrattuale assunto dalla C.O. prevedeva l’impiego di due divise per ciascun addetto (per la stagione fredda e per la stagione calda), con costo annuale, per ciascuna divisa, quantificato in € 25,00; il che è coerente con quanto già accertato con effetti di giudicato tra le parti dal Tar Lombardia (sentenza n. 598/2020) in merito alla previsione di due divise “per ciascun addetto”, il cui costo indicato dalla controinteressata risultava pari a “€uro 25,00 l’una”.

Non potrebbe valorizzarsi, per giungere ad una diversa conclusione, la precisazione, recata nei giustificativi del 28.11.2019, in cui si chiariva che il costo annuale in materia di sicurezza per ogni operatore risultava approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto che “la fornitura di alcuni Dispositivi di protezione individuale non avviene in ogni singolo anno di un appalto”: tali precisazioni supportavano, comunque, una giustificazione del costo annuale di una divisa per € 25,00, nonché riguardavano “alcuni Dispositivi di protezione individuale”, con un’espressione letterale che, da un lato, non richiamava specificatamente il costo per divisa, dall’altro, risultava maggiormente riferibile alla diversa componente (valorizzata separatamente) dei “dpi”, aventi un autonomo costo annuale per € 25,00.

Per l’effetto, se le divise dovevano essere due per addetto, da impiegare nella stagione fredda e calda di ciascun anno, nonché se il costo per divisa risultava esposto dalla controinteressata nella misura di € 25,00 annui, doveva ritenersi che il costo per entrambe le divise fosse quantificabile in € 50,00 annui per addetto (€ 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione fredda ed € 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione calda): la commisurazione del costo su base annuale presupponeva, inoltre, una sostituzione delle divise in ciascuno degli anni in cui sarebbe stata articolata la commessa, non essendo, infatti, ragionevole la previsione dell’impiego della stessa divisa stagionale per sei anni, senza assicurare una sua sostituzione periodica, anche in ragione della fisiologica usura del capo di abbigliamento o di altri eventi, anche accidentali, incidenti sulla possibilità di un suo persistente utilizzo, suscettibili di verificarsi nel corso del periodo contrattuale.

Tali rilievi già evidenziano come nei giustificativi del 28.11.2019 cit. fosse stato preso in considerazione il costo annuo di una sola divisa, quando, invece, l’offerta tecnica prevedeva l’impiego annuale di due divise (una per la stagione fredda e una per quella calda); pertanto, avendo computato la controinteressata il costo annuo di una sola divisa, a fronte delle due previste nell’offerta tecnica, già tale circostanza avrebbe fatto emergere un maggiore costo di € 25,00 annui (pari al costo della divisa non contemplata nei giustificativi del 2019), da moltiplicare per il numero di addetti (19, come accertato dal Tar nella sentenza n. 598/20 e come emergente dai giustificativi dell’11.11.2019 – deposito C. 25.1.2021) e per il numero di anni di prestazione contrattuale (avente una durata prevista per il periodo 01/05/2020 – 30/04/2026); con conseguente maggiore costo, non considerato nei giustificativi del 2019, di € 2.850,00, prossimo all’utile di € 3.000,00 dichiarato dalla controinteressata.

10.4 Nel caso di specie, tuttavia, oltre ad emergere la mancata considerazione del costo annuale della divisa aggiuntiva, difettano adeguate giustificazioni in ordine allo stesso costo annuale di € 25,00 per divisa dichiarato dal concorrente, non comprovato dal preventivo allegato ai giustificativi del 2020, né risultante dalle autonome (e, secondo quanto si osserverà infra, illegittime) ricerche di mercato svolte dalla stazione appaltante.

10.5 Sotto il primo profilo, si osserva che, diversamente da quanto ritenuto in sede procedimentale dall’Amministrazione (cfr. verbale del 6.10.2020 in cui si attesta che “la Commissione ha potuto verificare che il preventivo della ditta … presentato dalla società C. giustifica il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa”), il preventivo allegato ai giustificativi del 2020 cit. non è idoneo a comprovare la congruità del costo della divisa in dotazione al personale impegnato nella commessa, riguardando il prezzo di capi di abbigliamento che non esauriscono le componenti delle divise previste in sede di offerta tecnica.

In particolare, tale preventivo fa riferimento a giacche (maryland e springfield), polo manica corta (piquet), nonché camicie uomo e donna, con la valorizzazione per ciascun capo di un distinto prezzo.

Il preventivo, dunque, da un lato, valorizza il prezzo di capi non compresi nell’offerta tecnica (polo), dall’altro, non contempla taluni capi invece previsti dall’offerta tecnica (pantalone o gonna per le operatrici e pantalone per gli operatori, cintura per le operatrici e per gli operatori, nonché foulard o cravatta per le operatrici e cravatta per gli operatori).

Tale preventivo non poteva, dunque, ritenersi idoneo a giustificare il costo delle divise in dotazione al personale da impiegare nella commessa, non contemplando alcuni dei capi di abbigliamento occorrenti per formare la divisa prevista nell’offerta tecnica.

Il preventivo poteva, piuttosto, giustificare (soltanto) il prezzo della giacca e della camicia, rispettivamente pari ad € 14,4 e € 7.3, con conseguente valorizzazione di un costo parziale di € 21,7 – relativo a soli due dei capi di abbigliamento componenti la divisa prevista nell’offerta presentata in gara – già prossimo a quello complessivo di € 25 per divisa indicato dalla controinteressata nei giustificativi del 2019 e del 2020.

Per ritenere congruo il costo complessivo di € 25,00, sarebbe stato, dunque, necessario dimostrare che il costo dei capi ulteriori componenti la divisa (pantalone o gonna, cintura, nonché cravatta o foulard) fosse complessivamente contenuto entro l’importo di € 3,3, corrispondente alla differenza tra costo dichiarato per divisa e costo giustificato per giacca e camicia; una tale prova, tuttavia, non risulta essere stata fornita dalla società aggiudicataria.

Per l’effetto, la valutazione della Commissione, secondo cui il preventivo de quo risultava idoneo a giustificare il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa risulta inficiata da una macroscopica erroneità, in quanto incentrata su un documento non riferibile a tutti i capi componenti la divisa in esame e, dunque, tale da non potere giustificare il costo complessivo del prodotto in dotazione al personale impegnato nell’esecuzione della commessa.

10.6 Sotto il secondo profilo di indagine, si osserva che, alla stregua di quanto risultante dal medesimo verbale del 6.10.2020 cit., “La commissione ha anche verificato che il preventivo risulta essere in linea con i prezzi di mercato facilmente reperibili on line come, ad esempio, quelli esposti nel market place … dove è esposto un costo tra i 10 e 20 USD per acquisti superiori alle 100 unità…”.

Anche tale seconda ratio decidendi alla base del giudizio di congruità del costo in parola risulta illegittima, in quanto, da un lato, la stazione appaltante non avrebbe potuto sopperire ad un difetto di giustificazioni mediante un’autonoma ricerca di mercato, dall’altro, gli elementi istruttori (illegittimamente) acquisiti non potrebbero comunque rilevare per giustificare il costo delle divise in contestazione.

10.6.1 Ai sensi dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016, “La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto: a) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 30, comma 3; b) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 105; c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui all’articolo 95, comma 10, rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture; d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16”.

Come precisato da questo Consiglio, “l’art. 97, comma 5, prevede l’esclusione dell’offerta “solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa” per i motivi di seguito elencati. La disposizione lascia quindi aperta l’opzione – ulteriore rispetto a quelle, previste, della insufficienza delle giustificazioni fornite e dell’accertamento dell’anomalia dell’offerta, conducenti per legge all’esclusione dell’offerta sospetta di anomalia – che la commissione di gara, ritenendo non integrate le due predette fattispecie, possa ritenere necessitata la produzione di altri elementi e provvedere di conseguenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Ne deriva che, a fronte di giustificazioni incomplete, fornite dall’operatore economico proponente un’offerta sospetta di anomalia, la stazione appaltante potrebbe chiedere chiarimenti all’impresa, attivando un’ulteriore fase di contraddittorio e provvedendo, all’esito, alla valutazione dell’attendibilità dell’offerta alla stregua degli elementi integrativi eventualmente acquisiti (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2021, n. 911, secondo cui “ben può accadere in concreto che, ricevuti i primi giustificativi, l’amministrazione non sia in condizione di risolvere tutti i dubbi in ordine all’attendibilità dell’offerta soggetta a verifica di anomalia e decida per questo di avanzare ulteriori richieste all’operatore economico ovvero di fissare un incontro per ricevere spiegazioni e chiarimenti”), ma non potrebbe sopperire, di propria iniziativa, all’assenza parziale di spiegazioni con un’autonoma ricerca di mercato volta a dimostrare la congruità di un costo, riferito ad alcuni dei prodotti offerti dall’operatore economico, non giustificato dall’impresa.

Avuto riguardo al caso di specie, dunque, a fronte di giustificazioni insufficienti, la stazione appaltante avrebbe potuto evitare l’esclusione dell’offerta per la sua complessiva inaffidabilità, attraverso una richiesta di chiarimenti rivolta alla società cooperativa, ma non avrebbe potuto sopperire all’incompletezza degli elementi giustificativi e probatori forniti dalla C.O. (in specie, una fattura commerciale riguardante solo alcuni dei capi componenti la divisa in dotazione descritta nell’offerta tecnica) attraverso una propria iniziativa istruttoria ufficiosa, tradottasi nella specie nello svolgimento di una ricerca di mercato on line presso un noto market place; ciò, tenuto conto pure del contesto amministrativo di riferimento, caratterizzato dalla presenza di un pregresso giudicato di annullamento, che aveva evidenziato come il costo in contestazione (riguardante le divise in dotazione al personale impiegato nell’ambito della pubblica commessa) risultasse “palesemente fuori mercato” e non documentato, con conseguente necessità, per l’operatore economico, di fornire una specifica e completa prova del costo stimato per singola divisa.

10.7 L’Amministrazione, in ogni caso, pure decidendo (illegittimamente, per quanto osservato) di sostituirsi all’impresa nel comprovare la congruità del costo di un prodotto rimasto ingiustificato (emergendo alcuni componenti non contemplati nel preventivo prodotto dall’operatore economico), ha posto alla base della propria decisione risultanze istruttorie incoerenti con la tipologia del prodotto in contestazione.

In particolare, il prezzo reperito on line dall’Amministrazione e documentato sub doc. 13 della produzione di primo grado dell’Ateneo (10,00USD-20,00USD), oltre a riferirsi ad acquisti cumulativi (con ordine minimo di 100 “parti”), non reca una descrizione puntuale delle componenti della divisa, emergendo soltanto un disegno della divisa di receptionist di hotel (con la valorizzazione, peraltro, di una figura professionale diversa da quella rilevante nella specie), che non permette di individuare con certezza i capi di abbigliamento componenti la divisa presa in esame dalla Commissione: pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica presente nella pagina del sito internet consultato dall’Amministrazione, sembrerebbe che si tratti di divise prive della giacca e della cintura (oltre che della cravatta per l’operatore), nonostante tali capi costituissero una componente della divisa prevista nell’offerta tecnica dell’aggiudicatario.

Si è, dunque, in presenza di risultanze istruttorie inconferenti in quanto, da un lato, riguardanti un prodotto non puntualmente descritto e, comunque (avendo riguardo alla rappresentazione grafica), difforme da quello previsto dall’aggiudicatario; dall’altro, presupponenti acquisti cumulativi con ordine minimo di 100 unità, sebbene il preventivo valorizzato dall’aggiudicatario fosse riferito ad acquisti per quantità estremamente inferiori (13 giacche e 17 camicie, in relazione ai capi di interesse), con conseguente emersione di una condotta di acquisto dell’aggiudicatario difforme da quella presupposta dall’Amministrazione (incentrata su acquisti cumulativi di ben maggiore consistenza).

Il doc. 13 cit., pertanto, non potrebbe essere utilmente invocato per dimostrare la congruità del costo esposto dall’operatore economico.

Non potrebbe, invece, valorizzarsi nella presente sede il doc. 14 prodotto dall’Amministrazione in primo grado, riferito ad un prezzo per divisa compreso tra 6,00 USD e 18,00USD, in quanto non coerente con le valutazioni sulla cui base è stato assunto il provvedimento impugnato in primo grado, incentrate su un costo per divise compreso tra 10,00 e 20,00 USD ed acquisti superiori alle 100 unità. Per l’effetto, la mancata valorizzazione di tale preventivo in sede procedimentale implica un giudizio di sua irrilevanza ai fini della decisione amministrativa.

In ogni caso, anche tale documento non reca una descrizione delle componenti della divisa (comparendo un mero riferimento ad un’uniforme di receptionist di hotel) e, comunque, pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica, sembra non comprendere tutti i capi di abbigliamento previsti nell’offerta tecnica (cfr. la mancata rappresentazione grafica della cintura).

10.8 Alla stregua delle considerazioni svolte, la valutazione di congruità del costo delle divise, svolta dall’Amministrazione, non risulta legittima, emergendo non soltanto la mancata considerazione del costo annuo di una divisa aggiuntiva per addetto, ma anche il difetto di giustificazioni del costo di € 25,00 annui per divisa esposto dalla controinteressata.

11. Anche la seconda censura, riferita alle bacheche elettroniche, non può essere accolta.

11.1 Al riguardo, si osserva che la C.O., nell’ambito della propria offerta tecnica ha proposto, tra “le migliorie offerte senza nessun onere per la Committenza”, delle “B.E.G.C.”, caratterizzate da un “Sistema Automatizzato di gestione chiavi”; l’offerta era relativa a “tutti i plessi” (pag. 16).

Il Tar Lombardia, Brescia, con la sentenza n. 598 del 2020 ha ritenuto che “le bacheche e il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

L’effetto conformativo discendente da tale pronuncia imponeva, dunque, all’Amministrazione di valutare il costo per le bacheche e per il restante materiale, pure ove già a magazzino.

I giustificativi forniti dall’aggiudicataria in data 21.9.2020, relativamente alle attrezzature valorizzate dal giudicato di annullamento, si soffermano sul costo del D. e sul costo delle altre attrezzature: in particolare, l’aggiudicatario ha ribadito che “le attrezzature citate in sentenza …. sono tutte presenti presso i magazzini della scrivente Cooperativa e … quindi le stesse hanno un costo finale per questa Cooperativa pari a zero”, nonché, comunque, che “per le sedie e per i pc il costo imputabile al cantiere ammonta in via presuntiva a solamente circa € 800,00 – 900,00”, come emergente dal libro cespiti.

La Commissione di gara ha ritenuto attendibili i giustificativi forniti dal concorrente, precisando che l’importo dichiarato dall’operatore economico “è stato verificato sia dal libro cespiti che dalle schede forniti dalla ditta C.” (verbale 6.10.2020 cit.).

11.2 Tale motivazione manifesta l’erroneità della valutazione amministrativa.

Premesso che le bacheche de quibus costituivano una miglioria senza oneri aggiuntivi per l’Amministrazione, configurando, di contro, un prodotto offerto dal concorrente, per il quale risultava foriero di costo, come accertato con effetti di giudicato con la sentenza n. 598/20 cit., si osserva che la Commissione di gara non ha tenuto conto che i giustificativi forniti dal concorrente non valorizzavano espressamente il costo delle bacheche elettroniche, bensì soltanto quello delle sedie e dei pc; con conseguente assenza, in parte qua, di spiegazioni in ordine al costo di un prodotto comunque offerto dall’aggiudicatario.

In assenza di giustificazioni, come rilevato sopra, l’Amministrazione, anziché reputare immediatamente non specificato e (a fortiori) non dimostrato il costo del relativo prodotto, avrebbe potuto attivare un’ulteriore fase di confronto con l’impresa, chiedendo precisazioni al riguardo; l’Amministrazione non avrebbe, invece, potuto ritenere giustificato il relativo prezzo, in assenza di elementi probatori forniti dalla società e sulla base di ricerche di mercato autonomamente condotte.

La decisione di ritenere congruo un prezzo non giustificato risulta, dunque, illegittima per violazione dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016.

11.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure rilevando che il riferimento ai beni in magazzino, recato nei giustificativi forniti dal concorrente, comprendesse anche le bacheche de quibus, ovvero che l’importo di tali beni fosse comunque tale da non erodere l’utile di commessa dichiarato dal concorrente.

11.3.1 Sotto il primo profilo, si osserva che, come rilevato dal Tar, la stessa controinteressata ha riconosciuto di non aver ancora acquistato i beni in esame (cfr. p. 6 note di udienza del 25 gennaio 2021, in cui si ammette che “Quanto, da ultimo, alle più volte citate bacheche, si osserva, da un lato, che la C. non è oggi in possesso di una fattura inerente le stesse semplicemente perché, come lecito e coerentemente con le previsioni della propria offerta tecnica oltre che con gli accordi intercorsi con la stazione appaltante, non le ha ad oggi ancora acquistate”); il che evidenzia come le bacheche non potessero ritenersi comprese tra i beni in magazzino.

In ogni caso, nel rispetto di quanto imposto dal giudicato di annullamento, formatosi sulla sentenza n. 598/20 cit., anche i beni in magazzino avrebbero dovuto essere specificatamente valorizzati con l’esposizione e la giustificazione del relativo costo; il che non risulta avvenuto nella specie.

11.3.2 Sotto il secondo profilo, l’Amministrazione richiama un preventivo autonomamente ricavato da una ricerca di mercato (doc. 16 produzione di primo grado), che attesterebbe un costo di circa 41 USD per l’acquisto della bacheca de qua.

Un tale modus procedendi, per le stesse ragioni sopra esposte – in relazione alla ricerca di mercato svolta per le divise – non può ritenersi legittimo, non potendo l’Amministrazione sostituirsi all’impresa nel ricercare gli elementi probatori idonei a comprovare la congruità dei prezzi o dei costi dei prodotti offerti dall’operatore economico e da questi non giustificati.

In ogni caso, il preventivo valorizzato dall’Ateneo non risulta conferente, riguardando un armadio con serratura intelligente, costituente un prodotto diverso da quello offerto dal concorrente.

L.C.O., infatti, non aveva offerto un prodotto caratterizzato da una serratura automatica, ma un prodotto connotato da un sistema automatizzato di gestione chiavi.

L’automatizzazione non afferiva, dunque, all’apertura della bacheca, ma alla gestione delle chiavi in essa contenute.

Per l’effetto, a prescindere da una supposta compatibilità tra la rappresentazione grafica del prodotto recata nell’offerta tecnica e quella relativa al prodotto presente nel sito internet consultato dall’Amministrazione (circostanza di per sé non significativa, occorrendo verificare la descrizione delle modalità di funzionamento del prodotto, per come riportate nell’offerta tecnica, e non la relativa immagine, meramente indicativa), l’Amministrazione ha valorizzato (peraltro, illegittimamente) un preventivo inconferente, perché non riguardante una bacheca con gestione automatizzata delle chiavi; il che conferma, per un’ulteriore e autonoma ragione, la mancata giustificazione del costo di un prodotto componente l’offerta selezionata.

12. Deve essere rigettata anche la censura riferita al responsabile sociale del progetto.

12.1 In particolare, secondo quanto statuito dal Tar Lombardia, Brescia con la sentenza n. 598/2020, “non convince l’inquadramento (E2), non coerente – a norma del CCNL delle Cooperative sociali – al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), del responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.): il corretto inquadramento al livello F1 determina da solo uno scostamento del costo del lavoro di €uro 7.525,79. A nulla vale, infatti, che, secondo le difese della controinteressata, il responsabile abbia accettato un inquadramento inferiore, perché si tratta di materia sottratta alla disponibilità delle parti, posto che diversamente si accorderebbe all’impresa che viola il CCNL un indebito vantaggio competitivo. Deve, invece, esserci coerenza tra le mansioni svolte, idoneità a svolgerle e livello retributivo accordato al dipendente”.

Il Tar, pertanto, ha accertato che:

– l’inquadramento E2 del responsabile sociale del progetto non risultava coerente, a norma del CCNL delle Cooperative sociali, al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), con la figura professionale prevista dal concorrente;

– il corretto inquadramento doveva avvenire a livello F1, foriero di uno scostamento del costo del lavoro per € 7.525,79.

12.2 A fronte di tali statuizioni, l’aggiudicatario, nell’ambito dei propri giustificativi del 21.9.2020, quanto al “lamentato non corretto inquadramento contrattuale della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”, ha ritenuto che “erri la controparte (inducendo in errore anche il Tar) nel far conseguire automaticamente alla di lui iscrizione ventennale nell’albo degli psicologi il livello F1 del CCNL Cooperative Sociali”; per l’effetto, l’operatore economico ha indicato le ragioni per le quali la figura professionale incaricata non potesse essere inquadrata al livello F1, risultando corretto e congruo rispetto alle mansioni svolte un inquadramento al livello E2.

12.3 Dalla documentazione in atti emerge che l’Amministrazione:

– dapprima, alla stregua di quanto emergente dal verbale del 6.10.2020, ha ritenuto “utile un parere di un consulente del lavoro”;

– all’esito, una volta acquisito tale parere, come attestato dal verbale del 16.10.2020 (riprodotto nel verbale del 4.11.2020), ha ritenuto corretto il livello contrattuale E2 proposto dalla cooperativa C., chiedendo comunque all’operatore economico di fornire ulteriori precisazioni in ordine alla quantificazione del tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, per la cui attività risultava incaricato il dott. M., con la precisazione che “il tempo dovrà essere espresso come percentuale rispetto al contratto in essere con il dottor G.M.”;

– infine, ricevuti i chiarimenti richiesti dal concorrente, ha rilevato che il tempo dedicato al cantiere dell’Ateneo da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali risultava pari a 2,63% rispetto al monte ore settimanale previsto dal contratto in essere tra lo stesso e l’operatore economico; ragion per cui il costo da imputare al cantiere de quo avrebbe dovuto essere valorizzato in base a detta percentuale e non per l’intero valore annuale; tale calcolo avrebbe evidenziato ampi margini anche nel caso in cui il livello contrattuale fosse stato superiore a quello attribuito; considerando il costo lordo annuo per un lavoratore inquadrato con il livello F1, quantificato in € 45.321,78 nella tabella del costo orario allegata al contratto di categoria di riferimento, ed applicando la percentuale di 2,63%, sarebbe infatti emerso un costo da imputare al cantiere dell’Ateneo di € 1.191,96 (verbale del 22.10.2020, riprodotto nel verbale del 4.11.2020).

12.4 L’operato amministrativo risulta manifestamente erroneo, in quanto, da un lato, incentrato sulla valorizzazione di un inquadramento della figura professionale del Dott. M. incompatibile con l’accertamento giurisdizionale recato nella sentenza n. 598/2020 cit.; dall’altro, basato su elementi fattuali incompatibili con gli stessi giustificativi originariamente forniti dal concorrente.

12.4.1 Sotto il primo profilo, si osserva che a pag. 24 dell’offerta tecnica, la società C. ha precisato che: “In considerazione dell’elevato numero di personale svantaggiato coinvolto nella erogazione dei servizi di portierato per l’Università di Brescia, il ruolo di Responsabile Sociale sarà attribuito, per questo appalto, al Dott. G.M., in quanto professionista con 20 anni di esperienza specifica”; il ruolo del dott. M. quale responsabile sociale è stato anche accertato con effetti di giudicato (in quanto presupposto della decisione) dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020 cit. in cui si discorre del “responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.)”, nonché è riconosciuto dall’aggiudicatario nei giustificativi del 21.9.2020, in cui si tratta dell’inquadramento contrattuale “della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”. Parimenti, l’Ateneo, nel ricorso in appello, alla pag. 16, discorre di “responsabile sociale del progetto, dott. M.”.

Nel prendere in esame l’inquadramento contrattuale del responsabile sociale, il Tar Lombardia, nella sentenza n. 598/2020, non soltanto aveva manifestato (in negativo) dubbi sull’inquadramento proposto dal concorrente, ma aveva accertato (in positivo) “il corretto inquadramento al livello F1”; con conseguente emersione di un effetto conformativo del giudicato, che imponeva all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di considerare corretto l’inquadramento al livello F1.

Se l’Amministrazione avesse ritenuto tale statuizione erronea, avrebbe dovuto appellare la sentenza di primo grado, non potendo, invece, dubitare della correttezza di tale pronuncia nella fase di riedizione del potere, al fine di pervenire ad un accertamento incompatibile con quello presupposto dal giudicato.

La circostanza per cui l’Ateneo abbia disatteso il vincolo conformativo discendente dalla sentenza di annullamento emerge manifestamente dai giustificativi dell’aggiudicatario, che discorre espressamente di una pronuncia erronea da parte del Tar (censurando la condotta della seconda classificata, che avrebbe indotto “in errore anche il Tar”): tale errore non avrebbe potuto essere corretto con i giustificativi del 2020 e con una nuova decisione amministrativa, ma avrebbe dovuto essere contestato con uno specifico motivo di impugnazione, altrimenti formandosi la cosa giudicata, espressione dell’irretrattabilità del comando giudiziale.

Pertanto, l’Ateneo, ritenendo scorretto l’inquadramento F1 e assumendo una decisione incentrata su un inquadramento (E2) diverso da quello accertato nella pregressa sentenza, ha agito in maniera illegittima, ponendo in essere un atto violativo del giudicato.

Né potrebbe diversamente argomentarsi valorizzando il parere di un consulente del lavoro acquisito in sede procedimentale: nella specie, l’attività amministrativa è illegittima in radice, in quanto tesa ad accertare fatti incompatibili con quelli emergenti dal giudicato. Il parere de quo mirava, infatti, ad asseverare un inquadramento difforme rispetto a quello ritenuto corretto dalla sentenza n. 598/20 (ormai irretrattabile, perché passata in giudicato), il che non risultava ammesso nella fase di riedizione del potere.

12.4.2 L’operato amministrativo risulta illegittimo, altresì, perché incentrato su una valorizzazione di un costo per la figura professionale in esame incompatibile con gli elementi fattuali forniti dal concorrente con i giustificativi del 2019, da cui emergeva che il responsabile sociale sarebbe stato impiegato ad un costo orario di € 23,19, per n. 310,47 ore lavorative, con la valorizzazione di un importo lordo mensile di € 100,00 ed uno lordo complessivo di € 7.200,00 (giustificativi dell’11.11.2019 e del 28.11.2019).

A fronte di tali dati, non mutati nei giustificativi del 21.9.2020, riferiti soltanto all’inquadramento del responsabile sociale, l’Ateneo ha avvertito l’esigenza di chiedere al concorrente una precisazione ulteriore in ordine al tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, da esprimere come percentuale rispetto al contratto in essere con il dott. M..

Acquisito tale dato percentuale (corrispondente al 2,63%), l’Ateneo ha ritenuto che, pure l’applicazione dell’inquadramento F1, avrebbe generato un costo lordo annuo di € 1.191,96.

Tale quantificazione risulta incompatibile con quella operata dal concorrente che, partendo da un inferiore livello contrattuale (E2), aveva quantificato per il responsabile sociale (individuato nel dott. M.) un importo lordo mensile di € 100,00, con la conseguente valorizzazione di un importo lordo annuo di € 1.200,00.

In altri termini, l’Amministrazione, sebbene avesse a disposizione il dato relativo al numero di ore lavorative riferite al responsabile sociale (indicato nei precedenti giustificativi), ha inteso chiedere ulteriori elementi, non spontaneamente forniti dal concorrente, per addivenire alla quantificazione di un costo lordo mensile che, sebbene calcolato sulla base di un inquadramento (F1) superiore a quello computato dal concorrente (E2), ha condotto ad un importo (€ 1.191,96 annui) inferiore a quello valorizzato dallo stesso aggiudicatario (€ 1.200,00 annui); il che risultava possibile soltanto calcolando un numero di ore dedicate alla commessa inferiore rispetto al numero di ore specificate negli originari giustificativi in relazione alla figura del responsabile sociale (come correttamente dedotto dalla D.O., che ha censurato anche la riduzione delle ore lavorate in relazione alla posizione del responsabile sociale del progetto).

La giurisprudenza di questo Consiglio (tra gli altri, sez. III, 19 ottobre 2021, n. 7036), pure non escludendo in radice la possibilità di una modifica dei giustificativi, ha subordinato una tale eventualità al ricorrere di talune specifiche condizioni, precisando che:

– in termini generali, è ammissibile una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo, non solo in correlazione a sopravvenienze di fatto o di diritto, ma anche al fine di porre rimedio ad originari e comprovati errori di calcolo, sempre che resti ferma l’entità originaria dell’offerta economica, nel rispetto del principio dell’immodificabilità, che presiede la logica della par condicio tra i competitori;

– tale ammissibilità incontra (di là dalla rigidità delle voci di costo inerenti gli oneri di sicurezza aziendale) il solo limite del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta che ne alteri l’equilibrio economico, allocando diversamente voci di costo nella sola fase delle giustificazioni;

– la riallocazione delle voci deve avere un fondamento economico serio allorché incida sulla composizione dell’offerta, atteso che, diversamente, si perverrebbe all’inaccettabile conseguenza di consentire un’elusiva modificazione a posteriori della stessa, snaturando la funzione propria del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che è, per l’appunto, di apprezzamento globale dell’attendibilità dell’offerta;

– ragionevoli, giustificate e proporzionate modificazioni e rimodulazioni possono interessare anche la struttura dei costi per il personale.

La modifica dei giustificativi deve, dunque, avere un fondamento oggettivo, ancorato a sopravvenienze non considerate al momento della loro originaria redazione ovvero all’esigenza di porre rimedio a taluni errori in cui sia incorso l’operatore economico nella formulazione delle precedenti spiegazioni.

Deve, dunque, essere l’operatore economico a rappresentare all’Amministrazione la ragione alla base della modifica di quanto già giustificato.

Nel caso di specie, invece, a fronte di una condotta assunta dall’aggiudicatario volta a ribadire la correttezza di un dato inquadramento professionale (E2), è stata l’Amministrazione a sollecitare l’acquisizione di un elemento informativo riferito alla percentuale dell’impegno lavorativo del dott. M. rispetto al contratto in essere, sulla cui base l’Ateneo ha provveduto al calcolo del costo complessivo lordo della relativa manodopera, implicante, tuttavia, un numero di ore impiegate nell’appalto minore rispetto a quanto originariamente giustificato dal concorrente (essendo stato valorizzato, come osservato, un costo inferiore a quello indicato nei giustificativi del 2019, sebbene calcolato sulla base di un superiore inquadramento contrattuale, il che è compatibile solo con la riduzione della base di calcolo, data dal numero di ore lavorate, come correttamente censurato dalla D.O.).

Tale modifica del giustificativo, alla luce delle precedenti coordinate ermeneutiche, non può ritenersi ammissibile, perché non originata da sopravvenienze o errori rappresentati dal concorrente, ma da un’attività della stessa stazione appaltante, riferita ad un profilo fattuale (impegno percentuale della manodopera) neppure valorizzato dal concorrente.

13. Le censure dell’Ateneo, riguardanti i beni strumentali a magazzino, non possono parimenti essere accolte nella parte in cui tendono ad escludere la necessità di computare il costo dei beni presenti in magazzino, in quanto (anche sotto tale profilo) risultano manifestamente incompatibili con il giudicato di annullamento formatosi sulla sentenza n. 598/2020 cit., che aveva chiaramente imposto di valorizzare anche il costo dei beni in magazzino: “il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

Se tale precetto, idoneo a conformare la riedizione del potere, non fosse stato condiviso, l’Ateneo avrebbe dovuto proporre appello avverso la sentenza n. 598/20, non potendo violare il relativo comando conformativo nella fase di riedizione del potere attraverso la rinnovata considerazione di attrezzature a costo zero perché già presenti in magazzino.

Le deduzioni dell’Ateneo, svolte nell’odierno ricorso in appello, nella parte in cui valorizzano in € 800-900 il maggiore costo dichiarato dall’aggiudicataria per materiali presenti in magazzino, invece, confermano un’ulteriore componente di costo non considerato dall’impresa negli originari giustificativi che, se sommato a quelli discendenti dal rigetto delle precedenti censure, rileva complessivamente per azzerare l’utile di impresa.

14. Alla stregua delle considerazioni svolte, il secondo motivo di appello deve essere rigettato.

14.1 Come osservato sopra – nella disamina dei principi giurisprudenziali espressi in materia di giudizio di anomalia – sebbene la valutazione di congruità (globale e sintetica) non debba concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, occorre comunque tenere conto dell’incidenza che le singole voci hanno sul costo complessivo del servizio, al fine di verificare se le carenze all’uopo rilevate siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Come precisato da questo Consiglio, “gli appalti pubblici devono pur sempre essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso: laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell’utile stimato, è evidente che l’offerta diventa non remunerativa e, pertanto, non sostenibile” (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. III, 10 luglio 2020, n. 4451).

L’infondatezza delle doglianze articolate dall’Amministrazione conduce alla valorizzazione di maggiori costi non computati o non giustificati dall’aggiudicatario, per un importo superiore all’utile di impresa, il che manifesta l’illegittimità del giudizio di complessiva affidabilità dell’offerta formulato con gli atti censurati in primo grado.

14.2 Basti considerare che, a fronte di un utile di commessa di € 3.000,00, già soltanto il maggiore costo per la divisa addizionale, non computata nei giustificativi del 2019 risulta idoneo ad erodere gran parte dell’utile atteso, facendosi questione di un importo annuo di € 475,00 – pari ad € 25 annui (comunque non giustificati, per quanto sopra osservato) per la divisa aggiuntiva, moltiplicato per il numero di addetti alla commessa (n. 19) – corrispondente, per i sei anni dell’appalto, ad un maggiore costo di € 2.850,00: tale importo, sommato ad € 800-900 per attrezzature in magazzino non considerate nei giustificativi del 2019 – da computare in conformità a quanto imposto dal pregresso giudicato di annullamento – dà luogo a maggiori costi non considerati dalla controinteressata per un valore economico superiore all’utile di impresa.

L’inaffidabilità complessiva dell’offerta discende ulteriormente, da un lato, dalla mancata giustificazione del costo di € 25 per divisa e dei costi delle bacheche elettroniche, dall’altro, dalla mancata considerazione dei maggiori costi derivanti dal superiore inquadramento del dott. M. (a parità di ore lavorative originariamente assunte alla base delle spiegazioni fornite dall’aggiudicatario), con conseguente valorizzazione di ulteriori costi non considerati o non giustificati insuscettibili di essere coperti tramite il valore economico dell’utile stimato.

14.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure valorizzando la natura non lucrativa dello scopo sociale perseguito dall’aggiudicataria.

Difatti, con riguardo alle cooperative sociali, sebbene possa prescindersi dalla necessità di un adeguato margine di guadagno, previsto tipicamente per le società commerciali – tenuto conto che, per gli organismi non animati da uno scopo di lucro, un utile anche modesto può comportare un vantaggio significativo per l’impiego dell’attività lavorativa dei soci (oltre che per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico) – non potrebbe, comunque, ammettersi un’offerta in perdita: “ciò che è importante ed essenziale è che non vi siano “perdite”” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Nella specie, invece, i maggiori costi non giustificati o non considerati dalla controinteressata risultano idonei a sopravanzare l’utile di commessa, con conseguente emersione di una perdita di commessa, tale da rendere illegittimo il giudizio di affidabilità svolto dalla stazione appaltante.

14.4 Infine, non potrebbero neppure valorizzarsi a sostegno dell’appello le dimensioni societarie della controinteressata, tenuto conto che il primo giudice, con capo decisorio peraltro neppure specificatamente censurato nella presente sede, ha correttamente rilevato che “le economie di scala di cui l’operatore può godere, perché parte di un più ampio consorzio di imprese, vanno dimostrati e non semplicemente allegati”; il che costituisce un principio già affermato nella sentenza n. 598/20, in cui era stato precisato in maniera ormai irretrattabile che l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimaneva una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità.

Per le ragioni svolte, nel caso in esame tale prova, riferita ai benefici derivanti dalle asserite economie di scala, non risulta tuttavia fornita, con conseguente irrilevanza delle dimensioni della cooperativa ai fini dell’odierna decisione.

15. Alla stregua di tali osservazioni, l’appello deve essere rigettato.

Le spese di giudizio del grado di appello, nei rapporti tra l’Amministrazione e la D.O., sono regolate in applicazione del criterio della soccombenza, venendo liquidate come da dispositivo a carico dell’appellante e in favore della ricorrente in primo grado; le spese di giudizio possono, invece, essere interamente compensate nei rapporti tra l’Amministrazione e la controinteressata in primo grado, attesa l’omogeneità della posizione assunta dalle due parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata anche se, parzialmente, con diversa motivazione.

Condanna l’Università degli Studi di Brescia a pagare, a titolo di spese di giudizio del grado di appello, in favore della D. Società Cooperativa Sociale Onlus, l’importo complessivo di € 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori di legge ove dovuti. Compensa le spese di giudizio nei rapporti tra l’Università degli Studi di Brescia e la C. Società Cooperativa Sociale Onlus.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere

Francesco De Luca, Consigliere, Estensore


Aggiornamento sulla trattativa per il rinnovo contrattuale della P.A.

Si è svolta il 25 marzo una giornata di mobilitazione promossa da Fp CGIL, CISL Fp e UIL Fpl con presidi nei territori e a Roma davanti alla sede del Ministero dell’Economia e Finanze. Al centro delle proteste la rivendicazione di maggiori risorse per il rinnovo dei contratti di lavoro delle Funzioni Locali e Sanità Pubblica.
Una delegazione ha incontrato la sottosegretaria Sartore, alla quale sono state rivolte le richieste delle categorie: fondamentale, tra tutte, una adeguata copertura economica indispensabile al rinnovo. Tra gli istituti da finanziare, assumono particolare rilievo il sistema della indennità e la riforma degli ordinamenti e dei sistemi di classificazione al fine di valorizzare le professionalità esistenti tra i dipendenti dei comparti.
A quanto dichiarato dalle oo.ss., l’incontro si è concluso con l’assunzione, da parte della sottosegretaria, e quindi del governo, dell’impegno al reperimento delle risorse, in accordo con Regioni e Autonomie locali.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 09/03/2022) 28/03/2022, n. 9989

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10528/2014 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in Roma Via Pierluigi Da Palestrina n. 63 presso lo studio dell’avvocato Gianluca Contaldi; rappresentato e difeso dall’avvocato Gianluca Contaldi e dall’avvocato Elena Sorgente;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

EQUITALIA NORD SPA, elettivamente domiciliata in Roma Via delle Quattro Fontane n. 161 presso l’avvocato Sante Ricci, rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Cimetti e dall’avvocato Giuseppe Parente;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. PIEMONTE, n. 93/24/13, depositata il 23/10/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 9 marzo 2022 dal consigliere Dott. Guida Riccardo.

Svolgimento del processo
che:

1. la Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) del Piemonte ha rigettato l’appello di M.M. avverso la sentenza (n. 105/2/10) con la quale la Commissione tributaria provinciale di Asti, per quanto adesso rileva, aveva rigettato il ricorso del contribuente contro la cartella di pagamento dell’importo di Euro 51.575,17, a titolo di Irpef e Irap, per le annualità 2003 e 2004;

2. il contribuente ricorre con otto motivi per la cassazione della sentenza di appello e l’Agenzia delle entrate ed Equitalia Nord Spa resistono ciascuna con controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. con il primo motivo di ricorso (“Violazione e falsa applicazione di norme di diritto D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 12 e 25, D.P.R. n. 546 del 1992, art. 19, L. n. 241 del 1990, artt. 3 e 21 septies, L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 2697 c.c., artt. 3, 24 e 111 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente censura, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, l’asserzione della sentenza impugnata secondo cui (cfr. pag. 3) “Il difetto di sottoscrizione della cartella e del ruolo sono motivi di lamentela che non hanno fondamento in quanto non previsti da alcuna norma”;

2. con il secondo motivo (“Violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10 e 12, e degli artt. 112 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente censura la sentenza impugnata che ha omesso di pronunciare sull’eccezione dell’appellante secondo cui la mancanza di sottoscrizione dei ruoli impugnati e, conseguentemente, la mancanza di esecutorietà degli stessi, era circostanza non contestata ex adverso che, pertanto, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., doveva considerarsi incontrovertibile;

3. con il terzo motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 12 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), artt. 24 e 111 Cost.; nonchè art. 2697 c.c., artt. 112, 113, 115 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, che la sentenza ha disatteso il motivo di appello attinente al difetto di motivazione della cartella con statuizione (cfr. pag. 16 del ricorso per cassazione) “apodittica e priva di motivazione”;

4. con il quarto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, il passo della sentenza secondo cui “La cartella è stata predisposta, in forma vincolata, secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze e conteneva tutti gli elementi obbligatori, con l’indicazione del responsabile del procedimento M.R., Direttore pro tempore.”;

5. con il quinto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24, 97 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, il dictum della sentenza impugnata secondo cui la cartella recava l’indicazione del responsabile del procedimento ” M.R., direttore pro tempore”, senza considerare che lo stesso atto, in realtà, era privo dell’indicazione puntuale della qualifica di tale soggetto e che, comunque, da tale punto di vista, la cartella non era affatto chiara;

6. con il sesto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24, 97 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare sulla questione, sollevata dall’appellante dinanzi alla C.T.R., che la cartella recava l’intimazione di pagamento di poste (in particolare, i compensi di riscossione e gli interessi successivi) in relazione alle quali, nella stessa cartella, non era indicato alcun soggetto responsabile, e ciò (tra l’altro) in violazione dell’obbligo di trasparenza dell’attività amministrativa, del principio di piena informazione del cittadino e di garanzia del diritto di difesa, sanciti dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 377 del 2007;

7. con il settimo motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17 e del D.M. 4 agosto 2000, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., art. 107 T.F.E.U.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare sul motivo d’appello secondo cui le somme precettate in cartella a titolo di “compensi di riscossione”, in misura percentuale (c.d. aggio) su tutte le somme oggetto dell’intimazione, erano immotivate, incontrollabili, sproporzionate e vessatorie rispetto al costo effettivo di esazione;

8. con l’ottavo motivo (“Violazione e falsa applicazione di norma di diritto D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, artt. 137, 148, 149, 156 e 160 c.p.c., L. n. 890 del 1982, art. 14, artt. 24 e 111 Cost., art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 6 (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha contra legem negato l’inesistenza della notifica per mancanza della “relata”, trascurando che, in realtà, l’attività notificatoria era inesistente proprio a causa della mancanza della relata di notifica e in assenza dell’intervento, nel procedimento notificatorio, di un soggetto titolato a compiere l’attività di notifica;

9. così riassunte le articolate critiche alla sentenza d’appello, occorre premettere che esse sono tutte quante inammissibili quando lamentano l’omesso esame di un motivo di appello, sussunto nel prisma normativo dei nn. 3 e 5 (novellato, mentre la precedente formulazione della carenza della motivazione non è applicabile ratione temporis) dell’art. 360 c.p.c.. E ciò in quanto un simile vizio esula sia dal parametro della violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3) sia da quello dell’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), contra legem invocati dal ricorrente, e va invece rapportato al diverso parametro della nullità della sentenza per error in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4). Infatti, è indirizzo pacifico della Corte che “L’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile.” (Cass. 16/03/2017, n. 6835);

10. il primo e il secondo motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, non sono fondati;

la decisione di appello si muove nel solco della giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. 04/12/2019, n. 31605, cui dà continuità tra le altre Cass. 19/07/2021, n. 20636), secondo cui “In tema di riscossione delle imposte sul reddito, l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo l’apposito modello approvato con D.M., che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice.”;

11. il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, non sono fondati;

la C.T.R., con un accertamento di fatto ad essa riservato, ha stabilito che la cartella impugnata, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, oltre ad indicare il responsabile del procedimento (nella persona di M.R.), era stata predisposta secondo l’apposito modello approvato con D.M., che (come accennato al p. 10) non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (cfr. in termini Cass. 4/12/2019, n. 31605). Dalle risultanze processuali si evince che la cartella qui impugnata scaturisce da due distinti avvisi di accertamento (per il 2003 e il 2004), sicchè va anche rimarcato che, come condivisibilmente già rilevato dalla Corte, la cartella esattoriale deve essere specificamente motivata in modo congruo, sufficiente ed intellegibile quando – diversamente dalla fattispecie in esame – la sua emissione non sia stata preceduta da un avviso di accertamento (Cass. 19/04/2017, n. 9799, menzionata da Cass. 26/11/2021, n. 36896);

12. il settimo motivo non è fondato;

è utile rammentare che, per giurisprudenza costante, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass. 6/12/2017, n. 29191 – conf. ex multis: 08/03/2007, n. 5351; 13/10/2017, n. 24155; 04/06/2019, n. 15255; 30/01/2020 n. 2153; 02/04/2020, n. 7662; 13/01/2022, n. 864, 01/03/2022, n. 6786 – ha affermato che “Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.”). Nella fattispecie concreta, è ovvio che la C.T.R. (e prima di essa la C.T.P.), quando riconosce la legittimità della cartella, esclude implicitamente la fondatezza degli argomenti esposti dal contribuente a sostegno dell’asserita non debenza dell’aggio. Del resto, la statuizione (implicita) del giudice d’appello è in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr., da ultimo, sent. n. 120 del 2021) che ha ritenuto conforme alla Cost. l’imposizione a carico del debitore di un aggio in percentuale fissa (nella specie, la cartella trascritta nei motivi di ricorso per cassazione reca un aggio del 9%), integrale o ridotta, anzichè riferito all’effettivo costo del servizio, ed ha demandato al legislatore il compito di riformare la materia, al fine sia di superare il concreto rischio di una sproporzionata misura dell’aggio, sia di rendere efficiente il sistema della riscossione. E, in effetti, la L. n. 234 del 2021, art. 1, comma 15 e ss., (Legge di Bilancio 2022) – quale norma non retroattiva – ha previsto che il costo di remunerazione del servizio, per i carichi affidati al gestore della riscossione nazionale, a decorrere dal 1 gennaio 2022, gravi prevalentemente sul bilancio dello Stato;

13. l’ottavo motivo non è fondato;

al contrario di quanto afferma il ricorrente, la notifica a mezzo posta della cartella di pagamento non è inesistente, ma è del tutto valida, donde la correzione del passaggio argomentativo della pronuncia impugnata nella parte in cui si asserisce che l’assenza della relata di notifica sarebbe causa (non certo d’inesistenza, ma) della mera irregolarità del procedimento notificatorio. Va dato seguito alla consolidata giurisprudenza sezionale (si veda Cass. 29/11/2021, n. 37347) che ha chiarito che “con riferimento alla notifica della cartella esattoriale direttamente eseguita dall’agente della riscossione a mezzo del servizio postale, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, la Corte ha avuto modo di (ripetutamente) rilevare che viene, così, in considerazione una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati; in tal caso, difatti, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione (v. Cass., 3 dicembre 2020, n. 27697; Cass., 14 novembre 2019, n. 29642; Cass., 4 luglio 2014, n. 15315; Cass., 28 luglio 2010, n. 17598; v., altresì, Cass., 17 ottobre 2016, n. 20918; Cass., 6 marzo 2015, n. 4567; Cass., 19 marzo 2014, n. 6395; Cass., 19 settembre 2012, n. 15746; Cass., 27 maggio 2011, n. 11708; Cass., 6 luglio 2010, n. 15948; Cass., 19 giugno 2009, n. 14327); (…) in particolare, si è, poi, precisato che nel caso di notifica della cartella di pagamento eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non anche le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 (v., ex plurimis, Cass., 4 febbraio 2020, n. 2489; Cass., 3 aprile 2019, n. 9240; Cass., 12 novembre 2018, n. 28872; Cass., 13 giugno 2016, n. 12083) nè, a maggior ragione, le disposizioni (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60) che presuppongono l’intervento di un agente della notificazione; (…) conclusioni, queste, cui è pervenuto (anche) il Giudice delle leggi che (ripetutamente) ha disatteso le questioni di costituzionalità sollevate con riferimento alla disposizione in esame, rimarcando che la notificazione diretta, a mezzo del servizio postale, eseguita ai sensi dell’art. 26, cit., ha connotati di specialità, e di semplificazione, rispetto a quella dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e dalla L. n. 890 del 1982, e che una siffatta disciplina, – che assicura un sufficiente livello di conoscibilità dell’atto, stante l’avvenuta consegna del plico (oltre che al destinatario, anche alternativamente) a chi sia legittimato a riceverlo, – non supera il limite inderogabile della discrezionalità del legislatore nè compromette il diritto di difesa del destinatario della notifica, correlandosi alla natura sostanzialmente pubblicistica della posizione e dell’attività dell’agente della riscossione e trovando fondamento nel regime differenziato della riscossione coattiva delle imposte che, a sua volta, risponde all’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare con regolarità le risorse necessarie alla finanza pubblica (v. Corte Cost., 23 luglio 2018, n. 175 cui adde Corte Cost., 3 gennaio 2020, n. 2; Corte Cost., 24 aprile 2019, n. 104)”;

14. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a corrispondere le spese del giudizio di legittimità all’Agenzia delle entrate, liquidandole in Euro 3.200,00, a titolo di compenso, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito, e all’Agente della riscossione, liquidandole in Euro 3.200,00, a titolo di compenso, Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 9 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2022


Circolare 2/2022 – Perfezionamento della notifica a mezzo p.e.c. non consegnata per cause dipendenti dal destinatario

Circolare 2/2022 – Perfezionamento della notifica p.e.c. non consegnata per cause attribuibili al destinatario

Com’è noto, il Codice dell’Amministrazione Digitale contenuto nel D.Lgs. 82 del 2005 (CAD), equipara, tramite l’art. 6(1), le comunicazioni elettroniche trasmesse ad uno dei domicili digitali, di cui all’articolo 3-bis, alla notificazione per mezzo della posta, salvo che la legge disponga diversamente. Le suddette comunicazioni si intendono spedite dal mittente se inviate al proprio gestore e si intendono consegnate se rese disponibili al domicilio digitale del destinatario, salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo.
Il comma 1-quater del medesimo articolo stabilisce inoltre che “I soggetti di cui all’articolo 2, comma 2 (ovvero pubblica amministrazione) notificano direttamente presso i domicili digitali di cui all’articolo 3-bis i propri atti, compresi i verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui all’articolo 2 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, fatte salve le specifiche disposizioni in ambito tributario”, con ciò configurando un vero e proprio obbligo da parte della pubblica amministrazione a notificare i propri atti a mezzo della p.e.c. nei confronti dei soggetti tenuti per legge a dotarsi di un domicilio digitale.
Tali soggetti sono quelli individuati dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 16 commi 6 e 7, ovvero imprese costituite in forma societaria e professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato, nonché, dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 5, ovvero ditte individuali.
A questi si affiancheranno a breve le persone fisiche, i professionisti e gli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese, come previsto dall’art. 6-quater del CAD.
Va precisato che l’obbligo all’uso dello strumento p.e.c. si desume anche dal contenuto dell’art. 3-bis co. 4 del CAD che prevede espressamente che “A decorrere dal 1° gennaio 2013, salvo i casi in cui è prevista dalla normativa vigente una diversa modalità di comunicazione o di pubblicazione in via telematica, le amministrazioni pubbliche e i gestori o esercenti di pubblici servizi comunicano con il cittadino esclusivamente tramite il domicilio digitale dallo stesso dichiarato, anche ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, senza oneri di spedizione a suo carico. Ogni altra forma di comunicazione non può produrre effetti pregiudizievoli per il destinatario.”
Da quanto sopra esposto appare chiara l’importanza che tale forma di notificazione va assumendo e soprattutto è destinata ad assumere nel momento in cui i anche le persone fisiche saranno tenute a dotarsi di domicilio digitale.
Ora, di pari passo con l’affermarsi di questo strumento, emerge la necessità di chiarire alcuni aspetti della procedura che potrebbero dar luogo a contenzioso nei rapporti fra pubblica amministrazione e soggetti destinatari degli atti da questa emanati.
In particolare, ci dedichiamo ora ad analizzare le conseguenze derivanti dalla mancata consegna dell’atto nella casella di posta elettronica certificata del destinatario, quando questa sia dovuta a mancato rinnovo del contratto con il gestore del servizio o alla trascuratezza nella gestione della stessa che, risultando piena, non è più in grado di accogliere ulteriori comunicazioni.
Ci si chiede sostanzialmente quali siano le conseguenze di ciò relativamente al perfezionamento della notificazione.
Dall’esame del testo dell’art. 6 del CAD sembrerebbe doversi dedurre che la notifica, nei casi sopra esposti, si dà per perfezionata, ciò in quanto le comunicazioni “si intendono consegnate se rese disponibili al domicilio digitale del destinatario, salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo.” Il mancato rinnovo della p.e.c. o la negligente gestione della stessa, tale da rendere impossibile la consegna per mancanza di spazio, sembrano proprio ricadere fra le cause imputabili direttamente al destinatario.
A supporto di detta interpretazione si riportano, massimate, alcune sentenze della Corte Suprema di Cassazione, allegate, nel testo esteso, alle presenti considerazioni.
1) Cassazione civile, Sez. I, Sentenza, (data udienza 06/10/2016) 03/01/2017, n. 31
La notifica telematica del ricorso per dichiarazione di fallimento e del decreto ex art. 15, comma 3, legge fallimentare, nel testo successivo alle modifiche apportategli dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012, si perfeziona nel momento in cui perviene all’indirizzo di posta elettronica certificata (P.E.C.) del destinatario, precedentemente comunicato dal medesimo al tempo della sua iscrizione nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 16, comma 6, del d.l. n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del 2009, e dell’art. 5, comma 1, del d.l. n. 179 cit., salva la prova che il predetto indirizzo sia erroneo per fatto non imputabile all’imprenditore che ha effettuato la comunicazione. (In applicazione del principio esposto, la Suprema Corte ha cassato la sentenza con la quale la corte d’appello aveva revocato il fallimento sul presupposto che il ricorso ed il decreto di comparizione erano stati notificati ad un indirizzo P.E.C. che, pur risultando dal certificato camerale della società debitrice, apparteneva, in realtà, ad altra società). (Cassa con rinvio, Corte d’Appello Palermo, 12/09/2014);
2) Cassazione civile, Sez. lavoro, Sentenza, (data udienza 14/02/2018) 21/05/2018, n. 12451
È valida ed efficace la comunicazione dell’avvenuto deposito del decreto di rigetto dell’opposizione allo stato passivo avvenuto a mezzo P.E.C. all’indirizzo indicato dall’avvocato e conclusosi con messaggio di mancata comunicazione per risultare piena la casella di posta elettronica del destinatario. In tal caso la comunicazione deve ritenersi regolarmente avvenuta giacché, una volta ottenuta dall’ufficio giudiziario l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’avvocato che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di p.e.c., diventa responsabile della gestione della propria utenza, nel senso che ha l’onere, non solo di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli dalla cancelleria a tale indirizzo, ma anche di attivarsi affinché i messaggi possano essere regolarmente recapitati.
3) Cassazione civile, Sez. VI – 3, Ordinanza, (data udienza 10/10/2019) 11/02/2020, n. 3164
E’ dunque onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di p.e.c.. Un simile onere è manifestamente finalizzato ad assicurare che gli effetti giuridici connessi alla notifica di atti tramite lo strumento telematico si possano produrre nel momento in cui il gestore del servizio p.e.c. rende disponibile il documento nella casella di posta del destinatario. Il disposto del D.M., data la natura secondaria della fonte, naturalmente non è sufficiente a giustificare la conclusione che in presenza di c.d. casella di p.e.c. satura la notificazione si abbia per perfezionata. Ma non altrettanto è da dirsi per l’espressione “rendere disponibile” figurante nel citato disposto codicistico: poiché esso individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario, si giustifica la conclusione che, qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato.
4) Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza., (data udienza 10/11/2020) 23/02/2021, n. 4920
Nel giudizio di cassazione, in tema di comunicazione dell’avviso di fissazione dell’adunanza camerale, l’indicazione, nel ricorso, del codice fiscale del difensore, pur in mancanza di quella del relativo indirizzo di p.e.c., comporta l’automatica domiciliazione nel proprio indirizzo di P.E.C. figurante obbligatoriamente dal “Reginde”, sicché correttamente la cancelleria, a norma del combinato disposto degli artt. 366, ultimo comma, e 136, comma 2, c.p.c., procede all’individuazione della p.e.c. dal “Reginde” e all’esecuzione della comunicazione presso la relativa casella; pertanto, nell’ipotesi in cui la comunicazione inviata all’esito di tale individuazione non vada a buon fine per rifiuto da parte della casella di P.E.C. del destinatario, la mancata consegna dell’avviso deve ritenersi imputabile al difensore e la cancelleria non è onerata di procedere al rinnovo dell’atto attraverso una nuova comunicazione a mezzo posta, che, se effettuata tardivamente, resta irrilevante. (Rigetta, Tribunale Avellino, 12/02/2018);
5) Cassazione civile, Sez. III, Sentenza, 23/06/2021, n. 17968 (rv. 661836-01)
Nell’ipotesi di notifica del decreto ingiuntivo a mezzo p.e.c., a norma dell’art. 3 bis della legge n. 53 del 1994, la circostanza che la e-mail P.E.C. di notifica sia finita nella cartella della posta indesiderata (“spam”) della casella P.E.C. del destinatario e sia stata eliminata dall’addetto alla ricezione, senza apertura e lettura della busta, per il timore di danni al sistema informatico aziendale, non può essere invocata dall’intimato come ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore ai fini della dimostrazione della mancata tempestiva conoscenza del decreto che legittima alla proposizione dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; ciò in quanto l’art.20 del d.m. n. 44 del 2011 (regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi di cui al d.lgs. n. 82 del 2005), nel disciplinare i requisiti della casella P.E.C. del soggetto abilitato esterno, impone una serie di obblighi – tra cui quello di dotare il terminale informatico di “software” idoneo a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza, nonché di “software antispam” idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati – finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di posta elettronica certificata, il cui esatto adempimento consente di isolare i messaggi sospetti ovvero di eseguire la scansione manuale dei relativi “files”, sicché deve escludersi l’impossibilità di adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio p.e.c. nel cestino, una volta che esso sia stato classificato dal computer come “spam”. (Rigetta, Corte D’Appello Bologna, 22/01/2019).
A sostegno, invece, della tesi opposta parrebbe attestarsi la sentenza di seguito riportata:
1) Cassazione civile, Sez. III, Sentenza 20/12/2021, n. 40758
In caso di notifica telematica effettuata dall’avvocato, il mancato perfezionamento della stessa per non avere il destinatario reso possibile la ricezione dei messaggi sulla propria casella p.e.c., pur chiaramente imputabile al destinatario, impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 e ss. c.p.c. e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 16, comma 6, ultima parte del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo P.E.C. dal difensore si perfeziona al momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna (RAC).
Va premesso che la sentenza si riferisce all’ambito processuale, quindi a situazioni e procedure che si discostano da quelle amministrative, oggetto delle presenti considerazioni. In realtà, in questo caso, il rigetto del ricorso è dovuto non tanto a ragioni relative alla validità o meno della notificazione non consegnata causa casella piena, quanto all’obbligatorietà di ripetere la notifica, in linea con il principio per cui dev’esser escluso che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 11/02/2021, n. 3557, pag. 5, in cui si richiamano: Cass. nn. 1982 del 2020, 2942 del 2019, 22892 del 2015).
Pertanto, vista le norme che regolano l’uso della “p.e.c.” e vista la giurisprudenza prevalente, parrebbe ragionevole ritenere che la notifica effettuata al domicilio digitale del destinatario, risultante dagli elenchi di cui all’art. 3-bis CAD, sia da considerarsi regolarmente perfezionata anche in caso di casella piena o non più attiva, stante che in entrambi i casi la mancata consegna deriva puramente da cause attribuibili al destinatario stesso.
Per quanto attiene, invece, alle eventuali ripercussioni che le conclusioni sopra esposte potrebbero avere sull’attività del Messo Comunale/Messo Notificatore, si consiglia allo stesso, in caso di richieste di notificazione motivate da un esito negativo del tentativo effettuato precedentemente tramite p.e.c., di procedere comunque alla notifica sul territorio, ciò al fine di evitare ogni eventuale responsabilità, nel contempo rapportandosi con l’ufficio/ente richiedente che, ovviamente, valuterà autonomamente il valore da attribuire alla mancata consegna nella casella p.e.c. corrispondente al domicilio digitale del destinatario, a prescindere dalle diverse pronunce giurisprudenziali adottate in merito.

_________________________
(1) Lo stesso dicasi dell’art. 48, di cui è disposta l’abrogazione a far data dall’entrata in vigore del decreto previsto dall’art. 65, co. 7 del D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, con cui sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità dei servizi di posta elettronica certificata di cui agli articoli 29 e 48 del decreto legislativo del 7 marzo 2005, n. 82, al regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE.

La commissione normativa di A.N.N.A.

Scarica la circolare: Circolare 2022-002 Perfezionamento della notifica a mezzo p.e.c. non consegnata per cause dipendenti dal destinatario


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 22/02/2022) 21/03/2022, n. 9054

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6351/2017 proposto da:

BRAVO COMMUNICATIONS SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA NEGRI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

BIBO ITALIA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA CHIARA MORABITO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO LUIGI RUBAT ORS, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1379/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/02/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 4212/2014, i accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla Huhtamaki S.p.A., oggi Bibo Italia S.p.A., nei confronti della Bravo Communications S.r.l., annullava ex art. 1394 c.c., i due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria, posti a fondamento della richiesta monitoria, rigettando le altre domande avanzate dalle parti.

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1379 del 4 agosto 2016 ha rigettato l’appello principale proposto dal Bravo Communications e quello incidentale avanzato dalla controparte, condannando la prima al rimborso in favore della seconda dei due terzi delle spese del grado.

Rilevava la Corte d’Appello che i contratti erano stati annullati per effetto del conflitto di interessi esistente tra colui che all’epoca fatti era alla guida della società opponente e la società contraente, che vedeva nella sua compagine societaria, e con una partecipazione rilevante, proprio lo stesso soggetto che aveva concluso i contratti in nome e per conto della Bibo Italia.

I giudici di appello, nell’esaminare l’appello principale della Bravo, osservavano che le censure erano prive di fondamento.

Quanto alla deduzione secondo cui vi sarebbe stata una extrapetizione da parte del Tribunale per avere esteso l’effetto dell’annullamento dei due contratti anche alle cc.dd. “lavorazioni extracontratto”, che pur costituivano oggetto della pretesa monitoria, trattandosi, a detta dell’appellante, di prestazioni frutto di autonomi rapporti contrattuali, sorti per effetto di singoli ordinativi della committente, la sentenza di seconde cure rilevava che dette prestazioni erano sì escluse da quelle dovute in base al rapporto di agenzia, ma trovavano comunque la loro genesi nel contratto denominato di agenzia pubblicitaria, con la conseguenza che l’annullamento di tale contratto era destinato a riverberarsi anche sulle prestazioni in esame.

In relazione alla diversa critica che invece assumeva la mancata verifica di un pregiudizio subito dalla Bibo Italia per effetto della conclusione dei contratti, la sentenza ricordava quali erano i presupposti per ravvisare il conflitto di interessi, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità.

Nella specie i contratti furono conclusi dal soggetto apicale della società appellata, che all’epoca cumulava anche la mansione di direttore generale, nel dicembre del 2009 e nel gennaio del 2010, in epoca di poco anteriore alla dismissione di fatto di tali cariche. Infatti, sebbene l’incarico fosse stato formalmente conservato sino ad ottobre del 2010, ed essendo stata conservata la carica di dirigente sino al successivo mese di dicembre, tuttavia a partire da aprile del 2010 aveva fruito di un congedo parentale.

Nello stesso periodo però era titolare di una quota di un quarto del capitale della Bravo, di cui nel 2001 era stato uno dei soci fondatori e della quale era stato amministratore sino al 2002.

Emergeva poi che di fatto aveva continuato ad ingerirsi nell’amministrazione e gestione della Bravo.

Accanto a tale situazione, emergeva poi che la durata dei contratti, fissata in tre anni, accompagnata dalla previsione di un corrispettivo notevolmente superiore a quello di norma praticato da società per analoghi servizi, aveva assicurato alla Bravo un significativo vantaggio economico, e ciò tramite contratti posti in essere allorchè era ragionevole ritenere che il direttore generale della opponente avesse già preordinato la sua fuoriuscita dalla società committente per avere già ricominciato ad occuparsi della gestione della Bravo.

Era altresì disatteso il motivo di appello a mente del quale i contratti in oggetto sarebbero stati convalidati dalla committente in maniera tacita, e precisamente continuando ad avvalersi delle prestazioni della Bravo, sebbene fosse già venuta a conoscenza della situazione di conflitto di interessi in cui versava il suo ex amministratore.

Secondo i giudici di appello, tuttavia, non poteva farsi richiamo alla figura della convalida tacita. In primo luogo, la convalida avrebbe potuto essere compiuta solo da parte di colui che aveva il potere di rappresentanza della società, e nella specie emergeva che colui che era anche socio della Bravo si era formalmente dimesso, perdendo il relativo potere di rappresentanza, solo nel mese di ottobre del 2010, laddove la quasi totalità delle condotte che dovrebbero valere come convalida tacita risultavano poste in essere in epoca quasi coeva a quella delle dimissioni. Non era causale che già nel mese di novembre la società opponente si fosse lamentata della eccessività del prezzi praticati dalla controparte.

Inoltre, la fruizione delle prestazioni tra (OMISSIS) si giustificava, lungi che per la volontà di convalidare il contratto, per la necessità di dover fruire di prestazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività societaria, e senza che vi fosse la possibilità di provvedere ad un’immediata sostituzione.

Una volta quindi confermata la pronuncia di annullamento dei contratti, l’effetto retroattivo della pronuncia imponeva di esaminare le reciproche domande restitutorie.

Secondo l’appellante principale la somma che le era stata riconosciuta quale compenso per le attività già svolte era esigua, mentre la controparte riteneva fosse necessario disporre la restituzione di tutto quanto già versato.

I giudici di appello, ribadita la differenza tra azione di arricchimento senza causa e di ripetizione dell’indebito, qui applicabile, escludevano che l’equivalente pecuniario spettante alla parte che avesse già eseguito delle prestazioni sulla base di un contratto venuto meno, nella specie perchè annullato, potesse farsi coincidere con il compenso dovuto in base al contratto, competendo solo il rimborso dei costi effettivamente sostenuti per rendere le prestazioni.

Nella specie la somma era stata determinata in via equitativa dal giudice e l’appellante non aveva dimostrato l’erroneità della quantificazione operata dal Tribunale, così che l’appello andava disatteso. Analogamente era da rigettare l’appello incidentale in quanto la Bibo non aveva dimostrato che i costi fossero stati inferiori rispetto alla somma accordata alla controparte.

Era infine disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sosteneva che spettasse anche il diritto al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Bravo Communications S.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.

La Bibo Italia S.p.A. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie 2. Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle norme codicistiche in materia di annullamento dei contratti per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.

Si lamenta che i giudici di merito abbiano incentrato la loro decisione sull’applicazione dell’art. 1394 c.c. e si sostiene che invece occorreva far riferimento alla disciplina di cui agli artt. 2381 e 2391 c.c., che concernono i poteri dell’amministratore delegato, quale era nella fattispecie il Dott. M.L., anche socio della società ricorrente all’epoca dei fatti.

Nella specie non vi era alcun conflitto tra il detto M. e la Bibo, il che esclude che possa farsi applicazione dell’art. 1394 c.c.. L’art. 2391 c.c., invece impone, per evidenti ragioni di trasparenza, che l’amministratore debba segnalare alla società il proprio conflitto di interessi.

Nella specie si verteva in una fattispecie di amministratore delegato, che giustificava quindi la necessità che questi, oltre che dare notizia del potenziale conflitto, dovesse astenersi dal porre in essere l’operazione, investendo il competente organo collegiale.

Solo nel caso di amministratore unico, non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo, possono venire in gioco le previsioni di cui agli artt. 1394 e 1395 c.c..

Poichè il Dott. M. era amministratore delegato di una società dotata di consiglio di amministrazione e di collegio sindacale, non poteva nella specie dubitarsi che questi ultimi fossero a conoscenza dell’operato del proprio amministratore, atteso l’obbligo incombente sull’amministratore di periodicamente riferire al CDA. Ne consegue che si palesa del tutto tardiva la deduzione circa l’esistenza di un conflitto di interessi, la cui conoscenza doveva reputarsi ben nota alla società.

Il motivo è manifestamente infondato.

La giurisprudenza di questa Corte, con il conforto della assolutamente prevalente dottrina, ha reiteratamente affermato che nella fattispecie prevista dall’art. 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c., il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo, di modo che, in assenza di una previa deliberazione, la disciplina del conflitto deve essere ricondotta a quella dettata dall’art. 1394 c.c., anzichè alle norme degli artt. 2373 e 2391 c.c. (Cass. n. 23089/2013).

Ne consegue che, ove sia mancato del tutto, come nella specie, il riferimento al momento deliberativo nell’ambito delle determinazioni di un organo collegiale, la riconduzione del conflitto di interessi alla disciplina dettata dall’art. 1394 c.c., è l’unica possibile.

Si veda altresì Cass. n. 3501/2013, che ha ribadito che in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c. (conf., in tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di società a responsabilità limitata, Cass. n. 27783/2008, non senza rilevare che per le società a responsabilità limitata, in relazione alla modifica del diritto societario operata nel 2003 ed operante a far data dal 1 gennaio 2004, la prevalenza dell’art. 1394 c.c., trova la sua testuale conferma nella novellata previsione di cui all’art. 2475 ter c.c.).

Nè può incidere sulla soluzione del problema, la circostanza che nella fattispecie si verte in un’ipotesi di amministratore delegato, anzichè di amministratore unico, avendo questa Corte affermato il principio per cui, in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dell’art. 2384 c.c., comma 2, il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata (Cass. n. 1525/2006; Cass. n. 1089/1992; conf. Cass. n. 18792/2005, che ritiene irrilevante, in assenza di una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, che il contratto se sia stato concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza, delegato o meno che sia, e ciò in quanto l’art. 2391 c.c., presuppone una preventiva deliberazione, in presenza della quale, l’annullamento del contratto è possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo).

Risulta quindi del tutto priva di fondamento la tesi posta a sostegno del motivo in esame, avendo la Corte d’Appello correttamente tratto la disciplina della fattispecie dalle norme codicistiche in tema di conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato, essendo peraltro frutto di una mera illazione, senza alcuna prova offerta da parte della ricorrente, che della situazione di potenziale conflitto di interesse la società committente fosse già stata resa edotta, sol perchè la legge prevede che l’amministratore delegato debba periodicamente riferire al CDA sui fatti relativi alla propria gestione.

3. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presunzioni semplici, dalle quali far discendere la declaratoria di annullamento dei contratti per conflitto di interesse tra rappresentato e rappresentante.

Si assume che per pervenire all’annullamento del contratto è necessario che il confitto di interessi sia in concreto idoneo a determinare un pregiudizio per il rappresentato, occorrendo anche salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi di buona fede.

Nella vicenda il Dott. M. era solo socio della società ricorrente alle data di conclusione dei contratti, ma la sentenza impugnata non ha chiarito quale sia stato il vantaggio economico personalmente ritratto dall’ex amministratore della Bibo.

La sentenza gravata ha posto a fondamento della propria decisione degli elementi presuntivi privi dei caratteri imposti dalla legge per assurgere al livello di prova dei fatti ignoti.

Il motivo deve del pari essere disatteso.

I giudici di appello hanno correttamente identificato la nozione di conflitto di interesse rilevante ai fini dell’art. 1394 c.c., sottolineando come la norma abbia riguardo alla potenzialità del pregiudizio per la parte rappresentata, non essendo altresì necessario provare che l’atto sia poi effettivamente vantaggioso o svantaggiosi per la parte.

In tal senso è stato affermato che il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce causa di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante quando quest’ultimo, anzichè tendere alla tutela degli interessi del rappresentato, persegua interessi propri, suoi personali, o anche di terzi, inconciliabili con quelli del rappresentato, di modo che all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante, per sè medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato (Cass. n. 3836 del 25/06/1985; Cass. n. 15981/2007; Cass. n. 18792/2005; Cass. n. 4505/2000).

In particolare i vincoli di solidarietà e la comunanza d’interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l’”id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo, occorrendo altresì ribadire che l’accertamento dell’esistenza del conflitto che coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità per vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve essere, peraltro, condotto sulla base del contenuto e delle modalità dell’operazione, prescindendo da una contestazione di formale contrapposizione di posizioni, che può valere come semplice elemento presuntivo di conflitto (conf. Cass. n. 1214/1972; Cass. n. 3/1962.

E’ stato poi ritenuto che il giudice di merito può argomentare l’esistenza di un tale conflitto e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del terzo da elementi indiziari, quali il divario fra il valore di mercato del bene venduto dal rappresentante e il prezzo pagato dall’acquirente e la comunanza di interessi fra rappresentante e terzo (Cass. n. 7698/1996).

Nella specie deve ritenersi che l’accertamento del conflitto di interessi esistente tra la società opponente ed il proprio amministratore sia incensurabile, in quanto logicamente argomentato e tale da evidenziare l’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (cfr. Cass. n. 2529/2017). Nè coglie nel segno la critica volta a contestare il concreto utilizzo delle presunzioni nella fattispecie occorre ricordare che l’art. 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso art. 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della “gravità” va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Cass. n. 11906/2003), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. n. 17574/2009).

Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. n. 3703/2012).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Cass. n. 22656/2011); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632/2014).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 8023/2009, n. 15737/2003, n. 11906/2003; da ultimo, Cass. n. 101/2015).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi precisato che (Cass. S.U. n. 1785/2018) la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B; la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

A tali principi ha poi dato seguito la successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18611/2021), essendosi appunto affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).

Nella specie, l’illustrazione dei motivi non è idonea a prospettare a ben vedere la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve, come detto, solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti delle varie circostanze emerse, così che non presentano le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1.

La sentenza gravata ha evidenziato come i due contratti annullati fossero stati conclusi tra la società, all’epoca rappresentata dal M., e la diversa società di cui lo stesso M. era socio fondatore, avendo conservato una partecipazione rilevante ed a fronte di una compagine societaria numericamente esigua.

E’ stato altresì sottolineato come i contratti furono conclusi poco prima che intervenissero le dimissioni del M., dovendosi sottolineare come, sebbene le stesse fossero formalmente intervenute nel mese di ottobre del 2010, già da aprile dello stesso anno questi si era allontanato dalla società, ponendosi in congedo parentale.

Con accertamento in fatto, supportato dalle prove raccolte, è stato altresì sottolineato come, anche durante il periodo in cui era amministratore della controricorrente, aveva continuato di fatto ad occuparsi della gestione della società ricorrente. Inoltre, sono state evidenziate sia la durata del contratto di agenzia pubblicitaria sia l’entità del compenso, ritenuto, anche qui con accertamento in fatto, superiore a quello di norma richiesto da altri operatori del settore per prestazioni di analogo contenuto.

Alla luce di tali elementi, con ragionamento di tipo presuntivo ma tenendo conto di elementi che indubbiamente hanno le caratteristiche imposte dall’art. 2729 c.c., la sentenza ha tratto il convincimento che il conflitto di interessi fosse alla data di conclusione dei contratti, non solo potenziale, ma addirittura attuale, e ciò alla luce del fatto che era imminente (e ragionevolmente prevista se non anche preordinata), la decisione di allontanarsi dalla gestione della società committente, onde assicurare un vantaggio alla Bravo, che avrebbe fruito di una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza tra gli operatori del settore.

La sentenza, inoltre, ed in risposta ad una specifica critica reiterata nel motivo di ricorso, ha tratto dalla consistenza della compagine societaria della ricorrente, anche la presunzione che quest’ultima fosse a conoscenza del conflitto di interessi (o che comunque fosse percepibile), e ciò in quanto i suoi vertici dell’epoca non potevano non ignorare che il M. fosse al contempo sia loro consocio che amministratore della società committente, palesandosi quindi del tutto priva di fondamento la pretesa secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare la mala fede della ricorrente ai fini dell’annullamento.

4. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di convalida del negozio giuridico annullabile.

Si deduce che il CDA di Bibo non poteva non essere a conoscenza dell’operato del M. e quindi avrebbe potuto immediatamente agire a tutela del proprio interesse, dovendosi quindi accreditare la condotta esecutiva del contratto come idonea a porre in essere la convalida del contratto.

Il motivo va rigettato.

La premessa erronea da cui muove la deduzione della ricorrente è che, in contrasto con quanto già evidenziato in occasione della disamina del primo motivo, alla fattispecie trovi applicazione il disposto di cui all’art. 2391 c.c..

Inoltre, si ribadisce, e senza che sul punto sia stata offerta prova alcuna, che solo perchè l’amministratore ha un obbligo legale di riferire al CDA della propria gestione, quest’ultimo fosse stato effettivamente informato anche della conclusione dei contratti oggetto di causa.

L’evidente insussistenza delle premesse in fatto ed in diritto da cui muove la critica della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di appello che ha escluso che potesse ravvisarsi una convalida da parte della società.

Infatti, oltre a doversi ricordare che in tema di società di capitali, anche l’approvazione del bilancio non costituisce ratifica tacita dell’operato dell’amministratore in conflitto d’interessi, in quanto sia la disciplina del bilancio che quella dell’assemblea hanno natura imperativa e rispondono all’interesse pubblico ad un regolare svolgimento dell’attività economica (Cass. n. 6220/2013), essendo in ogni caso necessario che, sempre ai fini della convalida degli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell’amministratore della società, deve risultare accertata univocamente, al di là della mera approvazione degli atti gestori, la volontà specifica di far proprio l’atto posto in essere dal rappresentante (Cass. n. 21517/2016), nella vicenda la sentenza ha sottolineato come in realtà le condotte che a detta della ricorrente deporrebbero per la convalida tacita, siano state poste in essere in epoca anteriore o coeva alla formalizzazione delle dimissioni del M., ed allorchè questi ancora rivestiva la qualità di amministratore delegato, persistendo quindi in capo al soggetto formalmente abilitato a porre in essere una convalida tacita quella situazione di conflitto di interessi che in via genetica ha inficiato la validità dei contratti, argomento questo che non risulta in alcun modo attinto dal mezzo di gravame in esame.

D’altronde la stessa ipoteticità della conoscenza della causa di invalidità del contratto (cfr. pag. 23, ove tra parentesi la ricorrente evidenza come la Bibo “poteva essere” a conoscenza del conflitto di interessi) esclude l’applicazione dell’art. 1444 c.c., che presuppone invece l’effettiva conoscenza della causa di annullamento (cfr. al riguardo Cass. n. 13296/2012 secondo cui solo un obbligo di conoscenza potrebbe essere equiparato alla effettiva conoscenza del vizio).

L’infondatezza della deduzione in punto di ammissibilità della convalida tacita implica poi che debbano essere disattese anche le censure, mosse espressamente in via conseguenziale all’accoglimento della denuncia della violazione dell’art. 1444 c.c., in merito alle pretese di pagamento delle maggiori somme richieste in via monitoria, non senza osservare che anche la critica al ragionamento svolto dai giudici di appello per individuare la somma effettivamente spettante alla ricorrente, per effetto dell’annullamento dei contratti, risulta del tutto generica e come tale inammissibile.

5. Il ricorso è pertanto rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 13/01/2022) 18/03/2022, n. 8895

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17007-2020 R.G. proposto da:

C.F., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. prof. Vito A. MARTIELLI, ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Cicerone, n. 28, presso lo studio legale dell’avv. Pietro di BENEDETTO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 – controricorrente –

avverso la sentenza n. 2839/04/2019 della Commissione tributaria regionale della PUGLIA, depositata il 23/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 13/01/2022 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

1. C.F. ricorre con due motivi, cui replica l’intimata Agenzia delle entrate con controricorso, per la cassazione della sentenza della CTR della Puglia, in epigrafe indicata, pronunciata in controversia relativa ad impugnazione di una comunicazione di presa in carico notificatagli dall’Agenzia delle entrate – Riscossione e del prodromico avviso di accertamento, che il contribuente sosteneva non essergli mai stato notificato, emesso dall’amministrazione finanziaria nei confronti della Delta Frutta s.r.l. e notificato al contribuente nella sua qualità di legale rappresentante e socio della predetta società. La CTR con la sentenza impugnata rigettava l’appello proposto dal contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado rilevando la regolarità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuato a mezzo del servizio postale e perfezionatosi a seguito di compiuta giacenza del plico, mai ritirato dal destinatario nonostante la ricezione delle due raccomandate inviategli, tra cui quella di comunicazione dell’avvenuto deposito presso l’ufficio postale del plico non recapitato per sua temporanea assenza.

2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio all’esito del quale il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso, con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 14, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 140 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto regolare la notificazione dell’avviso di accertamento nonostante nessuna dei due avvisi di ricevimento delle raccomandate postali inviategli, tra cui quella contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), recassero la sua sottoscrizione, mancando quindi la prova del loro effettivo ricevimento da parte di esso destinatario.

2. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato.

3. Al riguardo questa Corte (cfr. Cass. n. 25985 del 2014) ha affermato che “In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 2) della L. n. 890 del 1982, art. 8 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informativa” in quanto “solo dall’esame concreto di tale atto il giudice del merito e, qualora si tratti di atto processuale, (se del caso) anche il giudice di legittimità, può desumere la “sorte” della spedizione della “raccomandata informativa”, quindi, in ultima analisi, esprimere un – ragionevole e fondato – giudizio sulla sua ricezione, effettiva o almeno “legale” (intesa come facoltà di conoscere l’avviso spedito e quindi tramite lo stesso l’atto non potuto notificare), della raccomandata medesima da parte del destinatario” (Cass., Sez. U, n. 10012 del 2021; v. anche Cass. n. 2321 del 2014 e Cass. n. 6887 del 2016).

4. Orbene, nel caso di specie si verte chiaramente nell’ipotesi di “ricezione legale” della raccomandata informativa risultando dall’avviso di ricevimento prodotto in allegato al ricorso che l’ufficiale postale, essendo il destinatario risultato nuovamente assente al momento della consegna di tale raccomandata, ha correttamente provveduto ad immettere l’avviso nella cassetta postale del medesimo e, quindi, a restituire l’atto al mittente a seguito del decorso dei dieci giorni senza che il predetto destinatario avesse provveduto al ritiro del piego depositato presso l’ufficio. Peraltro, è noto che la raccomandata contenente la notizia dell’avvenuta notificazione non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazioni a mezzo posta, ma solo al regolamento postale (Cass. n. 19795 del 2017). In pratica, nel caso in esame la notifica ha raggiunto il suo scopo avendo il destinatario ricevuto la raccomandata presso il proprio indirizzo, nella propria cassetta postale, essendo egli risultato nuovamente assente, come in occasione dell’accesso eseguito dal postino per consegnare il plico contenente l’avviso di accertamento, e scelto di omettere il ritiro presso l’ufficio postale del plico, determinando così la compiuta giacenza (Cass. N. 265 del 2019; Cass. n. 31724 del 2019). In tali casi la raccomandata informativa è pervenuta nella sfera di conoscenza del destinatario sicchè opera la presunzione di cui all’art. 1335 c.c., che è superabile solo se la persona destinataria dia prova di essersi trovata senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione del plico (Cass. n. 15315 del 04/07/2014). Circostanza nella specie neppure dedotta.

5. In buona sostanza, il ricorrente sostiene che la notifica sarebbe stata regolare soltanto se l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa riportasse la sua sottoscrizione, ma la tesi secondo cui la notifica (specie della CAD) si perfeziona solo ed esclusivamente con la consegna effettiva al destinatario della stessa che vi deve apporre la sottoscrizione non è, per ovvie ragioni, condivisibile.

6. Con il secondo motivo il ricorrente deduce un vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentando che la CTR sulla questione posta con il primo motivo aveva reso una motivazione apparente, omettendo peraltro di esaminare la documentazione prodotta dall’Ufficio.

7. Il motivo è manifestamente infondato avendo la CTR esaminato tutti i documenti prodotti dall’amministrazione finanziaria dandone espressamente atto in sentenza anche con motivazione congrua.

8. Da quanto detto consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali che liquida in Euro 510,00 per compensi oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 20/01/2022) 15/03/2022, n. 8362

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 27819/2016 R.G., proposto da:

R.M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Giacomo Mezzena, con studio in Milano, elettivamente domiciliato presso l’Avv. Francesco Cristiani, con studio in Roma, giusta procura in calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

il Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, autorizzato a resistere nel presente procedimento con Delib. adottata dalla Giunta Municipale il 10 febbraio 2017, n. 152, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonello Mandarano, dall’Avv. Ruggero Meroni e dall’Avv. Anna Tavano, tutti con studio in Milano, nonchè dall’Avv. Giuseppe Lepore, ove elettivamente domiciliato, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.”, con sede in (OMISSIS), in persona del procuratore speciale pro tempore, nella qualità di incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”, con sede in Milano, giusta procura speciale a mezzo di rogito redatto dal Notaio D.L.M. da Roma (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. Andrea Romano, con studio in (OMISSIS), e dall’Avv. Lidia Ciabattini, con studio in (OMISSIS), ove elettivamente domiciliata, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 gennaio 2022 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

udito, per il Comune di Milano, l’Avv. Maria Romana Ciliutti, per delega dell’Avv. Giuseppe Lepore, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. De Matteis Stanislao, che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo
R.M.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016, la quale, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di cinque cartelle di pagamento per l’ICI relativa a plurime annualità, ha rigettato l’appello proposto dal medesimo nei confronti del Comune di Milano e della “EQUITALIA NORD S.p.A.” avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano l’11 marzo 2015 n. 2413/47/2015, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure in ragione dell’infondatezza delle eccezioni preliminari di decadenza e prescrizione della pretesa impositiva, della rituale notificazione delle cartelle di pagamento e della tempestiva formazione del ruolo esattoriale. Il ricorso è affidato a cinque motivi. Il Comune di Milano e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.” (medio tempore incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”) si sono costituiti con controricorso. Con conclusioni scritte, il P.M. ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Comune di Milano ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare, la necessità della notificazione all’estero sulla base della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1998 sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale, l’inesistenza della notificazione, nonchè la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1, 6 e 10 in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che le notificazioni delle cartelle di pagamento fossero state regolari.

2. Con il secondo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver esaminato l’eccezione del contribuente in ordine al difetto di legittimazione dell’agente della riscossione alla notificazione delle cartelle di pagamento.

3. Con il terzo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la decadenza della pretesa impositiva per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

4. Con il quarto motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la prescrizione della pretesa impositiva.

5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonchè delle tariffe (recte: dei parametri) professionali, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver condannato il contribuente alla rifusione delle spese giudiziali senza alcuna motivazione in ordine alle ragioni di tale statuizione e in ordine ai parametri tabellari per la determinazione dei compensi professionali.

6. Il primo motivo è inammissibile.

6.1 A ben vedere, il mezzo è carente di autosufficienza.

Invero, il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (tra le altre: Cass., Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., Sez. 6-1, 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34593; Cass., Sez. 6-5, 15 dicembre 2020, n. 28537; Cass., Sez. 5, 21 luglio 2021, n. 20974; Cass., Sez. 5, 28 settembre 2021, n. 26220).

6.2 Peraltro, in tema di ricorso per cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, con riguardo sia ad atti processuali che ad atti procedimentali, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale di quest’ultima, che, se omessa, determina l’inammissibilità del motivo (Cass., Sez. 5, 28 febbraio 2017, n. 5185; Cass., Sez. 5, 30 novembre 2018, n. 31038; Cass., Sez. 5, 16 marzo 2021, n. 7173; Cass., Sez. 6-5, 12 maggio 2021, n. 12518; Cass., Sez. 5, 15 luglio 2021, n. 20152; Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30971).

Per accertare la sussistenza o meno della dedotta violazione, quindi, non basta un generico richiamo ai documenti relativi alla notifica, ma per il principio dell’autosufficienza è necessaria la sua integrale trascrizione, onde consentire al giudice il preventivo esame della rilevanza del vizio denunziato (Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568).

6.3 Nella specie, il ricorrente non ha riprodotto, nè allegato, nè richiamato le relate di notifica delle cartelle di pagamento, per cui ne è preclusa al collegio la verifica della relativa regolarità.

7. Il secondo motivo è inammissibile e, comunque, infondato.

7.1 Invero, il mezzo lamenta l’omesso scrutinio di una questione (segnatamente, la legittimazione dell’agente della riscossione alla notifica delle cartelle di pagamento a mezzo del servizio postale), che non risulta essere stata dedotta dal contribuente in sede di impugnazione delle cartelle di pagamento nè essere stata proposta tra i motivi di appello della decisione di prime cure.

7.2 Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio (tra le tante: Cass., Sez. 2, 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., Sez. 2, 18 settembre 2020, n. 19560; Cass., Sez. 5, 9 dicembre 2020, n. 28036; Cass., Sez. 6-5, 23 marzo 2021, n. 8125; Cass., Sez. 5, 5 maggio 2021, n. 11708; Cass., Sez. 6A-5, 18 ottobre 2021, n. 28714; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30863; Cass., Sez. 5, 24 novembre 2021, n. 36393; Cass., Sez. 2, 21 dicembre 2021, n. 40984).

7.3 In disparte la novità della questione, ad ogni modo, la censura deve essere disattesa.

Difatti, è pacifico che, in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, seconda parte, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati (tra le tante: Cass., Sez. 6-5, 11 febbraio 2016, n. 2790; Cass. Sez. 5, 23 novembre 2017, n. 28000; Cass., Sez. 5, 25 maggio 2018, n. 13124; Cass., Sez. 6-2, 17 gennaio 2019, n. 1243; Cass., Sez. 5, 21 febbraio 2020, n. 4671; Cass., Sez. 6-5, 30 settembre 2020, n. 20700).

8. Parimenti, il terzo motivo ed il quarto motivo – la cui stretta ed intima connessione suggeriscono l’esame congiunto per la comune attinenza a questioni preliminari sull’an debeatur sono inammissibili.

8.1 Le doglianze attengono all’omesso rilievo della decadenza e della prescrizione della pretesa impositiva per inesistenza della notifica degli avvisi di accertamento e per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

8.2 Tuttavia, secondo l’accertamento fattone dal giudice di appello, a conferma della decisione di prime cure, l’ente impositore aveva “dato prova in relazione a tutte le annualità in contestazione della correttezza del procedimento notificatorio adottato per gli avvisi di accertamento e della formazione del ruolo entro il biennio successivo a ciascuna notifica”, con la conclusione che “ciò vale a confutare sia l’eccezione di prescrizione che (l’eccezione) di decadenza della pretesa tributaria”.

Per cui, il mezzo finisce col risolversi – anche per le considerazioni sulla presunta irritualità della documentazione prodotta dall’ente impositore – nella pretesa di un inammissibile riesame dei fatti accertati dalla sentenza impugnata (tra le tante: Cass., Sez. 6A-5, 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., Sez. 5, 31 maggio 2018, n. 13885; Cass., Sez. 6-5, 13 dicembre 2019, n. 32835; Cass., Sez. 6-5, 13 novembre 2020, n. 25707, 25708 e 25713; Cass., Sez. 5, 11 novembre 2021, n. 33300; Cass., Sez. 5, 21 dicembre 2021, n. 40932).

9. Da ultimo, il quinto motivo è infondato.

9.1 Il parametro normativo di riferimento deve essere più propriamente individuato nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15 che detta una specifica disciplina (ancorchè sulla falsariga dell’art. 91 c.p.c.) per la regolamentazione delle spese nel processo tributario.

9.2 Ciò posto, in tema di disciplina delle spese processuali, la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo; essa prescinde, pertanto, dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi (da ultima: Cass., Sez. 1, 29 luglio 2021, n. 21823).

9.3 Nella specie, pertanto, il giudice di appello si è uniformato alle prescrizioni del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 1, (nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. f, n. 1, con decorrenza dall’I gennaio 2016), il quale collegava in modo automatico la condanna alla rifusione delle spese giudiziali alla soccombenza di una parte rispetto all’altra parte e consentiva la compensazione (totale o parziale) delle spese giudiziali soltanto nei casi previsti dall’art. 92 c.p.c., comma 2, (quivi non ricorrenti).

10. Alla stregua delle suesposte argomentazioni, valutandosi, rispettivamente, l’inammissibilità e/o l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore dei controricorrenti, liquidandole, rispettivamente, per l’ente impositore, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge, e, per l’agente della riscossione, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 4.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico del ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2022


Circolare 1/2022 – Notifica ex art. 140 c.p.c. la cui raccomandata A.R. non è andata a buon fine

In merito alla mancata notifica di un atto di accertamento per mancato perfezionamento della procedura prevista dall’art. 140 c.p.c., quando il postino attesta la irreperibilità assoluta del destinatario (risulta essere barrata la casella TRASFERITO IRREPERIBILE O SCONOSCIUTO) della raccomandata informativa, si è predisposta la seguente lettera di risposta all’Ente che ha richiesto la notifica e che richiede la rinotifica.

Scarica: Circolare 2022-001 Notifica ex art. 140 c.p.c. la cui raccomandata A.R. non è andata a buon fine