Se si rinuncia alla pausa pranzo i buoni pasto non sono dovuti

Per la Corte di Cassazione non ha diritto ai buoni pasto il/la dipendente che, rinunciando alla pausa pranzo, fa venir meno il presupposto necessario al loro riconoscimento.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22985/2020 ha chiarito un concetto semplice e logico: nel momento in cui il lavoratore rinuncia alla pausa pranzo, non può pretendere il controvalore dei buoni pasto. Gli stessi hanno natura assistenziale e non retributiva, per cui se il dipendente sceglie di non fruire della pausa, che costituisce il presupposto per la concessione dei buoni, non può poi pretendere dal datore il controvalore in denaro. 
Un’addetta alla cancelleria del ministero della Giustizia presta servizio dal 2001 al 2005 dalle ore 8.00 alle ore 15.12, per cinque giorni la settimana, rinunciando alla pausa pranzo, con il consenso della Amministrazione di appartenenza. In questo periodo la lavoratrice non ha percepito i buoni pasto, per cui agisce in giudizio per ottenerne il valore in denaro e il conseguente risarcimento del danno. Il Tribunale però rigetta la domanda e la Corte d’Appello conferma la decisione di primo grado in quanto l’art. 4 del CCNL prevede che per usufruire dei buoni pasto è necessario effettuare la pausa pranzo.
La Corte d’Appello giustifica la propria decisione, richiamando anche la circolare del Ministero della Giustizia del 10 febbraio 1998, che all’art. 3, comma 3 prevede che i buoni pasti spettino anche: “al dipendente che articola il proprio orario di lavoro su cinque giorni settimanali (secondo la disciplina prevista dall’art. 22, l. n. 724/1994, come modificata dall’art. 6, comma 5, d.l. n. 79/1997, convertito in l. n. 140/1997), per ogni giorno di prolungamento dell’orario ordinario oltre le sei ore con la pausa per il pranzo. Tale condizione è ovviamente correlata alle concrete modalità di distribuzione dell’orario di lavoro nell’arco di cinque giorni”.


Riunione della Commissione Normativa del 06.11.2020

Ai sensi dell’art. 4 dello Statuto, viene convocata la riunione della Commissione Normativa che si svolgerà on line venerdì 6 novembre 2020 alle ore 21:30, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1. Valutazione procedure informatiche corsi on line 2020;
2. Varie ed eventuali.

Leggi: Modalità di accesso ai corsi on line

 


Condannato l’ente che diffonde dati personali di un dipendente

La Corte di Cassazione ha ribadito che un ente pubblico deve pagare i danni morali per la diffusione delle note professionali negative di una dipendente
Una dipendente ha impugnato dinanzi al Tribunale il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012 con cui era stato respinto il reclamo da essa proposto per lamentare l’illecito trattamento di propri dati personali e sensibili commesso ai suoi danni dalla Dirigente della sede INPDAP, ora INPS, nel 2011.
Secondo la ricorrente, la predetta Dirigente aveva trattato dati personali riservati in modo illecito, disponendo che la comunicazione degli addebiti professionali mossi nei suoi confronti e contenuti in alcune note dirigenziali, preliminari alla revoca della sua posizione di “capo area pensioni”, avvenisse brevi manu e a vista, a mezzo di addetto alla segreteria non preposto al trattamento di dati personali, senza alcuna precauzione o cautela, come “l’inserimento in un plico o in una busta, in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 del punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 e delle norme INPDAP, Protocollo relazioni sindacali, punto B.3″.
Inoltre, la ricorrente aveva lamentato il fatto che la Dirigente, in occasione di un incontro sindacale per la discussione della bozza di un ordine di servizio per la riorganizzazione della sede, aveva dichiarato a verbale che l’ordine di servizio era stato preparato consultando alcuni soggetti coinvolti nella stesura del provvedimento, che erano quindi venuti a conoscenza di suoi dati personali e sensibili e di pesanti addebiti relativi alla sua professionalità.
Tanto premesso, la ricorrente ha dedotto la nullità e l’ingiustizia del provvedimento del Garante, chiedendone l’annullamento, l’accertamento dell’illegittimità del trattamento dei propri dati personali e la condanna dell’INPS e dello stesso Garante per la protezione dei dati personali al risarcimento dei danni.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale ha annullato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012, ha accolto parzialmente la domanda risarcitoria, condannando l’INPS a pagare alla ricorrente la somma di euro 10.000,00 e ha respinto la domanda risarcitoria nei confronti del Garante; ha condannato l’INPS a rifondere le spese di lite alla ricorrente, compensando le spese fra di essa e il Garante.
Con riferimento in particolare alla parte del ricorso, l’INPS denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’art. 2050 c.c. nonché dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7, in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge.
L’INPS sostiene che per potersi apprezzare una lesione ingiustificabile in tema di dati personali, suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, ex D.Lgs. n. 196 del 2003, non è sufficiente la mera violazione ma occorre una violazione sensibilmente offensiva, in difetto di dimostrazione di un pregiudizio significativo sofferto in conseguenza.
Nella fattispecie mancava in concreto la prova della gravità della lesione e della serietà del danno.
L’orientamento giurisprudenziale più recente, condiviso anche dal Tribunale e conforme agli indirizzi della Corte di Cassazione (n. 207 del 8 gennaio 2019), riconduce l’illecito trattamento di dati personali ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, anche alla luce dell’esplicito rinvio compiuto dalla legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 applicabile pro tempore) all’art. 2050 c.c..
Pertanto, il danneggiato che lamenti la lesione dell’interesse non patrimoniale può limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno e del nesso di causalità rispetto al trattamento illecito, mentre spetta al danneggiante titolare del trattamento, eventualmente in solido col responsabile, dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Questo schema è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (articolo 82.3 GDPR) che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountability) addossa al titolare del trattamento dei dati – eventualmente in solido con il responsabile il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.).
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di onere della prova, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dal regime più favorevole dell’onere della prova, descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano [Detta anche aquiliana (dalla lex Aquilia del 287 a.C., che per prima disciplinò, nel diritto romano, la responsabilità ex delicto), è la responsabilità civile che sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 del c.c.)]., nonché dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità.
Per altro verso, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato) alla stregua dei parametri generali scolpiti dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 2697226975 dell’11 novembre 2008; infatti anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost., di cui la regola di tolleranza della lesione minima costituisce intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del Codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.
Il relativo accertamento di fatto è tuttavia rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale.
Il titolare del trattamento, per non incorrere in responsabilità deve dimostrare che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile e non può limitarsi alla prova negativa di non aver violato le norme (e quindi di essersi conformato ai precetti), ma occorre la prova positiva di aver valutato autonomamente il rischio di impresa, purché tipico, cioè prevedibile, e attuato le misure organizzative e di sicurezza tali da eliminare o ridurre il rischio connesso alla sua attività. In ogni caso, come lo stesso Istituto ricorrente riconosce, l’accertamento del danno non patrimoniale è un accertamento di fatto, “rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (cfr. sent. 16133/2014).
La Corte di Cassazione osserva che la pronuncia impugnata non si è sottratta alla corretta applicazione dei principi illustrati, richiedendo l’allegazione e la prova da parte della parte danneggiata del danno-conseguenza, e ribadendo che il danno risarcibile non si identificava con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le sue conseguenze causali.
Ciò ha condotto il Tribunale ad escludere un danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica ma a ravvisare un danno non patrimoniale da sofferenza morale, pure dedotto da parte attrice e ritenuto dimostrato sulla base di un ragionamento presuntivo fondato su regole di esperienza.
Nel respingere la parte del ricorso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19328, del 17 settembre 2020, evidenzia che nel risarcimento i giudici hanno comunque tenuto conto dell’ambiente circoscritto all’ufficio in cui era circolare la notizia.


Stop a cartelle e pignoramenti per il 2020

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale”
Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 260 del 20 ottobre del decreto legge n. 129  sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale” diventa ufficiale lo stop dell’attività degli Agenti di riscossione fino al termine del 2020. Il provvedimento entra in vigore dal giorno successivo alla sua ufficialità. Il decreto sospende i termini di notifica e di pagamento relativi ai principali atti della riscossione relativi alle entrate tributarie e non tributarie.

A fornire dettagliate spiegazioni sui casi delle nuove notifiche di atti di pagamento che il decreto Agosto aveva lasciato irrisolto ci pensano i chiarimenti nuove faq che l’Agenzia delle entrate-Riscossione: il concessionario della riscossione spiega che fino al 31 dicembre non vi saranno notifiche, nemmeno via Pec, di cartelle di pagamento, avvisi di addebito e di ogni altro atto della riscossione.

Restano sospesi fino alle fine dell’anno anche gli obblighi derivanti dai pignoramenti presso terzi effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto Rilancio (19/5/2020), su stipendi, salari, altre indennità relative al rapporto di lavoro o impiego, nonché a titolo di pensioni e trattamenti assimilati. Per quanto riguarda i pagamenti sospesi tutti i versamenti oggetto di sospensione dovranno essere effettuati entro il 31 gennaio 2021.

La proroga, però, non abbraccia tutte le cartelle esattoriali. Ad esempio per le rate in scadenza nel 2020 della rottamazione-ter e del saldo e stralcio, il termine di pagamento rimane fissato al 10 dicembre 2020, come previsto dal dl n. 34/2020 decreto rilancio. Lo slittamento delle notifiche riguarda solo i carichi trasmessi all’Agenzia delle Entrate Riscossione dall’8 marzo fino al 31 dicembre 2020, sempre che non rientrino tra quelli interessati dalla proroga introdotta dal decreto Rilancio. Restano valide le proroghe già definite, mentre alcune cartelle in via di scadenza o di prescrizione non sono comprese: ad esempio l’Imu e la Tari, il bollo auto o altre entrate patrimoniali, come i contributi previdenziali.

Per questi tributi e tasse subentra ora la proroga di 12 mesi, limitatamente ai termini di prescrizione e decadenza a fine 2021 e ai carichi affidati all’Ader in tutto il periodo di sospensione.
Ancora c’è una proroga specifica che riguarda i carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all’agente della riscossione durante il periodo di sospensione. Vengono prorogati di 12 mesi il termine per la perdita del diritto al discarico ovvero la procedura che consente all’agente della riscossione di “liberarsi” del carico ricevuto, comunicando all’ente creditore l’inesigibilità della pretesa; i termini di decadenza e prescrizione in scadenza nell’anno 2021 per la notifica delle cartelle di pagamento.

Nel primo caso è stabilito che l’agente della riscossione non può chiedere il discarico, e pertanto resta responsabile verso l’ente affidante, se non ha notificato la cartella di pagamento prima del nono mese successivo a quello di ricezione del ruolo. Il decreto legge interviene su tale disposizione, prevedendo un differimento di 12 mesi riferito a tale scadenza; la proroga opera però sempre e unicamente per gli affidamenti eseguiti all’agente della riscossione nel periodo dall’8 marzo al 31 dicembre 2020.


Furbetti del cartellino, denunciati 8 dipendenti Asl Roma5

ROMA, 27 OTT – Alcuni non facevano neppure ingresso nella sede ma figuravano al lavoro, altri si allontanavano dopo aver “strisciato” regolarmente il proprio badge nel dispositivo di registrazione delle presenze installato all’ingresso della “Casa della Salute” di Zagarolo. Sono otto i dipendenti dell’Asl Roma 5 ai quali i finanzieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini, emesso dalla Procura della Repubblica di Tivoli. In seguito ad alcune segnalazioni, le Fiamme Gialle della compagnia di Frascati hanno monitorato i loro movimenti, posizionando delle telecamere nei pressi dell’apparecchiatura “marcatempo” e pedinandoli per diversi giorni. Le immagini registrate hanno confermato i sospetti, riprendendo i dipendenti che appena timbrato il cartellino si allontanavano per alcune ore dal posto di lavoro per sbrigare faccende personali. Le indagini – ha reso noto la Guardia di Finanza – hanno permesso di appurare l’esistenza di un sistema consolidato incentrato su uno scambio di favori che in alcuni casi avrebbe fatto simulare la presenza per l’intero turno, grazie ai colleghi compiacenti che “strisciavano” il badge a inizio e fine giornata. Gli 8 denunciati dovranno rispondere di truffa ai danni dell’Ente di appartenenza e falsa attestazione di presenza in servizio.(ANSA).


Schede DPCM 24.10.2020

Leggi: SCHEDE-NUOVO-DPCM-24-OTTOBRE

Leggi: DPCM 24-10-2020

Leggi: Gazzetta Ufficiale n° 265 del 25-10-2020


La Corte di Cassazione conferma che la notifica dopo le 21 si perfeziona il giorno stesso

Per la Suprema Corte alla notifica via PEC si applica la scissione soggettiva degli effetti a seguito dell’intervento della Consulta. Tempestiva la notifica dell’opposizione a D.I. oltre le ore 21
Deve ritenersi tempestiva la notifica dell’opposizione all’ingiunzione avvenuta oltre le ore 21 con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto. Ciò in quanto la Corte Costituzionale, con la sentenza 75/2019, ha bocciato l’art. 16 septies del D.L. 179/12 nella parte in cui prevede che la notifica telematica effettuata fra le 21 e le 24 si perfezioni anche per il notificante alle ore 7 dell’indomani.
Se, da un lato, il differimento al giorno seguente appare giustificato nei confronti del destinatario, mirando alla tutela del suo diritto al riposo in una fascia oraria in cui sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica, dall’altro appare irragionevole penalizzare il mittente impedendogli di utilizzare appieno il termine utile per impugnare e approntare la propria difesa.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22136/2020 accogliendo il ricorso dell’opponente sconfitto in entrambi i giudizi di merito.
Nel dettaglio, la Corte territoriale, condividendo il giudizio del giudice a quo, riteneva tardiva l’opposizione in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto, ma oltre le ore 21.
Di conseguenza, la notifica si sarebbe perfezionata alle ore 7 del giorno successivo, vale a dire il quarantunesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, da qui la tardività e la conseguente inammissibilità.
La Suprema Corte ribalta il risultato e riassume l’orientamento prevalente in materia, prendendo le mosse dalla previsione di cui all’art. 16-quater, comma 3, del D.L. n. 179/2012, convertito dalla Legge n. 221 del 2012.
Tale norma dispone che la notifica eseguita con modalità telematica a mezzo di posta elettronica certificata “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione” prevista dall’art. 6, comma 1, del d.P.R. 68/2005, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista al comma 2 della medesima norma.
Ancora, l’art. 16-septies del D.L. n. 179 cit. aggiunge che la notificazione eseguita con modalità telematica è assoggettata alla norma prevista dall’art. 147 c.p.c. (secondo il quale, nella vigente formulazione, le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21) e che tale notifica, quando è eseguita dopo le ore 21, si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.
Tuttavia, sempre in materia di notifiche eseguite con modalità telematiche, gli Ermellini ritengono indispensabile rammentare come il quadro sia cambiato a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale.
La Consulta, con la sentenza n. 75/2019, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo (per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.) proprio l’art. 16-septies del D.L. n. 179/2012 nella parte in cui prevede che “la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta”.
La “fictio iuris” che conduce al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, infatti, appare giustificata nei confronti del destinatario, poiché il divieto di notifica telematica dopo le ore 21, previsto dalla prima parte dell’art. 16 septies, tramite il rinvio all’art. 147 c.p.c., mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica.
Al contrario, non può dirsi altrettanto giustificata nei confronti del mittente. Infatti, si legge nella sentenza, il medesimo differimento comporta un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poiché gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno, senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta.
In aggiunta, secondo il Collegio, la restrizione delle potenzialità (accettazione e consegna sino alla mezzanotte) che caratterizzano e diversificano il sistema tecnologico telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione legato “all’apertura degli uffici” sia intrinsecamente irrazionale, venendo a recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 30-06-2020) 21-10-2020, n. 22985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10583-2017 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. FILIBERTO 166, presso lo studio degli avvocati ANTONIO CORVASCE, SOFIA PASQUINO, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 4628/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2016 R.G.N. 4202/2013.

Svolgimento del processo
CHE:

1. L.A., dipendente del Ministero della Giustizia addetta alla cancelleria Gip del Tribunale di Roma, ha prestato servizio dal 2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo;

la L., non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno, con domanda che è stata respinta dal Tribunale di Roma, la cui sentenza è stata poi confermata dalla Corte d’Appello della medesima città;

la Corte d’Appello affermava che l’art. 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato;

d’altra parte, aggiungeva la Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio;

nel caso di specie nulla era risultato in ordine alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione nell’accogliere la domanda della L. di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi, comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati;

2. la L. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Ministero.

Motivi della decisione
CHE:

con il primo motivo la ricorrente afferma la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, L. n. 724 del 1994, art. 22, D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8, L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 29 del 1996, art. 52 della Circolare 10 febbraio 1998 ed inoltre dell’Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall’Accordo 12.12.1996, nonchè dell’art. 19, comma 4 CCNL (orario di lavoro) e dell’art. 7, comma 1 CCNL 12.1.1996;

1.1 il motivo è infondato;

come è noto, il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290);

esso, data tale natura, dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento;

in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita;

le norme primarie (L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, e L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11) si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni pasto, ad appositi accordi collettivi;

nel caso di specie i presupposti del diritto sono fissati dall’art. 4, comma 2, dell’accordo collettivo sul riconoscimento dei buoni pasto, secondo cui “il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19, comma 4, del CCNL, all’interno della quale va consumato il pasto”;

l’art. 19, comma 4, del CCNL del 1995, ivi richiamato, stabilisce a propria volta che “dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti”, previsione sostanzialmente analoga a quella dell’art. 7, comma 1, CCNL 1996 cui fa parimenti riferimento il motivo di ricorso;

questa Corte, interpretando norme di formulazione sostanzialmente identica a quelle appena evidenziate, seppure in relazione all’area dirigenziale, ha in effetti ritenuto che “in materia di trattamento economico del personale del comparto Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale”, la quale quindi “spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del buono pasto” (Cass. 14290/2012 cit.);

nel caso di specie è pacifico che la pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro;

pertanto, in mancanza di pause, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione;

1.2 il motivo, nella parte in cui denuncia la “violazione e/o falsa applicazione della Circolare 10 febbraio 1998” è invece inammissibile;

è noto infatti che le circolari non sono fonte del diritto ma semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dalla P.A. su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889), sicchè la loro ipotetica violazione non è denunciabile in cassazione sotto il profilo (art. 360 c.p.c., n. 3) della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (Cass. 10 agosto 2015, n. 16644; Cass. 30 maggio 2005, n. 11449), nè la censura è stata fatta come violazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.) relativi ad atti unilaterali (amministrativi nella specie);

1.3 nè ha rilievo la veridicità o meno della rinuncia della L. ai buoni pasto, da essa negata, in quanto è sufficiente che vi sia stata rinuncia alle pause, quale elemento necessario al riconoscimento del diritto;

quanto poi all’argomento sviluppato dalla ricorrente secondo cui l’articolazione dell’orario, nel pubblico impiego, non potrebbe mai basarsi su esigenze personali del lavoratore, esso non muta le conclusioni da assumere;

è indubbio infatti che la P.A. possa negare il consenso alla rinuncia alla pausa pranzo, se ciò entri in contrasto con le proprie esigenze di servizio, ma ciò non significa che una tale articolazione oraria, se derivante da richiesta del lavoratore, non risalga ad un’autonoma decisione di quest’ultimo della quale, se l’effetto sia quello di far venire meno uno dei presupposti per la fruizione dei buono pasto, lo stesso non possa lamentarsi nei riguardi del proprio datore di lavoro;

non può poi affermarsi la coincidenza della rinuncia alla pausa concomitante con l’esigenza di un servizio ininterrotto, di cui alla Circolare, con il consenso ad una rinuncia alla pausa prospettata dal dipendente e cui la P.A. si limiti a consentire, in quanto in quest’ultimo caso non vi è la ineludibile esigenza amministrativa di un servizio ininterrotto, ma solo l’accettazione di esso come tale, per avallare la domanda del dipendente;

1.4 altra questione è se l’organizzazione oraria comunque definita risulti eventualmente in contrasto con la disciplina sui riposi e le pause, tra cui le norme, citate dalla ricorrente nel motivo, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22 e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8;

ciò tuttavia potrebbe avere rilievo non sul diritto a percepire i buoni pasto, che dipende dal verificarsi dei corrispondenti e specifici presupposti, ma semmai rispetto ad eventuali danni, anche alla persona, che dovessero essere derivati dall’indebita modalità di organizzazione del lavoro, ma non è questo l’oggetto del contendere quale impostato in causa;

2. il secondo motivo afferma, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., sostenendo che alla ricorrente sarebbe spettato il risarcimento del danno per equivalente derivante da inadempimento della controparte;

l’inadempimento, anche in tale motivo, è identificato nel rifiuto di corrispondere i buoni pasto, ma è evidente l’insostenibilità dell’assunto, in quanto se i buoni pasto non erano dovuti, tale inadempimento non può esservi, mentre del tutto evanescente e non meglio specificato risulta, nei tratti concreti ulteriori rispetto ad un inadempimento che in sè non vi è stato, il richiamo, parimenti contenuto nel motivo, ai principi di buona fede e correttezza;

il terzo motivo è dedicato infine alla denuncia di violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 115 e 414 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre che all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

nel corpo del motivo si censura in realtà esclusivamente il fatto che i giudici di appello non abbiano ammesso le prove pur articolate nel ricorso di primo grado e sulle quali la ricorrente aveva insistito anche con l’atto di appello;

il motivo è del tutto generico, non indicando neppure il contenuto di tali prove, sicchè ne è palese l’inammissibilità;

3. al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020


Modulo per richiesta rimborso spese – anno 2021

Nel rimborso delle spese ricadono i costi degli spostamenti, e quindi di treni, automobili ed aerei, nonché dei mezzi pubblici. Vi sono inoltre i costi di vitto e alloggio, effettuati in strutture di ristorazione ed alberghiere.

E’ importante, al fine di ottenere il dovuto rimborso delle spese di viaggio, di tenere nota accurata di ogni spesa, redigendone una opportuna nota spese, con i seguenti dati:

  • data in cui la spesa è effettuata
  • luogo in cui la spesa è effettuata
  • importo della spesa effettuata
  • documentazione allegata comprovante l’importo (fattura o ricevuta)

Tale nota spese sarà poi consegnata/inviata all’Unità Operativa Vicolo Quasimodo 34 – 35020 Albignasego PD.

I costi chilometrici per utilizzo di mezzi di trasporto di proprietà

Tariffe ACI e trasferte nel comune

Nella realtà è frequente rilevare l’erogazione e la contabilizzazione di rimborsi chilometrici per l’utilizzo da parte di dipendenti e parasubordinati di mezzi di trasporto propri per conto e nell’interesse delle imprese in cui operano.

Il relativo costo viene determinato in base alle percorrenze e prendendo come riferimento le tariffe ACI che sono determinate in base ai seguenti parametri:

• categoria del veicolo utilizzato (autovettura, motociclo, ciclomotore, fuoristrada, autofurgone);

• elenco delle marche automobilistiche;

• tipo di alimentazione (es. benzina, gasolio, ecc.);

• periodo di utilizzo del veicolo.

In linea generale l’utilizzo da parte di dipendenti e parasubordinati di veicoli propri genera in loro favore il diritto al riconoscimento di un’indennità chilometrica a titolo di rimborso spese.

La stessa viene calcolata in base ai seguenti due elementi:

percorrenza effettuata per conto dell’impresa, determinata in chilometri;

costo chilometrico oggettivamente attribuibile al tipo di mezzo utilizzato.

Va preliminarmente precisato che se viene riconosciuto un costo superiore rispetto a quello effettivo per l’impiego di autoveicoli personali del dipendente o parasubordinato, il maggiore importo rispetto alla tariffa ACI genera un fringe benefit che deve venire computato fra gli emolumenti imponibili delle retribuzioni o dei corrispettivi, sia ai fini fiscali che previdenziali. È parimenti considerato fringe benefit il corrispettivo erogato che non risulti analiticamente giustificato in base alla percorrenza effettiva del mezzo per finalità aziendali.

L’utilizzo dell’auto del dipendente o parasubordinato può riguardare trasferte:

• poste in essere nel territorio del comune sede di lavoro;

• relative a tragitti fatti al di fuori del comune sede di lavoro.

Trasferte nel comune

In linea generale l’indennità chilometrica corrisposta per trasferte nel comune sede di lavoro costituisce sempre un emolumento imponibile ai fini IRPEF e per il calcolo dei contributi previdenziali.

Invece l’indennità chilometrica corrisposta per trasferte fatte con utilizzo di autovetture del dipendente e parasubordinato è considerata un rimborso spese e non va assoggettata a ritenute previdenziali e fiscali quando il relativo ammontare non supera il limite determinato dalla Tariffa ACI con riferimento al veicolo usato.

In ogni caso l’indennità in esame deve risultare esposta nel Libro Unico del lavoro, e deve venire documentata con un prospetto analitico predisposto e sottoscritto dal soggetto utilizzatore.

Scarica il modulo: Prospetto rimborso spese 2021


DL 20/10/2020, n. 129

DECRETO LEGGE 20 ottobre 2020, n. 129 (1)

Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale.

(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 20 ottobre 2020, n. 260.

 

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;

Tenuto conto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la pandemia da COVID-19;

Visto il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19», convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27;

Visto il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, recante: «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19»;

Visto il decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, recante: «Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia»;

Visto il decreto-legge 7 ottobre 2020, n. 125, recante: «Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020», con il quale è stato prorogato lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 al 31 gennaio 2021;

Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di intervenire sui termini di versamento dei carichi affidati all’agente della riscossione in considerazione del protrarsi della predetta situazione di emergenza;

Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 18 ottobre 2020;

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell’economia e delle finanze;

EMANA

il seguente decreto-legge:

Art. 1. Disposizioni in materia di riscossione

1. All’articolo 68 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) nei commi 1 e 2-ter, le parole: «15 ottobre» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre»;
b) dopo il comma 4, è aggiunto il seguente:
«4-bis. Con riferimento ai carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all’agente della riscossione durante il periodo di sospensione di cui ai commi 1 e 2-bis, sono prorogati di dodici mesi:
a) il termine di cui all’articolo 19, comma 2, lettera a), del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112;
b) anche in deroga alle disposizioni dell’articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e salvo quanto previsto dall’articolo 157, comma 3, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, i termini di decadenza e prescrizione in scadenza nell’anno 2021 per la notifica delle cartelle di pagamento. Relativamente ai termini di decadenza e prescrizione in scadenza nell’anno 2020 per la notifica delle cartelle di pagamento, si applica quanto disposto dall’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159.».
2. All’articolo 152, comma 1, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, le parole: «15 ottobre» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre».
3. Agli oneri derivanti dal presente articolo, valutati in 109,5 milioni di euro per l’anno 2020 e 72,8 milioni di euro per l’anno 2021 in termini di saldo netto da finanziare e in 316 milioni di euro per l’anno 2020 e 210 milioni di euro per l’anno 2021 in termini di indebitamento netto e di fabbisogno, si provvede:
a) quanto a 275,8 milioni di euro per l’anno 2020, mediante corrispondente versamento all’entrata del bilancio dello Stato, da parte dell’Agenzia delle entrate, entro 30 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, a valere sulle somme trasferite alla predetta Agenzia per effetto dell’articolo 65 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e dell’articolo 28, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77;
b) quanto a 72,8 milioni di euro per l’anno 2021, mediante utilizzo delle risorse di cui all’articolo 2, comma 55, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, come modificato dall’articolo 1, comma 167, della legge 27 dicembre 2013, n. 147;
c) quanto a 40,2 milioni di euro per l’anno 2020 e 137,2 milioni di euro per l’anno 2021, in termini di indebitamento e fabbisogno, mediante corrispondente riduzione del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all’attualizzazione di contributi pluriennali, di cui all’articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189.

Art. 2. Entrata in vigore

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.


Demansionamento escluso per impiego in mansioni inferiori

Secondo la Corte di cassazione, al dipendente possono essere assegnati, per motivate esigenze aziendali, anche compiti inferiori al proprio livello qualora questi risultino comunque marginali rispetto alle sue mansioni.
La Suprema corte ha respinto il ricorso promosso dal dipendente di una Srl contro la decisione con cui, nel merito, era stata ritenuta infondata la domanda volta alla declaratoria dell’obbligo, da parte della datrice, di adibire il deducente esclusivamente alle mansioni di sua competenza.
Il lavoratore, in particolare, aveva chiesto che fosse dichiarato illegittimo l’ordine di servizio col quale gli erano state assegnate mansioni inferiori e dequalificanti e che gli fosse corrisposta la retribuzione prevista contrattualmente per la qualifica di appartenenza, comprese le somme arretrate.
Inoltre, la sua domanda era tesa all’accertamento dell’illegittimità nonché del carattere persecutorio e vessatorio del comportamento tenuto nei suoi confronti dalla società datrice, concretizzatosi – a suo dire – in un demansionamento e, successivamente, a fronte del rifiuto da lui opposto all’impiego prescrittogli, in una condotta di mobbing, realizzata attraverso la reiterata irrogazione di sanzioni disciplinari a suo carico.
Sia nel primo che nel secondo grado del giudizio, tuttavia, questa tesi era stata smentita: i giudici di merito avevano ritenuto che, nella specie, fosse legittimo l’impiego dell’interessato in mansioni inferiori alla propria qualifica di appartenenza.
Era stata, infatti, ritenuta ammissibile una flessibilità nell’utilizzo del medesimo lavoratore, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione alle menzionate mansioni inferiori nell’arco della singola giornata lavorativa.
Ciò posto, era stata considerata formalmente legittima l’irrogazione di sanzioni disciplinari a carico del deducente in conseguenza del rifiuto di questi rispetto ai compiti assegnatigli.
Da qui in ricorso in sede di legittimità del lavoratore, volto a contestare la conformità a diritto della pronuncia della Corte d’appello: secondo la sua difesa, l’impiego promiscuo in compiti propri della qualifica inferiore, in precedenza rivestita, doveva essere escluso sul piano legislativo e contrattuale, con conseguente illegittimità anche del rigetto della sua domanda di risarcimento da demansionamento.
Con ordinanza n. 22668 del 19 ottobre 2020, la Corte di cassazione ha giudicato infondata la doglianza del ricorrente e ciò alla luce dell’orientamento di legittimità sopra richiamato: il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli del suo livello.
La Sezione lavoro della Suprema corte ha sottolineato come, nella specie, la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si era rivelata, di per sé, legittima, non trovando ostacolo nella disciplina contrattuale di settore ai sensi dell’art. 2 del CCNL del 27.11.2000 (Trasporto Pubblico Locale).
Senza contare che l’interpretazione di quest’ultima disposizione, in termini di legittimazione della flessibilità in uso in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi per dichiarati superati – per come fatta propria dalla Corte territoriale – non risultava adeguatamente confutata dal ricorrente.
Ne conseguiva la non configurabilità di condotte illegittime del datore di lavoro idonee a fondare pretese risarcitorie.


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 13-07-2020) 19-10-2020, n. 22668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19765/2017 proposto da:

D.B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, V. CARLO MIRABELLO 11, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE PIO TORCICOLLO, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO PARATO;

– ricorrente –

contro

FERROVIE DEL SUD-EST E SERVIZI AUTOMOBILISTICI S.R.L., SOCIETA’ CON SOCIO UNICO, SOGGETTA ALL’ATTIVITA’ DI DIREZIONE E COORDINAMENTO DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE S.P.A., SUCCEDUTA EX LEGE ALLA “GESTIONE COMMISSARIALE GOVERNATIVA PER LE FERROVIE DEL SUD EST”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A STOPPANI 34, presso lo studio dell’avvocato CARLO MOLAIOLI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3001/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/02/2017 r.g.n. 2582/2013.

Svolgimento del processo
che, con sentenza del 7 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Lecce confermava la decisione resa dal Tribunale di Lecce e rigettava le domande proposte da D.B.A. nei confronti di Ferrovie del Sud-Est e Servizi Automobilistici S.r.l., domande aventi ad oggetto la declaratoria dell’obbligo della Società datrice di adibire il D.B. esclusivamente alle mansioni di sua competenza quale “operatore di scambi cabina” e non, come la stessa Società aveva disposto, con apposito ordine di servizio, a quelle, inferiori e quindi dequalificanti, precedentemente svolte di “operatore di manutenzione” e di corrispondergli la retribuzione prevista contrattualmente per la qualifica di appartenenza ivi comprese le somme arretrate non corrisposte dalla data di maturazione del diritto, l’accertamento dell’illegittimità nonchè del carattere persecutorio e vessatorio del comportamento della Società concretatisi nel demansionamento e, a fronte del rifiuto opposto dal D.B. a tale impiego, nella reiterata irrogazione di sanzioni disciplinare, la sua conseguente configurabilità in termini di mobbing, incidente in senso pregiudizievole sullo stato di salute psico-fisico del D.B. e la condanna della Società al risarcimento del danno biologico, professionale, esistenziale e morale, da liquidarsi anche in via equitativa;

che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto legittimo l’impiego del D.B. in mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica di appartenenza dovendo ammettersi, anche alla luce dei richiamati principi giurisprudenziali, una tale flessibilità, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione ad esse, in assoluto e nell’arco della singola giornata lavorativa, irrilevante a tale stregua la questione dell’ammissibilità di tale flessibilità alla luce della disciplina collettiva, formalmente legittima l’irrogazione di sanzioni disciplinari, dovendosi ritenere le previsioni sul punto recate dal R.D. n. 148 del 1931, compatibili con la regolamentazione privatistica del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri e, perciò, estranee all’abrogazione del R.D. n. 148 del 1931, disposta dalla L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 9 e rinunziate e comunque infondate le domande risarcitorie connesse al presunto demansionamento ed alla violazione dell’art. 2087 c.c.;

che per la cassazione di tale decisione ricorre il V., affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resiste, con controricorso, la Società;

che il ricorrente ha poi presentato memoria.

Motivi della decisione
che, con l’unico motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. e del CCNL 27.11.2000 per il Trasporto Pubblico Locale in una con il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamenta la non conformità a diritto della pronunzia della Corte territoriale per essere l’impiego promiscuo del ricorrente in compiti propri della qualifica inferiore in precedenza rivestita escluso sul piano legislativo e contrattuale e conseguentemente l’illegittimità del disconoscimento dell’idoneità lesiva dell’integrità psico-fisica del lavoratore della condotta della Società, viceversa qualificabile come mobbing e fonte di danno risarcibile, domanda questa a sua volta erroneamente considerata rinunziata e disattesa dalla Corte territoriale;

che il motivo esposto si rivela infondato, ritenendo questo Collegio di dover dare continuità all’orientamento accolto da questa Corte e puntualmente richiamato nella motivazione dell’impugnata sentenza per cui “il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli propri del suo livello” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord, 31 agosto 2018, n. 21515), in base al quale la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si rivela di per sè legittimo, mentre non trova ostacolo nella disciplina contrattuale di settore ai sensi dell’art. 2 del CCNL 27.11.2000, la cui interpretazione in termini di legittimazione della “flessibilità in uso” in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi pur dichiarati superati fatta propria dalla Corte territoriale non risulta adeguatamente confutata dal ricorrente, conseguendone, secondo quanto statuito dalla Corte territoriale l’inconfigurabilità nella specie di condotte illegittime della Società idonee a fondare pretese risarcitorie, di cui, comunque, inammissibilmente, per difetto di autosufficienza, stante la mancata trascrizione o allegazione di documentazione comprovante la circostanza, si contesta l’intervenuta rinunzia contestualmente affermata dalla Corte territoriale;

– che il ricorso va, dunque, rigettato;

– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2020


Poste Italiane: ripristino termini di giacenza

… considerata l’evoluzione della pandemia in atto e il ponderato allentamento delle misure restrittive disposte dalle Autorità competenti, con decorrenza 15 ottobre sono ripristinati gli ordinari termini di giacenza contrattualmente previsti. …

Leggi: PP.TT. Coronavirus ripristino termini giacenza


GDS EMILIA ROMAGNA
(12-13 Novembre 2020)

Durì Francesco
Docente: Francesco Durì

Scarica il depliant

1° giornata

  • Data: 12 Novembre 2020
  • Orario: 9:00 – 13:00

2° giornata

  • Data: 13 Novembre 2020
  • Orario: 9:00 – 13:00

Programma

Il Messo Comunale

Obblighi e competenze e responsabilità 

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti ne dimoranti ne domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • Le nuove disposizioni del C.A.D.
  • La PEC come strumento esclusivo di comunicazione e notifica della P.A. 
  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 600/1973
  • L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  • L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

Risposte a quesiti

  • Alla fine del corso ci sarà la possibilità di confrontarsi mediante domande e risposte sugli argomenti trattati

A richiesta, scritta (contrassegnare nel modulo di partecipazione), l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità, gratuitamente, per le persone che verranno indicate al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (Art. 1, comma 158 e ss.).

Quota iscrizione

€ 152.00(*) (**)

se il partecipante alla giornata di studio è già è socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2019 con rinnovo anno 2020 già pagato al 31.12.2019. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.

222.00(*) (**)

se il partecipante NON E’ ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi all’Associazione per l’anno 2021 pagando la quota insieme a quella della giornata di studio. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.

272,00 (*) (**)

più I.V.A se dovuta, per chi vuole frequentare solo la giornata di studio (NON E’ iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi all’Associazione).
 

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente

  • € 210,00 per il primo partecipante
  • € 180,00 per il secondo partecipante
  • € 100,00 per il terzo e oltre partecipante 

Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2021 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa. Tale promozione non è assimilabile e/o integrabile alle Quote di Iscrizione sopra descritte (Quote di Iscrizione alla giornata di studio) e per un massimo di numero 10 dipendenti. Dall’11° dipendente si riprende con la quota di € 210,00 ecc. 

 

La quota di iscrizione comprende:

    • accesso in alla piattaforma e-learnig 
    • materiale didattico 

Modalità di pagamento

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie, comprensive dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

        • Codice IBAN:  IT06 T030 6234 2100 0000 1790 603 (Banca Mediolanum)
        • Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
        • Causale: Numero fattura elettronica
Versamento tramite Carta di Credito

 

Note importi
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico, la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art. 10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993, ed è comprensiva di € 2,00 (Marca da Bollo)
(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso online si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità  successiva.

Modalità di partecipazione

La mancata partecipazione comporterà l’integrale fatturazione della quota di partecipazione.

È possibile sostituire i partecipanti in qualsiasi momento prima del corso On Line.

La conferma della tenuta del corso On Line sarà comunicata due giorni prima la data stabilita.

L’Associazione invierà ai partecipanti, che abbiano partecipato ad almeno il 70% delle ore previste, un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso on line dovrà essere effettuata cliccando sul link a fondo pagina. I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

I corsi / seminari / convegni / giornate di studio non sono configurabili come appalti di servizi.
Pertanto, per il loro acquisto non è necessario transitare dalle Centrali di Committenza (nazionale o regionale), non è prevista la richiesta del CIG. Si veda anche paragrafo 3.9 della Determinazione dell’AVCP n. 4 del 7 luglio 2011.

La formazione in materia di appalti e contratti pubblici, se prevista dal Piano triennale per la prevenzione della corruzione del singolo Ente, non è soggetta al tetto di spesa definito dall’art. 6, comma 13, del D.L. n. 78/2010. Si tratta infatti di formazione obbligatoria prevista dalla Legge n. 190/2012 (cfr. Corte dei conti: sez. reg.le di controllo Emilia-Romagna n. 276/2013; sez. reg.le di controllo Liguria n. 75/2013; sez. reg.le di controllo Lombardia n. 116/2011)


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 26/11/2019) 15/10/2020, n. 22348

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 6426/2014 R.G. proposto da:

S.D., elettivamente domiciliato in Roma, via Alessandria n. 129, presso lo studio dell’avv. Guglielmetti Bruno, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Mossali Mario, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Bergamo, Ufficio Territoriale di Bergamo 2, in persona del Direttore pro tempore, Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, e Equitalia Esatri s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia – Sezione staccata di Brescia n. 123/66/13, depositata 11 agosto 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 novembre 2019 dal Cons. Nonno Giacomo Maria.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. De Renzis Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Udito l’avv. Sorte Maria Teresa per delega dell’avv. Mossali Mario per la ricorrente.

Svolgimento del processo
1. Con la sentenza n. 123/66/13 del 01/08/2013, la Commissione tributaria regionale della Lombardia – Sezione staccata di Brescia (di seguito CTR) respingeva l’appello proposto da S.D. avverso la sentenza n. 64/02/12 della Commissione tributaria provinciale di Bergamo (di seguito CTP), che aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal contribuente nei confronti di una cartella di pagamento e del corrispondente avviso di accertamento per IRPEF, IRAP e IVA relative all’anno d’imposta 2004.

1.1. Come emerge anche dalla sentenza impugnata, S.D. aveva impugnato la cartella di pagamento a lui notificata sul presupposto della mancata notifica, nei suoi confronti, dell’avviso di accertamento, che era contestualmente oggetto di impugnazione.

1.2. La CTR rigettava l’appello del contribuente evidenziando che: a) l’avviso di accertamento, propedeutico all’emissione della cartella di pagamento, era stato regolarmente notificato a S.D. e non impugnato nei termini previsti dalla legge; b) dal duplicato della comunicazione di avvenuto deposito (CAD) si evinceva “la consegna all’indirizzo del destinatario della raccomandata n. (OMISSIS) in data 21 ottobre 2010;” (recte 21 ottobre 2009) “trattandosi di duplicato C.A.D., come correttamente evidenziato dall’Ufficio, il nome e cognome riportati nello spazio “firma dell’agente postale” si riferiscono all’addetto sig.ra Signorelli che aveva sottoscritto il C.A.D. in originale”; c) la data del 21/10/2009, indicata sempre nel duplicato della CAD, era relativa al giorno in cui la comunicazione risultava consegnata all’indirizzo del contribuente; d) la procedura di consegna mediante immissione dell’avviso in cassetta all’indirizzo del destinatario era legittima, come si evinceva dal riquadro “Mancata consegna del plico a domicilio” e dalla dicitura “per temporanea assenza del destinatario”; e) l’attestazione concernente l’assolvimento dei suddetti adempimenti da parte dell’addetto all’ufficio postale “costituisce valida prova della legittimità della procedura di notifica, fino a querela di falso nei confronti del predetto agente postale”; f) l’omessa impugnazione dell’avviso di accertamento propedeutico all’emissione della cartella di pagamento rendeva inammissibile il ricorso originario e assorbite le questioni attinenti al merito della controversia.

2. S.D. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quindici motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

3. L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.

4. Il Ministero dell’economia e delle finanze nonchè Equitalia Esatri s.p.a. non si costituivano in giudizio e restavano, pertanto, intimati.

Motivi della decisione
1. Va pregiudizialmente dichiarata la carenza di legittimazione passiva a resistere nel presente giudizio del Ministero della economia e delle finanze, cui erroneamente è stato notificato il ricorso, essendo legittimata passivamente unicamente l’Agenzia delle entrate.

2. Con il primo motivo di ricorso S.D. deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in ragione della nullità della notifica a mezzo posta dell’avviso di ricevimento propedeutico alla emissione della cartella di pagamento, impugnata unitamente al primo. In particolare, si evidenzia: a) l’omissione della CAD e l’irregolarità del duplicato (erronea indicazione della data di spedizione e di ricezione dell’atto, difetto di sottoscrizione, omessa indicazione del numero della raccomandata cui si fa riferimento e della ricezione ovvero della spedizione della stessa); b) la mancata indicazione, nella notifica dell’avviso di accertamento, del motivo della mancata consegna del plico al domicilio e del conseguente deposito presso l’Ufficio postale, tenuto conto della omessa specificazione della circostanza se la mancata consegna sia stata determinata dalla mancanza ovvero dalla inidoneità delle persone abilitate, non risultando barrati i relativi riquadri; c) l’omessa indicazione dell’indirizzo cui il plico postale risulta diretto, essendo stato specificato unicamente il Comune di destinazione.

3. Con il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso ci si duole, sotto il profilo del vizio di motivazione, essenzialmente delle medesime circostanze più sopra indicate; con il quinto motivo le predette circostanze sono dedotte sotto il profilo del vizio di omessa pronuncia e, con il sesto e il settimo motivo, sotto il profilo della violazione di legge.

4. Con il nono e il decimo motivo si deduce la violazione degli artt. 113, 156 e 162 c.p.c., sostenendosi che la regolarità della notificazione non può essere fornita a mezzo il duplicato della CAD, come effettuato dall’Ufficio.

5. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati e che sono sufficientemente specifici in ragione della produzione (allegati G e H al ricorso) degli avvisi di ricevimento di cui si discute (avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta e duplicato della CAD), vanno disattesi.

5.1. Va preliminarmente rilevato, in punto di diritto, che la notifica dell’avviso di accertamento deve avvenire ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, il quale, al comma 1, prevede, in via generale, che “la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss.”, salve le modifiche successivamente elencate (comma 1).

5.2. Nel caso di specie, come si evince dalla documentazione allegata al ricorso, la notificazione dell’avviso di accertamento è stata eseguita a mezzo posta direttamente dall’Ufficio, così come previsto dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14.

5.2.1. In tale ipotesi, non si applicano le regole previste dalla L. n. 890 del 1982, ma il regolamento postale (D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655 e D.M. 1 ottobre 2008) relativo all’inoltro delle raccomandate ordinarie; con la conseguenza che non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione (Cass. n. 19795 del 25/07/2018; Cass. n. 16488 del 05/08/2016; Cass. n. 14501 del 15/07/2016; Cass. n. 9111 del 06/06/2012).

5.2.2. Nel caso di mancato recapito al destinatario, è previsto un periodo di giacenza del plico negli uffici di destinazione di trenta giorni e dell’avvenuto deposito in giacenza deve essere dato avviso al destinatario (cd. CAD), con conseguente nullità della notificazione in caso di mancato invio di tale avviso (Cass. n. 25095 del 07/12/2016).

5.2.3. In analogia con quanto previsto dalla L. n. 890 del 1992, art. 8, la notifica si intende eseguita nel decimo giorno successivo alla messa in giacenza, salvo che il destinatario ritiri l’atto in epoca precedente (Cass. n. 2047 del 02/02/2016).

5.2.4. E’ sempre possibile il rilascio di un duplicato della CAD da parte delle poste, in applicazione del D.P.R. n. 655 del 1982, art. 8, anche se tale disposizione riguarda specificamente l’avviso di ricevimento (cfr. Cass. n. 2551 del 30/01/2019; Cass. n. 18361 del 12/07/2018; Cass. n. 23546 del 18/11/2016; Cass. S.U. n. 627 del 14/01/2008). Detto duplicato, al pari del duplicato dell’avviso di ricevimento, ha natura di atto pubblico alla stessa stregua dell’originale e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c. in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale attesta essere avvenuti in sua presenza, sicchè il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass. n. 14574 del 06/06/2018).

5.3. Ciò premesso in termini generali in ordine alle regole che sovrintendono alla notificazione a mezzo posta da parte dell’Ufficio, vanno esaminati i singoli rilievi proposti dal contribuente, riassunti più sopra al p. 2.

5.4. Mancato inoltro e irregolarità della CAD (p. 2, sub a). L’avviso di giacenza, diversamente da quanto argomentato dal ricorrente, risulta regolarmente inoltrato a quest’ultimo, avendo egli stesso prodotto il duplicato originariamente versato in atti dall’Agenzia delle entrate; duplicato che, secondo la disciplina più sopra menzionata, tiene luogo dell’originale, purchè rechi l’indicazione della persona cui lo stesso è stato consegnato (Cass. n. 2551 del 30/01/2019), senza che sia ovviamente necessaria la sottoscrizione di tale persona (Cass. n. 14574 del 06/06/2018).

5.4.1. Dal duplicato della CAD si evincono chiaramente: i) il numero della raccomandata, regolarmente riportata sull’avviso di ricevimento cui la comunicazione si riferisce; ii) la indicazione del destinatario ( S.D.) e il suo domicilio ((OMISSIS)); iii) la indicazione dell’immissione in cassetta da parte dell’ufficiale postale Signorelli, che sottoscrive l’avviso; iv) la data di ricezione della CAD, indicata nel 21/10/2009.

5.4.2. Non v’è alcun dubbio che l’avviso di deposito si riferisca effettivamente alla notificazione dell’avviso di accertamento effettuata a mezzo posta, indipendentemente dalla mancata indicazione sulla CAD del numero della raccomandata ovvero del numero di cronologico, essendo incontestabile la riconducibilità di quest’ultima all’avviso di ricevimento.

5.4.3. Come accertato dalla CTR, la data del 21/10/2009, indicata sul duplicato della CAD, “è relativa al giorno in cui il C.A.D. originale risulta consegnato all’addetto postale all’indirizzo del contribuente” ed è, pertanto, pienamente compatibile con la data di inoltro della raccomandata del 20/10/2009 indicata sull’avviso di ricevimento: argomentare diversamente significa offrire una ricostruzione dei fatti diversa da quella rassegnata dal giudice di merito, inammissibile in sede di legittimità. Nè alcun particolare rilievo può essere dato al timbro postale apposto sul duplicato dell’avviso di deposito, essendo del tutto evidente che lo stesso va a datare l’emissione del duplicato medesimo.

5.4.4. Infine, nessuna questione può essere fatta in ordine: a) alla differenza della grafia dell’addetto al recapito, poichè l’indicazione del nome dell’agente postale apposta sul duplicato non corrisponde alla firma di quest’ultimo; b) al domicilio del contribuente, la cui correttezza va valutata al 20/10/2009 e non già al 03/09/2011 (e ciò tenendo anche presente che ciò che rileva è il domicilio fiscale).

5.5. Incompletezza dell’avviso di ricevimento (p. 2, sub b). Dalla copia dell’avviso di ricevimento allegato al ricorso si evince che l’avviso dell’inoltro della raccomandata è stato immesso in cassetta in ragione della temporanea assenza del destinatario, mentre non si specifica se le (eventuali) altre persone abilitate a ricevere il plico siano mancanti o inidonee, non risultando barrati i relativi riquadri. Trattasi, peraltro, di mera irregolarità della notificazione, inidonea a determinarne la nullità: in primo luogo, la conseguenza della mancanza ovvero della inidoneità delle persone abilitate è sempre la stessa, vale a dire l’immissione in cassetta dell’avviso o la sua affissione; secondariamente, il ricorrente non specifica in alcun modo il pregiudizio conseguente alla mancata specificazione, con riferimento alla impossibilità di venire a conoscenza della notificazione, traducendosi il rilievo in una contestazione meramente formale.

5.6. Incompletezza dell’indirizzo (p. 2, lett. c). La mera indicazione sull’avviso di ricevimento del comune di destinazione del plico e non anche dell’indirizzo in cui la notificazione è avvenuta non determina la nullità della notificazione, risultando chiaramente dalla CAD che la raccomandata è stata consegnata a via (OMISSIS). In altri termini, dall’omissione della trascrizione dell’indirizzo completo sull’avviso di ricevimento non può desumersi, avuto conto della documentazione prodotta, che il plico sia stato consegnato ad un indirizzo diverso da quello indicato dalla CAD. 5.7. In buona sostanza, l’accertamento della CTR, che ha ritenuto che la notificazione dell’atto impositivo sia stata correttamente eseguita in data 31/10/2009, resiste alle plurime censure mosse dal ricorrente, con conseguente definitività dello stesso, non impugnato nei termini di legge, e sua incontestabilità nel merito in sede di impugnazione della cartella di pagamento.

6. Con l’ottavo motivo si contesta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 113, 149, 156, 160 e 162 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziandosi la mancata produzione degli originali dell’avviso di ricevimento dell’atto di accertamento e della CAD. 7. Il motivo è inammissibile.

7.1. La circostanza che siano state prodotte unicamente delle copie fotostatiche dei documenti attestanti l’intervenuta notifica dell’avviso di accertamento e la contestazione della inidoneità delle copie a tener luogo degli originali sono state dedotte per la prima volta solo in sede di legittimità, sicchè la censura è nuova.

8. Con l’undicesimo motivo si contesta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziandosi che il ricorso avverso la cartella di pagamento non avrebbe potuto ritenersi inammissibile in ragione della nullità della notificazione dell’avviso di accertamento.

9. Il motivo è inammissibile.

9.1. La censurasi fonda, infatti, sulla illegittimità della notificazione dell’avviso di accertamento, illegittimità esclusa da quanto dedotto supra, ai p.p. 5 ss.

10. Con il dodicesimo, il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo motivo vengono riproposte questioni relative alla nullità, illegittimità o annullabilità dell’avviso di accertamento già dedotte nei gradi di merito, ma non affrontate dal giudice di appello in quanto ritenute assorbite.

11. I motivi sono inammissibili.

11.1. Tenuto conto dell’acclarata legittimità della notificazione dell’avviso di accertamento, gli stessi non avrebbero potuto essere riproposti in sede di impugnazione della cartella di pagamento.

12. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo avuto conto di un valore della lite dichiarato di Euro 159.766,55. Nulla per le spese in favore degli intimati non costituitisi in giudizio.

12.1. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 5.600,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Si dà atto che la presente sentenza è sottoscritta unicamente dal Presidente del Collegio per impedimento del Consigliere estensore a recarsi nella città di Roma in ragione dell’emergenza sanitaria Covid-19.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2020