Valida la notifica di una cartella di pagamento in formato PDF

È irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file «pdf nativo» quando l’atto in essa contenuto, precedentemente notificato, è noto al ricorrente e quando non si contesta la sua difformità rispetto all’originale. In questo modo si è espressa la Corte Suprema di Cassazione civile con la sentenza n. 28852/2023.

La società Alfa s.r.l. impugnava una comunicazione preventiva di iscrizione di fermo amministrativo su veicolo di sua proprietà notificata dall’Agenzia delle Entrate Riscossione a mezzo PEC lamentando, tra le modalità di notifica, l’allegazione di file PDF e la mancata sottoscrizione digitale.

Il giudizio innanzi alla CTP ed alla CTR
Svolto in giudizio in contraddittorio con l’agente della riscossione, la domanda attore veniva disattesa in ambedue i gradi di merito.

Il giudice territoriale ha ritenuto irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file «pdf nativo» sul rilievo che si trattava di «atto già notificato nell’anno 2017, e quindi ben noto all’opponente, che, per di più, non contesta affatto la sua difformità rispetto all’originale».

La pronuncia della Corte Suprema di Cassazione
La contribuente ha proposto ricorso per la Corte Suprema di Cassazione con sei motivi, di cui due relativi alla notifica a mezzo PEC:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per giuridica inesistenza della notificazione, avvenuta a mezzo pec, per allegazione alla mail dell’atto in formato .pdf (copia per immagine su supporto informatico) e non già come documento informatico provvisto di firma digitale (.pdf nativo digitale);

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’ art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per giuridica inesistenza della notificazione, concretata nel caso dalla trasmissione di una mera scansione dell’atto, oltremodo priva della sottoscrizione digitale.

La Corte Suprema di Cassazione ha affrontato congiuntamente i 2 motivi, ritenendoli infondati.

Va premesso che il D.P.R. 68/2005, art. 1, lett. f), definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come “un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati”. La lett. i ter), art. 1, del CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), – poi, definisce “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” come “il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico”, mentre la lett. i quinquies), art. 1, del medesimo CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c),- nel definire il “duplicato informatico” parla di “documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

La Corte Suprema di Cassazione si è ripetutamente espressa sul punto ritenendo che la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”).

Per tale motivo va esclusa la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, poiché era nella facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico.

Inoltre, nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale.

Già le Sezioni Unite avevano affermato il principio che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

Come già affermato dal giudice territoriale, la Corte Suprema di Cassazione ribadisce che non appare necessaria l’attestazione di conformità atteso che, ai sensi dell’art. 22 CAD, comma 3 – come modificato dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 1, “Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta”.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso, dà atto che sussistono i presupposti ex art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento da parte della ricorrente del doppio del contributo unificato e nulla statuisce sulle spese in mancanza di costituzione degli intimati.

Orientamenti giurisprudenziali

Cass. 05/10/2020, n. 21328

Cass. 08/07/2020, n. 14402

Cass. 30948/2019

Cass 6417/2019

Cass. 21290/2018

Cass. SS.UU. 28 settembre 2018 n. 23620

Cass. 27561/2018

Cass. 26053/2015

Cass. 2577/2014

Cass. 13461/2012


BUON ANNO !!! 2024


E’ online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send”

La Piattaforma “PagoPa” ha informato che è online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send”, per fornire supporto agli Enti che abbiano necessità di informare i cittadini sul funzionamento del Servizio

Con una Notizia pubblicata in data 14 dicembre 2023, la Piattaforma “PagoPa” ha informato che è online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send – Servizio notifiche digitali”, la nuova Piattaforma che semplifica la gestione delle comunicazioni a valore legale per Amministrazioni, Cittadini e Imprese. L’obiettivo del “toolkit” è fornire un supporto concreto ad ogni Ente che abbia necessità di informare i propri cittadini sul funzionamento del nuovo Servizio e promuovere la ricezione in digitale, anche tramite App “Io”, delle notifiche degli Atti amministrativi a loro destinati

Come si apprende dalla Notizia, il “toolkit” contiene suggerimenti, strumenti e materiali pronti all’uso, che ogni Ente può personalizzare e utilizzare in autonomia per creare la propria campagna di comunicazione e:

  • informare i Cittadini della propria adesione alla Piattaforma;
  • sensibilizzare gli utenti sulla possibilità e sui vantaggi di ricevere comunicazioni a valore legale tramite “Send”, attraverso canali digitali o analogici.

Gli Enti che hanno aderito a “Send” possono dunque contare su una Guida e dei materiali pronti per essere utilizzati sui canali di comunicazione istituzionali, al fine di accompagnare in modo efficace l’adozione del nuovo Servizio sul territorio e spiegarne i vantaggi agli utenti.

I materiali grafici, i template e i casi d’uso che si trovano nel kit permettono infatti di dare informazioni corrette e chiare, garantendo coerenza con i materiali ufficiali di presentazione di “Send”, al fine di rendere il nuovo Servizio sempre più riconoscibile e noto anche tra i cittadini.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/11/2023) 13/12/2023, n. 34824

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALSAMO Milena – Presidente –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36347-2018 proposto da:

AZZURRA COSTRUZIONI Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato LUIGI CINQUEMANI, giusta procura speciale estesa a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che le rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1799/12/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della SICILIA, depositata il 24/4/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata dell’8/11/2023 dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Svolgimento del processo
CHE:

Azzurra Costruzioni Srl propone ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia aveva respinto l’appello avverso la sentenza n. 5077/07/2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Palermo, in rigetto del ricorso avverso cartella esattoriale, avente ad oggetto iscrizione a ruolo per mancato pagamento di imposta di registro, oltre interessi e sanzioni, in conseguenza di avviso di rettifica e liquidazione emesso nell’anno (Omissis);

l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia delle entrate riscossione resistono con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 139 c.p.c., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. c),) e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente ritenuto valida la notifica dell’avviso di liquidazione effettuata a mani di familiare convivente del destinatario (legale rappresentante della società ricorrente), pur in mancanza di prova circa la “riconducibilità del luogo di… consegna” con il domicilio fiscale della parte;

1.2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 115 c.p.c.) ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentando che la Commissione tributaria regionale abbia omesso di rilevare che alla data della notifica il destinatario (legale rappresentante della società contribuente) era detenuto in carcere, circostanza non contestata dall’Agenzia delle entrate, con conseguente violazione anche del principio di non contestazione;

1.3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia “omesso esame di fatto storico, principale o secondario in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5… (per)… violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 602, art. 25 in relazione al termine per la notifica della cartella” impugnata, lamentando la carente motivazione da parte della Commissione tributaria regionale circa la violazione dei termini decadenziali di cui all’art. 25 cit.;

1.4. le doglianze, da esaminare congiuntamente, vanno disattese;

1.5. in primo luogo, risultano inammissibili le censure formulate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poichè si verte in ipotesi di doppia conforme ex art. 348-ter c.p.c., comma 5, rispetto alla quale la ricorrente non ha indicato profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. nn. 26774/2016, 5528/2014);

1.6. a seguire, posto che la Commissione tributaria regionale ha accertato in fatto che la notifica della cartella è avvenuta presso l’abitazione del legale rappresentante della società, nelle mani della moglie dichiaratasi capace e convivente, va osservato che ove la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani di un familiare convivente con il destinatario, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7 deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante (anche) ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c., in quanto il problema della identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con la conseguente irrilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire (cfr. Cass. nn. 583/2019 in motiv., 8472/2018, 6345/2013, 22607/2009, 24852/2006);

1.7. in altri termini, nel caso in cui la notificazione venga eseguita a mezzo posta e l’agente postale l’esegua, secondo le forme indicate dall’art. 7, primo (“L’agente postale consegna il piego nelle mani proprie del destinatario…”) e comma 2 (“Se la consegna non può essere fatta personalmente al destinatario, il piego è consegnato… a persona di famiglia che conviva anche 5 temporaneamente con lui…”) della L. n. 890 del 1982, “nel luogo indicato sulla busta che contiene l’atto da notificare”, è da presumere che in quel luogo si trovino la residenza effettiva o la dimora o il domicilio del destinatario, laddove, qualora quest’ultimo intenda contestare in giudizio tale circostanza al fine di far dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne idonea prova contraria, la quale, però, non può essere costituita dalla produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notificazione (cfr. Cass. 9 maggio 2014 n. 10107; Cass. 19 luglio 2005, n. 15200; Cass. 23 settembre 2004, n. 19132; Cass. 26 luglio 2002, n. 11077; Cass. 14 giugno 1999, n. 5884), dal momento che siffatte risultanze, di valore semplicemente dichiarativo, offrono, a loro volta, una mera presunzione, superabile alla stregua di altri elementi capaci di evidenziare, in concreto, la diversa ubicazione della residenza effettiva del destinatario dell’atto, presso la quale la notificazione, anche ai fini di cui alla già citata L. n. 890 del 1982, art. 3, comma 2, è validamente eseguita ed il cui accertamento, come compiuto dal giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità se non per vizi della relativa motivazione (cfr. Cass. 30 marzo 2012 n. 5201; Cass. 20 marzo 2006, n. 6101; Cass. 5 agosto 2005, n. 16525; Cass. 26 maggio 1999, n. 5076);

1.8. la Commissione tributaria regionale ha dunque ritenuto che, nel caso di specie, l’avviso di rettifica e liquidazione, sotteso alla cartella esattoriale impugnata, risultava validamente notificato al legale rappresentante della società contribuente a mani di familiare convivente, avendo la ricorrente omesso di dedurre e documentare che ” – contrariamente a quanto certificato dal Messo Speciale dell’Agenzia delle Entrate di Palermo… nella relazione di notifica trascritta in calce all’avviso di rettifica e liquidazione prodotto in giudizio dall’Agenzia delle Entrate – l’atto impositivo in oggetto non sia stato consegnato il 03/04/2008 in (Omissis), a A.A., moglie convivente del suo legale rappresentante, B.B.”;

1.9. a fronte della mancata prova, dunque, da parte del destinatario della notifica, circa il diverso luogo di residenza, dimora o domicilio, la Commissione tributaria regionale ha correttamente affermato la legittimità della notifica eseguita a persona diversa dal legale rappresentante presso la sua abitazione;

1.10. in merito, inoltre, a quanto dedotto dalla ricorrente circa la detenzione in carcere del legale rappresentante alla data della notifica dell’atto impositivo, è assorbente, rispetto ad ogni altra questione, evidenziare che in tema di notificazioni, l’art. 139 c.p.c. pone obbligatoriamente un criterio di successione preferenziale in ordine ai luoghi nei quali la notificazione deve avvenire, al che consegue che, giacchè la residenza non si perde per effetto di un allontanamento più o meno protratto nel tempo salvo che la persona non abbia fissato altrove una nuova dimora abituale e quindi una nuova residenza, risulta conforme a diritto la notifica a persona detenuta effettuata, nelle mani di persona di famiglia, nel luogo di residenza (cfr. Cass. n. 9279 del 17 settembre 1998) come nel caso in esame;

2.1. con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 2700 c.c., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. b-bis) e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente respinto la doglianza relativa alla mancata prova, da parte del notificante, circa la ricezione della raccomandata informativa, inviata a seguito della consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario;

2.2. la doglianza va parimenti disattesa;

2.3. la notificazione degli atti impositivi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. a, (in tema di imposte dirette, ma richiamato dalle norme attinenti alla notificazione degli atti impositivi relative agli altri tributi) è eseguita dai messi comunali o dai messi autorizzati dall’ufficio finanziario secondo le norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss., ivi comprese, quindi, in mancanza di espressa esclusione, le modalità di cui all’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo del servizio postale;

2.4. trovano applicazione, in questo caso, le norme specifiche dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, artt. 7 e 8 con piena equiparazione del messo comunale o del messo autorizzato dall’ufficio finanziario all’ufficiale giudiziario (per tale equivalenza, tra le tante: Cass. 13 luglio 2016, n. 14273; Cass. 26 settembre 2018, n. 22854; Cass. 16 marzo 2018, nn. 6497 e 6498; Cass. 11 marzo 2020, n. 6855; Cass. 17 giugno 2021, n. 17368);

2.5. la notificazione a cura dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’ufficio D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. a, deve essere eseguita nel rispetto delle norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss., ma secondo le modifiche indicate nel medesimo art. 60 che, per quanto ci occupa, dispone, alla lett. b -bis, aggiunta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 27, lett. a, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 quanto segue: “Se il consegnatario non è il destinatario dell’atto o dell’avviso, il messo consegna o deposita la copia dell’atto da notificare in busta che provvede a sigillare e su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso. Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata”;

2.6. il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, pur rinviando alla disciplina del codice di procedura civile, richiede, dunque, a differenza di quanto disposto dall’art. 139 c.p.c., comma 2, anche ove l’atto sia consegnato nelle mani di persona di famiglia, l’invio della raccomandata informativa quale adempimento essenziale della notifica che sia eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte (cfr. Cass. n. 2868 del 03/02/2017);

2.7. tuttavia, come già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 2377 del 27/1/2022), il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. b-bis, prevede esclusivamente la spedizione di una “lettera raccomandata”, non, quindi, di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento (cfr. Cass. 6 settembre 2017, n. 20863; Cass. 3 aprile 2019, n. 9239; Cass. 15 dicembre 2019, n. 29768), che viene a costituire un adempimento superfluo ed ultroneo ai fini del perfezionamento del procedimento notificatorio, ed il Collegio condivide tale orientamento, rispetto al quale costituisce precedente del tutto isolato l’ordinanza di questa Corte n. 17235 del 2 luglio 2018, superato anche dal successivo pronunciamento delle Sezioni Unite di questa Corte, come di seguito illustrato);

2.8. invero, nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni, e ciò sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, commi 3 e 6, nel testo novellato dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 2-quater, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31);

2.9. questa Corte ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 c.p.c., comma 4) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, commi 3 e 6), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata (cfr. Cass. 22 maggio 2015, n. 10554; Cass. 16 giugno 2016, n. 12438; Cass. 10 ottobre 2017, n. 23765; Cass. 7 giugno 2018, n. 14722; Cass. 12 luglio 2018, n. 18504; Cass. 30 gennaio 2019, n. 2747; Cass. 20 luglio 2021, n. 20736);

2.10. con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. 20 novembre 198,2 n. 890, le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8 e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi degli artt. 139 c.p.c., comma 4, e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (C.A.D.), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (cfr. Cass., Sez. Un, 15 aprile 2021, n. 10012), e non anche nel secondo;

2.11 la scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con l’avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c. e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (familiari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (cfr. Cass., Sez. Un, 15 aprile 2021, n. 10012 – nello stesso senso, tra le tante: Cass. 20 luglio 2021, n. 20736; Cass. 30 novembre 2021, nn. 37391 e 37392; Cass. 5 gennaio 2022, n. 201);

2.12. è opportuno evidenziare, peraltro, anche che è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7 in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata c.d. informativa, come, invece, previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex artt. 140 c.p.c. e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli 14 interventi additivi richiesti dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., 14 gennaio 2010, n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui agli art. 140 c.p.c. e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (cfr. Cass. 7 giugno 2018, n. 14722; Cass. 20 luglio 2021, n. 20736);

2.13. ciò comporta che, essendo stata eseguita, nella specie, la consegna del plico a mani di persone di famiglia, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto, ed attestato nella sentenza impugnata, laddove si dà atto dell’invio, al destinatario della notifica, in data 7/4/2008, della suddetta raccomandata;

2.14. nel caso in esame, la previsione normativa è stata, invero, rispettata dall’agente notificatore e l’omessa produzione dell’avviso di ricevimento non ha pregiudicato in alcun modo il diritto del contribuente all’effettività della tutela giurisdizionale;

3.1. con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2 e art. 17, comma 3) per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente respinto le censure della contribuente circa l’illegittima applicazione delle sanzioni amministrative mediante iscrizione a ruolo ex art. 17 cit. e in mancanza di motivazione “dei fatti attribuiti al trasgressore, degli elementi probatori, delle norme applicate, dei criteri… per la determinazione delle sanzioni e della loro entità”;

3.2. con il quinto motivo la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in quanto emessa ultra petita, avendo la Commissione tributaria regionale respinto l’impugnazione dell’appellante, rilevando, sulla scorta delle deduzioni effettuate in appello dall’Agenzia delle entrate, che le sanzioni non erano state irrogate mediante la diretta iscrizione a ruolo, ma erano state applicate con l’originario avviso di rettifica e liquidazione, pur avendo l’Agenzia delle entrate del tutto genericamente contestato, in primo grado, la relativa eccezione della contribuente;

3.3. i motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto strettamente connessi, vanno disattesi;

3.4. in via preliminare va evidenziato che la Commissione tributaria regionale ha disatteso l’eccezione della contribuente rilevando che la cartella di pagamento, “nella descrizione degli addebiti afferenti al presupposto avviso di accertamento”, individuava, tra le varie “voci di credito”, anche quella relativa alle sanzioni;

3.5. la censura della ricorrente non coglie, quindi, nel segno la ratio decidendi della sentenza impugnata, che non ha in alcun modo affermato la legittimità dell’applicazione delle sanzioni mediante iscrizione a ruolo;

3.6. le ulteriori doglianze, relative al preteso omesso esame di circostanze riportate nella documentazione prodotta in giudizio relativamente alla questione in oggetto, risultano inammissibili, in quanto prospettano un vizio di motivazione o l’omessa valutazione di un punto decisivo della controversia, secondo il disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non può essere invocato nell’ipotesi, ricorrente nel caso di specie, di cd doppia conforme, fondata sui medesimi elementi fattuali, atteso il divieto previsto dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5 come dianzi illustrato;

3.7. non si configura, inoltre, nel caso in esame alcuna pronuncia ultra petita, posto che la materia del contendere era l’impugnazione della cartella esattoriale anche sulla base della dedotta illegittima applicazione delle sanzioni mediante iscrizione a ruolo, al che consegue che il contenuto dell’atto di appello consente comunque di escludere il denunciato vizio di ultrapetizione o extrapetizione, che ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (cfr. Cass., 11 aprile 2018, n. 9002; Cass., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8048);

3.8. occorre inoltre rilevare, quanto alla dedotta violazione del “principio di non contestazione”, che è pienamente ammissibile che l’ente impositore si limiti alla generica difesa dell’atto impositivo del quale chiede la conferma, spettando al contribuente di dimostrarne gli eventuali vizi (a conferma vedi ad es. Cass. n. 12651 del 2018 la quale afferma che “nel processo tributario, la parte resistente la quale, in primo grado, si sia limitata ad una contestazione generica del ricorso può rendere specifica la stessa in sede di gravame poichè il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine”);

4. sulla scorta di quanto sin qui illustrato, il ricorso deve essere respinto;

5. le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in misura pari ad Euro 4.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi in modalità da remoto della Corte di Cassazione Sezione Tributaria, il 8 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2023


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 21/11/2023) 12/12/2023, n. 34755

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 758/2022 proposto da:

A.A., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della 1^ SEZIONE DELLA CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato A.A. ((Omissis));

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (Omissis) DI B.B. & C. S.A.S., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della 1^ SEZIONE DELLA CORTE di CASSAZIONE, difeso dall’avvocato FADDA PASQUALE ((Omissis)) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CONGIATU UMBERTO ((Omissis));

– controricorrente –

avverso il DECRETO del TRIBUNALE SASSARI n. 37/2019 depositato il 24/11/2021;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21/11/2023 dal Consigliere Dott. FIDANZIA ANDREA.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Sassari, con decreto depositato il 22.11.2021, ha rigettato l’opposizione proposta L. Fall., ex art. 98 dall’avv. A.A. avverso il decreto con cui il G.D. del fallimento (Omissis) di B.B. & C. Sas ne aveva ammesso allo passivo il credito nella minor somma di Euro 52.000,00 anzichè in quella richiesta di Euro 168.000,00, a titolo di corrispettivo per l’attività professionale svolta dalla legale e consistita nella redazione e presentazione della domanda di concordato preventivo e nell’assistenza della società fino all’omologa.

Aveva dedotto l’avv. A.A. che, con contratto di mandato professionale del 12.10.2016, era stato originariamente pattuito con il sig. C.C., allora legale rappresentante della società poi fallita, per l’espletamento dell’incarico professionale, congiuntamente all’avv. D.D., il compenso di Euro 560.000,00 (e quindi Euro 280.000,00 ciascuno) – poi ridotto ad Euro 420.000,00, a seguito della modifica del piano, intervenuta nel corso della procedura concordataria, che aveva previsto una riduzione dell’attivo – e che aveva percepito un acconto di Euro 42.000,00, oltre accessori.

Il contratto di mandato professionale era stato allegato all’istanza di insinuazione (ma, nonostante le richieste rivolte alla cancelleria, il documento non era stato reperito) e da esso risultava che i compensi dei legali erano stati regolarmente esposti nel piano quali passività da regolare in prededuzione, mentre la professionista, anche nel ricorso L. Fall., ex art. 98, aveva evidenziato che il compenso pattuito per l’attività professionale espletata era stato riportato in detto piano e nella relazione dell’attestatore.

Il Tribunale di Sassari, nel rigettare l’opposizione allo stato passivo, ha dato atto che l’opponente aveva dedotto che gli accordi economici erano stati espressamente indicati nel piano e nella relazione attestativa, ma ha ritenuto che non era stata fornita dal legale la prova del deposito del contratto di conferimento dell’incarico professionale (asseritamente perfezionato in data anteriore alla procedura) contestualmente al deposito del ricorso L. Fall., ex art. 161. Nè la dimostrazione dell’esistenza dell’accordo era stata fornita attraverso le deduzioni di prova testimoniale, non ammesse. Ne conseguiva che se, da un lato, era incontestato che l’avv. A.A. avesse prestato la propria opera professionale nell’interesse della fallita, dall’altro, l’insinuazione non poteva essere riconosciuta nella misura richiesta poichè non vi era prova dell’intervenuto accordo (opponibile al fallimento). Doveva dunque trovare applicazione la norma generale di cui all’art. 2233 c.c. con la conseguenza che il compenso doveva determinarsi nella somma di Euro 52.000 (comprensivi di spese, Iva e CPA), già corrisposta dal fallito, tenuto conto che il concordato era stato poi revocato, per essere stati rilevati atti di frode connessi proprio alla stima dell’attivo, e le prestazioni dell’avv. A.A. erano state eseguite anche in favore della ditta individuale di C.C. (anch’essa fallita).

Avverso il decreto ha proposto ricorso per cassazione A.A., affidandolo a quattro motivi. Il fallimento (Omissis) di B.B. & C. Sas ha resistito in giudizio con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis. 1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per la decisione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta la ricorrente che nel proprio ricorso L. Fall., ex art. 98 aveva ampiamente trattato la questione dell’anteriorità dell’incarico professionale rispetto alla domanda di concordato preventivo, rilevando che i termini della relativa lettera (ammontare dei compensi e natura delle prestazioni) erano stati incorporati nel piano di concordato, trascrivendo testualmente i passi del piano e della relazione di attestazione.

Il Tribunale di Sassari aveva omesso di valutare tale stralcio del concordato, non considerando che doveva presumersi che l’incarico fosse certamente anteriore al piano, posto che il secondo ne aveva incorporato il contenuto, tenuto conto anche del fatto che proprio il piano aveva espressamente menzionato il patto scritto preesistente, avendo utilizzato la locuzione “come da mandato”, ciò quindi a conferma degli accordi che quella intesa conteneva.

In conclusione, ad avviso della ricorrente, se il piano di concordato depositato il 22.2.2017 menzionava espressamente “il mandato professionale” e ne incorporava il contenuto, tale mandato professionale era ad esso preesistente.

2. Il motivo è inammissibile.

Ritiene questo Collegio che il Tribunale di Sassari – come evidenziato nella parte narrativa – nel dare atto nel decreto impugnato che l’opponente aveva dedotto che gli accordi economici tra il legale e la fallita erano stati espressamente indicati nel piano e nella relazione attestativa, non ha omesso la valutazione di tali circostanze, ma le ha ritenute (implicitamente) irrilevanti, reputando imprescindibile, affinchè fosse fornita la prova di un accordo sul compenso opponibile al fallimento, il deposito del contratto di conferimento dell’incarico professionale contestualmente al deposito del ricorso L. Fall., ex art. 161, o comunque una prova testimoniale, nel caso di specie, non ammessa.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2704 c.c.. Espone la ricorrente che il Tribunale, nell’affermare che la prova dell’anteriorità della data di perfezionamento dell’accordo professionale rispetto al deposito della domanda di concordato può essere fornita unicamente con il deposito del contratto di conferimento dell’incarico contestualmente al ricorso L. Fall., ex art. 161, o mediante testimoni, ha violato l’art. 2704 c.c., secondo cui la data di una scrittura è certa anche “dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento”. Infatti, il Tribunale di Sassari non avrebbe considerato che, nel caso di specie, la prova della anteriorità del mandato rispetto alla data di deposito della domanda di concordato risultava dal rilievo che il contenuto della pattuizione contrattuale era stato riportato nello stesso piano.

4. Il motivo è inammissibile. Va osservato che la mera menzione di un mandato professionale supposto quale preesistente rispetto ad un atto, depositato in giudizio e da quel momento avente natura di data certa, non conferisce alcuna data certa anche al contratto cui il mandato citato ineriva, se non ne sia contestualmente depositato il relativo documento: atteso che l’istituto della data certa, ai fini della opponibilità, riguarda un atto che, con un giudizio di certezza, viene in rilievo nella sua precisa, conoscibile, dunque completa, esistenza, non è certo sufficiente, a tal fine, la mera menzione del suo contenuto in altro atto. Nel caso di specie, non vi sono i presupposti per il riconoscimento della data certa, cioè della violazione da parte del giudice di merito dei criteri codicistici enunciati, in quanto con la domanda di concordato preventivo quel mandato non risultava depositato, ma solo menzionato nel corpo del ricorso e peraltro neanche nella sua integralità.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 115, 116, 177, 187, 188, 189 e 244 c.c. e art. 2704 c.c.. Si duole la ricorrente che il Tribunale erroneamente non ha ammesso la prova testimoniale articolata per dimostrare che il contratto scritto di mandato professionale era anteriore al deposito della domanda di concordato preventivo. Con il quarto motivo è stigmatizzata la mancata ammissione della prova testimoniale, sotto altro profilo, segnatamente come omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare unitariamente, vertendo entrambi sulla mancata ammissione della prova testimoniale, sono inammissibili. A prescindere dalle motivazioni con cui il Tribunale ha ritenuto la prova per testi del legale non ammissibile perchè irrilevante, è giurisprudenza consolidata di legittimità quella per cui il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui la prova verta su un punto decisivo della controversia, ovvero quando la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 5654/2017; conf. Cass. n. 16214/2019).

Nel caso di specie, la prova non ammessa – “vero che una copia del contratto sottoscritto in data 12 ottobre 2016, che si esibisce, Le è stata consegnata prima del deposito della domanda di concordato preventivo dell’Impresa individuale C.C. avvenuto in data 22.2.2017 per consentirLe di verificare il dato contenuto nel piano di concordato preventivo relativo al compenso attribuito agli Avvocati A.A. e D.D.” – non era idonea nei termini richiesti dalla citata giurisprudenza. Si fa espresso riferimento, infatti, non al deposito della domanda di concordato preventivo della odierna fallita, ovvero la (Omissis) di B.B. & C. Sas ma al deposito della domanda di altra impresa, ovvero la ditta individuale di C.C., a nulla rilevando che costui fosse il legale rappresentante della fallita.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 9.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2023


BUONE FESTE 2023/2024

Con l’avvicinarsi delle festività natalizie, non c’è momento migliore per dire “Grazie”

A.N.N.A augura un felice periodo natalizio e un prospero anno nuovo


Raccomandata A.R.: una distanza di due giorni tra di esse non interrompe l’unità del contesto temporale

“L’art. 140 c.p.c. prevede che “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate”, la notificazione abbia luogo ugualmente con lo svolgimento di tre formalità distinte: il deposito di copia dell’atto da notificare nella casa comunale, l’affissione dell’avviso del deposito sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario, ed infine l’invio di una raccomandata con avvio di ricevimento anch’essa con l’avviso del deposito.

La notificazione si considera perfezionata soltanto con l’esecuzione dell’ultima, in senso temporale, delle tre formalità.

Queste ultime debbono essere eseguite in uno stesso contesto temporale, nell’ambito di quella certa notificazione, ma nulla impone che vengano eseguite in uno stesso giorno, così la Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 7939 del 30.05.2002. Una distanza di due giorni tra di esse non interrompe certo l’unità del contesto temporale: in sostanza, rimane irrilevante che per ragioni operative, per la mancanza di un ufficio postale aperto in orario utile, o per altro motivo, l’invio della raccomandata sia stato seguito di qualche giorno l’affissione dell’avviso sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario (che nella normalità dei casi verrà effettuata quando l’ufficiale giudiziario si sarà recato in luogo e non avrà potuto eseguire la notificazione con uno dei sistemi ordinari, e sarà perciò la prima, temporalmente, ad essere eseguita delle tre formalità richieste), ed il deposito dell’atto nella casa comunale.”


Albo pretorio, termini di pubblicazione flessibili

La Cassazione conferma l’annullamento delle multe irrogate dal Garante privacy agli enti
Niente sanzioni ai comuni che tengono delibere oltre 15 gg
Frenate le sanzioni privacy per i comuni che tengono le delibere per più di 15 giorni sull’albo pretorio on line.
La Suprema Corte di Cassazione, sezione II, con la sentenza n. 29438 del 24 ottobre 2023, ha confermato l’annullamento di due sanzioni, di 20 mila euro ciascuna, irrogate nel 2017 dal Garante della privacy a un comune, cui si contestava di avere mantenuto pubblicate dell’albo pretorio in rete, complete dei dati personali di un cittadino, alcune delibere e determinazioni dirigenziali, e tutto ciò oltre il periodo di 15 giorni previsto dall’articolo 124 del dlgs n.267/2000 (Testo unico per gli enti locali, Tuel).
La Suprema Corte di Cassazione avalla l’interpretazione secondo cui questo termine deve considerarsi ordinatorio e non perentorio. Pertanto, la disciplina privacy non va considerata come una spada di Damocle, che colpisce automaticamente e indiscriminatamente.
D’altra parte, però, la pronuncia stessa non deve essere strumentalizzata ed essere intesa come un lasciapassare per condotte lassiste: anche i termini ordinatori vanno rispettati; inoltre, il Garante potrà sempre contestare e sanzionare la violazione di altre disposizioni, come l’omessa correttezza nel trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 5 del regolamento Ue n. 2016/679 (Gdpr). 
Una persona ha mandato alcune segnalazioni al Garante a proposito della permanenza di propri dati sul sito dell’albo pretorio comunale e ciò oltre il 15° giorni dalla scadenza del termine di pubblicazione degli atti, come previsto dal Tuel. Il Garante ha aperto due procedimenti, ha ritenuto illecite le persistenti pubblicazioni e ha sanzionato il comune con due ingiunzioni di 20 mila euro cadauna.
Già nei procedimenti avanti al Garante era, però, emerso un particolare, che ha giocato il suo ruolo anche in Cassazione: i dati erano stati oggetto di specifiche consultazioni con meccanismi informatici (memorizzazione e reiterato utilizzo delle pagine web contenenti le informazioni), riconducibili con elevata probabilità al diretto interessato, motivato a controllare il persistere della pubblicazione. Ciò può portare alla deduzione che nessun altro aveva consultato i dati del cittadino coinvolto, eccettuato quest’ultimo, che li avrebbe monitorati per usarli nel contenzioso contro il comune. L’ente locale ha impugnato le due sanzioni e il tribunale le ha annullate. Il Garante ha, quindi, proposto ricorso contro la sentenza di primo grado, ma la Suprema Corte di Cassazione lo ha respinto. Peraltro, le motivazioni della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sono particolarmente rilevanti e devono essere attentamente studiate. Il primo profilo riguarda la regola per cui negli atti da pubblicare e diffondere sul web si devono riportare solo i dati necessari e pertinenti. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione rileva che, in astratto, la regola è corretta, ma aggiunge che per sanzionare eventuali abusi, il Garante deve specificamente indicare, caso per caso, quali dati pubblicati abbiano “ecceduto quelli necessari al perseguimento del fine istituzionale”: in mancanza l’ingiunzione del Garante è manchevole di elementi e può essere impugnata per carenza di motivazione.
Un secondo profilo riguarda la disciplina stessa della pubblicazione degli atti. Nel caso specifico, sottolinea la Suprema Corte di Cassazione, siamo di fronte a una pubblicazione necessaria per perseguire un fine istituzionale, fondata su una norma di legge (l’articolo 124 citato), la quale prevede un periodo di diffusione con un termine finale (15 giorni) non perentorio. A fronte di ciò, si deduce dalle motivazioni dell’ordinanza che gli atti sanzionatori del Garante non possono contare su un automatismo, per cui il decorso dei 15 giorni sarebbe sufficiente a far scattare le sanzioni privacy per la illecita diffusione di dati personali. Per la Suprema Corte di Cassazione non è così e il Garante non può nemmeno limitarsi ad affermare in astratto la eccessiva dilatazione del tempo della esposizione al pubblico dei dati personali.
Nel caso specifico, infatti, il Garante non ha preso posizione a riguardo del fatto che, probabilmente, non c’è stata nessuna esposizione “al pubblico” dei dati dell’interessato, visto che gli accessi alla pagina web in questione sono apparsi riconducibili al solo interessato (ipoteticamente mosso da intenti speculativi). Inoltre, il comune si è dimostrato collaborativo e, in buona fede, ha sollecitato interventi tecnici sul sito dell’albo on line per adeguarsi e mantenersi nel limite (non perentorio) dei 15 giorni. Sulla base di questi rilievi, la Suprema Corte di Cassazione ritiene, dunque, che non si deve considerare pregiudizialmente oppressiva la pubblica amministrazione. Peraltro, l’ente non deve considerare un tale orientamento come un implicito via libera a condotte inappropriate. Anche se non ci sono automatismi sanzionatori, il termine di 15 giorni della pubblicazione all’albo pretorio on line è previsto da una legge e va, quindi, rispettato, con la predisposizione di procedure tecniche di eliminazione degli atti dalle pagine web alla scadenza.
L’ente deve, inoltre, osservare regole di redazione sintetica degli atti senza inserimento di dati eccedenti e deve rispettare i divieti di diffusione previsti da leggi speciali quali, ad esempio gli articoli 7-bis e 26 del d.lgs. 33/2013 e l’articolo 2-septies del Codice della privacy (divieto di diffusione di dati sanitari, biometrici e genetici).


“Casella piena”, la Corte Suprema Sezioni unite decideranno se la notifica è valida

La Terza sezione civile, sentenza n. 32287/2023, ha rimesso la questione al massimo consesso dopo aver rilevato una “non conciliabile diversità di vedute” nella giurisprudenza di legittimità.
Sugli effetti della notifica telematica non completata per “casella piena” vi è una “non conciliabile diversità di vedute” all’interno della giurisprudenza di legittimità, per di più “senza che né l’una né l’altra impostazione paiano del tutto convincenti, sia sul piano del metodo, che del risultato ermeneutico”. Con la sentenza n. 32287/2023 la Terza sezione civile rimette alle Sezioni unite la soluzione di una delle questioni più spinose legate alla diffusione del processo telematico. La Corte Suprema di Cassazione, riunita nel suo massimo consesso, dovrà dunque dipanare una volta per tutte “la tematica delle condizioni di validità e delle conseguenze della notifica telematica non completata per casella piena”.
La vicenda parte dalla proposizione di un ricorso alla Corte Suprema di Cassazione valutato tardivo dalla parte controricorrente che deduce di aver notificato la sentenza d’appello (ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c.) con messaggio PEC restituito però dal sistema con la dicitura “… è stato rilevato un errore 5.2.2 – InfoCert S.p.A. – casella piena. Il messaggio è stato rifiutato dal sistema”. E poiché la mancata consegna è imputabile a negligenza del destinatario, la notifica deve intendersi regolarmente perfezionata, con la conseguenza che il ricorso è stato notificato fuori tempo massimo, oltre i tre mesi.
La Corte Suprema di Cassazione ricorda che sono due le principali linee giurisprudenziali. Secondo un primo indirizzo: “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi” (Cass., Sez. 3, ord., n. 3164/2020).
Sul tema si registra, però, un altro orientamento (Cass., Sez. 3, n. 40758/2021) così massimata: “In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorché per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”. Tale opzione ermeneutica, tuttavia, si fonda su una specifica caratteristica della fattispecie: ossia, quella della necessaria compresenza di un domicilio digitale della parte (sostanzialmente immanente, ex art. 16-sexies d.l. n. 179/2012) e di un domicilio elettivo fisico, o tradizionale.
Così però, prosegue, non si risolve il problema di fondo, ossia “se e quando la notifica telematica del messaggio PEC, non consegnato per “casella piena”, si perfezioni”. Serve infatti una regola generale che risolva tali questioni già all’interno della fattispecie “minima” (ossia, messaggio PEC non consegnato per “casella piena” del destinatario), a prescindere dall’elezione di domicilio fisico.
Del resto, anche l’orientamento “restrittivo” non si giova di un percorso lineare dovendo necessariamente confrontarsi col dato normativo vigente, e dunque l’articolo 3-bis, comma 3, della legge n. 53/1994, che specificamente cristallizza il momento di perfezionamento della notifica effettuata dall’avvocato in quello della generazione del messaggio di “avvenuta” consegna. Ebbene, prosegue la decisione, l’utilizzo del participio passato del verbo “avvenire”, “non autorizza altra interpretazione, già sul piano letterale, diversa da quella per cui, in caso di mancata generazione di un simile messaggio, non possa in realtà discutersi di effettivo perfezionamento della notifica”.
E allora la linea suggerita del collegio rimettente prende le mosse da quanto previsto in un ambito specifico, quello concorsuale, in cui “l’esigenza della conoscenza o della conoscibilità delle iniziative poste in essere dai propri creditori (o dal Pm) è assai rilevante”. In questi casi sia che la mancata consegna del messaggio PEC derivi da causa imputabile al destinatario, sia che derivi da causa a lui non imputabile, “non si ha mai il perfezionamento della notifica, occorrendo sempre una ulteriore iniziativa del notificante”.
E, aggiunge la Corte Suprema di Cassazione, non v’è alcuna ragione per relegare una simile impostazione al solo ambito concorsuale, perché il tema investe direttamente il diritto di difesa e al contraddittorio, costituzionalmente rilevanti per tutti i consociati ex articoli 24 e 101 Cost.
Del resto, prosegue, anche la riforma Cartabia, Dlgs n. 149/2022, che pure vede la notifica telematica degli atti processuali come sostanzialmente obbligatoria (salvi casi residuali) stabilisce che, quando la notifica degli atti da parte dell’avvocato a mezzo Pec non riesce per causa imputabile al destinatario vi siano soluzioni alternative. In caso di impresa o professionista l’inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’articolo 359 del codice della crisi d’impresa; mentre se il destinatario è una persona fisica le modalità ordinarie.
Una disposizione che conferma come l’ordinamento positivo non considera mai perfezionata una notifica di messaggio a mezzo Pec, effettuata da un avvocato ai sensi della legge n. 53/1994, qualora essa non sia andata a buon fine, benché per causa imputabile al destinatario.
Tutto questo, conclude l’ordinanza interlocutoria, renda evidente che, sul tema la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione non possa dirsi univoca sì di una questione di massima di particolare importanza, “involgendo i presupposti stessi del funzionamento delle modalità di notificazione coi nuovi e generalizzati strumenti tecnologici in ogni ambito processuale: ciò che ne individua quale sede naturale per la disamina le Sezioni Unite di questa Corte Suprema di Cassazione, come del resto pure ritenuto dal Procuratore Generale”.


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 15/11/2023) 21/11/2023, n. 32287

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 3733/2022 R.G. proposto da:

A.A., e B.B., elettivamente domiciliata in Roma, Via Lungotevere Prati n. 21, presso lo studio dell’avv. Luca Tedeschi, che li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

VARUGA IMMOBILIARE Sas di C.C. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Mariolino Conte, come da procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7091/2021, depositata il 28.10.2021;

udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 13.9.2023 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija;

udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto rimettersi la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine la declaratoria della sua inammissibilità;

udito l’avv. Luca Tedeschi per i ricorrenti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto del 27.1.2015, A.A. – in forza di sentenza n. 2639/08 emessa dal Tribunale di Cosenza, confermata in appello, con cui la Varuga Immobiliare Sas era stata condannata al pagamento a titolo risarcitorio, in favore del predetto e della propria moglie, B.B., della somma di Euro 20.000,00 oltre accessori – intimò precetto alla debitrice per il pagamento della residua somma di Euro 15.032,15, dopo aver detratto la somma di Euro 8.000,00 frattanto pagata dalla stessa debitrice in favore di entrambi i creditori. La società propose quindi opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 1, deducendo di aver versato ulteriori Euro 3.500,00, non decurtati dall’intimante, e negando la legittimazione attiva di questi in relazione al credito spettante alla predetta B.B., non sussistendo la solidarietà attiva, con conseguente errato calcolo degli interessi. In corso di causa, il A.A. rinunciò provvisoriamente (in attesa dei necessari accertamenti richiesti in sede penale) alla somma di Euro 3.500,00, dichiarando di accettare a titolo di acconto l’importo di Euro 4.886,67, offerto dall’intimata banco iudicis. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10.9.2018, nel contraddittorio col A.A. e con la B.B. (costituitasi con autonoma comparsa d’intervento volontario) accolse parzialmente l’opposizione, ritenendo l’illegittimità del precetto sia in relazione alla quota parte di interessi riferibili al credito provvisoriamente rinunciato, sia in relazione alla carente legittimazione attiva del A.A. circa il credito di pertinenza della propria moglie (non essendovi solidarietà attiva). Il Tribunale ritenne inoltre la portata estintiva del pagamento banco iudicis, occorrendo solo ricalcolare le spese intimate col precetto, sulla base del credito accertato. La sentenza venne gravata d’appello da A.A. e da B.B.; la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 28.10.2021, dichiarò la carenza di legittimazione ad impugnare di quest’ultima, confermando nel resto la prima decisione.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione A.A. e B.B., affidandosi a formali tre motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la Caruga Immobiliare s.a.s.; il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, ribadite nel corso dell’udienza pubblica, chiedendo la rimessione della trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine dichiararsi l’inammissibilità del ricorso per tardività.

1.1 – Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la Corte d’appello tenuto conto del riconoscimento implicito della solidarietà attiva tra concreditori: la società debitrice, infatti, a parziale estinzione del debito complessivo cui era tenuta, aveva già corrisposto titoli di credito cointestati ad entrambi i creditori, così dimostrando di ritenere sussistente la solidarietà attiva tra gli stessi. Di conseguenza, ne discende la piena legittimazione attiva del A.A. e quella alla proposizione dell’appello da parte della B.B..

1.2 – Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ossia l’intervento volontario della creditrice B.B. nel giudizio, da ciò derivando, in tesi, la dimostrazione del potere del A.A. di agire anche per il recupero del credito della propria moglie.

1.3 – Con il terzo motivo, infine, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine al calcolo degli interessi e alla decorrenza degli stessi.

2.1 – Il ricorso è stato notificato in data 24.1.2022, sul presupposto di operatività del termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1 (la sentenza essendo stata pubblicata il 28.10.2021) e quindi ampiamente entro il semestre.

Senonchè, la società controricorrente ha eccepito di aver notificato la sentenza d’appello, ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c., con messaggio PEC del 31.10.2021, restituito dal sistema con la dicitura “… è stato rilevato un errore 5.2.2 – InfoCert Spa – casella piena. Il messaggio è stato rifiutato dal sistema”. Da tanto, la controricorrente fa dunque discendere che – poichè la mancata consegna è imputabile a negligenza del destinatario, titolare della casella PEC – la notifica della sentenza deve intendersi perfezionata alla data del 31.10.2021, detta comunicazione equivalendo al messaggio di avvenuta consegna (si richiama, tra l’altro, l’insegnamento di Cass. n. 3164/2020 e di Cass. n. 11559/2021). Quale ulteriore conseguenza, nella prospettazione della controricorrente discende dunque che il ricorso sarebbe stato notificato allorquando il termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2, era già spirato.

3.1 – Ora, sul tema della notifica a mezzo PEC, restituita dal sistema con messaggio di mancata consegna per “casella piena”, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano, in effetti, orientamenti non proprio univoci.

Un primo – invocato dalla controricorrente – può ben essere rappresentato dal principio specificamente affermato, per la prima volta (ma v. infra), da Cass., Sez. 3, ord., n. 3164/2020, secondo cui “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”.

Nella motivazione della citata ordinanza, la Corte ha in proposito precisato che è possibile desumere una sostanziale equivalenza – ai fini che interessano – tra il disposto del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv. in L. n. 221 del 2012 (come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, conv. in L. n. 114 del 2014), dettato in tema di comunicazioni di cancelleria, e l’art. 149-bis c.p.c., comma 3, dettato in tema di notificazioni eseguite telematicamente dall’ufficiale giudiziario, laddove essa disposizione così recita: “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”.

In proposito, richiamando anche la regola dettata dal D.M. n. 40 del 2011, art. 20 (secondo cui “Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione”) ed evidenziando, dunque, che “costituisce onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di PEC”, la Corte conclude il ragionamento valorizzando l’espressione “rendere disponibile”, riportata nell’art. 149-bis cit.: essa, infatti, “individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario, (sicchè) si giustifica la conclusione che, qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato”.

3.2 – Detta impostazione è stata nella sua perentorietà ribadita, nella sostanza, da Cass., Sez. 3, ord., n. 24110/2021, ma a ben vedere era stata già anticipata – seppure su meno approfondite argomentazioni – dal pronunciamento di Cass., Sez. L, n. 12451/2018, con cui s’era ritenuta corretta la decisione di merito, che aveva rilevato l’inammissibilità dell’opposizione allo stato passivo, L. Fall., ex art. 98, in quanto tardivamente proposta rispetto alla data di comunicazione di cancelleria, effettuata a mezzo PEC ma rifiutata dal sistema causa “casella piena” del destinatario.

Va qui aggiunto, per completezza, che la pronuncia di Cass., Sez. L, n. 11559/2021, invocata dalla controricorrente, non è pertinente, mentre ulteriori decisioni di questa Corte (quali, ad esempio, Cass., Sez. 3, ord., n. 26810/2022 e Cass., Sez. 1, ord., n. 25586/2023) si sono limitate a condividere, in linea di massima, l’impostazione della citata Cass. n. 3164/2020, seppur senza farne diretta applicazione nel caso rispettivamente al vaglio, in quanto non necessaria ai fini della decisione.

4.1 – Sul tema si registra, però, un altro orientamento, inaugurato da Cass., Sez. 3, n. 40758/2021, così massimata: “In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorchè per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”.

Detta pronuncia muove dal presupposto per cui, anche in assenza di indicazione di “domicilio digitale” (ossia, ove manchi l’indicazione dell’indirizzo PEC cui si intendono ricevere notifiche e comunicazioni), è valida la notifica comunque effettuata all’indirizzo PEC del difensore risultante dal Reginde, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, conv. in L. n. 221 del 2012, e modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, convertito a sua volta in L. n. 114 del 2014. Ove però tanto non sia possibile per fatto imputabile al destinatario (come, appunto, nel caso di mancata consegna per saturazione della casella PEC), viene in rilievo il generale principio dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio, occorrendo dunque che – in un tempo ragionevolmente contenuto (di regola, la metà del termine concretamente applicabile – v. Cass., Sez. Un., n. 14594/2016) – il notificante proceda ad ulteriore notifica, nelle forme tradizionali, presso il domicilio fisico eventualmente eletto (e sempre che tanto sia avvenuto): ciò perchè deve escludersi “che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati” (così la citata pronuncia, in motivazione).

Più in dettaglio, la citata sentenza n. 40758/2021 ha anche richiamato, in motivazione, l’insegnamento di Cass. n. 29851/2019, secondo cui, in linea generale, il mancato perfezionamento della notifica per fatto imputabile al destinatario “impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 c.p.c. e segg., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, u.p. (…)”, in quanto detta ultima norma è riferibile alle sole notificazioni e comunicazioni effettuate dalla cancelleria.

In ogni caso, seguendo detta impostazione, assume carattere dirimente la circostanza che il destinatario abbia o meno eletto (anche) il domicilio fisico: ove tanto non sia avvenuto, non può “sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante” (così ancora l’arresto più volte citato). Nè può ritenersi condivisibile – conclude la Corte – l’insegnamento della già citata Cass. n. 3164/2020: anzitutto, per il carattere neutro della formulazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, con riguardo all’espressione “rendere disponibile” il documento informatico nella casella del destinatario; in secondo luogo, perchè il perfezionamento della notifica già al primo invio della PEC (non andato a buon fine per “casella piena” dello stesso destinatario), qualora quest’ultimo abbia eletto il domicilio fisico, presupporrebbe che la previsione legale del domicilio digitale abbia soppresso la correlativa facoltà processuale, in assenza di una specifica norma in questo senso; si aggiunge, ancora, che il disposto del D.M. n. 44 del 2011, art. 20, data la natura secondaria della fonte, non può giustificare la conclusione che in presenza di casella di PEC satura la notificazione si abbia per perfezionata; infine, conclude la Corte, neppure appare decisivo il disposto dell’art. 138 c.p.c., comma 2, che considera perfezionata la notifica, che sia stata tentata “a mani proprie”, in caso di rifiuto di riceverla da parte del destinatario: “la responsabilità, in ipotesi anche colposa, di lasciare la casella di p.e.c. satura, non può equivalere a un intenzionale rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa, tanto più attesa l’alternativa elezione di domicilio fisico utilizzabile”.

4.2 – Si inscrive in questo secondo solco la più recente Cass., Sez. T, ord., n. 2193/2023, anch’essa relativa ad un caso di rifiuto della notificazione per “casella piena” del destinatario; in detta pronuncia, peraltro, si richiama un risalente insegnamento (Cass. n. 4502/1996), secondo cui, in caso di invalida elezione di domicilio (fisico) da parte dell’appellato, il ricorso per cassazione può essere notificato presso la cancelleria del giudice a quo.

5.1 – Ciò posto, ritiene il Collegio come, in effetti, la ricognizione della giurisprudenza sopra succintamente richiamata – per quanto non sempre riferibile al medesimo ambito applicativo – riveli una non conciliabile diversità di vedute sul tema controverso; per di più senza che nè l’una nè l’altra impostazione paiano del tutto convincenti, sia sul piano del metodo, che del risultato ermeneutico.

5.2 – Infatti, seppur le esigenze sottese all’indirizzo più rigoroso (Cass. n. 3164/2020) meritino apprezzamento, perchè il rischio di escludere ogni valenza alla notifica PEC non consegnata al destinatario per “casella piena” può effettivamente disincentivare gli operatori dalla necessaria cura del proprio indirizzo PEC e degli specifici adempimenti connessi alla peculiarità del mezzo telematico ormai in via generalizzata imposto come modalità di interazione tra i soggetti tenuti a dotarsene, al contrario promuovendo comportamenti strumentali e improntati, in senso lato, almeno a grave negligenza e con sostanziale neutralizzazione o vanificazione dell’operatività dell’innovazione tecnologica introdotta, dall’altro occorre pure evidenziare che l’opposta opzione ermeneutica (Cass. n. 40758/2021) si fonda su una specifica caratteristica della fattispecie: ossia, quella della necessaria compresenza di un domicilio digitale della parte (sostanzialmente immanente, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-sexies) e di un domicilio elettivo fisico, o tradizionale.

Tuttavia, se in tale evenienza (ricorrente pure nel caso che occupa, come emerge dall’intestazione della sentenza qui impugnata) la configurabilità dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio può comunque giustificarsi, in forza della perdurante rilevanza da attribuire ad una simile facoltà processuale del difensore della parte destinataria della notifica (non elisa dalla disciplina sulla indefettibilità del domicilio digitale), tale opzione rivela però una non risolvibile aporia, sul piano logico, ove elezione di domicilio fisico non vi sia stata: in tal caso, infatti, si è affermato che nessuna altra condotta sia esigibile da parte del notificante (v. supra, par. 4.1).

5.3 – E’ opinione del Collegio che tanto, però, non risolva il problema di fondo, ossia se e quando la notifica telematica del messaggio PEC, non consegnato per “casella piena”, si perfezioni.

Infatti, a seguire fino in fondo la tesi di Cass. n. 40758/2021, dovrebbe allora inferirsene che una simile notifica debba ritenersi perfezionata o meno a seconda, rispettivamente, che non sia stato eletto domicilio fisico, o al contrario, che esso sia stato eletto dalla parte: soluzione che, all’evidenza, non si confronta con la necessità di rinvenire, nell’ordito normativo, una regola generale che risolva le suddette questioni già all’interno della fattispecie “minima” (ossia, messaggio PEC non consegnato per “casella piena” del destinatario), a prescindere dall’elezione di domicilio fisico.

Del resto, è evidente che, nel caso di “casella piena”, non avrebbe alcun senso logico, prim’ancora che giuridico, rinnovare la notifica presso il domicilio fisico (ove questo sia stato eletto), qualora si ritenesse la notifica comunque già perfezionata.

5.4 – Come già anticipato, neppure pare al Collegio pienamente convincente quell’orientamento che prima s’è definito più rigoroso.

Esso, infatti, si fonda su un’interpretazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, relativo alle notifiche telematiche dell’ufficiale giudiziario (supra riportata, par. 3.1), valorizzando una lettura restrittiva dell’espressione “rendere disponibile”, ossia negandone la sua valenza finalistica, e sostanzialmente ricorrendo all’applicazione analogica alla fattispecie della notifica ex lege n. 53 del 1994, senza però adeguatamente considerare che l’art. 3-bis, comma 3 di detta stessa Legge (nel testo applicabile ratione temporis), così recita: “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dal d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 2”.

Insomma, se presupposto dell’applicazione analogica è la sussistenza di una lacuna normativa, sì da dover ricorrere alla regola dettata per casi analoghi, pare al Collegio che detta lacuna non possa configurarsi, almeno con riferimento al caso della notifica diretta da parte dell’avvocato, perchè risulta evidente non solo che una specifica regola è espressamente dettata dalla legge (che prevede appunto come la notifica si perfezioni con la generazione della ricevuta di consegna), ma pure che essa non pare ammettere equipollenti.

La specifica regola suddetta, comunque, non risulta oggetto di approfondimento, nè di confronto, con quella dettata dall’art. 149-bis c.p.c., comma 3, da parte di quelle pronunce del c.d. orientamento rigoroso, che come s’è visto ritengono comunque perfezionata una notifica come quella qui in discorso, che prescinde dalla specifica conoscenza da parte del destinatario sia del contenuto, che anche dalla sua mera conoscibilità (non apparendo neppure applicabile la disciplina di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, relativa alle sole comunicazioni dell’ufficio). E varrà ricordare che, ancora di recente, si è ribadito che, ferma la scissione degli effetti tra i soggetti della notifica per posta elettronica, imprescindibile presupposto per la produzione di quelli sia per il notificante che per il destinatario è che la notifica si sia perfezionata pure nei confronti di quest’ultimo (Cass., ord., n. 28403/2023).

Insomma, l’orientamento in parola – in assenza di una chiara indicazione normativa in tal senso – giunge al risultato di ritenere perfezionata la notifica non fondata nè sulla conoscenza, nè sulla stessa conoscibilità della notifica da parte del destinatario, giacchè, come pure esattamente osservato dalla citata Cass. n. 40758/2021, la situazione di chi non riceve la notifica a mezzo PEC per “casella piena” non è necessariamente equiparabile a quella del rifiuto di ricevere la consegna dell’atto ai sensi dell’art. 138 c.p.c., comma 2. Il che, ad avviso del Collegio, lascia più di un dubbio sulla stessa compatibilità con l’art. 24 Cost., di un simile risultato interpretativo.

5.5.1 – Osserva tuttavia il Collegio che, al medesimo risultato ermeneutico di Cass. n. 3164/2020 potrebbe giungersi anche per altra via, attraverso un ragionamento diverso e di più ampio respiro, fondato sui principi di autoresponsabilità e di affidamento.

Invero, quanto al primo, non può negarsi che – in materia di osservanza di termini processuali – l’art. 153 c.p.c., comma 2, fissi un chiaro principio, ovvero che la parte “incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”. Ed è noto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, proprio in nome del principio di autoresponsabilità, opta per un concetto assai rigoroso di causa “non imputabile”, identificata in “un evento che presenti il carattere della assolutezza – e non già una impossibilità relativa, nè tantomeno una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione” (così, tra le altre, Cass., Sez. Un., n. 27773/2020, che richiama Cass., Sez. 1, n. 30512/2018, Rv. 651875-01, e Cass., Sez. L, n. 3482/2019).

Deve, dunque, trattarsi di “un fatto ostativo che risulti oggettivamente estraneo alla volontà della parte (che l’applicazione della rimessione chiede) e che dalla stessa non risulti governabile, neppure con “difficoltà”” (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 6-1, ord., n. 22342/2021, Rv. 661991-01).

5.5.2 – D’altra parte, l’introduzione generalizzata del mezzo telematico per l’esecuzione delle notifiche tra soggetti obbligati per legge a dotarsene, tutti definibili a vario titolo professionisti, potrebbe implicare un onere di diligente organizzazione, tale da consentirne il regolare funzionamento; senza tralasciare l’esigenza, a tale introduzione sottesa, di un generalizzato affidamento sulla diligenza professionale dei singoli operatori (con obblighi di comportamento in capo al professionista, quali quelli affermati per gli operatori sanitari da Cass. n. 589/1999 e, per gli avvocati ed a fini disciplinari per la rilevanza deontologica di tali obblighi, da Cass. Sez. Un. 6216/2005).

5.5.3 – Solo in tal modo potrebbe giungersi alla conclusione che, qualora la consegna del messaggio PEC non possa avere buon esito per “casella piena” del destinatario – in un’epoca di telematizzazione talmente spinta delle relazioni interindividuali, che c’è persino chi teorizza l’esistenza di “soggetti giuridici digitali” – questi dovrebbe imputare a se stesso la conseguenza dell’impossibilità della notificazione, salvo a dimostrare che l’evento sia dipeso da cause a lui non imputabili, quali ad es. le disfunzioni del sistema informatico, et similia: e ciò proprio in forza del principio di autoresponsabilità, se non pure dell’affidamento ingenerato nel soggetto notificante, specie se – come nel caso – esercente una professione protetta, così come il destinatario.

6.1 – Pur così “vestita” la soluzione dell’avvenuto perfezionamento di una notifica come quella che occupa, non può tuttavia tralasciarsi un elemento essenziale: anche una simile soluzione deve necessariamente confrontarsi col dato normativo vigente, e dunque con il già visto della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, che specificamente cristallizza il momento di perfezionamento della notifica effettuata dall’avvocato in quello della generazione del messaggio di “avvenuta” consegna. L’utilizzo del participio passato del verbo “avvenire”, ad avviso del Collegio, non autorizza altra interpretazione, già sul piano letterale, diversa da quella per cui, in caso di mancata generazione di un simile messaggio, non possa in realtà discutersi di effettivo perfezionamento della notifica.

6.2 – Del resto, va qui rilevato che, nel sistema vigente, non mancano elementi a sostegno della ulteriore tesi che – discostandosi sia da Cass. n. 3164/2020, sia da Cass. n. 40758/2021 – parrebbe più aderente al dato normativo.

Ci si riferisce, in particolare, alla L. Fall., art. 15, comma 3, come modificato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, lett. a), conv. in L. n. 221 del 2012. Con detta disposizione – con cui, se non si erra, s’è stabilita per la prima volta l’obbligatorietà della notifica di un atto introduttivo di un procedimento giudiziario a mezzo PEC, benchè a cura della cancelleria, per i procedimenti iniziati dopo il 31.12.2013 – è espressamente stabilito, al secondo, quarto e quinto periodo, che “Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti…. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso”.

Sulla stessa scia si pone la normativa oggi dettata, per lo stesso ambito, dal D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 40, commi 6, 7 ed 8, (CCII), in vigore dal 15.7.2022, ove si stabilisce ancor più esplicitamente che: “6. In caso di domanda proposta da un creditore, da coloro che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa o dal pubblico ministero, il ricorso e il decreto di convocazione devono essere notificati, a cura dell’ufficio, all’indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti. L’esito della comunicazione è trasmesso con modalità telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente.

7. Quando la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata di cui al comma 6, non risulta possibile o non ha esito positivo per causa imputabile al destinatario, il ricorso e il decreto sono notificati senza indugio, a cura della cancelleria, mediante il loro inserimento nell’area web riservata ai sensi dell’art. 359. La notificazione si ha per eseguita nel terzo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento.

8. Quando la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, per cause non imputabili al destinatario, la notifica, a cura del ricorrente, si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese o, per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, presso la residenza. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese ovvero presso la residenza per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, e si perfeziona nel momento del deposito stesso. Per le persone fisiche non obbligate a munirsi del domicilio digitale, del deposito è data notizia anche mediante affissione dell’avviso in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio e per raccomandata con avviso di ricevimento”. Insomma, in un ambito (quello concorsuale) in cui l’esigenza della conoscenza o dell’effettiva conoscibilità delle iniziative poste in essere dai propri creditori (o dal pubblico ministero) è intuitivamente assai rilevante, sia che la mancata consegna del messaggio PEC derivi da causa imputabile al destinatario, sia che derivi da causa a lui non imputabile, ciò non comporta mai il perfezionamento della notifica, sempre occorrendo una ulteriore iniziativa del notificante, quale che sia.

Ovviamente, non v’è alcuna ragione per relegare una simile impostazione al solo ambito concorsuale, perchè il tema investe direttamente il diritto di difesa e al contraddittorio, costituzionalmente rilevanti per tutti i consociati ex artt. 24 e 101 Cost..

6.3 – Di ciò può scorgersi conferma anche nella legislazione ancor più recente, specie a seguito del D.Lgs. n. 149 del 2022, che vede la notifica telematica degli atti processuali come ormai sostanzialmente obbligatoria, salvi casi residuali. Non è affatto casuale che la citata riforma, introducendo della L. n. 53 del 1994, art. 3-ter (da ultimo modificato dalla L. n. 87 del 2023), ha stabilito, al comma 2, che: “quando per causa imputabile al destinatario la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato non è possibile o non ha esito positivo:

a) se il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, l’avvocato esegue la notificazione mediante inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’art. 359 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dichiarando la sussistenza di uno dei presupposti per l’inserimento; la notificazione si ha per eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento;

b) se il destinatario è una persona fisica o un ente di diritto privato non tenuto all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese e ha eletto il domicilio digitale di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-quater, l’avvocato esegue la notificazione con le modalità ordinarie”.

Insomma, per quanto la disposizione non sia applicabile nel caso in esame ratione temporis, essa non fa che confermare quanto già prima prospettato, ossia che l’ordinamento positivo – come già in passato – non considera mai perfezionata una notifica di messaggio a mezzo PEC, effettuata da un avvocato ai sensi della L. n. 53 del 1994, qualora essa non sia andata a buon fine, benchè per causa imputabile al destinatario.

7.1 – Stima, pertanto, il Collegio che tutto quanto precede renda dunque evidente che, sul tema, nell’attualità, sia pure in esito al crescente approfondimento della materia indotto dall’evoluzione del sistema normativo, la giurisprudenza della Corte non possa dirsi univoca e che, comunque, la tematica delle condizioni di validità e delle conseguenze della notifica telematica non completata per “casella piena” del destinatario integra una questione di massima di particolare importanza, involgendo i presupposti stessi del funzionamento delle modalità di notificazione coi nuovi e generalizzati strumenti tecnologici in ogni ambito processuale: ciò che ne individua quale sede naturale per la disamina le Sezioni Unite di questa Corte, come del resto pure ritenuto dal Procuratore Generale.

8.1 – In definitiva, il Collegio reputa opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite.

P.Q.M.
la Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione il 13.9.2023 e a seguito di riconvocazione telematica, il 15 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 28/09/2023) 20/11/2023, n. 32165

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. AMBROSI Irene – Consigliere –

Dott. TASSONE Stefania – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28818/2020 R.G. proposto da:

MISTRAL GROUP Srl , elettivamente domiciliato in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA, 29, presso lo studio dell’avvocato FEDELI BARBANTINI LUIGI ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato MASCHERA GIORGIA ((Omissis));

– ricorrente –

contro

HUB SERVICE Srl , elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI, 265, presso lo studio dell’avvocato SARACENO ALBERTO ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato MARAGNA NICOLA ((Omissis));

– controricorrente –

avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 2315/2020 depositata il 11/09/2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/09/2023 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI.

Svolgimento del processo
Che:

1.-La società HUB Service Srl , già Bertrans Srl , ha ottenuto un decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, per il pagamento di prestazioni di trasporto (circa 137.000 Euro di credito), sulla base di fatture già emesse nei confronti della società MISTRAL Group Srl .

2.-Quest’ultima ha proposto opposizione, eccependo innanzitutto che il credito vantato dalla HUB Service Srl , ed oggetto del decreto ingiuntivo, già prima che l’ingiunzione venisse richiesta, era stato in realtà ceduto dalla stessa HUB ad altra società, la MCS Srl , con la quale poi è intervenuta compensazione, ossia quel credito è stato compensato con diverso ed opposto credito vantato dalla Mistral. Inoltre, ha eccepito la Mistral di essere a sua volta creditrice della HUB per crediti diversi.

3.-L’opposizione della Mistral è stata rigettata dal Tribunale di Padova, il quale, da un lato, ha osservato che l’atto di cessione del credito, comunicato a Mistral da HUB attraverso una Pec, era stato però da HUB disconosciuto e, a fronte di tale disconoscimento, non v’era stata istanza di verificazione da parte di Mistral, e dunque quel documento non poteva provare alcuna cessione. In secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che Mistral non aveva affatto fornito la prova della esistenza di suoi crediti da portare in compensazione. 3.1.- Questa decisione è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Venezia.

4.-Mistral Srl propone ricorso con sei motivi di censura, mentre HUB Service Srl si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione
che:

5.- Il primo motivo di ricorso prospetta una violazione dell’art. 214 c.p.c..

La questione è la seguente. Mistral, per contestare il credito della HUB, aveva depositato una pec, cui era allegata una cessione di quel credito, che in precedenza HUB aveva fatto ad altra società, la MSC Srl .

Ciò al fine di dimostrare che HUB faceva valere un credito che non aveva più in quanto ceduto ad altra società.

Tuttavia HUB ha disconosciuto il documento, allegato alla pec, contenente la cessione del credito, e, a fronte di tale disconoscimento, Mistral non ha chiesto la verificazione, con la conseguenza che il Tribunale non ha tenuto conto di quell’atto.

Secondo Mistral invece, quel documento, allegato alla pec, e privo di firma digitale, non andava disconosciuto, non poteva cioè essere oggetto di disconoscimento, ma soltanto di contestazione della sua conformità all’originale (art. 2712 c.c.). Ma, soprattutto, poichè quel documento era allegato ad una posta elettronica certificata (che dunque fa fede) è attratto al regime di quest’ultima, ossia è atto opponibile a terzi e vincibile solo con consulenza tecnica, volta a dimostrare che l’atto, dal punto di vista informatico, non proviene da chi ne certifica l’invio.

In sostanza, i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere valido il disconoscimento di quell’atto – la cessione del credito – e dunque avrebbero errato nel ritenere che, valido il disconoscimento, andasse richiesta la verificazione, che non v’è stata.

Il motivo è infondato.

Innanzitutto, la certificazione della pec, non comporta certificazione (rectius, paternità) del documento e dunque ammissione che quel documento è proprio.

I due atti hanno funzioni diverse: certificare una pec significa attestare che essa proviene dal mittente, che contiene quanto allegato e che è stata inviata a quell’ora; ma non significa attestare altresì la veridicità di ciò che è allegato. Del resto, la firma digitale è un mezzo per sottoscrivere un documento informatico, e farlo proprio, mentre la certificazione della posta elettronica è mezzo di attestare la provenienza di quel documento: la posta elettronica certificata dimostra l’invio e la ricezione del messaggio, ma non garantisce il contenuto del documento allegato.

Non si può, in altri termini, dalla circostanza che la posta elettronica è certificata, dedurre che anche il documento allegato lo è, o meglio, che quel documento è riferibile al suo autore, e che ha effettivamente quel contenuto. Si supponga il caso in cui con posta certificata si invia un documento dal falso contenuto, o proveniente da un terzo: si dovrebbe dire che, avendo il mittente certificato la posta (ossia attestato che proviene da lui e che è stata spedita a quell’ora) ha altresì attestato che il documento allegato è vero o che è riferibile ad un terzo.

Del resto, se come assume il ricorrente, la certificazione della posta elettronica si estende al documento allegato, non si vede perchè debba potersi contestare quest’ultimo solo per la mancata corrispondenza all’originale (2712 c.c.): la certificazione stessa vale a renderlo originale. La norma citata serve solo a far sì che le copie vengano verificate, ossia che, depositata in atti una copia, si dimostri che essa è conforme all’originale. Nel caso presente, non solo non risulta che il documento allegato alla PEC fosse una copia (altra cosa è il duplicato informatico), ma soprattutto, non può dirsi che fosse una copia per il fatto di non essere firmato digitalmente, non essendo la firma digitale (che può non esserci anche su un originale) a caratterizzare la copia o la riproduzione fotografica.

6.- Con il secondo motivo si prospetta un omesso esame di un fatto decisivo.

Sostiene la ricorrente che la decisione impugnata non ha dato alcun conto della prova in atti dell’invio della pec da parte della HUB Srl , che era documentata dal log, ossia dalla certificazione del gestore di posta.

Il motivo è inammissibile.

Che la pec fosse stata inviata da HUB Srl e ricevuta dalla Mistral, qui ricorrente, è circostanza pacifica, non messa in dubbio: piuttosto, i giudici di merito, correttamente, come si è detto prima, hanno escluso che dalla certificazione della pec potesse derivare un regime particolare agli allegati, escludendo la possibilità di un loro disconoscimento ad opera della controparte. Che è questione diversa.

7.- Il terzo motivo prospetta una insufficiente motivazione.

Secondo la ricorrente, anche a prescindere dal documento, allegato alla PEC, ed idoneo a dimostrare l’avvenuta cessione del credito, di tale cessione c’era prova diversa, e consisteva nella stessa dichiarazione contenuta nella PEC con cui HUB, mittente, dichiarava di voler trattenere la somma relativa al credito vantato e ceduto alla MCS, ed in particolare dalla esistenza di altre cessioni, nonchè di altri documenti, versati in atti, dai quali era agevole ricostruire non solo l’avvenuta cessione del credito, ma altresì l’esistenza di crediti Mistral da opporre in compensazione.

Il motivo, inteso come censura della motivazione, è infondato.

La Corte precisa che la decisione di primo grado è corretta “sol che si consideri che l’appellante non ha benchè minimamente indicato a quali altre evidenze di prova abbia inteso riferirsi” (p. 7). E dunque ha ritenuto non specifica la difesa del ricorrente in primo grado, ed altrettanto in appello.

8.- Il quarto motivo prospetta violazione dell’art. 115 c.p.c. La ricorrente ritiene errata la tesi dei giudici di appello circa la non contestazione, da parte sua, del credito vantato da HUB: ritiene invece Mistral di avere diffusamente contestato il credito opposto e che dunque è errata la decisione impugnata nel punto in cui si fonda sulla non contestazione.

Il motivo è inammissibile.

Infatti i giudici di appello non assumono che Mistral non ha contestato i fatti e che dunque tale comportamento assume valore probatorio, piuttosto ritengono che la difesa è stata generica, ossia fatta “senza offrire alcun elemento da cui desumere l’insussistenza della obbligazione ovvero un fatto estintivo”, che è giudizio sul difetto di allegazione e prova, non sulla non contestazione.

Aggiungono poi i giudici di merito che, anche a voler intendere la decisione di primo grado come basata sulla regola della non contestazione, ed anche dunque a volerla ritenere, perciò stesso errata, tuttavia “le evidenze documentali consentono di ritenere provate prestazioni di trasporto rese dalla Bertrans (vecchio nome della Hub, ndr) in favore dell’appellante”.

Quindi la ratio non è il rigetto dell’appello per non avere l’appellante contestato i fatti, ossia il credito (115 c.p.c.), ma è il rigetto dell’appello per non aver provato l’insussistenza di quel credito.

9.-Il quinto motivo prospetta un vizio di motivazione.

Sostiene la ricorrente di avere adeguatamente documentato l’esistenza di un suo credito da compensare con quello vantato da HUB, e ritiene che di tale documentazione i giudici di merito non hanno tenuto alcun conto: la documentazione era stata depositata nei termini dell’art. 183 c.p.c..

Il motivo è inammissibile.

Si chiede di censurare l’apprezzamento di prove documentali che è riservato al giudice di merito, e di cui peraltro non si conosce il contenuto.

10.- Il sesto motivo denuncia omessa motivazione sul rigetto delle istanze istruttorie.

Ritiene la ricorrente di avere chiesto dei mezzi di prova con le note di cui all’art. 183 c.p.c. e che, a fronte di tale richiesta, non v’è stata alcuna decisione da parte del giudice di merito. Ribadisce che, per contro, si trattava di prove ammissibili e rilevanti, su cui avrebbe dovuto esserci motivazione.

Il motivo è inammissibile.

Si censura qui una decisione di primo grado, che invece andava censurata in quella fase, e non si chiarisce se la questione del rigetto delle prove in primo grado sia stato oggetto di specifico appello, ed in che termini.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2023


Cartella recapitata con raccomandata, nessun vizio di notifica

L’agente della riscossione può avvalersi direttamente del servizio postale rappresentando tale procedura una forma alternativa alle altre previste, che si perfeziona con la consegna del plico.
È valida la notifica della cartella esattoriale eseguita mediante invio diretto di raccomandata da parte del concessionario della riscossione tramite il servizio postale.
È quanto ha stabilito, con la sentenza n. 27007 del 21 settembre 2023, la quinta sezione della Corte Suprema di Cassazione, accogliendo le tesi dell’Amministrazione finanziaria e cancellando la decisione dei giudici tributari di secondo grado.
Con tale sentenza la Corte Suprema di Cassazione ha, chiarito, infatti, che la seconda parte del primo comma dell’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso e all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione della raccomandata da parte del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto riscossore legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella.
Un concessionario della riscossione, incaricato dall’ente impositore, notificava a un contribuente diverse cartelle di pagamento, con contestuali intimazioni di pagamento. Proprio queste ultime erano oggetto di impugnazione giudiziale da parte del contribuente, che sosteneva l’irregolarità della notifica in quanto avvenuta mediante servizio postale a opera di un soggetto non abilitato allo scopo.
Il giudizio di merito vedeva soccombere l’Amministrazione finanziaria, con il contribuente che riusciva a far dichiarare nulla la notificazione delle intimazioni di pagamento a lui dirette.
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, infatti, accoglieva l’appello del contribuente sul rilievo che le cartelle di pagamento, poste a fondamento delle intimazioni di pagamento impugnate, erano state notificate mediante servizio postale in violazione del Dpr n. 602/1973, articolo 26, in quanto tale notifica era avvenuta dal concessionario tramite ufficiale postale, soggetto non abilitato. Per tale ragione la notifica doveva considerarsi inesistente con l’aggiunta, sempre a giudizio dei magistrati pugliesi di merito, che il concessionario non aveva dato prova dell’avvenuta emissione e notifica delle cartelle, non essendo sufficiente né il deposito della cartolina di ricevimento della raccomandata né la notificazione delle successive intimazioni di pagamento e né le fotocopie degli estratti di ruolo.
Avverso tale determinazione dei giudici tributari, il concessionario della riscossione, Equitalia Sud, decideva di proporre ricorso di ultima istanza dinanzi la suprema Corte di cassazione.
Si ricorda come il comma 1 dell’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 preveda espressamente che “la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale; in tal caso, quando ai fini del perfezionamento della notifica sono necessarie più formalità, le stesse possono essere compiute, in un periodo di tempo non superiore a trenta giorni, da soggetti diversi tra quelli sopra indicati ciascuno dei quali certifica l’attività svolta mediante relazione datata e sottoscritta. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda”.
Ecco, dunque, che la seconda parte della norma regola proprio la notifica mediante raccomandata affidata al servizio postale per conto del concessionario/agente della riscossione. Il quinto comma della medesima disposizione dispone, poi, che il concessionario è tenuto a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento e ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione.
La Corte Suprema di Cassazione chiamata a pronunciarsi definitivamente sulla questione, ha accolto il ricorso avanzato dall’amministrazione finanziaria, cassando la decisione dei giudici tributari di merito.
La Corte Suprema di Cassazione ha, infatti, ritenuto che ben può il concessionario avvalersi direttamente del servizio postale per la notifica degli atti impositivi, rappresentando tale notifica una forma alternativa alle altre normativamente previste. Inoltre, a fronte dell’eccezione della parte di non aver ricevuto le cartelle, ha ritenuto che le copie conformi degli originali delle ricevute di ritorno attestanti la consegna delle raccomandate siano pienamente sufficienti a fornire la prova richiesta all’Amministrazione.
Secondo la Corte Suprema di Cassazione, dunque, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del primo comma dell’articolo 26 sopra citato prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso e all’ufficiale postale, e la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella.
L’indirizzo seguito dalla decisione sembra, per altro, univoco nella giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione come confermato, tra le molte, dalla sentenza n. 10037/2019, secondo la quale la notificazione a mezzo posta della cartella esattoriale da parte del concessionario/agente della riscossione eseguita mediante raccomandata con avviso di ricevimento è pienamente valida e si conclude positivamente con la consegna del plico al domicilio del destinatario, senza alcun altro adempimento a opera dell’ufficiale postale se non quello di assicurarsi che la persona, individuata come legittimata alla ricezione, apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente.
Ancora la Corte Suprema di Cassazione in tema di prova dell’avvenuta notificazione della cartella esattoriale, ha ricordato come con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 8201/2023 è stato ribadito che la prova del perfezionamento del procedimento di notifica e della relativa data è assolta mediante la produzione della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento, recanti il numero identificativo della cartella, non essendo necessaria la produzione in giudizio della copia o dell’originale della cartella stessa.
In conclusione, la Corte Suprema di Cassazione, accogliendo le tesi dell’Amministrazione e reputando del tutto errata l’affermazione dei giudici tributari circa l’inesistenza della notifica della cartella fondata sul rilievo che il concessionario non poteva all’uopo effettuarla mediante il servizio postale, ha annullato definitivamente la decisione della Corte di giustizia tributaria di secondo grado, dando ragione al Fisco.


Atto notificato ex art. 140 c.p.c. alla residenza anagrafica del destinatario: non sempre è valida

Con la sentenza n. 27540/2023, pubblicata il 28 settembre 2023, la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata sui presupposti affinché possa essere considerata valida la notifica di un atto eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., per compiuta giacenza, all’indirizzo di residenza del destinatario risultante dal certificato anagrafico.
La vicenda approdata all’esame dei giudici di legittimità parte dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. promosso da un avvocato per ottenere la condanna di una sua ex cliente al pagamento dei compensi professionali maturati a seguito dell’attività di rappresentanza e assistenza legale svolti in suo favore.
Il ricorso e il provvedimento di fissazione dell’udienza venivano notificati ai sensi dell’art. 140 c.p.c. per compiuta giacenza presso la residenza anagrafica della convenuta.
Nella contumacia di quest’ultima, il Tribunale accoglieva il ricorso e la condannava al pagamento in favore del legale della somma richiesta a titolo di compensi professionali.
Contro la decisione del Tribunale, la convenuta proponeva ricorso straordinario per Cassazione deducendo la nullità della notificazione del ricorso introduttivo ex art. 702 bis c.p.c. e la nullità della notificazione dell’ordinanza, in forma esecutiva, emessa dal Tribunale, ai fini dell’idoneità a far decorrere il termine breve per la proposizione del ricorso in quanto eseguita presso la sua residenza anagrafica in assenza del requisito della temporanea/precaria assenza, senza tener conto della residenza effettiva e/o del domicilio effettivo della stessa resistente.
La ricorrente in Cassazione, nel proporre il gravame, evidenziava che alla data del mancato ritiro entro il decimo giorno del ricorso introduttivo instaurato dal legale innanzi al Tribunale non aveva la residenza effettiva nel luogo in cui era avvenuta la notifica e che, svolgendo l’attività di magistrato era in carica presso la Corte di Appello di una città diversa. Di conseguenza, secondo la ricorrente la notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. nel luogo della residenza anagrafica doveva essere dichiarata nulla, come l’intero procedimento e l’ordinanza impugnata.
Il motivo del ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte Suprema di Cassazione la quale nell’accoglierlo con rinvio al Tribunale, in diversa composizione, ha ribadito il costante orientamento degli stessi giudici di legittimità riguardo alla notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. presso la residenza anagrafica del destinatario dell’atto ma dimorante stabilmente altrove.
Secondo il suddetto orientamento, la Corte Suprema di Cassazione ha evidenziato:
1) la notifica deve ritenersi correttamente eseguita solo qualora non possa addebitarsi al notificante l’inosservanza dell’obbligo di ordinaria diligenza nell’accertamento dell’effettiva residenza del destinatario della stessa;
2) la notifica eseguita, ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., non è valida anche se effettuata nel luogo di residenza del destinatario risultante dai registri anagrafici, nell’ipotesi in cui questi si sia trasferito altrove e il notificante ne abbia conosciuto, ovvero con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto conoscerne, l’effettiva residenza, dimora o domicilio, dove è tenuto ad effettuare la notifica stessa, in osservanza dell’art. 139 cod. proc. civ.
3) la circostanza secondo la quale nell’indirizzo risultante dai registri anagrafici si trovi la residenza effettiva del destinatario costituisce mera presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova, in quanto non coperta dalla fidefacenza della relata;
4) la prova della mancata conoscenza del processo a causa della nullità della notifica della citazione può essere fornita, mediante l’impiego di presunzioni.
Nel caso esaminato, hanno concluso la nullità della notifica della citazione quanto la prova della mancata conoscenza del processo a causa di ciò, si traggono dal fatto che l’effettiva residenza, dimora o domicilio dell’ex cliente del legale in luogo diverso dalla residenza anagrafica era ed è agevolmente ritraibile dall’attività di magistrato svolta dalla medesima in altra sede, circostanza, questa, di cui il legale era a perfetta conoscenza, come dallo stesso dichiarato nell’atto introduttivo del giudizio.
Novembre 2023


Cass. civ. Sez. Lavoro, Sent., (Ud. 14/9/2023) n. 30082

REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ROBERTO BELLÈ Presidente
ANDREA ZULIANI Consigliere-Rel.
NICOLA DE MARINIS Consigliere
MARIA LAVINIA BUCONI Consigliere
ANTONELLA F. SARRACINO Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27781/2018 R.G. proposto da Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege
– ricorrente –
contro
e rappresentati e difesi dall’Avv. e domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti –
– intimati –
avverso la sentenza n. 209/2018 della Corte d’Appello di Palermo, depositata il 20/3/2018;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/9/2023 dal Consigliere Andrea Zuliani.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Palermo ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca contro la sentenza con cui il Tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, aveva accolto le domande di cinque impiegati amministrativi (personale volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato a seguito dell’utile collocazione nella graduatoria di prima fascia, con il riconoscimento dei relativi diritti economici. La Corte territoriale non ha affrontato il merito della controversia, ritenendo fondata l’eccezione pregiudiziale di inesistenza della notificazione dell’atto d’appello sollevata da tre degli appellati (gli altri due essendo rimasti contumaci in appello).
Contro tale decisione in rito, il Ministero ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
e si sono difesi con controricorso, mentre gli altri lavoratori sono rimasti intimati. I controricorrenti hanno altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con i primi due motivi di ricorso il Ministero denuncia:
1.1. «violazione e falsa applicazione del d. P. R. 11.2.2015 n. 68, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.»;
1.2. «violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
1.3. Il ricorrente contesta alla Corte territoriale di non avere considerato il dovere del destinatario della notificazione di segnalare al notificante eventuali anomalie nell’invio degli atti mediante posta elettronica certificata (PEC) e di avere trattato come inesistenza un’ipotesi «di mera irregolarità o, al più, di nullità della notificazione».
2. Tali motivi sono parzialmente fondati, nei termini di seguito esposti.
2.1. È opportuno premettere una precisa descrizione della fattispecie, per quanto di interesse ai fini della decisione. Il ricorso in appello venne depositato in cancelleria e, quindi, integrato con il decreto di fissazione dell’udienza, come previsto dal rito del lavoro. L’Avvocatura dello Stato provvide a trasmettere a mezzo PEC al difensore comune dei cinque ricorrenti in primo grado un messaggio contenente la menzione degli atti notificati («appello depositato», «decreto fissazione udienza», «relata») e apparentemente allegati al messaggio.
Tuttavia, dalla indicata dimensione degli atti («1 bytes»), la Corte d’Appello ha ritenuto provata l’allegazione dei difensori dei lavoratori (costituitisi in appello per tre soltanto di loro, stando a quanto afferma la sentenza impugnata) che si trattasse di file del tutto vuoti. Sulla base di tale accertamento di fatto, il giudice ha ritenuto inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, «per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare».
2.2. La qualificazione del vizio della notificazione come inesistenza è stata decisiva per la dichiarazione della improcedibilità dell’appello, perché sono state di conseguenza rifiutate sia l’ipotesi della sanatoria della nullità per effetto della costituzione degli appellati (con riguardo a quelli di loro che si erano costituiti), sia l’ipotesi di concedere all’appellante un termine per rinnovare la notificazione, eventualmente previa rimessione in termini, che era stata infatti richiesta, sia pure in via subordinata. Anche nel rito del lavoro, infatti, è stato da tempo superato l’orientamento che consentiva al giudice di concedere, ai sensi dell’art. 421, comma 1, c.p.c., un termine per procedere alla notificazione non effettuata del ricorso tempestivamente depositato in cancelleria. La concessione del termine è ora consentita solo in caso di notificazione nulla, non anche nel caso di notificazione omessa o inesistente (v. Cass. S.U. n. 20604/2008 e molte altre successive conformi).
2.3. Ciò posto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il nonatto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (Cass. S.U. n. 14916/2016 ed altre conformi). Nel caso di specie, il procedimento di trasmissione degli atti risulta perfettamente conforme al diritto. Il mittente e il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti. Viene invece in rilievo l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.
2.4. Con riferimento alle anomalie che rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio di notificazione a mezzo PEC, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il destinatario ha il dovere di «informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente» (Cass. n. 25819/2017; conf. Cass. nn. 21560/2019; 4624/2020).
La Corte d’Appello, così come la difesa dei controricorrenti, ha sottolineato che il mittente avrebbe potuto facilmente accorgersi dell’anomalia, proprio perché il sistema indicava le dimensioni inverosimili degli allegati («1 bytes»), il che escluderebbe quella incolpevolezza del notificante che, secondo la giurisprudenza di legittimità, sembrerebbe un presupposto implicito del dovere di collaborazione del destinatario.
Ma non è il tema della colpevolezza o meno a governare l’accaduto, in quanto ciò che conta è se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello.
2.5. In proposito assume decisiva rilevanza il fatto che il messaggio PEC trasmesso al difensore degli appellati (e riportato per esteso nel ricorso per cassazione) indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»). Ne deriva che la consegna del messaggio, seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione.
Ciò esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.
Del resto, le S.U. hanno ritenuto – nel caso assimilabile dell’atto notificato solo nelle pagine dispari, con conseguente impossibilità per il destinatario di comprenderne il contenuto – che, a fronte di un originale ritualmente depositato e completo, il vizio è della notificazione, e non dell’atto notificato, integrando una nullità come tale «sanabile con efficacia ex tunc mediante la nuova notifica di una copia integrale del ricorso, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di Cassazione (qui, Corte d’Appello, n.d.r.) ovvero per effetto della costituzione dell’intimato (qui, appellati, n.d.r.), salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese» (Cass. S.U. n. 18121/2016).
Principio che, una volta adattato al caso della notifica a mezzo Pec contenente un allegato inconsistente e dunque tale da impedire la comprensione alla controparte, porta inevitabilmente alle medesime conclusioni.
2.6. Esclusa l’inesistenza della notificazione, la mera nullità della stessa avrebbe dunque imposto al giudice d’appello di fissare un termine perentorio per la rinnovazione che «impedisce ogni decadenza», perlomeno nei confronti degli appellati contumaci, secondo la regola generale contenuta nell’art. 291 c.p.c., che – a differenza della rimessione in termini (art. 153, comma 2, c.p.c.) – prescinde da qualsiasi valutazione sulla incolpevolezza del notificante (per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c. anche al rito di lavoro e, in particolare, all’appello proposto secondo il rito di lavoro, v., per tutte, Cass, n. 8125/2013).
2.7. Ma anche con riguardo agli appellati costituiti, rimane la valutazione essenziale che l’appello non avrebbe dovuto essere dichiarato improcedibile, dovendo, a tutto concedere, la Corte d’Appello dare le opportune disposizioni (ad es., rinvio in favore degli appellati che si assumessero lesi anche nei termini a difesa) per la prosecuzione del processo nel rispetto del principio del contraddittorio.
2.8. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Palermo, perché proceda alla trattazione del processo – è infatti evidente che con la regolare riassunzione in sede di rinvio ogni vizio verso gli appellati già costituiti in secondo grado sarà sanato – e decida anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. La Corte territoriale dovrà attenersi al seguente principio di diritto:
«Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».
3. È appena il caso di aggiungere che non sono d’ostacolo all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso le eccezioni preliminari in rito sollevate nel controricorso. Quanto alla prima («inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.»), essa non coglie l’oggetto e il significato dell’impugnazione, che non è volta a contestare il consolidato orientamento secondo cui non si può dare luogo alla rinnovazione della notificazione inesistente, ma contesta il presupposto dell’inesistenza, sostenendo (con buon fondamento, per come si è visto) che la notificazione era soltanto nulla.
Anche la seconda eccezione («inammissibilità ed improcedibilità – violazione degli artt. 358 c.p.c., 387 c.p.c. e 324 c.p.c.; violazione dell’art. 360 c.p.c. carenza di interesse») ha il vizio di dare per acquisito il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado per la (definitiva) improcedibilità dell’appello, mentre è proprio quest’ultima a essere contestata con il ricorso per cassazione.
Infine, la terza eccezione («inammissibilità del ricorso; violazione dell’art. 360 e 360-bis c.p.c.») non considera che quello richiesto dal ricorrente non è un riesame di fatti sostanziali, il cui accertamento è riservato al giudice del merito, ma un riesame di fatti processuali, debitamente veicolati dai motivi di ricorso e come tali da verificare anche in sede di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).
4. Il terzo motivo di ricorso denuncia «violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo del raggiungimento dello scopo, dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
4.1. Premesso che è a questo punto irrilevante l’assunto del Ministero secondo cui tutti gli appellati si sarebbero costituiti in secondo grado (assunto che desume solo dal deposito di una memoria in corso di causa asseritamente depositata «per conto di tutti gli appellati»), il motivo può essere assorbito, in quanto anche una costituzione in ipotesi finalizzata a far rilevare un difetto notificatorio non potrebbe mai considerarsi in sé sanante, dovendosi – nel caso di nullità della notificazione – concedere i debiti termini a difesa, sicché quanto detto sui primi due motivi già esaurisce in ogni caso il tema processuale.
5. Anche il quarto motivo, che denuncia «omessa pronuncia sull’istanza di rimessione in termini e di assegnazione di termine per la rinotificazione in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c.», può essere assorbito, in quanto la necessità di attivazione dei meccanismi di sanatoria che consegue all’accoglimento dei primi due motivi rende superfluo ragionare su una remissione in termini.
6. Infine, il quinto motivo di ricorso denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, in relazione all’art. 436 c.p.c.».
6.1. Il motivo, che lamenta il mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della produzione documentale con cui gli appellati costituiti hanno provato l’anomalia della trasmissione a mezzo PEC, deve intendersi parimenti assorbito, per mancanza di interesse alla decisione della parte ricorrente, una volta accolti i primi due motivi di ricorso, nei termini sopra esposti.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14.9.2023.
Il Presidente
Roberto BELLÈ


Pec: se l’allegato è illeggibile, la notifica è nulla

L’ illeggibilità del file allegato alla Pec non rende inesistente la notifica, se per il resto l’invio è regolare. L’importante chiarimento arriva dalla Sezione lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con sentenza n. 30082/2023, che ha così accolto, con rinvio, il ricorso del ministero dell’Istruzione nei confronti di una decisione della Corte d’Appello di Palermo che aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto contro la decisione del tribunale di accoglimento delle domande di cinque impiegati amministrativi (personale A.T.A.) volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato.

Per il giudice di secondo grado, infatti, dalla dimensione degli atti allegati – «1 byte» – non si poteva che desumere, come sostenuto dagli appellati, che si trattasse di file del tutto vuoti e ha così ritenuto “inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare”.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione lavoro, per prima cosa ricorda che le Sezioni Unite hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il non-atto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (Cass. n. 14916/2016).

Nel caso specifico il procedimento di trasmissione degli atti “risulta perfettamente conforme al diritto”. In quanto “sia il mittente che il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti”. Ciò che viene in rilievo invece è l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.

Ebbene, in un simile caso, quando cioè delle anomalie rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio, il destinatario ha il «dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente». Né vale l’obiezione per cui il mittente avrebbe facilmente potuto accorgersi dell’anomalia, perché qui non conta la “colpevolezza o meno” quanto piuttosto “se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello”.

Prosegue il ragionamento, un ruolo decisivo è il fatto che il messaggio PEC “indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»)”. Ne deriva che la consegna del messaggio, “seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione”.

Ciò, dunque, esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.

In definitiva per la Corte Suprema di Cassazione, Sezione lavoro, va affermato il seguente principio di diritto: «Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».