Regole tecniche per la generazione, apposizione e verifica della firma elettronica avanzata

Il codice dell’amministrazione digitale si incrementa ufficialmente, quello della firma digitale, come da dpcm 22 febbraio 2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 117 del 21 maggio (qui il testo completo del decreto).

Il decreto fissa le regole tecniche per la generazione, apposizione e verifica della firma elettronica avanzata, qualificata e digitale, per la validazione temporale, nonché per lo svolgimento delle attività dei certificatori qualificati. Le regole tecniche fissate nel ponderoso provvedimento definiscono le caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità del documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale.

Nell’ambito della firma elettronica avanzata, vengono stabilite anche le regole tecniche per la firma grafometrica, ultimo passaggio per una completa dematerializzazione, che consente la sottoscrizione in digitale anche a un pubblico non tecnologico perché riproduce esattamente il processo tradizionale. Inoltre oggi un documento che nasce informatico e necessita della sottoscrizione autografa, deve essere stampato e nella migliore delle ipotesi scannerizzato e archiviato.

Tra le disposizioni, spicca quella secondo la quale le liste dei certificati revocati e sospesi sono rese pubbliche e i certificati qualificati, su richiesta del titolare, possono essere accessibili alla consultazione del pubblico nonché comunicati a terzi, al fine di verificare la firma digitale, esclusivamente nei casi consentiti dal titolare del certificato e nel rispetto del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Le liste pubblicate dei certificati revocati e sospesi, nonché i certificati qualificati eventualmente resi accessibili alla consultazione del pubblico, sono utilizzabili da chi li consulta per le sole finalità di applicazione delle norme che disciplinano la verifica e la validità delle firme elettroniche qualificate e digitali.


Valida la notifica effettuata presso la dimora di fatto anche se diversa da quella anagrafica

La notifica della sanzione amministrativa – e dell’atto giudiziario in genere – deve avvenire presso la dimora di fatto del destinatario. Lo ha confermato la Suprema Corte nella sentenza al link sotto riportato, cassando con rinvio la decisione del giudice di merito.
In generale dunque la notifica dell’atto, eseguita presso indirizzo diverso da quello di residenza, deve considerarsi valida: “le rilevanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, il quale è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le attese risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori di fatto in via abituale”. La Cassazione adotta dunque il criterio della dimora effettiva, ancorata alla relazione di fatto che si instaura tra questa e il destinatario del provvedimento, a nulla rilevando la circostanza che la residenza o il domicilio anagrafico potrebbe essere differente.
Inoltre, la parte interessata può produrre in giudizio ogni elemento probatorio che ritenga opportuno e necessario al fine di provare questa circostanza di fatto. Infatti “le risultanze anagrafiche possono essere superate da qualsiasi fonte di convincimento, come ad es. la corrispondenza intercorsa tra le parti prima del giudizio, ovvero il comportamento della persona che accetta di ricevere l’atto per conto del destinatario”.

Leggi il testo della sentenza: Cass. civ. Sez. III, Sent., 14-05-2013, n. 11550


Il dipendente pubblico, che utilizzi il telefono dell’ufficio per chiamate personali, commette il reato di “peculato d’uso”!

Può incappare nel reato di “peculato d’uso” il dipendente pubblico che faccia uso personale del telefono dell’ufficio. Lo ha evidenziato, di recente, la Corte di Cassazione con una sentenza che molti dipendenti pubblici farebbero bene a tenere in conto. (Cass. sez. unite, sent. n. 19054/2013)

Il peculato d’uso, a differenza del peculato ordinario, si configura quando il soggetto fa uso solo momentaneo della cosa appartenente alla Pubblica amministrazione e la restituisce immediatamente dopo. (art. 314 cod. pen.)

Secondo i giudici, affinché il reato sussista, è necessario che le telefonate abbiano un valore economicamente apprezzabile. Non sono, quindi, condannate le telefonate brevi, anche se solo “ricreative” e non dettate da ragioni d’urgenza.

Per misurare la rilevanza delle telefonate ai fini della condannabilità del dipendente si deve fare riferimento al tempo perso al telefono e sottratto al lavoro, e al danno economico dovuto al costo delle chiamate. Quest’ultimo si misura diversamente a seconda del tipo di contratto di utenza telefonica. Il costo sarà maggiore se il contratto prevede una tariffa a consumo e più lieve nel caso di una forfait.

Il valore economico delle telefonate è sicuramente rilevante dal punto di vista penale quando il dipendente usa di continuo il telefono dell’ufficio: più telefonate consecutive possono essere considerate come un’unica lunga e dispendiosa chiamata!

In passatola Cassazione riteneva che le telefonate prolungate fatte dal telefono dell’ufficio integrassero il reato, più grave, del “peculato ordinario”, che avviene quando il colpevole si appropria della cosa della Pubblica Amministrazione di cui dispone per ragioni di lavoro e non la restituisce. L’appropriazione avrebbe riguardato non il telefono in sé, ma “le energie costituite da impulsi elettronici” di proprietà della Pubblica Amministrazione. ( vedasi Cass. sent. n. 3883/2002)

Con il recente orientamento, invece, questa interpretazione viene superata.

Secondo i giudici, infatti, l’abuso di telefonate dall’ufficio può configurare solo peculato d’uso che presuppone un uso solo momentaneo della cosa pubblica.


D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33

Il decreto legislativo n. 33 del 14 marzo 2013, recante “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 80 del 5 aprile 2013, è entrato in vigore il 20 aprile 2013.

Composto da 53 articoli – raggruppati in sette Capi – e da un allegato, il provvedimento (approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri del 15 febbraio scorso) attua i commi 35 e 36 della Legge anticorruzione (Legge 6 novembre 2012 n. 190), riordinando tutte le norme che riguardano gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle Pubbliche amministrazioni e introducendo delle sanzioni per il mancato rispetto dei vincoli.

Trasparenza su piani regolatori e varianti urbanistiche

È previsto l’obbligo di pubblicità dei dati e documenti in possesso delle Pubbliche amministrazioni, tra i quali gli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche.

Trasparenza sugli appalti

Per quanto riguarda le gare di lavori, servizi e forniture, il decreto introduce una serie di obblighi al fine di aumentare il livello di trasparenza. Viene introdotto in particolare l’obbligo per tutte le stazioni appaltanti di pubblicare sul loro sito internet, per ciascun contratto comunque assegnato il bando, la determina di aggiudicazione definitiva, la struttura proponente, l’oggetto del bando e dell’eventuale delibera a contrarre, l’importo dell’aggiudicazione, l’aggiudicatario, la base d’asta, la procedura e la modalità di selezione del contraente, il numero di offerenti che hanno partecipato al procedimento, i tempi di completamento dell’opera, l’importo delle somme liquidate, le modifiche contrattuali e le decisioni di ritiro e recesso dei contratti.

Inoltre, le stazioni appaltanti devono pubblicare anche i dati relativi ai contratti di importo inferiore ai 20.000 euro e, solo per i lavori, il verbale di consegna dei lavori, il certificato di ultimazione dei lavori e il conto finale dei lavori.

Tutte le informazioni suddette vanno raccolte, entro il 31 gennaio, in tabelle riassuntive liberamente fruibili secondo un formato che permetta a chiunque di analizzare e rielaborare i dati anche a fini statistici.

Le informazioni vanno trasmesse all’AVCP

Il provvedimento prevede anche l’obbligo di trasmissione all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di tutte le informazioni pubblicate sui siti internet delle stazioni appaltanti.

Sanzioni

Entro il 30 aprile di ogni anno, l’Autorità comunicherà alla Corte dei Conti la lista delle amministrazioni che non si sono conformate agli obblighi. Sono previste sanzioni fino a 51.545 euro.

Pubblicazione dei tempi e costi delle opere pubbliche completate

Le PA sono tenute a pubblicare, secondo modelli standard indicati dall’Avcp, le informazioni relative ai tempi, ai costi unitari e agli indicatori di realizzazione delle opere pubbliche completate.

Trasparenza per i lavori privati e i provvedimenti urgenti

L’obbligo di pubblicazione – in una specifica sezione del sito internet del Comune – riguarda anche le procedure per i lavori privati e i provvedimenti urgenti adottati in caso di catastrofi naturali, con l’indicazione delle motivazioni alla base delle deroghe.

Tempi medi di pagamento

Il decreto introduce anche l’obbligo della pubblicazione, ogni anno, di un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato “indicatore di tempestività dei pagamenti”.

Leggi: D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33


INCENTIVI ADDIO: vietato il bonus per il recupero dell’evasione

In mancanza di una legge che disciplini la materia come accadeva per l’ICI, non è possibile per i regolamenti comunali riconoscere gli incentivi al personale per la lotta all’evasione IMU.

Lo ha stabilito la Corte dei Conti del Veneto con il parere n° 22/2013.

A vietarlo, secondo i giudici contabili, è prima di tutto il principio di omnicomprensività, che trova fondamento nel decreto legislativo 165/2001 e precisamente nell’art. 2 (per i dirigenti) e 45 (per i dipendenti).

In virtù di questo principio, nulla è dovuto – oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio – al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio.


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. III, Sent., 14-05-2013, n. 11550

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19149/2008 proposto da:

ITALFONDIARIO S.P.A. (OMISSIS) quale procuratore di CASTELLO FINANCE S.R.L. a propria volta cessionaria del credito di INTESA GESTIONE CREDITI S.P.A. in persona del Dott. B.G., domiciliata ex r lege in ROMA, prsso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati LA SCALA GIUSEPPE FILIPPO MARIA e PESENTI MARCO giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 35, presso lo studio dell’avvocato GRAZIANI GIANLUCA, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCA FULVIO giusta procura speciale del Dott. Notaio FERDINANDO CUTINO in BESOZZO il 27/11/2012, rep. n. 73949;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 134/2008 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/02/2008, R.G.N. 1995/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/03/2013 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato MARCO PESENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
Con decreto ingiuntivo in data 8.7.1994 il Presidente del Tribunale di Vicenza ordinava a G.G. di pagare al Banco Ambrosiano Veneto Spa la somma di L. 90 milioni oltre accessori in adempimento della fideiussione da lui prestata a garanzia di ogni obbligazione gravante su Ascommpre Spa, dichiarata fallita, la quale presentava nei confronti del Banco un’esposizione superiore a L. 230 milioni. Il G. proponeva opposizione tardiva assumendo la nullità della notifica del d.i., l’incompetenza del Tribunale adito, la mancata prova del credito ingiunto e comunque la sua prescrizione. In esito al giudizio, in cui si costituiva il Banco contestando la fondatezza dell’opposizione e l’opponente eccepiva altresì nella comparsa conclusionale la nullità della convenzione riguardo al tasso ultralegale degli interessi, il Tribunale adito dichiarava inammissibile e rigettava l’opposizione.

Avverso tale decisione il soccombente proponeva appello ed in esito al giudizio, in cui si costituiva Intesa Gestione Crediti Spa, procuratore di Banca Intesa Spa, incorporata dal Banco Amrosiano Veneto e subentrata a tutti i rapporti facenti capo all’incorporante, la Corte di Appello di Venezia con sentenza depositata in data 7 febbraio 2008 dichiarava ammissibile l’opposizione tardiva, revocava il d.i. e rigettava la domanda di pagamento nei confronti del G., provvedeva al regolamento delle spese. Avverso la detta sentenza l’Italfondiario Spa, quale procuratore di Castello Finance Sri, cessionaria del credito, ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi, illustrato da memoria.

Resiste con controricorso il G..

Motivi della decisione
In via preliminare, deve soffermarsi l’attenzione sull’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dal controricorrente, sulla base del rilievo che la procura speciale stesa in calce all’atto reca testualmente “Italfondiario S.p.a. Dott. B.G.”, la firma dello stesso, l’autentica sottoscritta dai due difensori, senza contenere l’indicazione della qualità e dei poteri rappresentativi del dr. B..

L’eccezione è infondata ove si consideri che nella intestazione del ricorso (cfr pag.2) l’atto di investitura del Dott. B. G. è stato espressamente menzionato con specifica degli estremi e del contenuto (procura, a firma del dr. L.G. G.F., da Italfondiario Spa ai propri funzionari in data 25.9.2007 rep. n.26477 e racc. n.8287 del notaio Amato di Roma). Tale documento, che è stato altresì prodotto in giudizio (doc. 6), costituisce una procura in via continuativa ad intervenire in rappresentanza di Italfondiario Spa in tutti gli atti previsti e specificati nell’allegato A del medesimo atto, in cui è espressamente previsto che al B. veniva conferito, con firma singola, tra gli altri, il potere di “….nominare avvocati e revocarli, conferendo ad essi mandati generali o speciali alle liti per rappresentanza e difesa in tutti i gradi del giudizio, compresa la Corte di Cassazione…”.

Ora, è appena il caso di sottolineare che, a fronte di tale allegazione, risultante dal documento in atti, competeva all’eccipiente fornire la relativa prova negativa, onere che nella specie non è stato minimamente assolto. Ne deriva l’infondatezza della eccezione proposta.

Passando all’esame delle doglianze proposte dalla ricorrente, va osservato che con la prima censura, deducendo l’omessa – insuffidente motivazione in merito ad un fatto decisivo per il giudizio, la società ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver la Corte di Appello ritenuto ammissibile l’opposizione tardiva del G. sulla base di una pretesa illegittimità della notifica eseguita ad un indirizzo diverso rispetto a quello di residenza.

La notifica avrebbe dovuto essere invece considerata corretta in quanto avvenuta presso l’effettiva dimora del G., appresa tramite un’agenzia investigativa. Inoltre, la Corte non avrebbe motivato adeguatamente sul fatto decisivo che l’indirizzo presso cui fu eseguita la notifica coincideva con quello dell’abituale dimora.

Con la seconda doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 7, artt. 149 e 160 c.p.c., e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente ha censurato l’interpretazione dell’art. 7, sopra citato, datane dalla Corte d’Appello, quando ha ritenuto l’illegittimità della notifica eseguita previa consegna al custode dello stabile, non essendo quest’ultimo paragonabile al portiere o comunque ad altra persona vincolata da un rapporto di lavoro continuativo e comunque tenuta alla distribuzione della posta.

Con la terza doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione dell’art. 650 c.p.c., la ricorrente ha lamentato l’erroneità della decisione nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno ritenuto l’ammissibilità dell’opposizione tardiva sulla sola base della pretesa irregolarità della notifica senza che fosse necessario dimostrare, da parte dell’opponente, che la mancata tempestiva conoscenza dell’ingiunzione fosse dipesa da tale vizio.

I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto sia pure sotto diversi ed articolati profili, prospettano ragioni di censura intimamente connesse tra loro, meritano attenzione.

A riguardo, torna opportuno premettere che le ragioni della ritenuta ammissibilità dell’opposizione tardiva, proposta dal G., sono state fondate dalla Corte di Appello, sul rilievo che, come risultava dal certificato anagrafico del Comune di (OMISSIS) rilasciato il 17.2.1995, il G. all’epoca risiedeva in quel Comune dal 26.10.1984, proveniente da (OMISSIS), con la conseguenza che la notifica del decreto ingiuntivo, effettuata il 19.7.1994 a mezzo del servizio postale in via (OMISSIS), era avvenuta presso un luogo diverso dalla sua residenza.

L’atto inoltre era stato consegnato a mani di persona qualificatasi come custode del palazzo, addetto in quanto tale solo alla salvaguardia dell’immobile e non anche, salvo prova contraria, alla ricezione e distribuzione della corrispondenza.

Le ragioni, poste dalla Corte di merito a base della decisione, non meritano di essere condivise. Invero, a riguardo, mette conto di rilevare, in primo luogo, che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, il quale è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche (Cass. n.19132/04,n. 11562/03, 4829/79, 4705/89), assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori di fatto in via abituale (Cass. 12303/08).

Pertanto, le risultanze anagrafiche possono essere superate da qualsiasi fonte di convincimento, come ad es. la corrispondenza intercorsa tra le parti prima del giudizio (Cass. 24422/06) ovvero il comportamento della persona che accetta di ricevere l’atto per conto del destinatario (Cass. 5715/02, 3262/05, 11562/03, 17504/03).

Nel caso di specie, la società ricorrente aveva prodotto nel giudizio di primo grado due documenti,il cui contenuto è stato opportunamente trascritto nel ricorso in esame nel rispetto del principio di autosufficienza dei ricorsi per cassazione, da cui emergevano elementi presuntivi contrastanti con le risultanze anagrafiche.

In particolare, la società ricorrente aveva prodotto una relazione di un’agenzia informativa (doc. 1) del 20 gennaio 1994, in cui era riferito che il G., pur avendo la residenza anagrafica in (OMISSIS), al momento, abitava di fatto a (OMISSIS), ove poi l’atto fu ricevuto dal custode dell’immobile; aveva inoltre prodotto una lettera, mai disconosciuta, indirizzata allo studio La Scala, in cui il Dott. proc. S., su incarico del debitore, avanzava la richiesta dell’invio di alcuni documenti; ciò, dopo aver riconosciuto – ed è questo il profilo decisivo – che al G. era stato notificato sin dal luglio 1994, in tempo per proporre un’opposizione tempestiva all’ingiunzione notificatagli il decreto ingiuntivo, che poi sarebbe stato oggetto di opposizione tardiva.

Ora, a fronte di tale quadro indiziario dedotto a confutazione della pretesa ammissibilità dell’opposizione tardiva, proposta dal G., era obbligo del giudice di merito valutare questi elementi e spiegare perchè non potessero essere ritenuti sufficienti. Al contrario, la Corte territoriale colpevolmente si è ben guardata dal farlo ed ha omesso di provvedere alla necessaria confutazione delle considerazioni svolte dall’appellata. Ne consegue che nella specie l’omesso compimento degli accertamenti volti a verificare la fondatezza delle circostanze indiziarie emergenti dalla documentazione richiamata, non solo inficia la correttezza del ragionamento svolto dalla Corte di merito ma ne determina altresì la sua censurabilità.

Ciò, anche in considerazione del fatto che, ai fini della legittimità della opposizione tardiva a decreto ingiuntivo non è sufficiente l’accertamento della irregolarità della notificazione del decreto ingiuntivo, ma occorre altresì la prova – il cui onere grava sull’opponente – che a cagione della nullità l’ingiunto non ha avuto tempestiva conoscenza del decreto e non è stato in grado di proporre una tempestiva opposizione.

Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, meritano pertanto di essere accolte le censure in esame, in esse assorbita l’ultima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2710 e 1832 c.c., nonchè della motivazione omessa ed insufficiente, con cui la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver la Corte di Appello trascurato che l’estratto conto certificato dal notaio, prodotto in sede monitoria, ha piena efficacia probatoria del credito azionato, in assenza di comprovate contestazioni da parte del debitore ed essendo decorso il termine per l’impugnazione ai sensi dell’art. 1832 c.c..

La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione ai motivi accolti, con l’ulteriore conseguenza che, occorrendo un rinnovato esame della controversia, la causa va rinviata alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso, assorbito il quarto, cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2013


Eletti i nuovi Organi dell’Associazione

Si è svolta presso il Comune di Forlì, che ha concesso il patrocinio del Comune, la riunione dell’Assemblea Generale Ordinaria dell’Associazione che all’unanimità dei presenti ha eletto gli Organi statutari che rimarranno in carica per 4 anni.

Vengono riconfermati il Presidente Nazionale, Pietro Tacchini e la Vice Presidente Nazionale, Baldoni Margherita.

Nuovi Organi:

CONSIGLIO GENERALE
Cognome Nome Comune Pr.
Barletta Giuseppe Comune di Castrovillari CS
Belardinelli Tonino Comune di Ostra AN
Berretta Andrea Comune di Urbino PU
Bottoni Manuela Comune di Roma RM
Busco Martha Comune di Udine UD
Cappellozza Sandro Comune di Padova PD
Caringi Massimo Comune di Terracina LT
Chiorboli  Patrizio Comune di Montagnana PD
Ferrucci Alberto Comune di Bologna BO
Lombardi Giuseppe Comune di Alessandria AL
Martino Anna Comune di Montegranaro FM
Mazzari Mara Comune di Maserà di Padova PD
Montanari  Sandra Comune di Montecchio Emilia RE
Mucci Francesco Comune di Benevento BN
Paterniti Isabella Giorgio Comune di Capo d’Orlando ME
Penso Mirco Comune di Venezia VE
Peracchio Renato Comune di Iglesias CI
Scardovi Sabrina Comune di Zola Predosa BO
Tonelli Lorenzo Comune di La Spezia SP
Zoni Claudio Comune di Lainate MI
CONSIGLIO GENERALE – MEMBRI SUPPLENTI
Cognome Nome Comune Pr.
Corradi Angelo Comune di Ascoli Piceno AP
Gisolfi Giuliana Comune di Alessandria AL
Pollini Massimo Comune di Cesena FC
Ruffilli  Christian Comune di Forì FC
Salustri Annunziata Comune di Fara in Sabina RI
GIUNTA ESECUTIVA
Cognome Nome Comune Pr.
Andreangeli Stefano Comune di Roma RM
Asirelli Corrado Comune di Cesena FC
Baldoni Margherita Comune di Ancona AN
Durì Francesco Comune di Udine UD
Fontana Lazzaro Comune di Quattro Castella RE
Passaretti Natalina Comune di Ascoli Piceno AP

Le parole del Messo Comunale fanno fede fino a querela di falso

Il contenuto intrinseco delle dichiarazioni ricevute è assistito da presunzioni iuris tantum: in assenza di prova contraria, il giudice non può contestare la regolarità dell’attività

Le attestazioni dell’agente notificatore di non avere rinvenuto la società destinataria di una notifica presso la sua sede legale – perché, secondo quanto appreso, questa aveva la sua sede “effettiva” altrove – e di aver eseguito la consegna dell’atto presso tale sede a persona qualificatasi “addetta” alla ricezione per la società sono assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale. Di contro, il contenuto intrinseco delle notizie apprese circa la sede “effettiva” e della dichiarazione di chi si sia qualificato “addetto” alla ricezione per conto della società notificata è assistito da presunzioni iuris tantum, che, in assenza di prova contraria, non consentono al giudice di disconoscere la regolarità dell’attività di notificazione.

In applicazione del riportato principio di diritto,la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21817 del 5 dicembre 2012, ha accolto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate in una complessa vicenda giudiziaria concernente la regolarità della notifica a una società di un atto di accertamento tributario.

La Commissionetributaria regionale della Campania, respingendo l’appello proposto da una società avverso la sfavorevole sentenza di prime cure, confermava il decisum della Commissione provinciale che aveva dichiarato legittima la cartella di pagamento per Iva 1994, emessa a seguito di avviso di rettifica dell’ufficio di Benevento, ritenuto definitivo perché correttamente notificato e non impugnato.

In particolare,la Ctrdi Napoli – sul rilievo che non era stata proposta querela di falso – considerava incontestabile il contenuto della relata di notifica dell’atto tributario presupposto, specificamente laddove il messo notificatore aveva dato atto che la società contribuente non era più rinvenibile presso la sede legale e che, per tale ragione, si era proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” a mani di persona qualificatasi “addetta” alla ricezione.

Nel prosieguo della controversia, la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 4377/2005) cassava con rinvio la pronuncia del giudice tributario regionale, stabilendo che la relata di notifica dell’avviso in questione poteva contestarsi senza necessità di proporre querela di falso, sia riguardo alla dichiarazione del Messo Comunale di aver proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” della società, sia riguardo alla dichiarazione secondo cui la persona che aveva ricevuto l’atto era “addetta” al ricevimento della corrispondenza diretta all’ente.

A seguito di riassunzione del giudizio, con sentenza n. 23/41/2006 del 21 febbraio 2006, la Ctr, in diversa composizione, definiva il giudizio di rinvio, annullando la cartella di pagamento, per inesistenza della notifica dell’avviso di rettifica presupposto.

In particolare, la nuova sentenza del giudice regionale – ritenendo chela Suprema Corte di Cassazione non aveva attribuito validità alcuna ai fatti indicati nella relata – affermava che gli elementi di prova forniti dall’ufficio dell’Agenzia sull’esistenza della sede “effettiva” dell’ente accertato (ad esempio, la presenza di tre linee telefoniche intestate alla contribuente presso tale sede) dovevano considerarsi semplici “illazioni” e che, inoltre, l’ufficio non aveva fornito elementi idonei a dimostrare il collegamento tra la società contribuente e il sedicente “addetto” alla ricezione che aveva preso in consegna gli atti diretti all’ente.

Contro la sentenza del giudice di rinvio, l’Agenzia delle Entrate ricorreva in sede di legittimità, lamentando che la Ctr aveva violato i dettami della pronuncia della Suprema corte, erroneamente reputando che la Cassazione avesse negato valenza di prova al contenuto della relata di notifica, e così esonerando il giudice di rinvio dal riesame delle prove che l’ufficio di Benevento aveva portato a sostegno della verità dei fatti riportati nella relata stessa.

Inoltre, sempre secondo la difesa erariale, la circostanza che i giudici di legittimità avevano escluso che al contenuto intrinseco delle attestazioni del messo potesse attribuirsi la fede privilegiata non poteva comportare anche la negazione della legittimità dell’attività dallo stesso svolta e la valenza privilegiata di ogni altra attestazione di fatti avvenuti alla presenza del messo Comunale (quali, nello specifico, il mancato rinvenimento della società presso la sua sede legale; le indicazioni ricevute circa la sede “effettiva”; le dichiarazioni del consegnatario di essere “addetto” alla ricezione degli atti).

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 21817/2012, ha accolto in toto il ricorso dell’Agenzia, decidendo nel merito con il rigetto dell’originario ricorso della parte privata, condannata altresì agli oneri processuali del grado di legittimità, oltre a spese prenotate.

Nella motivazione della decisione, i giudici si riportano al costante insegnamento per il quale, seppure il contenuto delle dichiarazioni ricevute dal Messo Comunale o l’esito delle sue ricerche non possono far fede fino a querela di falso – a differenza, ad esempio, da quanto il Messo Comunale dichiari avvenuto in sua presenza o dalle attività che egli affermi di aver compiuto – è altresì vero che, in entrambi i casi, sia il contenuto di dette dichiarazioni che l’esito delle ricerche svolte “debbono presumersi veritiere sino a contraria dimostrazione e questa ovviamente da darsi a chi contesta la notifica (Cass. 25860/2008; Cass. 12311/2007)”.

Nel caso di specie, osservala Suprema Corte di Cassazione, una contraria prova, sulla non veridicità del luogo di rinvenimento della sede “effettiva” e della ricezione da parte di un “addetto”, non era stata fornita dalla società contribuente, sulla quale gravava il relativo onere probatorio.

Il giudice di merito, prosegue la sentenza “ha quindi violato le regole sul riparto della prova fissate in subiecta materia e ciò allorquando ha onerato l’Ufficio della dimostrazione della realtà della sede “effettiva” e dell’“addetto” alla ricezione della notifica. Fatti la cui contrarietà a verità, seppur dimostrabile senza querela di falso, spettava alla contribuente… di provare”.

In poche parole, insomma, il giudice tributario – in assenza della contraria prova che come detto incombeva sulla società contribuente – avrebbe dovuto ritenere correttamente eseguita la notifica dell’avviso di rettifica “presupposto”, e rigettare il ricorso proposto contro la cartella di pagamento, in quanto, secondo la pronuncia in commento, “non c’erano altri fatti da accertare ed in quanto erano da ritenersi presunti la sede “effettiva” e la ricezione della notifica da parte dell’“addetto””.

La sentenza si segnala per la puntualità delle argomentazioni giuridiche, rispetto a una vicenda fattualmente complessa, proponendosi come esempio paradigmatico per la valutazione probatoria delle risultanze della relazione di notificazione, strumento mediante il quale (articolo 148 c.p.c.) l’agente notificatore “certifica l’avvenuta notificazione”, datando e sottoscrivendo la stessa in calce all’originale e alla copia dell’atto.

La relata di notifica, in quanto atto pubblico, “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti” (articolo 2700 codice civile).

Su questo punto è bene operare un distinguo, perché non tutte le attestazioni della relata godono della valenza di fede privilegiata.

Per consolidata giurisprudenza (Cassazione n. 13216/2007, n. 1856/2001 e n. 8799/2000), fanno piena prova, salva querela di falso, soltanto le attività che il pubblico ufficiale dichiari di avere svolto, la constatazione di fatti avvenuti in sua presenza e il ricevimento delle dichiarazioni a lui rese, queste ultime limitatamente al loro contenuto “estrinseco” (nel caso di specie, quindi, le ricerche fatte per rinvenire la sede dell’ente; l’aver appreso determinate notizie circa l’esistenza di una sede “effettiva”; l’aver ricevuto la dichiarazione di un soggetto che si era qualificato “addetto” alla sede).

Di contro, non ha pubblica fede il contenuto “intrinseco” di tali ricerche e delle dichiarazioni ricevute (nella specie, che corrispondesse a verità che quella rinvenuta era proprio la sede “effettiva” e che il soggetto che aveva ricevuto l’atto era proprio un “addetto”) che, pertanto, costituendo una presunzione semplice può essere contestato con prove idonee, senza che sia necessaria la querela di falso. Con la logica conseguenza che, in assenza di tale prova contraria da parte del destinatario della notifica, il giudice non potrà disconoscere la regolarità dell’attività di notificazione.


Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 20-12-2012) 02-05-2013, n. 19054

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPO Ernesto – Presidente –

Dott. CHIEFFI Severo – Consigliere –

Dott. SIOTTO Maria Cristi – rel. Consigliere –

Dott. CORTESE Arturo – rel. Consigliere –

Dott. FIALE Aldo – Consigliere –

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere –

Dott. DAVIGO Piercamillo – Consigliere –

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi proposti da:

1. V.U.A., nato a (OMISSIS);

2. S.B.G., nato in (OMISSIS);

avverso la sentenza del 08/06/2011 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Arturo Cortese;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio per prescrizione nei confronti del S. e il rigetto del ricorso del V.;

uditi per V. gli avvocati COPPI FRANCO e Fabrizio Lemme, e per S. l’avv. Vincenzo Arrigo, che hanno concluso riportandosi ai rispettivi ricorsi e motivi.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 16 aprile 2009 il Tribunale di Roma condannava V.U.A. e S.B.G. alle pene, rispettivamente, di anni due e mesi otto di reclusione, e di mesi dieci di reclusione, in quanto ritenuti responsabili:

– il V., del reato di peculato continuato (capo sub A) di cui all’art. 81 cpv. c.p., e art. 314 c.p., comma 1, perchè, avendo, nella qualità di ambasciatore e capo della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea, il possesso di varie utenze cellulari belghe, le utilizzava, nel periodo compreso fra il settembre 2001 e il dicembre 2003, per l’effettuazione di numerose telefonate di carattere privato, per importi consistenti;

– entrambi, del reato di falso ideologico (capo sub C) di cui agli artt. 110 e 479 c.p., materialmente commesso, su istigazione del V., dal S., nella qualità di cancelliere contabile presso la predetta Rappresentanza, e consistito nella falsa attestazione, in un atto a sua firma intestato alla “Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea”, recante la data del 22 gennaio 2004 e avente ad oggetto un resoconto di spese a carico del V., di aver ricevuto da quest’ultimo, a titolo di conguaglio per le spese non di servizio relative all’anno 2003 per una delle utenze, il rimborso pari alla somma di Euro 11.650,67, che in realtà all’epoca non era ancora avvenuto (in quanto verificatosi quasi tre mesi dopo, ossia il 6 aprile 2004);

– il S., inoltre, del reato di favoreggiamento personale aggravato (capo sub D) di cui all’art. 378 c.p., e art. 61 c.p., n. 9, contestato in relazione alla commissione della condotta delittuosa di falso.

Il Tribunale di Roma, quindi, concesse le attenuanti generiche e unificati i reati ex art. 81 cpv. c.p., condannava il V. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione (così determinata: p.b.

ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: un anno e quattro mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con gli episodi di peculato), con la pena accessoria della interdizione di pari durata dai pubblici uffici, e il S. alla pena di dieci mesi di reclusione (così determinata: p.b. ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: otto mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con il delitto di favoreggiamento).

2. Su appello degli imputati, la Corte di appello di Roma, con sentenza dell’8 giugno 2011, assolveva il S. dal reato di cui al capo sub D (con eliminazione del relativo aumento di pena ex art. 81 c.p., comma 2) perchè il fatto non costituisce reato (mancando la prova che il predetto avesse agito con intenti ulteriori rispetto a quello di salvaguardare le aspettative di carriera del V., evitandogli problemi disciplinari) e riconosceva al V. l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, relativamente al reato di peculato di cui al capo A (venendo in rilievo, a tale effetto, i singoli episodi delittuosi), con conseguente diminuzione a un anno della pena applicata come aumento per la continuazione, confermando, nel resto, la pronuncia di primo grado.

Per la conferma della responsabilità del V. in ordine al delitto di peculato di cui all’art. 314 c.p., comma 1, la Corte di merito si basava sul consolidato e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, nella condotta di indebito utilizzo del telefono d’ufficio da parte del pubblico funzionario, ciò che viene in rilievo agli effetti penali è l’appropriazione delle energie costituite dagli impulsi elettrici, occorrenti per realizzare la comunicazione, entrate a far parte del patrimonio dell’amministrazione.

Secondo la Corte capitolina, all’epoca dei fatti nessuna fonte consentiva al personale degli affari esteri l’utilizzo per fini privati del telefono cellulare assegnato per motivi d’ufficio. In particolare la c.d. direttiva “Frattini” n. 3/2001 subordinava espressamente la possibilità di un tale utilizzo alla esistenza di un contratto c.d. dual billing, idoneo cioè a consentire una fatturazione differenziata per le telefonate private. Nè alcun valore potevano avere, in quanto contrastanti con l’inequivoco tenore della detta direttiva, i chiarimenti ministeriali successivi alla vicenda di causa, secondo i quali, in caso di mancata attivazione del dual billing, le telefonate private potevano ugualmente farsi, senza limiti di spesa, salvo l’obbligo di rimborso, e senza vincoli temporali, da parte del pubblico funzionario. Prassi in tal senso, pur tollerate, erano palesemente illegittime. Nè il caso di specie, per le sue particolarità e per la condotta tenuta dall’imputato, offriva alcun appiglio per ritenerne sussistente la buona fede.

Riguardo al falso, la Corte ne confermava la sussistenza in base alle caratteristiche formali e al chiaro tenore dell’atto, al suo raffronto con l’omologa attestazione datata 6 aprile 2004 e ai rilievi effettuati in sede di ispezione dal 24 al 27 febbraio 2004.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.

3.1. Il V., che ha impugnato la sola condanna per il delitto di peculato, ha formulato i seguenti tre motivi.

a) Erronea applicazione dell’art. 314 c.p., e motivazione apparente, illogica e contraddittoria.

Secondo il ricorrente, nel caso di uso indebito dell’apparecchio cellulare da parte del pubblico ufficiale, non è configurabile il delitto di peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, in quanto i cosiddetti impulsi elettronici non possono essere sussunti nella nozione di cosa mobile suscettibile di appropriazione, perchè, venendo ad esistenza a seguito e per effetto della condotta contestata, non costituiscono entità materiale ad essa preesistente e già nel possesso o nella disponibilità del soggetto agente. Nè varrebbe invocare in contrario la disposizione del capoverso dell’art. 624 c.p., posto che anche in tal caso l’energia sottraibile deve preesistere alla sottrazione. La configurazione dell’impulso elettronico quale possibile oggetto di condotta appropriativa rilevante ai fini del peculato si porrebbe, quindi, in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale e con il divieto di interpretazione analogica.

Richiamando inquadramenti diversi del fenomeno in esame offerti dalla stessa giurisprudenza, comportanti l’opportuna assegnazione della causa alle Sezioni Unite, il ricorrente prospetta che esso potrebbe, al più, sussumersi nella fattispecie dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p., ovvero, sul rilievo dell’indebito utilizzo dell’apparecchio telefonico in quanto tale, in quella del peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2: fattispecie entrambe, peraltro, prescritte.

b) Inosservanza della norma penale di cui al combinato disposto dell’art. 59 c.p., comma 4, e art. 47 c.p., nonchè vizio della motivazione sul mancato riconoscimento dell’esimente putativa del consenso dell’avente diritto.

Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale, pur avendo riconosciuto, sulla base della documentazione prodotta (da ultimo, una nota dello stesso Ministro Frattini sulla possibilità di un rimborso successivo all’erario, consentito senza limitazione di tempi e di costi), l’esistenza di una situazione di tolleranza, da parte dell’amministrazione di appartenenza, costituente una manifestazione almeno tacita, o apparente, di consenso, ha poi erroneamente parlato al riguardo di prassi contra legem, laddove, nel caso di specie, si versa in una ipotesi di errore non sulla legge penale, bensì su atti amministrativi e comportamenti concludenti della pubblica amministrazione.

c) Vizio della motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza della fattispecie di peculato d’uso, perchè la Corte distrettuale avrebbe solo richiamato i precedenti giurisprudenziali, senza rispondere specificamente ai rilievi d’appello relativi al fatto concreto, nel quale l’appropriazione dell’apparecchio sarebbe stata comunque temporanea e con successivo integrale rimborso delle somme addebitate.

3.2. Con motivi nuovi, depositati, con allegati, il 18 maggio 2012, la difesa del V. ha puntualizzato che l’impiego del cellulare per uso privato comporta solo un obbligo di rimborso della telefonata a carico dell’utente, il cui inadempimento integra un illecito di natura civile, in quanto l’utilizzatore delle onde magnetiche – delle quali nessuno ha la disponibilità o la possibilità di appropriarsi – si limita ad usufruire, dietro compenso, di un servizio prestato dalla società concessionaria, con la conseguenza che sull’utente grava un obbligo di tipo civilistico che consiste appunto nel pagamento delle prestazioni godute. Nè potrebbe certamente ritenersi, in tale situazione, la sussistenza del possesso o della disponibilità di denaro altrui anteriormente alla effettuazione delle telefonate: l’amministrazione di riferimento, infatti, paga il complessivo ammontare della fattura presentata periodicamente dalla società concessionaria, restando semplicemente in credito, nei confronti dell’utente, del rimborso dell’importo relativo alle telefonate di natura privata da lui effettuate.

Tale ricostruzione sarebbe in linea con la corretta interpretazione della c.d. “direttiva Frattini” n. 3/2001, e con la riconosciuta prassi, ritenuta ad essa conforme (come da circolare ministeriale n. 1 del 10 febbraio 2005 e nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 13 giugno 2005), di ritenere lecito l’uso per finalità private del cellulare ricevuto per esigenze di servizio anche in caso di mancata stipulazione di un contratto di dual billing, mediante l’adozione di un sistema alternativo di individuazione delle telefonate private, idoneo a caricarne il costo sull’interessato.

E’ stata eccepita, poi, la mancanza di motivazione in ordine alla qualificazione del fatto in termini di peculato d’uso, in quanto la condotta del ricorrente non sarebbe stata mai animata dall’intenzione di appropriarsi di una cosa mobile della p.a.: del resto, qualora si considerasse come oggetto materiale del reato il cellulare di servizio, questo sarebbe sempre rimasto nella disponibilità della pubblica amministrazione, aspetti, questi, sui quali l’impugnata pronuncia cadrebbe in palesi errori di valutazione e carenze motivazionali.

In data 6 luglio 2012 è stata presentata altra memoria difensiva che ripropone il punto della non configurabilità della condotta di peculato ordinario per l’uso personale di telefono mobile del quale si abbia il possesso per ragioni d’ufficio, in ragione delle modalità tecniche di funzionamento dello strumento.

3.3. Il S. ha proposto tre motivi di doglianza relativi al reato di cui al capo sub C:

a) violazione di legge e carenza di motivazione sulla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ex artt. 43 e 479 c.p., non potendosi la stessa concretizzare nella mera immutatio veri;

b) violazione di legge e carenza di motivazione in ordine all’elemento oggettivo, in quanto, da un lato, a fronte dell’ambiguità del termine “provveduto” (da ricollegare al mero resoconto fornito dal V. e non all’avvenuto rimborso delle somme), doveva escludersi la prova certa del falso, e, dall’altro, l’esclusione della fondatezza dell’assunto che nella specie l’atto incriminato fosse un mero pro-memoria era stata basata sulla ritenuta unicità di esso, contrastata dalla documentazione in atti;

c) motivazione contraddittoria e illogica in relazione alla sussistenza dell’elemento psicologico, configurata e ravvisata in origine in maniera congiunta per il delitto di favoreggiamento e per quello di falso, in relazione alla medesima scrittura del 22 gennaio 2004, e poi mantenuta ferma per il solo falso, pur dopo l’esclusione dell’intento di favorire il V. nella sua pendenza giudiziaria, della quale si è escluso che all’epoca il S. fosse a conoscenza.

3.4. Il 2 luglio 2012 la difesa del S. ha depositato motivi aggiunti, riprendendo e sviluppando la tesi della necessità di una componente sostanziale di nocività o inganno per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ex art. 479 c.p. – oltre che per la sua stessa configurabilità oggettiva -, componente certamente da escludere nel caso di specie.

4. Con ordinanza n. 36760 del 18 luglio – 24 settembre 2012 la Sesta Sezione penale, assegnataria del ricorso, dopo aver ricordato l’insegnamento consolidato secondo il quale “il delitto di peculato si configura quando l’appropriazione abusiva ha leso la funzionalità della pubblica amministrazione e ha causato un danno patrimoniale apprezzabile, trattandosi di reato plurioffensivo”, che si realizza con una “condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede e da cui deriva un’estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto”, ha rilevato in particolare, sulla questione dell’utilizzo (anche) a fini privati del telefono assegnato per esigenze d’ufficio, che la giurisprudenza individuò l’atto appropriativo, in un primo tempo, “nell’uso del telefono quale apparato fisico (con la – allora coerente – configurabilità della fattispecie del peculato d’uso, in relazione al carattere momentaneo di detto uso e all’immediata restituzione dell’apparato”), e successivamente, invece, secondo un indirizzo che si è poi consolidato, “nel consumo delle energie costituite dagli impulsi elettronici, o elettrici (…), attraverso i quali si trasmette la voce (impulsi la cui appropriazione non può che essere definitiva, con la conseguente configurabilita del peculato ordinario disciplinato dall’art. 314 c.p., comma 1, e l’irrilevanza dell’eventuale successivo rimborso risarcitorio”).

4.1. Secondo l’ordinanza di rimessione, “la specifica doglianza secondo cui la lettura che individua l’oggetto dell’appropriazione negli impulsi elettronici che consentono la trasmissione della voce si allontana in modo intollerabile dal concetto di entità materiale suscettibile di appropriazione, per accogliere un’interpretazione dell’art. 314 c.p., che, ben oltre il dato letterale, appare in netto contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale e con il divieto di interpretazione analogica, merita un’attenta riflessione, il cui esito può condurre ad un ripensamento delle conclusioni cui questa Corte Suprema è da tempo pervenuta”.

L’interpretazione finora accolta, infatti, riconduce al concetto normativo di “energia che abbia un valore economico”, suscettibile di sottrazione (e quindi di appropriazione), gli “impulsi elettronici”, che in realtà non preesistono all’uso illecito ma sorgono con esso e a sua causa e, inoltre, non esauriscono il costo del “servizio” oggetto del contratto, sul quale incidono in realtà una molteplicità di elementi (infrastrutture, risorse umane e tecniche, ecc.).

Ne discende, ad avviso della Sezione rimettente, la necessità di verificare se in relazione all’uso indebito dell’apparato telefonico non sia più appropriato ricorrere ad altra qualificazione giuridica, quale potrebbe essere “quella dell’abuso d’ufficio (potendosi ravvisare la violazione della disciplina sull’uso del servizio telefonico cellulare e comunque dei principi generali, anche di rilievo costituzionale, di contabilità dello Stato (…), l’ingiusto vantaggio patrimoniale dell’utilizzatore infedele e il danno ingiusto dell’Amministrazione), ovvero quella della truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 1, n. 1 (quando la mancata segnalazione delle telefonate personali, ricorrendo i parametri prima ricordati, sia riconducibile ad una inveritiera dichiarazione)”.

La delicatezza della questione e l’inopportunità di una pronuncia in qualche modo “esplorativa” in direzione contraria all’indirizzo dominante hanno indotto il Collegio della Sesta Sezione a ritenere doverosa la rimessione del processo alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 618 c.p.p..

5. Con decreto in data 1 ottobre 2012 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

6. In data 29 novembre 2012 i difensori del V. hanno presentato un’ulteriore memoria ai sensi degli artt. 121 e 611 c.p.p., riproponendo anzitutto la tesi della insussistenza del reato di peculato.

Al riguardo, si ribadiscono:

a) la assoluta inaccettabilità della sussunzione, nel concetto normativo di “cosa mobile”, dei fenomeni fisici attraverso i quali la voce, previamente codificata in impulsi elettrici, viene trasmessa, tramite onde elettromagnetiche, a distanza: l’operazione tecnica, infatti, avviene con il supporto del gestore telefonico, che non “vende” onde elettromagnetiche appropriagli, ma “eroga” servizi di telefonia mobile;

b) il dato della materiale indisponibilità dell’onda elettromagnetica, sia nel patrimonio del soggetto passivo del reato che del soggetto attivo del reato, anteriormente alla realizzazione della presunta condotta appropriala : l’onda, infatti, viene generata proprio dall’utilizzo, corretto o meno, dell’apparecchio telefonico.

Si sottolinea inoltre che gli addebiti sulle utenze mobili, che avvengono in base alle telefonate effettuate, non sono diretta espressione del valore economico degli impulsi generati durante le conversazioni, in quanto le chiamate fungono solo da criterio di computo degli addebiti medesimi, che sono, per contro, direttamente collegati alla fruizione, da parte dell’utente, di tutta una serie di servizi messi a disposizione dalla compagnia telefonica (ripetitori, personale, infrastrutture, elaboratori informatici, ecc.).

Anche per tale via, dunque, l’impulso elettromagnetico non può ritenersi una “cosa mobile” ai sensi dell’art. 624 c.p.: esso non è valutabile economicamente, mentre è valutabile sul piano economico il servizio di telefonia reso dal gestore all’utente attraverso la complessiva organizzazione che consente la ricezione, lo smistamento e la trasmissione dei segnali elettromagnetici generati con l’apparecchio telefonico.

Più congrua, eventualmente, potrebbe ritenersi la sussunzione del comportamento contestato in altre fattispecie penali, quali quelle di cui agli artt. 323 o 640 c.p..

In ordine al reato di falso, la difesa del V., ricollegandosi ai motivi non personali di impugnazione presentati dal S., pacificamente estensibili ai sensi dell’art. 587 c.p.p., sottolinea anzitutto che difetta nella specie la univoca falsa rappresentazione della realtà. All’annotazione “provveduto”, riportata nell’atto incriminato, in sè comunque non collegabile a uno specifico obbligo di riferire l’effettiva realtà, doveva infatti attribuirsi – anche alla luce dell’ulteriore documentazione acquisita nel dibattimento di primo grado – il corretto significato di “annotato, contabilizzato”, pienamente compatibile con la natura di “mero promemoria, suscettibile di costante aggiornamento” che il redattore stesso intendeva rappresentare, e che, in quanto tale, doveva condurre all’esclusione dell’ipotesi delittuosa in contestazione, potendosi ritenere falso solo ciò che, per come rappresentato, deve ritenersi contrario alla realtà, non consentendo alternative interpretazioni.

Sul piano probatorio, si ribadisce poi la censura, già formulata nei motivi di appello, di omessa valutazione della documentazione – prodotta dal P.m. in corso di istruttoria dibattimentale – che constava di un promemoria di stampo identico a quello oggetto di asserita falsificazione (relativo alle spese sostenute per il precedente anno) e di una ricevuta rilasciata dal cancelliere contabile a fronte dell’effettivo versamento della relativa somma.

Si chiede, conclusivamente, l’annullamento dell’impugnata sentenza di condanna sia in ordine al reato di peculato che a quello di falso ideologico, con l’affermazione del principio per cui, nella condotta di indebito utilizzo dell’utenza cellulare assegnata per ragioni d’ufficio, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, non è ravvisabile il reato di peculato. In subordine, si chiede di riqualificare il fatto contestato, ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen., come reato di peculato d’uso o abuso d’ufficio, ovvero truffa aggravata, dichiarando non doversi procedere per intervenuta estinzione per prescrizione del reato, nonchè di dichiarare l’intervenuta estinzione, per decorso del termine prescrizionale, anche del reato contestato sub C.

Motivi della decisione
1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è “se l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato”.

2. L’approccio e le soluzioni ad essa dati da parte della giurisprudenza sono variati nel tempo.

2.1. Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la condotta in questione integri il reato di peculato d’uso ex art. 314 c.p., comma 2.

Essa, infatti, non realizzerebbe un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli “scatti”), ma un’interversione momentanea del possesso (seguita da restituzione immediata) dell’apparecchio (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi), per la quale non sarebbe necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità e controllo del proprietario, essendo sufficiente che l’agente si comporti nei confronti della cosa medesima, sia pure in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus, realizzando finalità estranee agli interessi del proprietario (Sez. 6, n. 788 del 14/02/2000, Mari, Rv. 217342).

Il percorso giustificativo di tale approdo ermeneutico muove dal rilievo generale (v. Sez. 6, n. 7364 del 1997, Guida, cit.) che, se il pubblico agente possiede in nome e per conto della pubblica amministrazione gli arredi e le attrezzature dell’ufficio nella loro materiale disponibilità proprio in ragione delle sue mansioni, non par dubbio che un’aversione dal loro uso conforme alla destinazione data dalla pubblica amministrazione per il perseguimento del pubblico interesse, con correlativo volgimento a estranei fini di personale vantaggio in un tempo dato e in modi apprezzabili, comporta un’inammissibile interversione del possesso e quindi un’appropriazione. La reversibilità dell’interversione, alias la possibilità di restituire il bene impropriamente utilizzato alla normale destinazione d’uso, e quindi la durata dell’interversione predetta, sono in sè irrilevanti perchè l’uso “momentaneo”, purchè apprezzabile, della cosa e la sua restituzione “immediata”, cioè omisso medio, delimitano appunto e caratterizzano la nuova figura di reato del peculato d’uso rispetto alla fattispecie più grave, e ben più gravemente sanzionata, disciplinata dal comma primo del medesimo art. 314 c.p., nella formula introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 1. Nell’ipotesi in esame, dunque, il reato si realizza non già in relazione alla fruizione di un servizio non dovuto, insuscettibile, per la sua immaterialità, di essere inquadrato nella fattispecie astratta, bensì in relazione all’interversione del possesso correlata all’uso deviato, imprescindibile per fruire di quel servizio, dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità materiale dell’agente. In altri termini, a configurare il reato nel caso in questione è l’esercizio di un possesso a fini propri e, quindi, in nome proprio, che, caratterizzato da un animus rem sibi habendi diverso da quello dovuto, denunzia l’appropriazione di un bene pubblico, destinata a breve durata perchè connotata appunto dal fine di “fare uso momentaneo della cosa” (affidata all’agente in ragione del suo ufficio o servizio), ma pur sempre di rilevanza penale.

2.2. Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giurisprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli estremi del peculato comune. Si osserva in proposito che l’uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione dell’apparecchio telefonico in quanto tale, ma nell’utilizzazione dell’utenza telefonica, e l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato (non già dall’apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì) dall’energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la “cosa mobile altrui”, vi sarebbe da parte dell’intraneus una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo l’uso (di tal che l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’importo delle telefonate può valere solo come ristoro del danno cagionato). In sostanza, il pubblico agente, attraverso l’uso indebito dell’apparecchio telefonico, si approprierebbe delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, Santone, Rv. 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 2002, Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, Menotti, Rv. 218435; Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, Di Maggio, Rv. 217710).

Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate, quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come un’unica condotta (Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, Montana, Rv. 234838; v.

anche, sul punto, Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 2011, Di Maria, Rv. 249201). Sul piano della applicazione concreta possono segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico dall’importo assai elevato (Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, Maggiore e altro, Rv. 236627; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 2005, Aiello, Rv. 231032), ovvero a Paesi esteri per scopi ludici (Sez. 6, n. 21165 del 29/04/2009, G.A.), o comunque personali (Sez. 6, n. 2525 del 04/11/2009, dep. 2010).

Il rigore di questo orientamento giurisprudenziale viene mitigato anche con il rilievo che nel concreto assetto dell’organizzazione pubblica è possibile riscontrare, talora, una sfera di utilizzo della linea telefonica dell’ufficio per l’effettuazione di chiamate personali che non può considerarsi “esulante del tutto dai fini istituzionali” e nella quale, quindi, non si realizza l’evento appropriativo (Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.). Si tratta di quelle situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato da impellenti esigenze di comunicazione privata (durante l’espletamento del servizio), finirebbe – ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l’utenza dell’ufficio – per creare addirittura maggior disagio all’amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio: in questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze personali e il più proficuo perseguimento dei fini pubblici, è la stessa amministrazione ad avere interesse a consentire al dipendente l’uso della linea dell’ufficio per fini privati.

Un preciso e significativo riscontro formale di tale realtà è stato rinvenuto nel decreto del 31 marzo 1994 del Ministro per la Funzione pubblica (G.U., n. 149 del 28 giugno 1994), che, nel definire il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificamente previsto che “in casi eccezionali”, dei quali va informato il dirigente dell’ufficio, il dipendente possa effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’ufficio (v. la prima parte dell’art. 10, comma 5, del D.M. citato): statuizione nella quale, fra l’altro, all’informativa al dirigente dell’ufficio viene attribuita natura di mero adempimento formale, che – al di là delle possibili conseguenze disciplinari della sua violazione – non condiziona l’autonoma e sostanziale “rilevanza derogatoria” del “caso eccezionale”.

Numerose sono le pronunce che hanno fatto applicazione di tali criteri di “temperamento” (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786; Sez. 6, n. 41709 del 19/10/2010, Ermini, Rv. 248798; Sez. 6, n. 24709 del 24/05/2007, Cavaliere; Sez. 6, n. 25273 del 2006, Montana, cit.; Sez. 6, n. 10719 del 31/01/2003, Oriente, Rv. 224864; Sez. 6, n. 7772 del 2003, Russo, cit.; Sez. 6, n. 7347 del 2003, Di Niro, cit.; Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.; Sez. 6, n. 3879 del 2000, Di Maggio, cit.).

2.3. L’orientamento da ultimo illustrato trova seguito anche in relazione all’affine questione del computer in dotazione all’ufficio del pubblico funzionario, utilizzato per navigare in internet su siti non istituzionali (Sez. 6, n. 20326 del 15/04/2008, D’Alfonso). In tal caso non si manca peraltro di sottolineare la necessità di verificare il tipo di convenzione che lega l’ente al gestore del servizio di internet, e cioè se l’ente paghi una somma forfettaria al mese (c.d. tariffa flat), per cui è economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad internet eseguita dall’ufficio (e non vi è danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o se, di contro, l’ente paghi in funzione della durata delle singole connessioni, caso in cui la condotta illegittima del dipendente provocherebbe un immediato danno patrimoniale all’ente (Sez. 6, n. 41709 del 2010, Ermini, cit.).

Distinzione analoga potrebbe evidentemente farsi anche per le tariffe telefoniche. Invero, se con la tariffa “a consumo” ogni scatto in più, effettivamente, non fa altro che aumentare il danno patrimoniale della p.a., dato che ogni telefonata per scopi privati determina un indebito accrescimento di quanto dovuto al gestore telefonico, al contrario con la tariffa c.d. “forfettaria” o “tutto- incluso”, grazie alla quale l’utente corrisponde al gestore telefonico un canone mensile fisso, indipendentemente dalle telefonate e dagli scatti realmente effettuati, non vi sarebbe alcuna forma di deminutio patrimonii, dato che – indipendentemente dalla realizzazione di una o più telefonate a scopi privati – la p.a. pagherebbe al gestore telefonico sempre lo stesso importo predeterminato, a prescindere quindi dal traffico telefonico realizzato.

2.4. Talora l’uso indebito del telefono è stato ricondotto alla fattispecie dell’abuso d’ufficio (v. Sez. 6, n. 20094 del 04/05/2011, Miscia, Rv. 250071, relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che utilizzava l’apparecchio telefax in dotazione dell’ufficio, per procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge), anche se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione della impossibilità di configurare, in tale comportamento, una “violazione di norme di legge o di regolamento”, quale requisito essenziale per l’integrazione del delitto punito dall’art. 323 c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispecie introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n. 234.

Un ulteriore ostacolo alla riconducibilità della condotta in discorso alla fattispecie dell’abuso d’ufficio potrebbe anche ravvisarsi, in determinate situazioni, nella previsione dello svolgimento della condotta stessa “nell’esercizio delle funzioni o del servizio”.

Nell’affine materia dell’utilizzo per scopi privati della navigazione in internet attraverso il computer in dotazione all’ufficio, si è talora fatto ricorso allo schema del delitto di abuso d’ufficio nell’ipotesi in cui il contratto di connessione ad internet stipulato dall’ente preveda una tariffa flat, cioè a costo forfettario (Sez. 6, n. 31688 del 09/04/2008, Cannalire, Rv. 240692; Sez. 6, n. 381 del 2000, Genchi, cit.).

2.5. Per completare la rassegna di giurisprudenza, bisogna anche dar conto di un orientamento, sporadicamente emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib. Sanremo, 19 ottobre 1995, X), che ritiene che l’uso privato del telefono d’ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non potendosi equiparare il semplice “uso” alla “appropriazione”.

Si osserva, a supporto della tesi, che l’uso del telefono da luogo soltanto ad un addebito a carico della pubblica amministrazione delle somme corrispondenti all’entità delle utilizzazioni di volta in volta effettuate, con la conseguenza che parrebbe inopportuno parlare di “appropriazione”. L’oggetto materiale della condotta, infatti, è rappresentato nella specie dal telefono come strumento di utilizzazione dell’utenza telefonica d’ufficio, e, siccome tale apparecchio rimane sempre nella disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la condotta di indebita utilizzazione da parte del pubblico funzionario dell’utenza telefonica intestata all’amministrazione per l’effettuazione di conversazioni personali non può integrare nè gli estremi del peculato comune, nè quelli del peculato d’uso.

In altri termini, viene negata la stessa configurabilità di una condotta di appropriazione, stante il mancato perfezionamento “negativo” della stessa, consistente nell’esclusione totale del proprietario dal rapporto con la cosa.

3. La disamina del panorama dottrinale mostra analoga varietà di vedute, con una sensibile divaricazione di indirizzi interpretativi, connotati, talora, da sostanziali analogie con il ragionamento sotteso al discorso giurisprudenziale, e, in altre occasioni, da una vera e propria originalità di impostazioni sul piano dogmatico.

3.1. Alcuni Autori ritengono sussumibile la fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 314 c.p., comma 1, aderendo sostanzialmente alla tesi accolta dal più rigoroso orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’appropriazione non riguarda l’apparecchio in sè e per sè, ma le energie che danno luogo al colloquio telefonico e che, pertanto, non possono essere mai oggetto di restituzione se non sotto il riflesso del risarcimento del danno provocato alla pubblica amministrazione.

Secondo tale impostazione, al pubblico agente non interessa lo strumento telefonico, ma il servizio che esso rende, che si identifica nella telefonata, e il danno cagionato alla p.a. è costituito dal consumo degli “scatti”, cioè delle energie necessarie per la effettuazione della conversazione.

All’interno dell’orientamento in discorso, e focalizzando maggiormente l’attenzione sui profili economici della fattispecie, si è proposta l’opportunità di una distinzione di carattere preliminare, a seconda che l’amministrazione interessata abbia o meno un piano telefonico a forfait, in modo tale che il numero delle singole telefonate non incida sull’ammontare di spesa.

Nel caso in cui ogni telefonata abbia un singolo costo, sembra infatti ragionevole ritenere che il pubblico agente che impiega indebitamente il telefono d’ufficio debba rispondere di peculato comune, essendosi in sostanza appropriato delle risorse economiche della pubblica amministrazione (di cui disponeva per ragioni d’ufficio) impegnate per il pagamento delle telefonate.

In caso, invece, di contratto telefonico a forfait, l’impiego del telefono d’ufficio per ragioni personali potrà configurare peculato comune, se il pubblico agente ne faccia uso in modo prolungato (impedendo ad es. l’uso ad altri o occupando le linee telefoniche d’ufficio), ovvero peculato d’uso, se l’uso sia momentaneo.

In entrambe le ipotesi considerate, esulerebbero peraltro dalla punibilità le situazioni connotate da episodicità o sporadicità, per difetto del requisito implicito del danno al patrimonio e al buon funzionamento della p.a., ovvero per l’esercizio di un diritto (arg.

ex art. 51 c.p.), espressamente conferito ai pubblici dipendenti dall’art. 10, comma 5, del codice di comportamento approvato con il D.M. 31 marzo 1994.

Nel commentare criticamente l’orientamento giurisprudenziale che non inquadra nel peculato, ma nel reato di abuso d’ufficio, la connessione abusiva ad internet da parte del pubblico ufficiale, altra opinione dottrinale si colloca sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica sopra delineata, rilevando che l’autore della condotta incriminata non farebbe solo un uso momentaneo del computer e della linea telefonica (rectius del modem), ma si approprierebbe delle energie – impulsi elettronici – relative alle connessioni ad internet. Tali energie sarebbero oggetto di un’appropriazione vera e propria da parte dell’agente, con correlativa definitiva perdita per l’amministrazione, non essendone possibile la restituzione.

Muovendo dall’ampiezza del fenomeno dell’utilizzo delle nuove tecnologie sui luoghi di lavoro, pubblici e privati, un’altra posizione dottrinale ritiene che il fatto di impegnare una linea telefonica non per comunicazioni conformi al servizio, ma per frequentare chat line o per sbrigare la propria corrispondenza, può costituire, per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, un’ipotesi di peculato ordinario non solo sotto il profilo dell’appropriazione degli impulsi elettronici veicolati dall’apparecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera di disponibilità della p.a., ma anche sotto quello della sottrazione di risorse lavorative altrimenti impiegabili per il lavoro dovuto.

La qualità ordinaria del peculato si evidenzierebbe così anche per la non restituibilità delle risorse lavorative distratte e reindirizzate verso un impegno extralavorativo: a poco rileverebbe, in questa ottica, che il dipendente utilizzi un sistema non comportante di fatto un aggravio di spesa per il datore di lavoro, poichè egli, oltre a procurarsi un vantaggio lucrativo non spettantegli, certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta la durata della connessione, impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al lavoro.

Analoga soluzione interpretativa sarebbe, sia pur parzialmente, proponibile anche nel settore privato, dove tali comportamenti potrebbero ritenersi sussumibili nell’ambito dello schema descrittivo delineato dall’art. 646 c.p., e art. 61 c.p., n. 11: l’utilizzo inappropriato del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo complesso, durante l’orario di lavoro, costituirebbe infatti una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in questione, che verranno restituiti giocoforza al termine dell’attività, quanto delle risorse ed energie lavorative che altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano state affidate.

3.2. Parte della dottrina ha sottoposto invece a critica stringente la soluzione interpretativa che riconduce alla fattispecie del peculato comune il comportamento del pubblico dipendente che indebitamente utilizzi il telefono dell’ufficio per comunicazioni personali.

Muovendo dal duplice rilievo che, ove il possesso dell’energia dipenda dal possesso del bene da cui essa promana, la configurabilità del peculato va valutata in rapporto non all’energia in quanto tale, bensì alla cosa che la produce, e che il pubblico funzionario, per poter disporre dell’utenza telefonica, deve avere il possesso o la disponibilità dell’apparecchio telefonico, si perviene alla conclusione che l’utilizzo a scopi personali dello stesso, che viene così distratto dalla originaria destinazione, è riconducibile propriamente alla figura del peculato d’uso, nel quale il fatto lesivo è costituito proprio dall’utilizzo non conforme alle finalità istituzionali e volto al conseguimento di un vantaggio personale.

Non varrebbe in contrario l’obiezione che il concetto di restituzione non si attaglierebbe ai casi in cui l’uso del bene avvenga senza la sua fuoriuscita dalla sfera di controllo del legittimo titolare.

Posto infatti che la specifica ratio dell’introduzione della nuova fattispecie del peculato d’uso è quella di evitare un’impropria utilizzazione dei beni della pubblica amministrazione, il concetto di appropriazione momentanea che in esso viene in rilievo appare omologo a quello della distrazione, nella quale non rileva che il bene sia o meno sottratto alla sfera di disponibilità e controllo del legittimo proprietario, ma solo che venga distolto dalla originaria destinazione pubblicistica. La restituzione del bene, in tale ipotesi, consisterebbe nella cessazione dell’uso arbitrario, contrario all’interesse pubblico, e nella “riconduzione” del bene alla sua normale destinazione.

Allo scopo di evitare che la finalità attenuatrice della pena assegnata alla previsione di cui all’art. 314 c.p., comma 2, si converta in una eccessiva dilatazione della responsabilità, si è peraltro rimarcata la necessità che l’uso momentaneo si risolva in un’apprezzabile offesa degli interessi del proprietario del bene, non potendosi dunque ritenere configurabile il reato nelle ipotesi di uso economicamente e funzionalmente non significativo (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3).

Di converso, non basterebbe un uso non momentaneo, ovvero non seguito dall’immediata restituzione della cosa, a far rifluire automaticamente il fatto nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p., comma 1, apparendo comunque assai problematica in tal caso la ravvisabilità del dolo della condotta appropriativa, e residuando piuttosto, nella presenza dei previsti requisiti, la possibilità di una incriminazione della condotta a titolo di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..

3.3. In una prospettiva affine ma non sovrapponibile si muove altro orientamento dottrinale, che, assimilando l’uso indebito del telefono a quello dell’autovettura ed escludendo che l’oggetto della condotta, ricadente palesemente in entrambi i casi sul bene fisico impiegato, possa identificarsi con l’energia in sè e per sè considerata che ne esprime il funzionamento, rileva che non sussiste alcun valido motivo per escludere a priori che l’uso possa costituire, nello schema del novellato art. 314 c.p., una forma di manifestazione della condotta appropriativa, richiedendosi solo, a tal uopo, che la condotta di abuso possessorio si estrinsechi attraverso i due momenti realizzativi dell’espropriazione (ossia, l’estromissione totale – ma non necessariamente definitiva – del legittimo proprietario dal rapporto con la cosa) e dell’impropriazione (ossia, il disconoscimento dell’altrui signoria attraverso atti dominicali incompatibili con l’interesse del vero avente diritto). In presenza di siffatti presupposti, opererebbe come criterio di distinzione “interna” tra il peculato comune e il peculato d’uso l’elemento della definitività dell’esclusione del dominus dal rapporto con la cosa:

l’uso protratto per un tempo limitato e seguito dall’immediata restituzione sarà riconducibile al capoverso dell’art. 314 c.p., mentre quello prolungato o comunque non seguito dalla restituzione della res rientrerà nella più grave fattispecie del peculato comune.

In tale prospettiva ermeneutica, la linea di demarcazione “esterna”, rispetto alla contigua fattispecie di abuso d’ufficio, è segnata dalla completa estromissione del proprietario dal rapporto con il bene medesimo, solo in mancanza della quale, restando inconfigurabile il delitto di peculato, potrà trovare applicazione, nella ricorrenza di tutti gli altri presupposti, la fattispecie di cui all’art. 323 c.p..

3.4. Alla tesi della configurabilità del peculato d’uso, altra posizione dottrinale perviene attraverso un percorso differente, che muove dal rilievo, contrario all’opinione dominante, che oggetto di tale figura di reato non sono solo le cose infungibili ma anche quelle fungibili, come il denaro. La previsione della restituzione della “stessa” cosa, recata dalla norma codicistica, andrebbe infatti letta in relazione alla natura della cosa stessa, nel senso che, in caso di beni infungibili, ne esigerebbe la piena identità fisica, mentre, in caso di beni fungibili, quale il danaro, richiederebbe solo che si tratti di cose della stessa specie e quantità.

Partendo da tale presupposto, si rileva che, quando il pubblico dipendente effettua chiamate personali dal telefono dell’ufficio, non si appropria, definitivamente, delle energie che consentono la trasmissione della voce, e neppure, momentaneamente, del mezzo fisico del telefono, ma si appropria invece, momentaneamente, dell’utenza telefonica pubblica e, più precisamente, delle somme di denaro corrispondenti al costo delle telefonate indebitamente effettuate, che distrae nell’immediato in suo favore, provvedendo poi a rifonderle.

3.5. Una diversa ricostruzione viene suggerita, infine, da quella dottrina, secondo la quale l’uso indebito del telefono pubblico non ha ad oggetto l’impulso elettrico che consente la trasmissione della voce e non realizza alcuna appropriazione di “energia”, ma investe propriamente un “diritto di utenza”, rientrante nel novero dei beni immateriali e, come tale, insuscettibile di apprensione. Con la consegna e la conseguente concessione della facoltà di utilizzo di un apparato telefonico, si trasferisce in sostanza a un soggetto il diritto di usufruire del servizio telefonico. L’oggetto della condotta resta, quindi, il solo uso dell’utenza telefonica e non l’energia che ne permette il funzionamento.

Nella prospettiva in discorso, chi si avvale in modo improprio del telefono in dotazione dell’ufficio, limitandosi solo a disporre abusivamente di un diritto che gli è stato concesso, oltre a non realizzare alcuna appropriazione di energia, non si appropria neppure, agli effetti dell’art. 314 c.p., comma 2, del mezzo fisico del telefono, in quanto non ne sottrae la disponibilità alla pubblica amministrazione, e ciò anche se l’uso indebito avvenga con assiduita e in via continuativa.

La condotta in esame resterebbe poi fuori anche dall’ambito applicativo del diverso reato di abuso d’ufficio, non potendovisi allo stato ravvisare il necessario presupposto della violazione di una norma di legge o di regolamento di carattere precettivo, considerato in particolare che il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (che vietando, all’art. 10, l’uso del cellulare e degli altri beni strumentali per fini privati, viene senz’altro violato dal pubblico agente nell’uso improprio del telefono), non è stato emanato nelle forme previste per i regolamenti governativi dalla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, e dunque non può rientrare fra le “fonti normative” previste dall’art. 323 c.p. (come rilevato anche da Sez. 6, n. 45261 del 24/09/2001, NiCita, Rv. 220935).

Per poter attingere la soglia della sanzionabilità penale, l’uso indebito del telefono dovrebbe assumere modalità e intensità tali da sottrarlo effettivamente e stabilmente alla disponibilità della pubblica amministrazione. In tal caso, si realizzerebbe l’effetto appropriativo nella sua forma più grave delineata nell’art. 314, comma 1.

4. Per risolvere compiutamente la questione sottoposta alla Corte, è indispensabile tracciare, nei limiti di pertinenza, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti del delitto di peculato, nelle due forme previste dall’attuale testo dell’art. 314 c.p..

4.1. Nella sua originaria formulazione, la condotta di peculato si articolava in due forme, l’appropriazione e la distrazione. Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, si è: a) formalmente soppressa l’ipotesi della distrazione a profitto proprio o di altri; b) abrogato il delitto (di cui all’art. 315 c.p.) di malversazione a danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie di peculato); c) introdotto, al comma secondo dell’art. 314, l’ipotesi del peculato d’uso.

La introduzione del peculato d’uso come figura autonomamente disciplinata è stata in particolare spiegata con l’intento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di colmare possibili vuoti di tutela al riguardo.

La riforma del ’90, pur se ha tendenzialmente accentuato l’aspetto del disvalore in sè dell’abuso qualificato e interessato del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non ha sostanzialmente inciso sul carattere plurioffensivo del reato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, in relazione alla duplice tutela del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (sotto i profili della legalità, efficienza, probità e imparzialità) e del patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, Sez., 6, n. 8009 del 10/06/1993, n. 8009, Ferolla, Rv. 194921): plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa, con la conseguenza, in particolare, che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, in presenza della lesione dell’altro interesse, protetto dalla norma, del buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n. 4328 del 02/03/1999, Abate, Rv. 213660).

4.2. Il costante orientamento della giurisprudenza, in conformità al tenore letterale del dato normativo di cui all’art. 314 c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico (Sez. 6, n. 396 del 06/06/1990, Di Salvo), ricomprendendovi, oltre alla detenzione materiale, anche la (mera) disponibilità giuridica della cosa (Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv. 211008), intesa come concreta possibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositivo – derivante dalla sfera di competenza o comunque da prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, anche se in contrasto con norme giuridiche o atti amministrativi -nelle operazioni finalizzate alla concreta apprensione (v. al riguardo Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146).

Anche in dottrina si aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata dalla visione civilistica di possesso ex art. 1140 c.c., ritenendosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici che attribuiscono all’agente pubblico la possibilità di operare sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine tutelato dal diritto ed avviarla indebitamente verso una finalità propria del soggetto attivo.

4.3. Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. L’espressione “cosa mobile” denota ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all’altro.

Secondo la più recente giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati contro il patrimonio, per “cosa mobile” deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che possa essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte.

Alla “cosa”, inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2, “l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico” Da tale ambito si ritengono però generalmente escluse le energie umane, o muscolari, inscindibili dalla persona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.

Il requisito del valore economico – presunto per l’energia elettrica, da dimostrarsi per le altre energie – definisce l’ambito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo le energie che vengono captate dall’uomo, mediante l’apprestamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a fini pratici, distribuite, scambiate, etc.: deve trattarsi, dunque, di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve esservi sia un soggetto che la controlla, sia un soggetto disposto normalmente a versare un corrispettivo per averla in godimento.

Si ritiene in dottrina che l’equiparazione dell’energia alla cosa mobile sussiste solo se l’energia possa venire posseduta separatamente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza, tutte le volte che il possesso dell’energia dipenda e sia inseparabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso di animali, macchinari), la configurabilità del reato deve essere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all’energia; con la conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno, se del caso, i principi validi per il peculato d’uso.

Sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Comiani, Rv. 247270; Sez. 2, n. 36592 del 26/09/2007, Trementozzi, Rv. 237807) si esclude che i beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio, etc.), che patrimoniali (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio, etc.) – possano costituire oggetto di peculato, perchè non sono cose.

Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un diritto.

4.4. La condotta di “appropriazione” identifica il comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario. Essa si articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. “espropriazione”), di indebita alterazione dell’originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. “impropriazione”), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.

Con l’interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare il denaro o la cosa mobile come fossero suoi, compiendo su di essi uno o più atti di disposizione – comportamenti materiali o atti negoziali – che, incompatibili con il titolo del possesso, rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebitamente si attribuisce.

Nell’esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo all’autentico dominus si realizza quella “conversione della cosa a profitto proprio o altrui” che, tradizionalmente indicata come ricompresa nel concetto stesso di appropriazione, non può non emergere anche là dove, come nell’art. 314 c.p., e diversamente da quanto avviene per il delitto di appropriazione indebita (dove, previsto come “ingiusto”, compare quale finalizzazione del dolo specifico), il profitto proprio o altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.

Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione nell’ambito del delitto di peculato – realizzantesi con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus nei confronti della res posseduta in ragione dell’ufficio, che viene, correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio dell’avente diritto – è rimasta invariata anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 86 del 1990 (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194923).

L’espunzione della distrazione dal nuovo testo dell’art. 314 c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei rapporti tra le nozioni di “appropriazione” e “distrazione”.

In giurisprudenza si ritiene che l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 c.p., operata dalla L. n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’area di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato. La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d’ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell’agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 del 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari).

E’ interessante notare che anche in relazione al delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., che non ha mai incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l’opinione che ritiene tale condotta – intesa nel suo significato di “deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall’uso legittimo”- riconducibile sostanzialmente a quella appropriativa (Sez. U, n. 9863 del 28/02/1989, Vita, Rv. 181789; Sez. U, n. 1 del 28/02/1989, Cresti, Rv. 181792; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv. 208059; Sez. 2, n. 2829 del 19/11/1991, Griffa, Rv. 189314; Sez. 2, n. 5523 del 27/02/1991, B.N.L., Rv. 187512).

Discorso analogo, per il delitto di cui all’art. 646 c.p., si fa anche per l’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l’atto compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene (Sez. 2, n. 47665 del 27/11/2009, Cecchini, Rv. 245370; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv. 208059; Sez. 3, n. 3445 del 02/02/1995, Carnovale, Rv. 203402; Sez. 2, n. 2954 del 15/12/1971, dep. 1972, Rv. 120966).

La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p. (il quale, com’è noto, ove aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione del titolo del possesso: Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, Rv. 237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, Rv. 180167), ha, dunque, finito per assumere, con il passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell’appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme di manifestazione sono l’alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione, sia dell’uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile.

4.5. Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente, il peculato d’uso previsto dal comma secondo dell’art. 314, non costituisce un’attenuante del delitto di peculato, bensì una figura del tutto autonoma, per impianto strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I due commi prevedono, pertanto, due diverse ipotesi di reato (Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, Rv. 199187; Sez. 6,, n. 8156 del 29/04/1992, De Bortoli, Rv. 191407).

In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, connotata dalla finalità dell’agente quale elemento specializzante, delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l’uso momentaneo, seguito dall’immediata restituzione della cosa, non integra un’autentica appropriazione, realizzandosi, quest’ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.

Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata da parte della dottrina), l’ipotesi lieve di peculato prevista dal capoverso dell’art. 314 cod. pen. non è configurabile rispetto al denaro (Sez. 6, n. 27528 del 21/05/2009, Severi, Rv. 244531; Sez. 6, n. 3411 del 16/01/2003, Ferrari, Rv. 224060; Sez. 6, n. 8286 del 03/05/1996 Galdi, Rv. 205928) – bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo alternativo solo nell’art. 314, comma 1 -, nè, analogamente, in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe possibile la restituzione della eadem res, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell’integrazione del reato de quo (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194925; Sez. 6, n. 12218 del 17/10/1991, Bulgari, Rv. 189004; in senso contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e, quindi, anche al denaro, Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264).

La nozione di restituzione viene intesa in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264), per la quale tra la cessazione dell’uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l’uso e la restituzione) si pongano in un continuum dell’operato dell’agente: occorre, cioè, che egli, dopo l’uso, non compia altre attività che non siano quelle finalizzate alla restituzione.

Resta fermo poi che l’intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo deve esser presente sin dall’inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d’uso, bensì, sin dall’origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo.

Si ritiene comunque che non integri alcun reato l’utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la condotta non leda la funzionalità dell’ufficio nè causi un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786).

5. Traendo ora le fila dalla esposizione che precede, occorre passare anzitutto a esaminare le tesi che hanno, sotto vari profili, ritenuto di ravvisare nell’uso indebito del telefono d’ufficio da parte del pubblico agente, una ipotesi di peculato ordinario ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1.

5.1. Partendo, al riguardo, dall’indirizzo, oggi dominante in giurisprudenza, che sostiene che con il detto uso si realizza la appropriazione, necessariamente definitiva (non potendosi configurare una restituzione successiva al consumo), delle energie costituite dalle onde elettromagnetiche che permettono la trasmissione della voce, si osserva che esso non è condivisibile.

In primo luogo, infatti, le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell’utente del telefono. E questo perchè non preesistono all’uso dell’apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione. Oltre a ciò, sul piano intrinseco, esse si caratterizzano per il fatto di “propagarsi”, e non si può, quindi, procedere al loro concreto immagazzinamento, funzionale a un impiego pratico misurabile in termini economici, sì da rispondere all’esplicito requisito di cui all’ultima parte dell’art. 624 c.p., comma 2.

E’ noto, del resto, che il costo delle singole chiamate, anche nei contratti a consumo, non è il riflesso diretto delle onde elettromagnetiche attivate, bensì il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di comunicazione gestito, in base alla quale si determina, secondo i parametri del numero e della durata, il prezzo, economicamente congruo, della fruizione del servizio.

Se poi si vuoi vedere nel riferimento alle onde elettromagnetiche un implicito richiamo anche all’energia elettrica (rilevante ex se ai sensi del comma secondo dell’art. 624 c.p.) necessaria ad attivarle, l’esclusione della sua supposta definitiva appropriazione discende dalla considerazione che tale energia viene nella specie in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente connessa al concreto funzionamento dell’apparecchio e non può costituire, quindi (come puntualizzato da accorta dottrina: v. sopra par. 4.3.), diretto, specifico e autonomo oggetto della condotta dell’utente.

5.2. Il rilievo sopra svolto sul costo delle chiamate sollecita l’immediata presa in esame della prospettazione che sposta l’oggetto della ravvisabile appropriazione definitiva, rilevante ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1, dalle energie consumate alle somme al cui esborso l’indebito uso del telefono d’ufficio espone la pubblica amministrazione.

Tale ricostruzione – che sarebbe comunque applicabile alle sole situazioni regolate da tariffe a consumo e non anche a quelle c.d.

“tutto incluso” – non è accettabile, non corrispondendo alla realtà del fenomeno in discorso, in quanto posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo, ed effetto di questa, in cui la p.a. ne sostiene l’onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all’infedele funzionario, nè il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la p.a.

e il gestore di telefonia.

Parimenti inaccettabile è l’opinione che ravvisa l’oggetto dell’appropriazione definitiva nelle stesse energie lavorative che il pubblico agente, con la condotta in discorso, dirotterebbe verso fini difformi da quelli istituzionali. Qui è evidente che si è del tutto fuori dallo schema del rendere “proprio” un qualcosa che solo si possiede, verificandosi al contrario l’inadempimento dell’obbligo di mettere a servizio altrui un qualcosa che è proprio.

6. Occorre ora passare ad esaminare gli ipotizzabili inquadramenti dell’indebito uso del telefono d’ufficio in fattispecie diverse da quella del peculato ordinario.

6.1. Al riguardo, bisogna anzitutto farsi carico della prospettazione, avanzata nell’ordinanza di rimessione, della riconducibilità del fenomeno alla ipotesi della truffa aggravata.

Per la verità, nell’ordinanza si fa riferimento alla eventuale esistenza di una inveritiera dichiarazione, che arricchisce in qualche modo la situazione base di cui ci si sta occupando.

In relazione a questa, la tesi della riconducibilità alla truffa non appare sostenibile. Nella truffa, invero, l’ingiusto profitto è frutto della induzione in errore, laddove, quando il pubblico agente adopera per fini privati il telefono assegnatogli per le esigenze d’ufficio, la realizzazione, da parte sua, di un indebito vantaggio è immediata e non è in sè dipendente dalla induzione in errore di alcuno. Il conseguente danno per l’amministrazione (sussistente peraltro solo nei casi regolati da contratto a consumo) deriva direttamente dal vincolo che la lega al gestore e l’eventuale silenzio del funzionario infedele interviene in relazione a una condotta ormai consumata e che egli non era in radice autorizzato a porre in essere.

6.2. C’è poi da esaminare la questione della riconducibilità dell’uso indebito del telefono d’ufficio alla fattispecie del peculato d’uso, di cui all’art. 314 c.p., comma 2.

A tale quesito deve darsi, ad avviso della Corte, risposta positiva (con conseguente ritorno a quello che era stato l’iniziale orientamento della giurisprudenza).

Si è sopra visto (par. 4.4.) che la nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p., ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente la detiene.

Naturalmente, in quell’ambito, nel quale non è prevista l’ipotesi dell’uso momentaneo, si richiede l’effetto della perdita della cosa stessa da parte dell’avente diritto. Questa conseguenza è chiaramente incompatibile con un uso strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost., n. 2 del 1991) momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell’art. 314 c.p.; il quale, quindi, non potrà mai integrare un’appropriazione, nel senso specifico di cui al primo comma della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.

Si tratta, in altre parole, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua stabile inversione in dominio. La ratio dell’introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione. Ma se così è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie, è giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l’elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del titolo del possesso, che l’agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso fini personali. In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell’utilizzo indebito, in veste di dominus (per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell’altrui maggior diritto. In tale schema ricostruttivo si palesa all’evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, l’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la “restituzione” della cosa si risolverà logicamente nella cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua destinazione normale (come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746).

Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d’uso, è evidente che l’utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio, vi diviene pienamente sussumibile. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall’apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d’ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a..

Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plurioffensività alternativa del delitto di peculato:

v. sopra par. 4.1.) con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”. L’uso del telefono d’ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante.

Considerata, poi, la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile.

Il principio di diritto che si può enucleare da tutto il discorso che precede è il seguente:

“La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio, è sussumibile nel delitto di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2”.

6.3. Discende da quanto sopra che deve ritenersi assorbita la questione della possibilità, prospettata nell’ordinanza di rimessione, di ricondurre il fenomeno dell’uso indebito del telefono della p.a. alla fattispecie dell’abuso d’ufficio. Al di là, infatti, dei problemi concreti che la prospettazione de qua può porre (v.

sopra, paragrafi 2.4. e 3.5.), non c’è dubbio che tale figura, formalmente sussidiaria in relazione ai reati più gravi (in ragione della espressa clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 323 c.p.), è comunque da considerarsi, rispetto al peculato d’uso, punito con identica pena edittale, e contraddistinto dall’elemento specifico dell’appropriazione temporanea di una res, figura di carattere residuale e non concorrente, in quanto avente genericamente ad oggetto il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dalla violazione di norme di legge o di regolamento posta in essere dal pubblico agente nello svolgimento delle funzioni o del servizio (v. in tal senso Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi, n.m.).

7. Esaminando ora, alla luce delle conclusioni come sopra assunte, il fatto come ascritto al V. nel capo A della rubrica, risulta evidente che lo stesso non può integrare il peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, ma appare sussumibile nella fattispecie del peculato d’uso di cui al secondo comma dello stesso articolo. Tale ultimo reato, peraltro, considerata l’epoca della sua commissione (protrattasi non oltre il dicembre 2003), è ormai estinto per il decorso del termine massimo di prescrizione (pur tenendo conto delle sospensioni intervenute).

Alla declaratoria dell’estinzione può peraltro procedersi solo previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare un proscioglimento più favorevole ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.

Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

Non può dubitarsi, alla stregua dei dati di fatto accertati in sede di merito e non contestati, che le telefonate di cui è accusato l’imputato, di contenuto strettamente personale e indirizzate spesso a utenze site fuori del Paese di partenza, hanno determinato, singolarmente prese (secondo il corretto inquadramento e vaglio operato dalla Corte di appello), un danno comunque apprezzabile alla p.a. (in quanto ammontante ad alcune decine di Euro), anche se di speciale tenuità (onde è stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4).

Relativamente ai motivi con cui la difesa ha variamente invocato la sussistenza, nella specie, della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quanto meno a livello putativo, ovvero dell’errore sul fatto, in conseguenza di condotte, omissive e positive, della p.a., che avevano dato luogo a una diffusa prassi di tolleranza del comportamento addebitato al V., deve rilevarsi quanto segue.

Anzitutto, com’è noto, quando i beni oggetto di peculato sono della p.a., nessun soggetto può esprimere un valido consenso esimente.

Circa, poi, la normativa amministrativa regolante, all’epoca dei fatti, l’uso dei cellulari da parte dei pubblici funzionari residenti all’estero, e le risultanze, orali e documentali, relative all’allegata prassi anzidetta, i giudici di merito ne hanno effettuato una disamina analitica, al cui esito, da un lato, hanno affermato con certezza che la disciplina dell’epoca consentiva l’uso dei cellulari per scopi privati solo in caso di contratto dual billing (contemplante, cioè, l’utilizzo di un codice atto a distinguere e ad addebitare separatamente le chiamate non istituzionali), vietandolo conseguentemente in mancanza dell’adozione di detto sistema, e, dall’altro, hanno sottolineato che i sopravvenuti chiarimenti “interpretativi”, in quanto per nulla rispondenti all’univoco contenuto della citata disciplina, rimasta formalmente invariata, e intervenuti comunque successivamente all’epoca dei fatti, non possono costituire base utile per dare positivo sostegno e rilievo alla indicata prassi di tolleranza, che, quindi, essendosi formata in maniera non unanime e in contrasto con la normativa ufficiale vigente, deve considerarsi certamente inidonea a scriminare soggettivamente la condotta di chi, come l’imputato (tenuto, per il suo ruolo, ad avere o prendere precisa cognizione circa la legittimità dei propri comportamenti e ad astenersene in caso di incertezze al riguardo), ha utilizzato sistematicamente i cellulari di servizio per chiamate dal contenuto strettamente privato, omettendo per anni di segnalarle all’amministrazione e corrisponderne il costo.

La descritta motivazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 35813 del 21/06/2007, Bensi, Rv. 237767;

Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, Rv. 229060; Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228; Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, dep. 2001, Aliberti, Rv. 217862; Sez. 6, n. 6776 del 22/03/2000, Fanara, Rv. 216319) e scevra da vizi apprezzabili in questa sede: vizi la cui eventuale sussistenza sarebbe comunque irrilevante al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbe un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perché estinto per prescrizione, con eliminazione della relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p..

8. Venendo ora al reato di falso, ascritto a entrambi gli imputati, va rilevato che lo stesso, come già ricordato in parte narrativa, è stato fatto oggetto di impugnazione solo nel ricorso del S..

Il reato in questione, in quanto commesso (secondo la data riportata sul documento) in data 22 gennaio 2004, risulta estinto, per decorso del termine massimo di prescrizione (di sette anni e mezzo), maggiorato di 120 giorni (per le sospensioni dovute ai due rinvii, per impedimento del difensore, dall’11 novembre 2008 al 12 febbraio 2009 e dal 12 febbraio 2009 al 16 aprile 2009), in data 19 novembre 2011, successiva alla emissione della sentenza impugnata e alla proposizione dei ricorsi.

La declaratoria di tale estinzione, spettante al S., non può peraltro essere estesa anche al V. in forza della regola di estensione di cui all’art. 587 c.p.p., essendosi nei suoi confronti consolidato il giudicato di colpevolezza prima del verificarsi dell’effetto estintivo, venuto a maturazione in ragione del protrarsi del decorso del termine di prescrizione successivamente alla proposizione dei ricorsi (Sez. 2, n. 26708 del 20/05/2009, Borrelli, Rv. 244664; Sez. 6, n. 23251 del 18/03/2003, Cammardella, Rv. 226007; Sez. 1, n. 12369 del 23/10/2000, Russo, Rv. 217393).

Ciò chiarito, deve naturalmente anche qui procedersi alla previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare nei confronti del S. un proscioglimento più favorevole a sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (estensibile in ipotesi sicuramente, ove non basato su motivi personali, anche al V., in forza della ricordata regola di cui all’art. 587 c.p.p.). Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

I motivi proposti in ordine al falso, infatti, vuoi quelli intesi a contestare la natura pubblica attestativa del documento redatto dal S. ovvero la effettiva falsità ideologica del passaggio relativo all’avvenuto rimborso da parte del V., vuoi quelli diretti a contestare la sussistenza di un dolo penalmente rilevante, sono basati, quando non su rilievi di merito, su presunti vizi motivazionali – autonomi o collegati a prospettate letture del diritto sostanziale alternative a quella offerta (in conformità alla dominante giurisprudenza) dai giudici di merito – che, se anche sussistenti, sarebbero comunque irrilevanti al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbero un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del S. in ordine al reato di falso (che resta invece fermo, con la irrogata pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, per il V.), perché estinto per prescrizione.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata dal V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perché estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p., ferma restando la pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di falso.

Annulla senza rinvio la stessa sentenza nei confronti del S. in ordine al reato di falso, perché estinto per prescrizione.

(vedi ORDINANZA di errore in calce allegata con deliberazione 16/04/2013).

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2013


INFORTUNI SUL LAVORO: la colpa del dipendente non libera il datore di lavoro

Il datore di lavoro è sempre responsabile, in caso di infortunio sul lavoro, anche nel caso in cui la condotta del lavoratore sia stata colposa. Il comportamento seppur colposo del dipendente, infatti, non è tale da liberare dalle proprie responsabilità il datore di lavoro.

E’ questa l’importante novità stabilita dalla Corte di Cassazione (sez. lavoro, sentenza n. 2512 del 4-2-2013), con alcuni importanti aspetti:

  • il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio avvenuto e non può invocare il “concorso  di  colpa” del lavoratore danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza
  • la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio (derivante dal regime di subordinazione)va addebitata al datore di lavoro, il quale  – con l’ordine di eseguire un’incombenza lavorativa pericolosa determina la causa dell’evento dannoso
  • l’azione del lavoratore contro il datore di lavoro, diretta ad ottenere il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione (da parte dello stesso datore) delle misure previste dall’art. 2087 codice civile, si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro.

Bilancio 2012

Atti relativi al Bilancio dell’Associazione dell’anno 2012 approvato dalla Giunta Esecutiva del 19.01.2013 e su delega dell’Assemblea Generale dal Consiglio Generale del 19.01.2013

Leggi: Bilancio 2012


Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (INI-PEC)

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha emanato il DM del 19.03.2013 pubblicato sulla G.U. il 09.04.2013 relativo all’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (INI-PEC). Un “passettino” verso l’applicazione dell’art. 149 bis c.p.c.

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Divieto di intestazione fittizia dei veicoli

Come è noto, l’art. 12 della L. 120/2010, ha introdotto nel Codice della strada un articolo, l’art. 94 bis, con il quale si afferma il divieto di intestazione fittizia dei veicoli, sia sulla carta di circolazione che sul certificato di circolazione che sul certificato di proprietà ovvero sul certificato di circolazione dei ciclomotori, e prevede la loro cancellazione d’ufficio dal P.R.A. e dall’archivio nazionale dei veicoli …. (Circ Min Interno 4587-2012 (Intestazione fittizia dei veicoli)  (Circ Min Interno 2403-2013 Intestazione fittizia dei veicoli)


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 30-01-2013) 02-04-2013, n. 7985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19784/2009 proposto da:

L.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso lo studio dell’avvocato BELLUCCI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIOLI VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NOCERA UMBRA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato TONELLI ENRICO, rappresentato e difeso dall’avvocato CAFORIO GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 488/2008 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 11/09/2008 R.G.N. 842/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato BELLUCCI MAURIZIO;

udito l’Avvocato TONELLI ENRICO per delega CAFORIO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Perugia, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di L.P., proposta nei confronti del Comune di Nocera Umbra di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità della revoca dell’incarico di responsabile di sezione con conseguente sua reintegrazione nel posto precedentemente occupato e condanna di controparte al risarcimento dei danni.

La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, riteneva, innanzitutto,inammissibile, perché nuova,la domanda diretta ad ottenere l’ordine di cessazione delle attività vessatorie e mobbizzanti in quanto la relativa causa petendi – consistente nell’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo – ed il petitum – ordine di cessazione – non trovavano riscontro nel ricorso introduttivo del giudizio.

La predetta Corte, poi, relativamente alla assunta dequalificazione professionale, conseguente alla allegata privazione di qualsiasi incarico a seguito della revoca della funzione di responsabile di sezione, rilevava che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che gli incarichi erano rimasti “sulla carta” e non avevano avuto esecuzione e che egli era rimasto inoperoso. Viceversa, secondo la Corte territoriale, il L. non aveva assolto a tale onere in quanto la prova articolata non verteva su fatti specifici e rilevanti a quel fine, ma anzi comportava l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto meramente formale degli incarichi.

Nè, infine, riteneva la Corte del merito che gli incarichi assegnati al ricorrente non fossero corrispondenti alla professionalità propria della categoria d’inquadramento.

Avverso questa sentenza il L. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso il Comune intimato.

Motivi della decisione
Con la prima censura il ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione in punto di ritenuta novità del capo della domanda concernente il mobbing. In particolare il L. rileva che prima la Corte del merito asserisce la novità della domanda e, poi, riconosce l’esistenza di una allegazione sullo svuotamento delle mansioni.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, pone il seguente quesito di diritto: “se la richiesta di cessazione di abuso di condotta vessatoria da parte del datore di lavoro costituisce domanda nuova e come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437, comma 2, rispetto alla domanda formulata in primo grado dal lavoratore di accertamento dell’esistenza dell’abuso stesso ai fini della domanda di risarcimento del danno e di reintegra delle effettive funzioni ricoperte prima dell’abuso”.

Le due censure, in quanto strettamente connesse dal punto vista logico e giuridico, vanno trattate unitariamente.

Preliminarmente va dato atto che i motivi di ricorso in esame risultano ex art. 366 bis c.p.c., ammissibili atteso che, contrariamente all’assunto di parte resistente, i relativi quesiti consentono la piena cognizione, e del fatto controverso su cui s’incentra la censura di contraddittorietà della motivazione, e della violazione di leggi dedotta con riferimento anche alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

Tanto premesso rileva la Corte che i motivi sono infondati.

Innanzitutto non vi è contraddittorietà della motivazione in quanto il ricorrente non tiene conto che secondo la Corte del merito il mobbing presuppone l’esistenza, e, quindi, l’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo. E proprio con riferimento a tale ricostruzione del mobbing ritiene che manca nel ricorso di primo grado, qualsiasi allegazione di tal genere e che, pertanto, la relativa domanda – rectius causa petendi – è nuova. In altri termini per la Corte del merito non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento delle mansioni”, occorrendo, ai fini della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, oltre alla considerazione che il petitum – rappresentato nella specie dalla richiesta di un ordine di cessazione della condotta mobizzante – è del tutto nuovo come sottolineato dalla Corte del merito, vi è il rilievo che trattandosi d’interpretazione della domanda che implica un accertamento di fatto, il ricorrente per correttamente investire questa Corte della questione di cui trattasi avrebbe dovuto denunciare l’erronea interpretazione della domanda e non la sola violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2.

Con la terza critica il L., deducendo vizio di motivazione, lamenta la mancata ammissione dell’interrogatorio formale di controparte e della prova articolata.

La censura è infondata.

Invero la Corte del merito ritiene inammissibili i reclamati mezzi istruttori perché non vertenti su fatti specifici e rilevanti, ma anzi comportanti l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto formale degli incarichi conferiti.

Ebbene ritiene il Collegio che effettivamente i capitoli di prova vertono sulla cronistoria degli accademisti e sulla formalità o meno degli incarichi attribuiti al ricorrente. Come tali, quindi, sono irrilevanti – rectius inammissibili – atteso che riguardano circostanze, quali quelle della revoca dell’incarico e dell’attribuzione di nuovo incarico, del tutto pacifiche ovvero attengono alla richiesta di un giudizio circa il contenuto formale o meno dei nuovi incarichi affidati al ricorrente.

Il ricorso, in conclusione, va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2013


Cancellazione della società dal registro delle imprese – effetti sostanziali e processuali

Le Sezioni Unite, risolvendo una questione di massima di particolare importanza, hanno statuito i seguenti principi di diritto:

 1) «Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: (a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; (b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di con titolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato».

2) «La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., con possibile eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta» (nello stesso senso, la “gemella” n. 6071 del 2013).

Testo Completo: Sentenza 12 marzo 2013, n. 6070