Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 06/06/2024) 28/06/2024, n. 17912

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAROTTA Caterina – Presidente

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere Rel.

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere

Dott. CASCIARO Salvatore – Consigliere

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29045/2021 R.G. proposto da

A.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Germanico n. 109, presso lo studio dell’avv. D’Amico, rappresentato e difeso dagli avv. Francesco Vincenzo Papadia ed Emanuele Procopio

– ricorrente –

contro

Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria

– intimata –

avverso la sentenza n. 256/2021 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, depositata il 27.5.2021;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6.6.2024 dal Consigliere Andrea Zuliani.

Il ricorrente, infermiere presso l’Ospedale di Locri, ottenne decreto ingiuntivo nei confronti dell’Azienda Sanitaria

Svolgimento del processo
Il ricorrente, infermiere presso l’Ospedale di Locri, ottenne decreto ingiuntivo nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria (di seguito, ASP), chiedendo il pagamento delle prestazioni aggiuntive rese nel servizio “dialisi estiva”, destinato anche a persone in ferie nella regione, pagate dall’ente negli anni antecedenti e successivi, ma non per l’anno 2013.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, riformando la pronuncia del Tribunale di Locri che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo, ha disatteso la domanda, revocando il decreto ingiuntivo e ritenendo che la vicenda non fosse regolata dal CCNL richiamato dal ricorrente, in quanto riguardante il personale dirigente, ma dal d.l. n. 402 del 2001, poi recepito dal CCNL 2008/2009, le cui norme prevedono la necessità di autorizzazione regionale, il ricorrere di certe condizioni soggettive e la contrattazione della tariffa, tutte circostanze la cui sussistenza non era stata allegata, senza contare che, contestualmente, gli impegni lavorativi e di spesa erano stati ridotti per rispettare i vincoli di bilancio.

Contro la sentenza della Corte d’Appello il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi, mentre l’ASP è rimasta intimata.

Nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 – bis.1 c.p.c. il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Deve preliminarmente dirsi che la notifica del ricorso per cassazione è regolare.

La sentenza di appello dà atto che la ASP era difesa in quella sede dall’avv. Rosa Lombardo. Il ricorso per cassazione risulta notificato il 17.11.2021 presso la casella Pec del predetto legale e ricorrono dunque i presupposti di cui all’art. 330 c.p.c., sub specie di notifica presso il procuratore costituito.

Pertanto, tenuto conto che la sentenza è stata pubblicata il 27.5.2021 e non risulta la sua notificazione, la proposizione del ricorso per cassazione è tempestiva.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 1375 e 2697 c.c. e degli artt. 36 e 111 della Costituzione, anche in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., e con esso si fa leva sul fatto che le prestazioni fossero state in concreto eseguite, su incarico della Azienda.

Dalla sentenza di appello si evince che la domanda ha riguardato la remunerazione di attività svolta dal ricorrente oltre il debito orario per l’assicurazione di prestazioni di dialisi “estiva” in favore anche di pazienti di altre regioni soggiornanti in Calabria. La Corte d’Appello, rettificando il richiamo svolto dal ricorrente alla contrattazione dirigenziale, ha riportato la pretesa a quella propria delle c.d. prestazioni aggiuntive, quali regolate fino al 31.12.2003, dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 402 del 2001, conv. con mod. in legge n. 1 del 2002 (con effetti poi prorogati dapprima al 31.12.2006 dall’art. 6 – quinquies d.l. n. 314 del 2004, conv. con mod. in legge n. 26 del 2005 e quindi al 31.5.2007 dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 300 del 2006, conv. con mod. in legge n. 17 del 2007 e quindi, ulteriormente, fino all’intervenire della contrattazione collettiva per effetto dell’art. 4 della legge n. 120 del 2007) e poi regolate, attraverso il richiamo alla medesima disciplina, dall’art. 13 del CCNL 10.4.2008 (normativo 2006 – 2009 ed economico 2006 – 2007) e dall’art. 12 CCNL 31.7.2009 (economico 2008 – 2009).

La Corte di merito ha in proposito ritenuto che, essendo mancate allegazione e prova dei fatti costitutivi, tra cui l’autorizzazione regionale e le condizioni soggettive dei lavoratori (prestazione di servizio a tempo pieno da almeno sei mesi; assenza di esenzioni da mansioni; etc.) e mancando una disciplina contrattuale definitoria dei compensi, la fattispecie non risultasse integrata e la domanda andasse quindi disattesa.

3. Il ragionamento della Corte territoriale è in sé corretto, sebbene non sufficiente, per quanto si andrà a dire, a sorreggere la reiezione della domanda.

4. L’ipotesi delle prestazioni “aggiuntive” è in effetti speciale, in quanto caratterizzata da elementi di fattispecie che vanno al di là della mera prestazione del lavoro su incarico datoriale, essendo necessario un previo controllo sulle risorse e di coerenza rispetto agli obiettivi sanitari, cui si riferisce evidentemente la “previa” autorizzazione regionale – esterna al datore di lavoro – richiesta dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 402 del 2001 citato, implicitamente confermata dalla normativa di proroga di cui si è detto ed altresì poi confermata dal rinvio alla disciplina pregressa operata dalla contrattazione collettiva, parimenti citata, che regola ratione temporis quanto oggetto di causa.

Giustamente la Corte territoriale aggiunge a tali requisiti quello della fissazione tariffaria specifica di tali prestazioni, da svolgere previa consultazione sindacale.

Tali elementi sono risultati carenti ed anzi si può dire che pacificamente essi non ricorrevano, sicché, una volta operata la qualificazione in tal senso della domanda, va da sé che la stessa dovesse essere disattesa.

In tal senso questa Suprema Corte già si è espressa, seppure rispetto alle prestazioni “aggiuntive” dei dirigenti medici ai sensi degli artt. 14, comma 6, del CCNL 2005 e 5, comma 2, del CCNL 2000 di Area (Cass. n. 9413/2023).

5. Tuttavia, l’apprezzamento dell’oggetto del contendere svolto dalla Corte territoriale è parziale e fondatamente il primo motivo di ricorso fa leva sul fatto che la ASP, quale datore di lavoro, richiese e recepì dal lavoratore le prestazioni svolte oltre il debito orario, da cui derivò anche per l’ente la percezione di “ricavi”, secondo quanto risulterebbe emergere dai documenti incorporati al ricorso per cassazione.

Lo svolgimento di lavoro oltre il debito orario non intercetta infatti, sotto il profilo della remunerazione, soltanto la fattispecie delle prestazioni c.d. “aggiuntive”, ma anche quella del lavoro straordinario, in ipotesi nella variante di cui all’art. 2126 c.c. ed è a tali ipotesi che l’insistenza del ricorrente sulla concreta esecuzione di prestazioni cui egli era stato “comandato” inevitabilmente riporta in esercizio il potere – dovere di individuare, una volta denunciata la violazione di legge, la disciplina normativa regolativa della fattispecie dedotta in causa.

Il tema diviene dunque quello della remunerazione di tali prestazioni sulla base della disciplina dello straordinario.

6. È indubbio che la contrattazione collettiva prevede (art. 34, comma 2, del CCNL 1998/2001; art. 31, comma 2, del CCNL 2016/2018; ora, art. 47, comma 2, del CCNL 2019/2021) che lo straordinario sia autorizzato dal dirigente.

Questa Suprema Corte ha tuttavia declinato il principio, cui va data continuità, secondo cui in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato, interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost., prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario se debitamente autorizzato e che, dunque, rispetto ai vincoli previsti dalla disciplina collettiva, la presenza dell’autorizzazione datoriale è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. (Cass. n. 23506/2022).

Assetto, questo, su cui è allineata la definizione di cause sostanzialmente identiche alla presente, con l’affermazione dell’ulteriore principio per cui, in tema di pubblico impiego privatizzato, il riconoscimento del diritto a prestazioni c.d. “aggiuntive” – ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 402 del 2001, conv. con mod. dalla l. n. 1 del 2002, richiamato ratione temporis dalla contrattazione collettiva del comparto sanità – è subordinato al ricorrere dei presupposti dell’autorizzazione regionale, della presenza in capo ai lavoratori di requisiti cc. dd. soggettivi e della determinazione tariffaria; tuttavia, pur in mancanza dei menzionati presupposti, l’attività lavorativa oltre il debito orario comporta il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica, il quale determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione (Cass. n. 18063/2023; analogamente, sempre sul servizio di dialisi estiva della ASP di Reggio Calabria, v. Cass. nn. 17641/2023 e 11946/2024).

Nel dare continuità a tali principi si ribadisce quindi che per autorizzazione, nell’ambito del lavoro straordinario, si intende il fatto che le prestazioni non siano svolte insciente vel prohibente domino, ma con il consenso del medesimo e che il consenso alle prestazioni può anche essere implicito. Tale consenso, come si è scritto sopra, una volta esistente, integra gli estremi che rendono necessario il pagamento e ciò anche ove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo.

I principi suesposti hanno del resto trovato continuità in fattispecie del tutto contigue, come quella della remunerazione a titolo di straordinario delle prestazioni rese a titolo di compenso incentivante, ove manchi la realizzazione dei presupposti propri di esso, ma vi sia superamento del debito orario (Cass. n. 25696/2023) o quella delle prestazioni rese a favore di terzi con il consenso della P.A. di appartenenza, sempre oltre il debito orario (Cass. n. 27842/2023).

6.1. Il collegio ritiene di ulteriormente precisare quanto segue.

Sul piano delle fonti, nel pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, l’attribuzione dei trattamenti economici è in effetti riservata alla contrattazione collettiva, sicché non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A., ma occorre, a pena di nullità, la conformità di tale atto alla contrattazione collettiva (Cass. nn. 11645/2021; 17226/2020).

Nei casi come quello di specie quanto accade è però che, sebbene l’autorizzazione prevista dal CCNL risponda ad ulteriori ragioni (programmatiche, di spesa, etc.) o risalga a fattispecie diversa da quella dello straordinario (ad es. attività da remunerare con compensi incentivanti di cui non si realizzino i presupposti), rispetto alla remunerazione del lavoratore ciò che conta è lo svolgimento del lavoro su incarico anche solo implicito del datore e non contro la volontà di questi, sicché non rileva il fatto che siano osservate forme, né che l’autorizzazione si manifesti per qualunque ragione come invalida o potenzialmente tale, oppure come inidonea (v. il caso dei compensi incentivanti) al suo scopo originario.

A ben vedere, quello che si realizza in tal modo non è un reale contrasto tra la norma del codice civile (art. 2126 c.c., qui in relazione all’art. 2108 c.c.) e le regole che disciplinano l’autorizzazione nella contrattazione collettiva e quindi di un contrasto tra le previsioni di legge e quest’ultima. Al di là del regime del rapporto tra le fonti, mutevole nelle diverse versioni normative del pubblico impiego privatizzato succedutesi nel tempo, attraverso l’applicazione dell’art. 2126 c.c. viene regolata una fattispecie ulteriore e comune, in tutto il diritto del lavoro, alle prestazioni subordinate svolte coerentemente con la volontà datoriale, ma in condizioni non conformi al regime di validità proprio di esse, le quali vanno ciononostante remunerate, ovviamente secondo il quantum previsto, per tali prestazioni e per quanto riguarda il pubblico impiego privatizzato, dalla contrattazione collettiva.

D’altra parte, la fattispecie di cui all’art. 2126 c.c. è indubbiamente espressiva, nell’evoluzione dell’ordinamento, del precetto di cui all’art. 36 Cost. e non a caso, recentemente, Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8, nel vagliare la legittimità dell’art. 2033 c.c., rispetto alla ripetizione di pagamenti indebiti nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato come l’art. 2126 c.c., in ragione della protezione da esso assicurata alla “causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta”, giustifica “sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo”, ponendosi, sotto quest’ultimo profilo, come uno dei parametri di equilibrio dell’ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte, ma inevitabilmente giustificando e corroborando la centralità della norma anche ove vista sotto il profilo della prestazioni retributive che essa impone siano adempiute, pur in assenza di validità, anche solo in parte, del rapporto di lavoro e delle prestazioni rese.

6.2. Ciò vale anche sotto il profilo delle regole di spesa.

È vero che, secondo questa Suprema Corte, le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo incoerente con esse è invalido (Cass. n. 5679/2022) e rende pertanto ripetibili eventuali pagamenti eseguiti sulla sua base (Cass. n. 14672/2022).

Tuttavia, una volta autorizzata e svolta la prestazione, non è sul lavoratore, in forza dell’asse sostanziale della disciplina di cui all’art. 36 Cost. e 2126 c.c., che possono gravare le conseguenze della divergenza rispetto agli impegni di spesa.

Tale divergenza può certamente impedire di riconoscere aumenti di corrispettivo non coperti da una regolare conduzione della contrattazione o di riconoscere speciali emolumenti di cui siano carenti i necessari presupposti quali previsti dalla contrattazione collettiva, ma non può essere di ostacolo al pagamento di una prestazione ulteriore a quella ordinaria che sia resa non insciente vel prohibente domino o comunque in modo incoerente con la volontà del datore. Ciò è già stato del resto affermato rispetto ad alcune fattispecie giunte alla disamina di questa Suprema Corte (v. Cass. n. 28938/ 2019, in tema di compenso per i turni di pronta reperibilità svolti in eccedenza ai limiti della contrattazione collettiva) e va qui ribadito anche rispetto alla presente ipotesi.

Semmai il tema si sposta sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni; ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati.

6.3. Restano al di fuori dal diritto alla retribuzione – a meno di prestazioni svolte contro norme a tutela del prestatore di lavoro – le nullità afferenti alla prestazione o alla sua richiesta che si riconnettano ad illiceità dell’oggetto o della causa.

Tale ipotesi è tuttavia palesemente estranea al caso di specie, in cui quella chiesta è la partecipazione infermieristica ad attività di dialisi estiva per pazienti di altre regioni e soggiornanti in Calabria e dunque una tipica prestazione sanitaria, propria dell’oggetto del rapporto di impiego e linearmente interna alla causa di un rapporto di lavoro subordinato.

7. Il primo motivo di ricorso va dunque accolto e ciò comporta l’assorbimento del secondo, con cui il ricorrente adduce la violazione dell’art. 111, comma 6, della Costituzione e degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), sostenendo che la motivazione della sentenza impugnata contenesse, nel denegare l’esistenza di un’autorizzazione, affermazioni inconciliabili e contraddittorie che avrebbero imposto di riconoscere dovuta la retribuzione almeno per le ore entro cui una certa delibera del Commissario straordinario ASP avrebbe ridotto l’impegno lavorativo e di spesa.

8. La cassazione della sentenza d’appello determina il rinvio alla medesima Corte territoriale, la quale verificherà l’esistenza del credito retributivo sulla base di quanto sopra precisato e quindi in ragione del superamento del debito orario e con riferimento, sotto il profilo della quantificazione, alle misure unitarie orarie proprie del lavoro straordinario secondo la contrattazione collettiva del tempo, senza attribuire rilievo ai limiti orari di ricorso allo straordinario eventualmente previsti dalla medesima contrattazione, né ad altri vizi degli incarichi con cui è stato disposto l’impiego del lavoratore nel servizio di dialisi estiva.

9. Può anche esprimersi, in continuità con i precedenti, il seguente principio: “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.”.

4. Si dà atto che, stante l’esito del ricorso, non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del D.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Reggio Calabria in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma il 6 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 16/05/2024) 24/06/2024, n. 17404

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere

Dott. NONNO GIACOMO Maria – Consigliere

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giulia – Consigliere

Dott. SALEMME Andrea Antonio – Consigliere Rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 20663/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis) che la rappresenta e difende

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA BARNABA TORTOLINI 13, presso lo studio dell’avvocato VERINO MARIO ETTORE (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIADENE CRISTIANO (Omissis)

– controricorrente –

avverso SENTENZA di COMM. TRIB. REG. del VENETO – VENEZIA n. 443/2017 depositata il 04/04/2017.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16/05/2024 dal Consigliere ANDREA ANTONIO SALEMME.

Svolgimento del processo
1. In data 28.10.2014, A.A., già “socio, amministratore unico e liquidatore” (come da sentenza in epigrafe) di B.B. COSTRUZIONI Srl, cancellata dal registro delle imprese il 13.11.2012, riceveva comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria n. (Omissis), intestata a B.B. COSTRUZIONI ed emessa da Equitalia Nord Spa, agente della riscossione per la Provincia di Treviso. A mezzo di detta comunicazione, Equitalia Nord informava che non risultava versato all’Erario l’importo di Euro 1.104.107,63, comprensivo degli interessi di mora calcolati fino al 3.10.2014, di cui: 1) Euro 49.730,00 a titolo I.V.A. relativa al 2010, oltre interessi, sanzioni, compensi di riscossione e diritti di notifica, indicati nella cartella di pagamento n. (Omissis) notificata da Equitalia Nord il 27.7.2013; 2) Euro 644.475,00 a titolo I.V.A. relativa al 2011, oltre interessi, sanzioni, compensi di riscossione e diritti di notifica, indicati nella cartella di pagamento n. (Omissis) notificata da Equitalia Nord il 28.8.2013.

Al momento della consegna della comunicazione, il A.A. faceva constare, in calce alla relazione di notifica, che la società era “estinta da circa due anni (il 13.11.2012)” e che era “impossidente” (come da controricorso).

2. Ciò avvenuto, il medesimo, in proprio e quale ex amministratore ed ex liquidatore della società, proponeva ricorso alla CTP di Treviso.

3. Nel contraddittorio di Equitalia Nord e dell’Agenzia delle entrate, con sentenza n. 470/05/2015, depositata in segreteria in data 25.6.2015, la CTP, affermato l’interesse ad agire del A.A., ed esclusa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175 del 2014, accoglieva il ricorso, annullando l’atto impugnato, posto che “la società era già estinta e pertanto non poteva essere destinataria di un atto come quello impugnato trattandosi di soggetto non più titolare di alcun diritto od obbligo”.

4. Proponeva appello l’Agenzia. Si costituiva il A.A. Si costituiva anche Equitalia Nord con controdeduzioni ed appello incidentale.

5. Con la sentenza in epigrafe, la CTR del Veneto – Mestre, ritenuta la tardività dell’appello incidentale di Equitalia Nord, rigettava nel merito l’appello agenziale, confermando la sentenza di primo grado in punto di non applicabilità dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175 del 2014, con conseguente “inesistenza” della “notifica in questione”.

6. Proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia con due motivi. Resisteva con controricorso il A.A.

7. Con requisitoria scritta datata 24 aprile 2024, il Sostituto Procuratore Generale in persona del Dott. Alberto Cardino chiedeva il rigetto del ricorso.

All’odierna pubblica udienza – cui la causa è chiamata a seguito dell’ordinanza interlocutoria resa ad esito dell’udienza camerale del 22 novembre 2023 per la novità del “thema” oggetto di giudizio – il medesimo Sostituto Procuratore Generale ribadisce le conclusioni di cui a detta requisitoria. Le difese delle parti pubblica e privata si riportano alle conclusioni di cui ai rispettivi atti, che brevemente illustrano.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente deve d’ufficio essere rilevata l’inammissibilità dell’originario ricorso proposto da A.A. nella qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, attesa l’estinzione di questa e dunque il venir meno della sua stessa soggettività, “a fortiori” processuale, per il tramite dell’ex legale rappresentante. Come ricordato da Cass., n. 16362 del 2020, “nel processo tributario, l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci”, discendendone “che i soci peculiari successori della società subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente”, “dovendo invece escludersi la legittimazione “ad causam” del liquidatore della società estinta (…) il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale”. In senso conforme, tra le tante, valga ricordare Cass., n. 32304 del 2019, secondo cui (in motivazione) “questa Corte è ferma nel ritenere che, con affermazioni estensibili tanto alle società di capitali, che a società di persone, associazioni non riconosciute e cooperative, la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore, sicché, eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, consegue l’annullamento senza rinvio ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito, trattandosi di impugnazione improponibile, poiché l’inesistenza della società è rilevabile anche d’ufficio (Cass., Sez. V, nn. 5736/16, 20252/15, 21188/14) (e) non essendovi spazio per ulteriori valutazioni circa la sorte dell’atto impugnato, proprio per il fatto di essere stato emesso nei confronti di un soggetto già estinto”.

2. Il ricorso resta scrutinabile solo in riferimento alla residua posizione del A.A. in proprio.

3. Con il primo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c. 2 n. 4 D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. (difetto assoluto di motivazione)”.

3.1. “La CTR ha respinto il primo motivo dell’appello limitandosi a rilevare che l’art. 28 c. 4 D.Lgs. 175/2014, che differisce al quinto anno successivo alla richiesta di cancellazione della società l’effetto della cancellazione stessa nei confronti delle pretese fiscali, non ha effetto retroattivo”. “Senonché, come evidenziava l’Ufficio con il secondo motivo di appello riportato in narrativa, se questa considerazione (…) poteva valere ad escludere pretese nei confronti della società cancellata basate sull’art. 28 c. 4 del D.Lgs. 175/2014 anteriormente all’entrata in vigore di quest’ultimo, non poteva valere ad escludere tali pretese sulla base dell’inopponibilità della cancellazione ed estinzione in forza del principio generale di divieto di abuso del diritto; né, alternativamente, il trasferimento della pretesa fiscale nei confronti dei soci, a seguito del fenomeno successorio che la cancellazione determina; in particolare in un contesto nel quale, poco prima della cancellazione, era stato posto in essere dallo stesso amministratore unico e poi liquidatore un processo di svuotamento della società a favore di altra società legata da vincoli familiari al suddetto amministratore unico (la Srl C.C. Fratelli posseduta dai figli del A.A.), che appariva chiaramente privo di alcuna valida ragione economica se non quella di eludere fraudolentemente la pretesa fiscale pendente nei confronti della società provocando l’estinzione di questa per cancellazione subito dopo il suddetto svuotamento. In tale contesto, secondo l’Ufficio, si dovevano ritenere inopponibili al fisco sia la cancellazione ed estinzione della società, sia, comunque, il trasferimento dei beni sociali dalla Srl B.B. alla Srl C.C. Fratelli”. “La CTR avrebbe quindi dovuto specificamente motivare circa gli elementi di fatto addotti dall’Ufficio”; invece si è limitata all’apodittica frase: “Anche la seconda censura proposta dall’Ufficio deve essere respinta in quanto sono irrilevanti le ragioni esposte dall’Ufficio a sostegno dell’attività svolta”.

3.2. Il motivo è manifestamente infondato.

La CTR, infatti, espressamente afferma che “la seconda censura proposta dall’Ufficio deve essere respinta in quanto sono irrilevanti le ragioni esposte dall’Ufficio a sostegno dell’attività svolta”. Tale affermazione, ben lungi dall’essere inesistente o meramente apparente, è invece effettiva, sia, come ovvio, dal punto di vista grafico che, però, anche dal punto di vista contenutistico. In particolare, sotto questo secondo profilo, la CTR, avendo ritenuto decisiva la questione formale dell’”inesistenza” della “notifica” della comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria oggetto di giudizio, “perché effettuata nei confronti di società già cancellata e a soggetto che non era più all’epoca liquidatore”, correttamente (dal suo punto di vista) ha tratto la conclusione che non venissero più in considerazione le ragioni di merito addotte dall’Ufficio a sostegno dell’”attività svolta”, con particolare riguardo, per quel che rileva, alla notifica stessa.

4. Un tanto consente di procedere alla trattazione del secondo motivo.

5. Con il secondo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 2495 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.

5.1. “In subordine, l’affermazione della CTR secondo cui le ragioni poste dall’Ufficio a base del secondo motivo di appello sarebbero state “irrilevanti”, incorre nelle violazioni di legge di cui alla presente rubrica”.

5.2. Il motivo di cui si tratta si sottrae all’inammissibilità protestata in controricorso, perché individua la “ratio decidendi” della sentenza impugnata meritevole di censura, formulando pertinente ragione di critica, articolata in diritto nel rispetto del paradigma censorio invocato.

5.3. Esso è fondato, ancorché alla stregua di una prospettiva non pienamente coincidente con quella rappresentatavi.

5.4. Ai fini della delibazione della censura in diritto non viene in linea di conto il pur evocato, dall’Agenzia, “contesto” di maturazione dei crediti erariali, “contesto nel quale, poco prima della cancellazione, era stato” – secondo la medesima – “posto in essere dallo stesso amministratore unico e poi liquidatore un processo di svuotamento della società”.

5.5. A venire in linea di conto è il tema in sé della validità di un preavviso di iscrizione ipotecaria intestato alla società estinta e notificato all’ex socio.

5.6. Questa S.C. ha più volte affermato – sia con riferimento alla notifica della cartella di pagamento intestata alla società (Cass. n. 30736 del 29/10/2021; Cass. n. 24793 del 05/11/2020; Cass. n. 31037 del 28/12/2017), sia con riferimento all’imputazione ai soci del reddito della società per trasparenza (Cass. n. 16365 del 30/07/2020; Cass. n. 23534 del 20/09/2019), sia, infine, con riferimento specifico all’atto impositivo (Cass. n. 30536 del 28/07/2021; Cass. n. 25487 del 12/10/2018) – che, a seguito dell’estinzione della società, l’atto intestato alla società estinta ben può essere notificato ai soci, anche collettivamente ed impersonalmente, presso l’ultimo domicilio della società, analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, D.P.R. n. 600 del 1973, per il caso di morte del debitore: ciò in quanto, a seguito dell’estinzione della società, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, che ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (cfr. Cass., Sez. U, nn. 6070, 6071 e 6072 del 12/03/2013).

Il principio di diritto è da ultimo compendiato da Cass. n. 753 del 09/01/2024 nei seguenti termini: “In tema di riscossione, l’atto impositivo intestato a società di persone o di capitali estinta è valido ed efficace, anche se notificato agli ex soci collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio della società (analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in caso di morte del debitore) o singolarmente a taluno di essi, non essendo necessaria l’emissione di specifici atti intestati e diretti ai medesimi, giacché l’estinzione determina un peculiare fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale i soci subentrano nelle medesime obbligazioni inadempiute della società, rispondendone illimitatamente o nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, a seconda che, “pendente societate”, fossero illimitatamente o limitatamente responsabili per i debiti sociali” (669949-02).

5.7. Ed in effetti svariate sono le pronunce che ritengono valide le notificazioni di avvisi di accertamento (Cass., n. 24793 del 05/11/2020; Cass., n. 23534 del 20/09/2019; Cass., n. 25487 del 12/10/2018; Cass., n. 12953 del 04/04/2017) e di cartelle di pagamento (Cass., n. 31037 del 28/12/2017) intestati alla società estinta, allorquando dette notificazioni siano state eseguite, successivamente all’estinzione, nelle mani di, o comunque a, uno dei soci.

5.8. Tanto premesso, non v’è ragione per cui le superiori conclusioni – che poggiano sul pur peculiare fenomeno di tipo successorio di cui s’è detto – non debbano valere anche per il preavviso di iscrizione ipotecaria, quale atto volto a preannunciare l’intendimento dell’Amministrazione di far valere “in executivis” la responsabilità bensì personale dell’ex socio, ma in forza, giust’appunto, della sua successione nell’obbligazione della società estinta.

5.9. I presupposti, invero, sono identici.

Relativamente ad avvisi e cartelle intestati alla società estinta e notificati all’ex socio, l’affermazione della loro validità ed efficacia in ragione della responsabilità di costui per il debito sociale è intesa a salvaguardare l’interesse dell’Amministrazione a procurarsi un titolo per tale debito anche nei confronti dell’ex socio sulla base del fatto in sé che questi è successore: ciò corrispondentemente alla “natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti, anche solo, ad esempio, in funzione dell’escussione di garanzie” (Cass. nn. 26758 e n. 10678 del 2022). Sicché, in definitiva, l’interesse dell’Amministrazione al titolo fonda sulla constatazione che il successore, ben lungi dal potersi reclamare estraneo, risponde del debito sociale per il solo verificarsi della successione, che lo rende nell’attualità personalmente responsabile di un debito pur non originariamente suo, ma a lui trasferitosi: ragion per cui il debito già sociale, per effetto della successione, diviene un debito individuale dell’ex socio, ovvero, da altro punto di vista, il debito individuale trova causa nel fenomeno successorio, costituendo il risultato dell’”individualizzazione per successione” del debito sociale.

Ed anche (anzi, per vero, “a fortiori”) relativamente al preavviso, avente la pura e semplice finalità di consentire al debitore (ossia, nella specie, l’ex socio) di presentare osservazioni per evitare l’adozione a suo carico dell’iscrizione, compulsandone l’adempimento (Cass. n. 25600 del 2021), e quindi diretta unicamente a portare ad esecuzione un titolo già conformato, si configura un identico interesse dell’Amministrazione, medesimamente fondato sulla predetta constatazione. D’altronde, l’ex socio, acquisita la qualità di successore, non può certo perderla o rinunciarvi.

In definitiva (così enunciandosi principio di diritto): anche il preavviso di iscrizione ipotecaria, intestato alla società estinta e notificato all’ex socio, è, come già predicato di avviso e cartella, valido ed efficace.

5.10. La CTR non ha ossequiato il superiore principio.

6. Concludendo:

– quanto alla posizione di A.A. nella qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, la sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio e, con pronuncia su ricorso ex art. 382 cod. proc. civ., deve dichiararsi inammissibile l’originario ricorso dal medesimo proposto in tale qualità, con integrale compensazione delle spese di tutti i gradi di giudizio, stante il rilievo d’ufficio;

– quanto alla posizione del medesimo in proprio, deve accogliersi il secondo motivo di ricorso per cassazione dell’Agenzia, rigettato il primo, con rinvio al giudice di merito, in relazione al motivo accolto, per nuovo esame e per le spese, comprese quelle del grado.

P.Q.M.
Quanto alla posizione di A.A. in qualità di ex liquidatore di B.B. COSTRUZIONI Srl, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, pronunciando su ricorso, dichiara inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio proposto dal medesimo in tale qualità, compensando integralmente tra le parti le spese di lite per tutti i gradi di giudizio.

Quanto alla posizione di A.A. in proprio, accoglie il secondo motivo del ricorso per cassazione, rigettato il primo, e, per l’effetto, in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, per nuovo esame e per le spese.

Conclusione
Così deciso a Roma, lì 16 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 16/05/2024) 19/06/2024, n. 16846

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere Rel.

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere

Dott.ssa DONATI VISCIDO DI NOCERA PUTATURO Maria Giulia – Consigliere

Dott. SALEMME Andrea Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 11665-2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (Omissis), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

MAIN Srl in liquidazione, rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Gaetano Michele Maria de BONIS (pec: gaetanodebonis@pec.studiolegaledebonis.com), ed elettivamente domiciliata in Roma, alla piazza della Libertà, n. 10, presso lo studio legale dell’avv. Giampaolo BALAS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/02/2019 della Commissione tributaria regionale della BASILICATA, depositata in data 07/02/2019;

udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 16/05/2024 dal Cons. Lucio Luciotti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. A.A., che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La CTR della Basilicata con la sentenza impugnata rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate confermando la statuizione di primo grado che aveva dichiarato la nullità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della Main Srl in liquidazione relativamente all’anno d’imposta 2013 per difetto di sottoscrizione in quanto apposta in forma digitale sull’atto impositivo, mediante l’indicazione a stampa del nominativo del funzionario delegato, in violazione dell’art. 2, comma 6, del Codice dell’amministrazione digitale (cd. CAD), che prevede l’inapplicabilità delle disposizioni del Codice all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, ed anche per essere stato notificato, con tale firma digitale, a mezzo del servizio postale anziché tramite posta elettronica certificata. A tale ultimo riguardo sosteneva che soltanto la combinazione della sottoscrizione con firma digitale con l’invio dell’atto a mezzo pec avrebbe consentito al contribuente “un immediato controllo dell’autenticità del provvedimento notificato, oltre che l’accesso a tutte le informazioni ed atti correlati”. Riteneva, infine, che la dichiarazione di nullità dell’atto impositivo fosse assorbente degli altri motivi di impugnazione.

2. Avverso la sentenza d’appello l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui replica la società contribuente con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 18, 21, 24 e 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR omesso di pronunciare su due motivi di appello. Il primo, con cui aveva lamentato la violazione dell’art. 32, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 da parte dei giudici di primo grado, che non avevano dichiarato inammissibile la memoria che la società contribuente aveva deposito tardivamente, soltanto il giorno dell’udienza di trattazione. Il secondo, con cui aveva dedotto la violazione del combinato disposto dagli artt. 24 e 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992 da parte dei giudici di primo grado che non avevano dichiarato inammissibile la memoria depositata dalla società contribuente in quanto contenente eccezioni nuove rispetto a quelle dedotte con i motivi di ricorso.

2. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 32, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR omesso di rilevare e dichiarare l’inammissibilità della memoria che la società contribuente aveva deposito in primo grado tardivamente, soltanto il giorno dell’udienza di trattazione, e l’inutilizzabilità delle stesse da parte dei giudici di primo grado per fondare la statuizione poi confermata in sede di appello.

3. Con il terzo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 18, comma 2, 19, 21, comma 1, e 24, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, perché la CTR, “confermando la sentenza di primo grado, e ritenendo che il Cad “… non si applica all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, con la conseguenza che l’utilizzo di tali procedure da parte dell’Agenzia delle entrate è da considerarsi del tutto illegittimo e che il cad prevede, inoltre, che il documento firmato digitalmente sia inviato tramite Pec in un formato specifico e non a mezzo del servizio postale …”, ha condiviso la doglianza proposta dalla società contribuente per la prima volta nelle memorie illustrative”, benché nell’originario ricorso la società contribuente avesse dedotto soltanto l’illegittimità dell’atto impositivo per l’indicazione sostitutiva a mezzo stampa del nominativo del firmatario.

4. Con il quarto motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2, comma 6, del D.Lgs. n. 82 del 2005 per avere la CTR erroneamente ritenuto che la disposizione censurata si applicasse anche alla sottoscrizione degli avvisi di accertamento. Sostiene che l’atto impositivo impugnato era stato sottoscritto digitalmente del Direttore Provinciale dell’Ufficio con attestazione di conformità all’originale informatico resa dal funzionario in calce al provvedimento.

5. Con il quinto motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 60, comma 7, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 23, comma 1, del CAD (D.Lgs. n. 82 del 2005), per avere la CTR ritenuto obbligatoria, in presenza di sottoscrizione digitale dell’avviso di accertamento, la notifica dello stesso a mezzo posta elettronica certificata.

6. In applicazione del principio della ragione più liquida, devono esaminarsi preliminarmente il quarto ed il quinto motivo di ricorso.

7. Il quarto motivo è fondato in quanto la CTR ha escluso l’applicabilità agli atti impositivi della disciplina dettata dal codice dell’amministrazione digitale, erroneamente interpretando il comma 6 dell’art. 2 del CAD (D.Lgs. n. 85 del 2005).

8. Tale disposizione, nella versione applicabile alla fattispecie, relativa ad avviso di accertamento notificato il 21/11/2016 (così a pag. 7 del controricorso), e, pertanto, con le modifiche apportate dall’art. 2, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 179 del 2016, entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, prevedeva nella prima parte (successivamente modificata, come si dirà in prosieguo), che “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale (…)”.

9. Questa Corte si è più volte pronunciata sulla questione dedotta con il motivo (Cass., ordinanze n. 1150 del 21/01/2021; n. 1155 del 26/01/2021 e n. 1157 del 26/01/2021; più recentemente, Cass. n. 6142 del 07/03/2024 e Cass. n. 10829 del 22/04/2024) e sulla questione Cass., Sez. 6-5, 9 novembre 2021, n. 32692, è stata così massimata: “L’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui all’art. 2, comma 6, D.Lgs. n. 82 del 2005 (“ratione temporis” vigente dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi”.

10. Le argomentazioni svolte in tali pronunce, che il Collegio condivide, si fondono essenzialmente su tali passaggi:

– la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo eIDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici; infatti, ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13 novembre 2014;

– la regola generale è divenuta, quindi, il ricorso ai documenti informatici e le limitazioni ne costituiscono l’eccezione;

– una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico fanno propendere per una interpretazione dell’art. 2, comma 6, del CAD, ratione temporis vigente, nel senso che nell’esercizio delle attività e funzioni ispettive non rientrano gli atti impostivi;

– innanzitutto, sul piano terminologico gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo;

– la distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente. In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonché di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza. Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni. Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti. Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni. Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicché l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

– la diversa interpretazione fatta propria dai giudici di appello si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi. La modifica apportata all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, ad opera dell’art. 7-quater, comma 6, del D.L. n. 193 del 2016, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici. Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 del CAD dall’art. 2, lett. e), del D.Lgs. n. 217 del 2017 ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” (e conseguentemente alla lett. “d” ha soppresso le parole “ispettive e di controllo fiscale” di cui alla prima parte del comma 6) e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”. Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

11. Alla ritenuta applicabilità al caso di specie dell’art. 2, comma 6, CAD, nella versione vigente ratione temporis, consegue l’accoglimento del quinto motivo di ricorso, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

12. Ai sensi dell’art. 23 del CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

13. Nella specie risulta incontestato, perché ammesso dalla stessa controricorrente (pag. 33) che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale, che, a differenza di quanto sostiene la controricorrente, è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto formato digitalmente ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017), essendo l’attestazione di conformità riferita al contenuto integrale del documento originale informatico e quindi anche alla sottoscrizione apposta in formato digitale.

14. A ciò aggiungasi che nel caso di specie la conformità del documento analogico a quello digitale non risulta essere stata nemmeno disconosciuta dalla società contribuente, ai sensi del comma 2, prima parte, del citato art. 23 CAD, che prevede che “Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loto conformità non è espressamente disconosciuta”.

15. Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta. Come si è detto sopra, la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta del comma 6 all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 7-quater, comma 6, del D.L. n. 193 del 2016; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

16. Al riguardo deve osservarsi che non coglie nel segno il richiamo fatto dalla controricorrente all’art. 3-bis, comma 4-bis, del CAD per opinare la possibilità della notifica a mezzo posta dell’atto impositivo in mancanza del domicilio digitale. Infatti, la citata disposizione fa espresso riferimento alle “comunicazioni” e non alle “notificazioni”, invece espressamente regolati dall’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973.

17. Si aggiunga, infine, che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario che, infatti, l’ha tempestivamente impugnato. Trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156, terzo comma 3, C.P.C., ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo (cfr., tra le tante, Cass. Sez. U, n. 7665 del 2016; Cass. n. 27561 e n. 24568 del 2018).

18. Alla stregua di quanto fin qui detto possono affermarsi i seguenti principi di diritto.

“L’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui all’art. 2, comma 6, D.Lgs. n. 82 del 2005 (ratione temporis applicabile dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi”.

“La copia analogica dell’avviso di accertamento, sottoscritta digitalmente dal funzionario incaricato e dichiarata conforme all’originale informatico nel rispetto della previsione dell’art. 23 del D.Lgs. n. 82 del 2005, tiene luogo del menzionato originale ed è validamente notificata al contribuente, oltre che a mezzo posta elettronica certificata, anche a mezzo del servizio postale”.

19. L’accoglimento del quarto e quinto motivo di ricorso ha quale diretta conseguenza l’assorbimento dei primi tre motivi, incentrati (il secondo ed il terzo) sulla questione della tempestività delle censure di inapplicabilità al caso di specie dell’art. 2, comma 6, del CAD e del necessario invio a mezzo PEC dell’atto impositivo firmato digitalmente, in quanto introdotte per la prima volta in una memoria illustrativa, peraltro depositata oltre i termini di cui all’art. 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992, e (il primo) sull’omessa pronuncia della CTR sul motivo di appello espressamente formulato al riguardo.

23. In estrema sintesi, vanno accolti il quarto e quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. La sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il quarto e quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma in data 16 maggio 2024.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 22/05/2024) 12/06/2024, n. 16300

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere

Dott. ROSETTI Riccardo – Consigliere rel.

Dott. TARTAGLIONE Giuliano – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 05026/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

Contro

A.A. Srl, in persona del legale rappresentante p.t.;

– intimata –

avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. della TOSCANA n. 1304/31/2014 depositata il 30/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22 maggio 2024 dal consigliere Riccardo Rosetti.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti della società A.A. Srl, esercente l’attività di gestione e acquisizione di alberghi, l’avviso di accertamento n. T8V030502173/2010, con il quale rettificava, ai sensi degli articoli 39, comma 1, lettera b), 40 e 41-bis del D.P.R. 29/09/1973 n. 600 il reddito d’impresa della società per l’anno di imposta 2006 da una perdita di euro 926,00 a un reddito di euro 60.754,00 e tanto dopo aver disatteso l’interpello proposto dalla società al fine di ottenere la disapplicazione della normativa sulle società di comodo ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’articolo 30, comma 4-bis, della legge 23/12/1994 n. 724.

2. La società A.A. Srl impugnava l’atto di accertamento e la CTP di Siena, con la sentenza n. 278/01/2011 del 10/11/2011, respingeva il ricorso.

3. La società A.A. Srl impugnava la decisione di primo grado e la CTR di Firenze, con la sentenza 1304/31/2014 del 30.6.2014, accoglieva l’appello annullando l’atto di accertamento impugnato.

4. Avverso la sentenza di appello ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate con ricorso articolato su tre motivi; la società A.A. Srl non ha espletato attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli articoli 1, comma 2, e 36, comma 2, numero 4, del decreto legislativo 31/12/1992 n. 546, dell’articolo 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e dell’articolo 118 disp. att. cod. proc. civ. in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.

2. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione di legge, sotto vari profili, dell’articolo 30 della legge 724 del 1994 in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

3. Con il terzo motivo di ricorso con il quale l’Agenzia delle Entrate denuncia omesso esame di fatti decisivi della controversia oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.

4. Il Collegio ritiene che non sia necessario dare conto, specificamente, del contenuto delle singole censure, per quanto di seguito esposto.

5. L’Avvocatura dello Stato si è avvalsa per la notifica del servizio postale ai sensi della legge 21/01/1994 n. 53. La notifica effettuata presso la sede della società non è andata a buon fine, risultando la società irreperibile al numero civico e non risultando il nominativo. La notifica è stata tentata a mezzo del servizio postale al domicilio eletto nel procedimento di appello presso lo studio del difensore, individuato in due diversi indirizzi in Via (omissis) e in Via (omissis); per entrambe le raccomandate le cartoline di ritorno risultano essere state sottoscritte dal portiere dello stabile di via (omissis), in M, ove si presume l’avvocato Nicola Bottari, difensore di A.A. Srl nelle fasi di merito, avesse uno studio professionale e quindi il proprio domicilio. Non risulta, tuttavia, che al detto difensore sia stato inviato rituale avviso dell’avvenuta consegna del ricorso o comunque del plico al portiere dello stabile, come previsto dall’art. 7, comma 3, della legge n. 890 del 20/11/1982, richiamata dalla legge n. 53 del 1994.

6. Sul punto questa Corte è ferma (Cass. 04/12/2012, n. 21725 del; Cass. civ., Sez. III, 24/07/2023, n. 22095) nel ritenere che nel caso di notificazione degli atti processuali a mezzo del servizio postale, ai sensi del comma 6 dell’art. 7 della legge n. 890 del 20/11/1982, introdotto dall’art. 36, comma 2-quater, del D.L. n. 248 del 31/12/2007, convertito in legge n. 31 del 28/02/2008 la notificazione è nulla se il piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al destinatario stesso mediante lettera raccomandata. La difesa Erariale non ha chiesto di sanare la maturata la nullità del procedimento notificatolo e non risulta si sia attivata ai fini della ripresa dello stesso, dopo avere constatato la non ritualità della notificazione (Cass., Sez. U., 15/07/2016 n. 14594).

7. A tanto consegue, in adesione ai richiamati precedenti di questa Corte, che il ricorso dell’Agenzia delle Entrate deve essere dichiarato inammissibile.

8. Nulla per le spese. Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1-bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., Sez. U., 25 novembre 2013, n. 26280Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 24/09/2013) 25/11/2013, n. 26280; Cass., 14 marzo 2014, n. 5955).

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.

Conclusione
Così deciso, in Roma, il 22 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 30/04/2024) 06/06/2024, n. 15799

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente

Dott. HMELJAK Tania – Consigliere

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere – Rel.

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2159/2016 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis) che lo rappresenta e difende

– ricorrente –

contro

RADIO RESETTI Snc DI A.A. E C. , A.A. , B.B. , tutti elettivamente domiciliati in ROMA VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato TRICERRI LAURA (Omissis) rappresentati e difesi dall’avvocato DISO CORRADO (Omissis)

– controricorrente –

nonchè contro

A.A. , RADIO RESETTI DI A.A. & C Snc

– intimati –

avverso SENTENZA di COMM. TRIB. REG. del FRIULI VENEZIA GIULIA n. 231/2015 depositata il 17/06/2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/04/2024 dal Consigliere SALVATORE LEUZZI.

Svolgimento del processo

Con riferimento agli anni di imposta 2005-2010 venivano notificati alla società di persone plurimi avvisi di accertamento del reddito prodotto dall’ente nelle annualità di riferimento, pur a fronte della reiterata, omessa dichiarazione reddituale. Con correlati atti impositivi veniva accertato il reddito di partecipazione imputabile ai soci A.A. e B.B..

I molteplici atti venivano impugnati separatamente. La CTP di Trieste, riuniti i ricorsi, li accoglieva, in parte ridimensionando, nel complesso, la pretesa fiscale; applicava, inoltre, all’insieme degli atti accertativi il cumulo giuridico finalizzato alla quantificazione delle sanzioni.

L’appello erariale veniva rigettato.

Il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle entrate, imperniato unicamente sui limiti di applicabilità del cumulo giuridico connesso alle sanzioni irrogabili, è affidato ad un solo motivo. Resistono con controricorso la società di persone e i due soci.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso si adduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 6, D.Lgs. n. 472 del 1997, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. , per avere la CTR affermato l’applicabilità del meccanismo del cumulo giuridico al complesso delle contestate violazioni, ancorché, in ragione della notifica degli atti impositivi relativi al 2005, già in data 12 febbraio 2010, venisse in apice un evento interruttivo, suscettibile di escludere l’operatività del cumulo in parola.

Il ricorso è fondato e va accolto.

Nel caso che occupa gli avvisi di accertamento afferenti all’annualità 2005 venivano notificati il 12 febbraio 2010. A fronte di tale dato incontroverso, veniva in evidenza la prerogativa per i contribuenti di non reiterare oltre il comportamento già stigmatizzato, curandosi per converso di depositare, nei termini previsti, le dichiarazioni reddituali relative – rispettivamente – al 2009 e al 2010.

Questa Corte ha di recente affermato che “In tema di sanzioni tributarie, l’istituto della continuazione – il cui riconoscimento è collegato all’oggettivo perpetrarsi dell’illecito tributario in periodi d’imposta diversi – si arresta in caso di cd. interruzione che si realizza, ex art. 12, comma 6, D.Lgs. n. 472 del 1997, per effetto della contestazione della violazione che fissa il punto di arresto per il riconoscimento del beneficio, senza che rilevi la sua definitività e inoppugnabilità o la sua mancata impugnazione; pertanto, ciò che si pone a monte dell’atto, se della stessa indole, deve essere unito ai fini della determinazione della sanzione, mentre ciò che invece si pone a valle, resta escluso dal cumulo giuridico, salvo riconoscersi, ove plurime siano le violazioni anche da questo lato, una autonoma e rinnovata applicazione del medesimo istituto di favore” (Cass. n. 16017 del 2021).

Nella vicenda in esame, trattandosi di più violazioni della stessa indole reiterate in diversi anni d’imposta, ossia l’omessa dichiarazione della dichiarazione fiscale annuale, viene in rilievo l’istituto regolato dall’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 472 del 1997 (“Quando violazioni della stessa indole vengono commesse in periodi di imposta diversi …”).

La continuazione, in quanto tale (come, del resto, il cumulo giuridico previsto dai primi due commi per il concorso formale e materiale e per la progressione), integra un meccanismo di favor per il contribuente mirato ad evitare che la reiterazione dell’illecito porti ad una sanzione complessiva eccessivamente onerosa. Il beneficio, peraltro, si arresta ove si verifichi la cd. interruzione che si realizza, ai sensi dell’art. 12, comma 6, D.Lgs. n. 472 del 1997, per effetto della constatazione della violazione (“Il concorso e la continuazione sono interrotti dalla constatazione della violazione”).

Si tratta, invero, di disciplina propria dell’illecito tributario ed estranea all’ambito penale, per il quale, invece, non ha rilievo se l’illecito sia stato o meno contestato ovvero, anche, se la pregressa contestazione si sia già tradotta in una decisione sfavorevole per l’imputato. Come già osservato da questa Corte (v. Cass. n. 11612 del 16/06/2020 in motivazione), del resto, “questa differenza si fonda sulla circostanza che, mentre in sede penale la continuazione è correlata alla sussistenza dell’elemento soggettivo del medesimo 3 disegno criminoso, in ambito tributario detto elemento non emerge, essendo essa collegata, piuttosto, all’oggettivo perpetrarsi dell’illecito” sicché, per determinare l’istante finale terminativo della continuazione, “occorre individuare un ulteriore momento, oggettivamente individuabile, rappresentato dalla constatazione dell’infrazione” da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Ne deriva che la constatazione dell’illecito costituisce il punto di arresto per il riconoscimento della continuazione: tutto ciò che si pone a monte di tale atto (se della stessa indole) deve essere unito ai fini della determinazione della sanzione; ciò che, invece, è a valle resta escluso dal cumulo giuridico, salvo riconoscere, ove plurime siano le violazioni anche da questo lato, una autonoma e rinnovata applicazione del medesimo istituto (v. Cass. n. 11612/2020 cit.).

È, inoltre, privo di rilievo che la precedente constatazione (anche quando si sia tradotta direttamente in un avviso) sia divenuta definitiva e inoppugnabile o non sia stata oggetto di impugnazione.

Nella vicenda in giudizio, la CTR ha ritenuto applicabile la continuazione anche con riguardo alla contestazione di violazione della stessa indole nei confronti dell’ente e dei due soci per tutte le annualità dal 2005 al 2010, sebbene la sanzione irrogata per l’anno 2005 dovesse essere cumulata, secondo il regime della continuazione, rispetto a quelle irrogate per gli anni successivi fino al 2008, ma non anche per quelle del 2009 e del 2010, rispetto alle quali si era verificato l’evento interruttivo rappresentato dalla notifica degli atti impositivi inerenti l’annualità 2005.

In accoglimento del ricorso, pertanto, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Friuli Venezia Giulia, che provvederà alla rideterminazione delle sanzioni con applicazione della continuazione con riguardo alle annualità 2005, 2006, 2007 e 2008, nonché, con separata determinazione, per le annualità 2009 e 2010.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata. Rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado del Friuli Venezia Giulia in diversa composizione.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2024.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 17/05/2024) 23/05/2024, n. 14435

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere Rel.

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12225/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis) che ex lege la rappresenta e difende.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (già EQUITALIA CENTRO).

– intimata –

A.A., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SCIAMMARELLA PASQUALE (Omissis)

– resistente –

avverso SENTENZA di COMM. TRIB. REG. EMILIA-ROMAGNA n. 38/11/2019, depositata il 07/01/2020.

Udita la relazione svolta nella udienza pubblica del 17/05/2024 dal Consigliere Oronzo De Masi.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Stanislao De Matteis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Uditi i difensori di entrambe le parti.

Svolgimento del processo
La Commissione Tributaria Provinciale di Ferrara accoglieva il ricorso del suindicato contribuente avverso la cartella di pagamento della maggiore imposta di registro, ipotecaria e catastale, nonché quella sostitutiva per l’atto di mutuo, per effetto della revoca dell’agevolazione “prima casa”, essendosi l’acquirente impegnato a trasferire la residenza entro il termine di diciotto mesi dall’acquisto dell’abitazione, come previsto dalla Nota II bis dell’art. 1, Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, in quanto gli avvisi di accertamento presupposti erano stati notificati oltre il termine di 30 giorni dalla variazione del domicilio fiscale, cioè al precedente indirizzo del contribuente, essendo applicabile l’art. 60, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 (nel testo ratione temporis vigente nell’anno 2013) e, quindi, opponibile all’Amministrazione finanziaria l’intervenuta variazione del domicilio fiscale a Cento (FE).

La Commissione Tributaria Regionale della Emilia-Romagna respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, che aveva sostenuto la validità della notifica dell’atto prodromico effettuata al precedente domicilio fiscale di Paola (CS), essendo opponibile all’Ufficio la variazione dell’indirizzo anagrafico e del domicilio fiscale a Cento (FE), solamente decorso il termine di 60 giorni di cui l’art. 58 del D.P.R. n. 600 del 1973.

Osserva, invece, il giudice tributario di secondo grado che nessun rimprovero può muoversi al contribuente perché non aveva indicato nella sua ultima dichiarazione dei redditi (quella del 2012 anteriore alla notificazione dell’avviso di accertamento presupposto) un indirizzo difforme del suo domicilio fiscale, allora coincidente con la residenza anagrafica, ed aveva modificato il proprio indirizzo anagrafico il 2/1/2013, “prima di poterlo indicare nella successiva dichiarazione dei redditi dell’anno 2013.”

Secondo la CTR dell’Emilia-Romagna, quindi, trova applicazione l’art. 60, comma 3, D.P.R. n. 600 del 1973, nel testo ratione temporis vigente, il quale prevede che “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche (…)” e non invece il più lungo termine di 60 giorni, previsto dall’art. 58, ultimo coma, D.P.R. n. 600 del 1973, per rendere opponibili i cambi di domicilio, donde la invalidità della notificazione nel vecchio indirizzo anziché in quello nuovo, già opponibile all’Amministrazione finanziaria.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, affidato ad un unico motivo, mentre il contribuente ha depositato memoria di “costituzione di difensore a mezzo procura notarile” nonché, in prossimità dell’adunanza camerale del 3/11/2021, memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ.; la Corte sesta sezione tributaria reputando di particolare rilevanza la questione di diritto controversa, con ordinanza interlocutoria ha rinviato la causa a nuovo ruolo, per trattazione in pubblica udienza, davanti alla quinta sezione tributaria, in ragione di quanto previsto dall’art. 380-bis, comma terzo, cod. proc. civ. (Cass. n. 29910/2018; n. 5851/2020).

Motivi della decisione
Con il motivo di ricorso, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 58 e 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, in quanto, al caso di specie, deve trovare applicazione l’art. 58 D.P.R. cit., secondo cui le variazioni del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate e non l’art. 60 dello stesso D.P.R., richiamato dal giudice di appello nel testo ratione temporis vigente, che si applica alle variazioni di indirizzo nello stesso Comune le quali non implicano alcuna variazione del domicilio fiscale.

Più precisamente, la ricorrente deduce che la CTR ha errato nel ritenere invalida la notifica dell’atto impositivo presupposto, effettuata nel precedente domicilio fiscale dello A.A., avendo il contribuente trasferito la propria residenza anagrafica dal Comune di P (CS) a quello di C (FE), a decorrere dal 2/1/2013, essendosi perfezionata la notifica dell’avviso di accertamento il 6/2/2013, ossia oltre i 30 giorni dall’intervenuta variazione della residenza anagrafica, ma entro il termine di gg. 60 di cui all’art. 58, D.P.R. n. 600 del 1973, periodo durante il quale non è opponibile all’Ufficio la variazione di domicilio fiscale connessa al trasferimento di residenza, essendo del tutto valida ed efficace la notificazione effettuata nel domicilio fiscale.

Va, anzitutto, disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione, perché tardivamente proposto in quanto, in tema di definizione agevolata delle liti fiscali, la sospensione del termine per impugnare, prevista dall’art. 6, comma 11, del D.L. n. 119 del 2018, conv. dalla L. n. 136 del 2018, opera automaticamente, a prescindere dal concreto intento della parte privata di avvalersene.

Pertanto, per la disposta sospensione, i termini d’impugnazione che, per effetto della disciplina ordinaria, venivano a scadere nel periodo compreso tra il 24 ottobre 2018 e il 31 luglio 2019, sono stati sospesi ope legis per nove mesi (v. Cass. n. 30397/2021, nonché, per fattispecie analoghe di sospensione, quantunque regolate da disposizioni diverse, Cass. n. 11913/2019 e Cass. n. 11531/2016).

Ciò detto, osserva il Collegio che il contribuente, nelle proprie difese, insiste nell’evidenziare che l’Agenzia delle entrate, quando ha notificato l’avviso di accertamento che ha preceduto la cartella di pagamento oggetto di causa, “era già legalmente e pienamente a conoscenza della nuova residenza del contribuente”, all’epoca studente universitario, in quanto l’atto espressamente riportava la circostanza che dai controlli effettuati era risultato che lo A.A. aveva “stabilito la residenza nel Comune di C ove è ubicato l’immobile acquistato con le agevolazioni prima casa in data 02/01/2013 e quindi in ritardo rispetto ai termini di legge (…)”, circostanza che aveva determinato la ragione della decadenza dalla agevolazione.

Secondo il contribuente, dunque, l’Ufficio non poteva invocare, al fine della ritualità della notificazione, l’inopponibilità della predetta circostanza fattuale, ad esso nota, non assumendo concreto rilievo il termine di 30 giorni o quello diverso di 60 giorni di cui agli artt. 60 e 58, D.P.R. n. 600 del 1973.

La tesi difensiva non appare condivisibile perché finisce per confondere la disciplina delle notificazioni con quella dell’agevolazione fiscale revocata al contribuente.

La notifica degli avvisi di accertamento deve essere eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), nel Comune del domicilio fiscale del contribuente, coincidente, nel caso di persona fisica, con il luogo della sua residenza anagrafica, ex art. 58, comma 2, del Decreto citato, per cui il domicilio fiscale è requisito indispensabile per la notifica degli atti tributari, che si realizza attraverso un procedimento diretto a comprovare la conoscenza legale dell’atto impositivo da parte del destinatario, con l’applicazione, in quanto consentita, delle norme del codice di procedura civile.

La disciplina delle notificazioni degli atti tributari, infatti, si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sul correlato onere preventivo del contribuente di indicare il proprio domicilio all’Ufficio tributario, e di tenere detto ufficio costantemente informato delle sue eventuali variazioni, per cui, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, “il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’Ufficio procedente ad eseguire le notifiche nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui alla lett. e) dell’art. 60, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973.” (Cass. n. 27129/2016, n. 1206/2011).

Stabilisce l’art. 58, ultimo comma, D.P.R. n. 600 del 1973, che “le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate”.

Si ha variazione del domicilio fiscale, ai sensi del comma secondo del suddetto art. 58, quando il contribuente trasferisce la propria residenza anagrafica in altro Comune.

Nel caso di specie, peraltro, è lo stesso ricorrente a riferire di avere mutato residenza anagrafica il 2/1/2013 e che l’avviso di accertamento gli è stato notificato il 6/2/2013.

La notifica, dunque, è valida perché avvenuta nel termine di inopponibilità all’erario del mutamento del domicilio fiscale, in quanto i 60 giorni indicati dalla norma valgono a consentire all’Amministrazione di beneficiare, incondizionatamente, di un perimetro temporale adeguato ai fini dell’effettuazione della notifica di un atto al vecchio indirizzo del soggetto che ne è destinatario e che pure a comunicato all’anagrafe d’essersi trasferito.

Non appare pertinente il richiamo all’art. 60, comma terzo, D.P.R. n. 600 del 1973 (nel testo applicabile ratione temporis) in quanto tale norma, come noto, prevede che “le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica” e la norma non può essere invocata per sostenere che l’inefficacia della notifica dell’avviso di accertamento.

L’art. 60, comma terzo, D.P.R. 600 del 1973 disciplina le variazioni dell’”indirizzo”, non quelle del “domicilio fiscale”.

La Corte (Cass. n. 23334/2017) che “i due concetti non coincidono: il domicilio fiscale è un luogo predeterminato dalla legge secondo criteri obiettivi (art. 58 D.P.R. 600/73); l’”indirizzo”, invece, è il luogo fisico presso il quale il contribuente può essere reperito, ma sempre nell’ambito del domicilio fiscale stabilito dalla legge (art. 60 D.P.R. 600/73). Gli effetti della variazione del domicilio fiscale sono stabiliti dall’art. 58 D.P.R. 600/73, il quale prevede un’ultrattività del precedente domicilio fiscale di 60 giorni; gli effetti della variazione dell’indirizzo nell’ambito del medesimo Comune di domicilio fiscale sono invece disciplinati dal successivo art. 60 D.P.R. 600/73, il quale prevede (in seguito all’intervento di Corte cost., 19-12-2003, n. 360) un’ultrattività del vecchio indirizzo di 30 giorni.”

La sentenza gravata va cassata senza rinvio perché va esclusa, nel caso di specie, la predicata possibilità di far valere, da parte del contribuente, l’irritualità della notifica dell’atto prodromico, unitamente alla impugnazione dell’atto successivamente notificato dall’Ufficio, ai sensi dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, che prevede, appunto, la possibilità di far valere la mancanza di una valida notifica dell’atto precedente, del quale il contribuente sia comunque venuto legalmente a conoscenza (Cass. n. 27799/2018).

La consequenziale irretrattabilità del credito tributario posto in riscossione, e recato dalla cartella opposta, conduce alla cassazione della sentenza impugnata ed alla decisione della causa, senza necessità di istruttoria, con il rigetto dell’originario ricorso del contribuente.

Segue la condanna alle spese processuali del presente giudizio mentre la peculiarità della vicenda esaminata consiglia la compensazione di quelle dei gradi di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente che condanna al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Conclusione
Così deciso in Roma il 17 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria 23 maggio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 15/05/2024) 23/05/2024, n. 14519

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente

Dott. CANDIA Ugo – Consigliere

Dott. DI PISA Fabio – Consigliere

Dott. BILLI Stefania – Consigliere

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso n. 6651 – 2022 R.G. proposto da:

FOTI Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell’Avvocato PIETRO SAIJA, rappresentata e difesa dall’Avvocato Paolo Vermiglio giusta procura speciale allegata al ricorso

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MILAZZO, in persona del Sindaco pro tempore

– intimato –

avverso la sentenza n. 7099/2021 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della SICILIA, depositata il 3/8/2021;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/5/2024 dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO

Svolgimento del processo
Foti Srl propone ricorso, affidato ad unico motivo, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione tributaria regionale della Sicilia aveva respinto l’appello avverso la sentenza n. 1613/2020 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Messina in rigetto del ricorso proposti avverso avviso di accertamento IMU 2013 emesso dal Comune di Milazzo;

il Comune è rimasto intimato;

Motivi della decisione
1.1. con unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1 L. 296/2006; all’art. 9 D.Lgs. 23/2011; all’art. 13 comma 12 – ter D.L. n. 201/2011; agli art.li 2935, 2943 e 2948 comma 4 cod. civ.; all’art. 60 comma 6 D.P.R. 600/1973” per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente “rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dalla Società ricorrente sulla base di norme giuridiche e principi interpretativi (la scissione degli effetti temporali della notifica) relativi all’istituto della decadenza, in violazione delle disposizioni sulla prescrizione e di quelle relative all’imposta in contestazione”;

1.2. la sentenza impugnata ha respinto l’appello del contribuente ritenendo tempestivamente emesso e notificato l’avviso di accertamento impugnato ai sensi dell’”art. 1, comma 161, della L. 296/2006 che fissa il termine nel quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione (o il versamento) sono stati o avrebbero dovuti essere effettuati”, evidenziando quanto segue: “… nel caso di specie il termine quinquennale risulta rispettato avendo il Comune spedito l’atto in contestazione prima del termine ultimo di decadenza. Legittimo certamente anche il ricorso alla notifica a mezzo del servizio postale (a nulla rilevando l’esistenza o meno di messi notificatori)”;

1.3. com’è noto, l’art. 1, comma 161, della Legge 27 dicembre 2006 n. 296 (c.d. legge finanziaria 2007) prevede quanto segue:”Gli enti locali, relativamente ai tributi di propria competenza, procedono alla rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli o dei parziali o ritardati versamenti, nonché all’accertamento d’ufficio delle omesse dichiarazioni o degli omessi versamenti, notificando al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, un apposito avviso motivato. Gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”;

1.4. con tale disposizione, il legislatore ha sostituito i termini stabiliti dagli artt. 10 e 11 del D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 e, più in generale, ha provveduto ad unificare per i tributi comunali e provinciali la disciplina relativa all’attività di accertamento, dettando disposizioni comuni sulla notifica degli atti di accertamento e di riscossione, sulla nomina dei messi notificatori e l’esercizio delle relative funzioni, sui requisiti essenziali degli atti di accertamento e, per quello che qui interessa, individuando i termini, a pena di decadenza, per la notifica degli atti di accertamento e del primo atto di riscossione;

1.5. in particolare, la suddetta norma subordina alla notifica di atto di accertamento, sia l’attività di rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli, o, anche, dei parziali o ritardati versamenti, sia l’attività svolta d’ufficio, in caso di omesse dichiarazioni o omessi versamenti, e tutti gli avvisi di accertamento devono essere notificati al contribuente in un unico termine, previsto a pena di decadenza, “entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”;

1.6. secondo il più recente indirizzo di questa Corte (in particolare: Cass. 8 marzo 2019, n. 6842; Cass. 15 gennaio 2020, n. 554; Cass. 13 gennaio 2021, n. 352; Cass. 24 marzo 2021, nn. 8197 e 8199; Cass. 16 giugno 2021, nn. 17036 e 17037), per delimitare dal punto di vista temporale l’esercizio del potere impositivo è necessario distinguere due diversi dies a quo dai quali iniziare il computo del termine di decadenza previsto per i tributi locali;

1.7. nel caso in cui il contribuente presenti una dichiarazione ed ometta il versamento, per individuare il dies a quo deve farsi riferimento al termine entro il quale il tributo avrebbe dovuto essere pagato, ed a tal proposito, per quanto riguarda l’IMU, si rileva che il tributo doveva essere versato per l’annualità 2013 in due rate delle quali la prima, entro il 17 giugno e la seconda entro il 16 dicembre (art. 9, comma 3, del D.Lgs. 14 marzo 2011 n. 23);

1.8. nel caso in cui il contribuente abbia omesso la presentazione della dichiarazione, per individuare il dies a quo deve, invece, farsi riferimento al termine entro il quale egli avrebbe dovuto presentarla;

1.9. a questo proposito, ai fini IMU, i soggetti passivi “devono presentare la dichiarazione entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui il possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta … La dichiarazione ha effetto anche per gli anni successivi sempre che non si verifichino modificazioni dei dati ed elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare dell’imposta dovuta … Per gli immobili per i quali l’obbligo dichiarativo è sorto dal 1 gennaio 2012, la dichiarazione deve essere presentata entro novanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di approvazione del modello di dichiarazione dell’imposta municipale propria e delle relative istruzioni” (art. 13, comma 12 – ter d.l. del 06/12/2011 n. 201, come modificato dal d.l. dell’08/04/2013 n. 35, art. 10);

1.10. pertanto, nel primo caso sopra riportato, nel quale la dichiarazione è stata presentata ed il versamento è stato omesso, il primo dei cinque anni previsti dall’art. 1, comma 161, della Legge 27 dicembre 2006 n. 296, è quello successivo a quello oggetto di accertamento e nel corso del quale il maggior tributo avrebbe dovuto essere pagato, nel secondo caso, in cui la dichiarazione non è stata presentata, il Comune ha un termine più ampio per effettuare l’accertamento del tributo;

1.11. ciò posto, nel caso in esame, come emerge dal ricorso e dall’avviso di accertamento impugnato (ad esso allegato), era stato richiesto il pagamento dell’imposta dovuta, e non versata, in base agli “elementi contenuti nella dichiarazione IMU”, oltre che ai “dati catastali in possesso dell’ufficio e …(ad)… altri atti acquisiti relativamente ai versamenti effettuati”;

1.12. ne consegue che, nel caso in esame, nel quale la dichiarazione era stata presentata, il primo dei cinque anni previsti dall’art. 1, comma 161, n. 296/2006, era, come si è detto, quello successivo all’anno oggetto di accertamento e nel corso del quale il maggior tributo avrebbe dovuto essere pagato, e dunque per l’anno 2013, il primo anno dei cinque previsti per la decadenza dal potere impositivo è il 2014, con la conseguenza che il termine per la notifica dell’avviso di accertamento da parte dell’Ente impositore scadeva il 31 dicembre 2018;

1.13. alla luce di quanto sopra l’avviso di accertamento risulta notificato oltre il termine di cui all’art. 1, comma 161 della l. n. 296 del 2006, scadendo nel caso di specie i cinque anni previsti da tale disposizione il 31.12.2018, ed essendo stata effettuata la notifica in data 10.1.2019 (circostanza incontestata, oltre che documentalmente provata);

2. quanto sin qui illustrato comporta l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata;

3. inoltre, non richiedendosi, per la risoluzione della controversia, alcun altro accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ex art. 384 c.p.c., comma 1, con l’accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente;

4. poiché l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, in base al quale si è decisa la causa, s’è consolidato nel corso del giudizio, si ritiene opportuno compensare tra le parti le spese processuali delle fasi di merito, con condanna del Comune intimato al pagamento delle spese del presente grado, con liquidazione come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente, compensando tra le parti le spese processuali dei gradi di merito; condanna il Comune intimato al pagamento delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, se dovuti.

Conclusione
Così deciso in Roma il 15 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 16/01/2024) 22/05/2024, n. 14279

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente

Dott. CATALDI Michele – Consigliere

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere

Dott. LENOCI Valentino – Consigliere Rel.

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21794/2016 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in Roma, piazza del Popolo n. 18, presso lo studio dell’avv. Leonello Brocchi, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo – sezione staccata di Pescara n. 238/06/2016, depositata il 26 febbraio 2016;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza in camera di consiglio del 23 gennaio 2024 dal consigliere dott. Valentino Lenoci;

Svolgimento del processo
1. Con cartella di pagamento n. (omissis), ritualmente notificata, la concessionaria per la riscossione Equitaila Pragma Spa richiedeva a A.A. il pagamento della somma di Euro 112.782,52, per IRPEF e relativi accessori dell’anno 2004. Tale richiesta si fondava sull’avviso di accertamento n. (omissis), con il quale l’Agenzia delle Entrate accertava, nei confronti del suddetto contribuente, per l’anno 2004, un reddito da plusvalenze di natura finanziaria non dichiarato di Euro 117.800,00 ed un reddito complessivo di Euro 133.448,00, a fronte del reddito dichiarato di Euro 15.648,00, con determinazione delle conseguenti imposte e sanzioni.

2. Il contribuente impugnava la cartella di pagamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pescara la quale, con sentenza n. 282/01/2014, depositata il 23 giugno 2014, rigettava il ricorso, condannando il ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

3. Interposto gravame dal contribuente, la Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo – sezione staccata di Pescara, con sentenza n. 238/06/2016, pronunciata il 19 gennaio 2016 e depositata in segreteria il 26 febbraio 2016, accoglieva l’appello, annullando la cartella di pagamento impugnata e compensando le spese del doppio grado di giudizio.

4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sulla base di cinque motivi.

A.A. resiste con controricorso.

5. La discussione del ricorso è stata fissata dinanzi a questa sezione per l’adunanza in camera di consiglio del 23 gennaio 2024, ai sensi degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis 1 cod. proc. civ.

Il controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a cinque motivi.

1.1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della legge 20 novembre 1982, n. 890, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

Rileva, in particolare, che la consulenza tecnica disposta in grado di appello, al fine di accertare l’apocrifia della sottoscrizione, da parte del contribuente, dell’avviso di ricevimento dell’avviso di accertamento presupposto della cartella impugnata, era sostanzialmente superflua, posto che, ai fini della validità della notificazione non è sufficiente il semplice disconoscimento della firma, in quanto lo stesso contribuente non contesta le altre risultanze della relata di notifica (consegna quel certo giorno presso quell’indirizzo), e la notifica si doveva intendere pertanto perfezionata nel momento in cui l’atto era entrato nella sfera di conoscibilità del destinatario.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce violazione e falsa applicazione degli artt. 1335 e 2697 cod. civ., nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

Sostiene, in particolare, l’Ufficio che era onere del contribuente dimostrare che la sottoscrizione dell’avviso di ricevimento era avvenuto da parte di soggetto non titolato, a lui del tutto estraneo e con conseguente impossibilità di avere conoscenza dell’atto.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 60, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, che richiama gli artt. 148 e 149 cod. proc. civ., nonché dell’art. 7 comma 1 e 4, della legge n. 890/1982, nonché, ancora, degli artt. 155, 156 e 163 del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

Rileva, in particolare, che, ai fini del perfezionamento della notifica, l’agente postale non ha il compito di procedere all’identificazione del consegnatario dell’atto, e quindi all’accertamento della veridicità della dichiarazione che il consegnatario dell’atto gli rilasci (dichiarazione di essere, per l’appunto, il destinatario dell’atto), per cui, una volta che l’agente abbia raccolto la dichiarazione, seguita poi dalla firma della ricevuta, e così consegnato l’atto nelle mani di colui che ha assunto di essere il destinatario dello stesso, la sequenza notificatoria è da considerarsi legittima.

1.4. Con il quarto motivo di ricorso l’Ufficio deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 4, della legge n. 890/1982, in relazione all’art. 148, comma 2, cod. proc. civ., nonché degli artt. 2699 e 2700 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

Rileva, in particolare, la ricorrente che l’avviso di ricevimento fa fede, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, ragion per cui erroneamente la C.T.R. ha qualificato l’avviso in questione come scrittura privata suscettibile di disconoscimento.

1.5. Con il quinto motivo di ricorso, infine, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 58 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.

Sostiene, in particolare, l’Amministrazione finanziaria che il ricorrente in primo grado aveva richiesto la querela di falso per accertare la falsità della sottoscrizione dell’avviso di ricevimento in questione, e che tale querela era stata dichiarata inammissibile con sentenza del Tribunale di Pescara n. 327 del 19 febbraio 2013; conseguentemente, la C.T.R. non avrebbe potuto ammettere in grado di appello un nuovo esperimento istruttorio (C.T.U. in caso di istanza di verificazione) in presenza dell’unico incombente richiesto in primo grado, e cioè la querela di falso.

2. Preliminarmente, con riferimento all’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa del controricorrente, questa Corte rileva che essa è da considerare infondata.

Il ricorso in esame, invero, contiene, in maniera chiara e puntuale, l’esposizione dei fatti di causa essenziali ai fini dell’illustrazione dei motivi di ricorso (art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), con riferimento sia al primo che al secondo grado di giudizio, senza peraltro la mera trascrizione degli atti processuali (v. pagg. 1-13 del ricorso dell’Agenzia delle Entrate).

3. Venendo quindi ad esaminare i motivi di ricorso, la Corte osserva quanto segue.

3.1. Preliminarmente, con riferimento al primo motivo di ricorso, il controricorrente eccepisce l’inammissibilità perché la ricorrente sollecita una nuova valutazione nel merito da parte di questa Corte.

L’eccezione in esame è infondata, in quanto, al contrario, l’Amministrazione finanziaria, con il motivo in esame, censura l’applicazione delle norme in materia di notificazione a mezzo del servizio postale, rilevando come, contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.R., la notificazione dell’avviso di accertamento prodromico rispetto alla cartella impugnata dovesse considerarsi, in realtà, perfezionata, in quanto, a tal fine, era sufficiente che l’agente notificatore avesse consegnato il plico presso l’indirizzo del destinatario, senza che vi fosse l’obbligo di accertare l’identità del consegnatario dell’atto in questione.

3.2. I motivi di ricorso possono essere esaminati tutti congiuntamente, in quanto sostanzialmente riconducibili ad un’unica, articolata doglianza, riguardante la legittimità del procedimento notificato dell’avviso di accertamento presupposto della cartella di pagamento impugnata.

I motivi in questione sono fondati.

Ed invero, con riferimento alla notificazione a mezzo del servizio postale, “ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, con grafia illeggibile, nello spazio relativo alla firma del destinatario o di persona delegata, e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, a nulla rilevando che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 cod. proc. civ.” (Cass., sez. U., 27 aprile 2010, n. 9962; v. anche Cass. 30 marzo 2016, n. 6126).

Segnatamente, è d’uopo evidenziare che gli avvisi di ricevimento si palesano suscettibili di provare, fino a querela di falso, la consegna degli atti ove ricorrano le seguenti condizioni: i) gli atti risultino consegnati all’indirizzo del destinatario; ii) la persona indicata come consegnataria dell’atto abbia apposto la propria firma (ancorché illeggibile) nello spazio dell’avviso di ricevimento relativo alla firma del destinatario o di persona delegata (Cass. 16 ottobre 2020, n. 22514).

Sul punto, va rilevato che, nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, l’agente postale non ha l’obbligo di procedere alla identificazione del soggetto al quale consegna l’atto, avendo egli soltanto l’obbligo di attestare che, nel luogo e nella data indicati nell’avviso di ricevimento, in sua presenza un soggetto qualificatosi destinatario dell’atto ha apposto una firma. La sequenza notificatoria che assume rilevanza, dunque, al fine di considerare validamente eseguita e perfezionata la notifica è unicamente quella prevista dall’art. 7, commi 1 e 2, della legge n. 890/1982, ragion per cui, una volta che l’agente abbia raccolto la dichiarazione, seguita poi dalla firma della ricevuta, e così consegnato l’atto nelle mani di colui che ha assunto di essere il destinatario dello stesso, la sequenza notificatoria è legittima, rispondendo al modello legale, e dunque l’atto è da intendersi notificato al destinatario.

Al fine di contestare le risultanze dell’avviso di ricevimento, dunque, sarebbe dovuta intervenire pronuncia di falsità a seguito di querela di falso, querela che in realtà è stata presentata, ma la cui relativa istanza è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di Pescara con sentenza n. 327 del 12 marzo 2013, passata in giudicato (nel mentre la parte contribuente, avendo interesse a conseguire la declaratoria di falsità, avrebbe dovuto impugnare la sentenza del Tribunale).

Conseguentemente, in assenza di dichiarazione di falsità dell’atto, deve ritenersi che l’avviso di ricevimento in questione sia stato notificato a persona dichiaratasi destinataria dell’atto, il che ha reso perfezionato il procedimento di notifica; ultronea ed irrilevante, pertanto, deve ritenersi la C.T.U. grafologica espletata nel corso del giudizio di secondo grado, non applicandosi, nella specie, le norme sulla verificazione della scrittura privata.

4. Consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata; non essendo necessari ulteriori accertamenti in punto di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso originario proposto dal contribuente.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario proposto in primo grado da A.A.

Condanna A.A. alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2024.

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 25/03/2024) 13/05/2024, n. 12964

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta da

Dott. FEDERICI Francesco – Presidente

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere Rel.

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere

Dott. MASSAFRA Annachiara – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10838/2016 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. (Omissis)), in persona del Direttore prò tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12

– ricorrente –

contro

A.A. (C.F. (Omissis)), rappresentato e difeso dall’Avv. PAOLA RUGGIERI FAZZI (C.F. (Omissis)) in virtù di procura speciale a margine del controricorso, elettivamente domiciliato presso il domicilio digitale (PEC) ruggieri-fazzi.paola@ordavvle.leqalmail.it

– controricorrente –

nonché nei confronti di

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE Spa (C.F. (Omissis)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. CORRADO FRANCESCO SAMMARRUCO (C.F. (Omissis)) in virtù di procura speciale allegata al controricorso, elettivamente domiciliata presso il domicilio digitale (PEC) sammarruco.corrado@ordavvle.legalmail.it

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, Sezione staccata di Lecce, n. 688/22/15, depositata in data 31 marzo 2015

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 marzo 2024 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino.

Svolgimento del processo
1. Il contribuente A.A., quale erede di B.B., ha impugnato una intimazione di pagamento notificata in data 24 marzo 2006, relativa a debiti tributari erariali (IRPEF e IRAP) del periodo di imposta 1998 facenti capo de cuius, intimazione relativa a cartella di pagamento notificata in data 8 maggio 2003. Come risulta dalla sentenza impugnata, la cartella sottesa era stata notificata al contribuente personalmente e non, invece, all’ultimo domicilio del de cuius (“notificata personalmente a quest’ultimo, senza il regolare espletamento delle formalità prescritte per la notifica degli atti nell’ultimo domicilio del de cuius”).

2. La CTP di Lecce ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo corretta la notificazione della cartella di pagamento sottesa, in quanto effettuata al contribuente (“nelle mani del figlio”).

3. La CTR della Puglia, Sezione staccata di Lecce, con sentenza qui impugnata, ha accolto l’appello del contribuente. Ha ritenuto il giudice di appello – per quanto qui ancora rileva – che le notificazioni sia dell’intimazione di pagamento, sia della cartella esattoriale sottesa, sono nulle per violazione dell’art. 65 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per essere atti intestati al de cuius e non agli eredi, atti notificati tre anni dopo la morte del de cuius, avvenuta in data 7 febbraio 2000. In particolare, il giudice di appello ha ritenuto che l’Ufficio abbia avuto conoscenza del decesso per effetto della denuncia di successione in data 7 agosto 2000 “con regolare indicazione dei dati anagrafici dei tre eredi del” de cuius. Nel qual caso – ha proseguito il giudice di appello – essendo l’Ufficio venuto a conoscenza del decesso del de cuius, la notificazione si sarebbe dovuta effettuare collettivamente e impersonalmente agli eredi. Ha, inoltre, rilevato il giudice di appello che il ruolo era stato emesso a carico di un soggetto defunto, laddove l’iscrizione a ruolo sarebbe dovuta avvenire a carico di tutti gli eredi.

4. Propone ricorso per cassazione l’Ufficio, affidato a tre motivi, cui resistono con controricorso il contribuente e il concessionario della riscossione.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 65 d.P.R. n. 600/1973, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto la nullità dell’intimazione di pagamento e della cartella sottesa, in quanto effettuate nei confronti dell’erede personalmente senza il rispetto delle formalità di cui all’art. 65 d.P.R. ult. cit. Osserva parte ricorrente che la notificazione agli eredi collettivamente e impersonalmente nell’ultimo domicilio del de cuius presuppone l’omessa comunicazione al trentesimo giorno prima della notificazione.

– di generalità e domicilio degli eredi da parte degli eredi a termini dell’art. 65, secondo comma, d.P.R. n. 600/1973, laddove in presenza di tale comunicazione la notificazione va effettuata nominativamente agli eredi, essendo in tal caso l’Ufficio dispensato dalle opportune ricerche, conoscenza per l’Ufficio derivante – come risulta dalla sentenza impugnata – dalla denuncia di successione. Deduce il ricorrente che la notificazione all’erede presso il suo domicilio possa, in ogni caso, essere effettuata anche in assenza della comunicazione di cui all’art. 65, secondo comma, d.P.R. n. 600/1973.

2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 25 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto procedere ad emettere nuovi ruoli a carico degli eredi del de cuius. Osserva parte ricorrente che l’art. 12 d.P.R. n. 602/1973, avente ad oggetto la formazione del ruolo, prevede che il ruolo vada intestato al contribuente anche dopo il suo decesso.

3. Con il terzo motivo si deduce in via gradata, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 156 cod. proc. civ., per avere il giudice di appello ritenuto nulle le notifiche effettuate dall’Ufficio, laddove tali nullità si sarebbero dovute ritenere sanate dalla proposizione del ricorso.

4. Il primo motivo è fondato. Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, in ipotesi di decesso del contribuente, ove gli eredi non abbiano assolto all’onere di comunicazione del proprio domicilio, ai sensi dell’art. 65 del d.P.R. n. 600 del 1973, la circostanza che la notifica dell’atto impositivo non sia stata fatta impersonalmente e collettivamente agli eredi, ma risulti notificata a mani proprie di uno di essi non costituisce elemento idoneo a inficiare la validità del procedimento notificatorio, atteso che la predetta norma pone un’agevolazione in favore dell’ente impositore come conseguenza dell’omessa comunicazione del domicilio fiscale di ciascuno degli eredi (Cass., Sez. V, 1° giugno 2023, n. 15544).

5. Pertanto, anche in caso di omessa comunicazione ex art. 65 d.P.R. n. 600/1973, non può ritenersi nulla la notifica che non sia fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi e che sia, invece, effettuata direttamente all’erede, essendo la notificazione impersonale e collettiva agli eredi mera facoltà dell’Ufficio, la cui mancanza non ingenera nullità della notificazione effettuata direttamente all’erede. Ciò in quanto la notificazione di una cartella contenente il debito iscritto a ruolo a carico del de cuius effettuata direttamente nei confronti del soggetto che ha reso noto all’Amministrazione finanziaria di essere subentrato nella posizione ereditaria del de cuius (rendendola edotta dei propri dati anagrafici), appare non meno irrispettosa del diritto di difesa rispetto alla notificazione della cartella eseguita presso l’ultimo domicilio del de cuius impersonalmente nei confronti degli eredi, peraltro già palesatisi con la dichiarazione di successione.

6. Non si condivide, pertanto, il precedente orientamento di questa Corte, che – sotto pena di nullità insanabile – prescriveva che la notifica degli atti impositivi o della riscossione, ove l’evento fosse stato noto all’Ufficio, dovesse essere rigidamente effettuata, in assenza della comunicazione dall’art. 65 d.P.R. n. 600/1973, presso l’ultimo domicilio del de cuius collettivamente ed impersonalmente, ovvero personalmente e nominativamente presso il domicilio degli eredi nell’ipotesi in cui gli stessi avessero effettuato tale incombente (Cass., Sez. V, 22 maggio 2019, n. 13760).

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione del principio applicabile in tema. È assorbito l’esame del terzo motivo.

7. Il secondo motivo è fondato, posto che – mentre la cartella di pagamento va notificata agli eredi (con le due diverse modalità descritte in relazione al superiore motivo), la formazione del ruolo, disciplinata dall’art. 12 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, va operata al nome del contribuente, pur dopo il suo decesso (Cass., Sez. V, 13 dicembre 2023, n. 34864; Cass., Sez. VI, 30 gennaio 2023, n. 2705; Cass., Sez. V, 26 maggio 2021, n. 14570; Cass., Sez. VI, 17 luglio 2019, n. 19226; Cass., Sez. V, 28 dicembre 2017, n. 31037; Cass., Sez. V, 8 aprile 2016, n. 6856; Cass., Sez. V, 19 febbraio 2014, n. 2024; Cass., Sez. V, 9 gennaio 2014, n. 228).

8. La sentenza va pertanto, cassata, con rinvio per l’esame delle questioni rimaste assorbite, nonché per la regolazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo, dichiara assorbito il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Puglia, in diversa composizione, anche per la regolazione e la liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, in data 25 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2204.


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 13/02/2024) 15/04/2024, n. 10091

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente

Dott. VELLA Paola – Consigliere

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere-Rel.

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 32702/2018 R.G. proposto da:

GIEFFE Srl, elettivamente domiciliata in Cagliari Via Pessina, presso lo studio dell’avvocato MELONI MARCELLO ((Omissis)) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MELONI RODOLFO ((Omissis)), CAMPANA GIUSEPPE ((Omissis)), MELONI MARCELLO ((Omissis))

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO BRICOSARDA Srl, elettivamente domiciliato in ROMA VIA A VALLISNERI 11, presso lo studio dell’avvocato CECERE STEFANO ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato FODDE GIANRAIMONDO ((Omissis))

– controricorrente –

nonché contro

A.A., B.B.

– intimati –

avverso DECRETO di TRIBUNALE CAGLIARI in RG 11575/2018 depositato il 02/10/2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere ANDREA FIDANZIA.

Svolgimento del processo
Con decreto depositato il 2.10.2018 il Tribunale di Cagliari ha rigettato l’opposizione ex art. 98 legge fall. proposta da Gieffe Srl avverso il decreto con cui il G.D. del fallimento Bricosarda Srl aveva rigettato la sua domanda di insinuazione del credito dell’importo di Euro 231.540,70, richiesto a titoli di canoni d’affitto d’azienda di cui al contratto sottoscritto tra le parti in data 8.7.2010.

Il Tribunale ha condiviso l’impostazione del G.D., ritenendo il contratto di affitto d’azienda in oggetto non opponibile alla procedura in quanto privo di data certa. In particolare, ha osservato che, pur potendo costituire un significativo elemento di prova della data certa la pec datata 21.1.2013 con cui la società I Gabbiani Immobiliare (poi fusa in Gieffe Srl) aveva chiesto il pagamento dei canoni insoluti imputandoli “al contratto in data 8.7.2010”, il cui contenuto era stato descritto nei suoi tratti essenziali nella nota sopra richiamata (tale per cui, secondo il decreto impugnato, se tale nota “fosse dotata di data certa, estenderebbe la certezza della data alla scrittura privata ed alle previsioni essenziali in essa contenute”), tuttavia, tale documento non era dotato di data certa, essendovi solo la prova che, in data 21.1.2013, l’odierna ricorrente aveva inviato una pec alla Bricosarda, ma non anche che il documento allegato alla pec fosse la nota prodotta.

Il Tribunale di Cagliari ha quindi ritenuto che l’opponente avrebbe dovuto corrispondentemente riprodurre il documento già in formato

elettronico, così da poter verificare se allegata alla pec vi fosse effettivamente la comunicazione prodotta.

Analoga conclusione doveva essere estesa alla nota del 15.10.2012, la quale, peraltro, non conteneva alcun riferimento al contratto dell’8.7.2010, né al suo contenuto, ma solo alle fatture emesse e non pagate.

Avverso il decreto ha proposto ricorso per cassazione Gieffe Srl, affidandolo a quattro motivi.

Il fallimento Bricosarda Srl ha resistito in giudizio con controricorso.

La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ., 2697 cod. civ. in relazione agli artt. 48 CAD e 16 bis D.L. n. 179/2012, e successive modifiche, 99 e 101 legge fall.

È stata, altresì, dedotta l’omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti nonché la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 183 comma 3 e 101 comma 2 cod. proc. civ.

Lamenta la ricorrente che il giudice di primo grado, nonostante l’inequivoca facoltà concessa alla parte dalla legge (art. 16 bis legge cit.), all’atto della prima costituzione in giudizio, di depositare i documenti in cartaceo, ha ritenuto imprescindibile, per provare il contenuto di un documento allegato ad una pec, la produzione dello stesso in via telematica, non considerando che il deposito in via telematica costituisce una semplice alternativa e che la prova del contenuto dell’allegato può essere fornita producendo documentazione attestante l’accettazione e la consegna del messaggio inviato via pec.

La ricorrente ha, altresì, osservato che in nessuna fase della procedura (né di ammissione, né in sede di opposizione allo stato passivo) la procedura aveva contestato di aver ricevuto le diffide – e cioè la pec – con quel contenuto.

Doveva, pertanto, ritenersi pacifico che, per effetto della mancata contestazione da parte del fallimento, le pec avessero quel contenuto, incombendo semmai al fallimento provare un allegato diverso da quello prodotto in cartaceo.

Il Tribunale ha quindi omesso di decidere su un fatto decisivo costituito dalla data certa del credito derivante dalle lettere oggetto di discussione tra le parti.

In subordine, la ricorrente allega che il giudice di primo grado avrebbe violato gli artt. 101 comma 2 e 112 cod. proc. civ., avendo posto a fondamento della propria decisione una questione rilevabile d’ufficio senza assegnare alle parti un termine per depositare memorie sul punto.

2. Il motivo presenta concomitanti profili di infondatezza e inammissibilità, anche se la motivazione del Tribunale deve essere corretta in diritto a norma dell’art. 384 ult. comma cod. proc. civ. Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 32165/2023), nell’esaminare un’analoga questione in cui era stato invocato dall’istante che il documento allegato ad una posta elettronica certificata è attratto al regime di quest’ultima, ed è pertanto atto opponibile a terzi, ha affermato che “la posta elettronica certificata dimostra l’invio e la ricezione del messaggio, ma non garantisce il contenuto del documento allegato”. Non si può, in altri termini, dalla circostanza che la posta elettronica è certificata, dedurre che anche il documento allegato lo è, o meglio, che quel documento è riferibile al suo autore, e che ha effettivamente quel contenuto. Si supponga il caso in cui con posta certificata si invia un documento dal falso contenuto, o proveniente da un terzo: si dovrebbe dire che, avendo il mittente certificato la posta (ossia attestato che proviene da lui e che è stata spedita a quell’ora) ha altresì attestato che il documento allegato è vero o che è riferibile ad un terzo….”.

Dunque, la Pec è in grado di attestare in maniera certa l’avvenuta trasmissione e ricezione del messaggio, le modalità di spedizione (data, ora e formato) ed anche il suo contenuto, ma limitatamente alla Pec stessa, non al file allegato ad essa. Pertanto, se alla Pec è stato allegato un file con un determinato nome, estensione, formato e dimensioni la ricevuta lo attesterà, ma non farà prova del contenuto di quel file, occorrendo, a tal fine, che sul file allegato sia apposta la firma digitale, che certificherà la provenienza del documento e la sua integrità.

Ne consegue che non è corretta la stessa affermazione del tribunale secondo cui la produzione del documento (pec) in formato elettronico sarebbe idonea a fornire la prova del contenuto del documento allegato (e della data certa).

Non corretta giuridicamente è, inoltre, l’affermazione del Tribunale secondo cui la data certa di un documento (nel caso di specie, la nota del 21.1.2013 inviata via pec) che richiama, al suo interno, il contenuto di un contratto nei suoi tratti essenziali (nella specie, il contratto di affitto d’azienda) “estenderebbe la certezza della data anche alla scrittura privata ed alle previsioni essenziali in essa contenute”. Sul punto questa Corte (vedi Cass. n. 34755/2023) ha recentemente affermato – nell’esaminare una questione in cui l’istante intendeva provare la data certa di un mandato professionale desumendola dalla menzione dello stesso all’interno di una domanda di concordato preventivo depositata in giudizio – …” che la mera menzione di un mandato professionale supposto quale preesistente rispetto ad un atto, depositato in giudizio e da quel momento avente natura di data certa, non conferisce alcuna data certa anche al contratto cui il mandato citato ineriva, se non ne sia contestualmente depositato il relativo documento: atteso che l’istituto della data certa, ai fini della opponibilità, riguarda un atto che, con un giudizio di certezza, viene in rilievo nella sua precisa, conoscibile, dunque completa, esistenza, non è certo sufficiente, a tal fine, la mera menzione del suo contenuto in altro atto. Nel caso di specie, non vi sono i presupposti per il riconoscimento della data certa, cioè della violazione da parte del giudice di merito dei criteri codicistici enunciati, in quanto con la domanda di concordato preventivo quel mandato non risultava depositato, ma solo menzionato nel corpo del ricorso e peraltro neanche nella sua integralità…”.

Il principio enunciato da questa Corte nella predetta ordinanza risulta pienamente applicabile anche al caso di specie.

Sono, altresì, infondate le censure della ricorrente in ordine alla dedotta violazione del principio di non contestazione, di cui all’art. 115 cod. proc. civ., e dell’art. 101 comma 2 cod. proc. civ.

Quanto alla prima doglianza, l’onere di contestazione specifica che grava su una parte processuale non riguarda i documenti prodotti in giudizio o la loro valenza probatoria, la cui valutazione è riservata al giudice (vedi Cass. n. 3126/2019; vedi anche Cass. n. 3306/2020; Cass. n. 12748/2016; 22055/2017), e ciò in considerazione del fatto che l’accertamento sull’esistenza del titolo vantato nei confronti del fallimento, e dedotto in giudizio, deve essere dunque compiuto dal giudice “ex officio” in ogni stato e grado del processo, nell’ambito proprio di ognuna delle sue fasi, in base alle risultanze rite et recte acquisite nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole (vedi Cass. 24972/2013; conf. Cass. 29254/2019).

Non può essere neppure invocata dal ricorrente la violazione dell’art. 101 comma 2 cod. proc. civ.

Dalla stessa ricostruzione dei fatti fornita dalla ricorrente, contenuta nella parte narrativa (vedi pag. 5 ricorso), emerge che “Il G.D. con provvedimento 24/10/16 escludeva l’importo ammesso al passivo ritenendo che l’intera documentazione prodotta non fosse opponibile al fallimento, trattandosi di contratto privo di data certa e di fatture emesse dal richiedente, per cui tale documentazione non aveva data certa anteriore al fallimento”.

Dunque, la problematica, in generale, della data certa è stata affrontata dal G.D. in sede di insinuazione allo stato passivo ed apparteneva al thema decidendum anche nella fase del giudizio di opposizione ex art. 98 legge fall. Non può, pertanto, la ricorrente invocare, sul punto, la violazione del principio del contraddittorio.

Infine, la censura, secondo cui il Tribunale avrebbe omesso di decidere su un fatto decisivo costituito dalla data certa del credito derivante dalle lettere oggetto di discussione tra le parti, è palesemente infondata, avendo il giudice di primo grado esaminato approfonditamente le scritture in oggetto, ritenendole prive di data certa.

3. Con il secondo motivo sono invocati la violazione e falsa applicazione degli artt. 2704 e 2709 cod. civ. nonché l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ.

Espone la ricorrente che il fallimento non ha contestato né di aver detenuto ed esercitato l’azienda sino a febbraio-marzo 2013 né di avere corrisposto i canoni relativi all’affitto successivi al luglio 2010, per i quali sono state emesse le fatture prodotte in giudizio dalla ricorrente. Tale circostanza doveva ritenersi provata in quanto non solo non contestata, ma anche ammessa dal fallimento.

Inoltre, il pagamento delle fatture emesse dall’8.7.2010 all’agosto 2011 era stato provato con la produzione di assegni e le ammissioni di controparte che dimostravano l’anteriorità del credito rispetto al fallimento.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che il Tribunale di Cagliari ha coerentemente evidenziato che “la prova del rapporto di cui è causa non può essere desunta dalle fatture emesse dalla società opponente, trattandosi di documentazione formata unilateralmente dal creditore. Né assume maggior rilievo il fatto che la Bricosarda effettuasse pagamenti in favore di Gieffe di importo corrispondente, atteso che tale circostanza proverebbe l’esistenza di un rapporto tra le due società, ma non che la fonte di tale rapporto fosse proprio il contratto di affitto d’azienda del 8.7.2010 che l’opponente pretende di far valere”.

Con tali precise argomentazioni la ricorrente non si è confrontata, reiterando le precedenti censure ed affermando apoditticamente che il fallimento non aveva contestato che la società fallita avesse pagato le fatture dopo l’8.7.2010, non considerando che, come evidenziato dalla procedura controricorrente in questa sede, i pagamenti potevano ben riferirsi al contratto di affitto precedentemente stipulato del 20.9.2000 in merito al quale non è contestato che vi fossero morosità e/o ritardi.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2704 cod. civ. in relazione all’art. 244 cod. proc. civ. nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Espone la ricorrente di aver articolato, nell’atto di opposizione ex art. 98 legge fall., prove testimoniali vertenti su circostanze non dirette a provare il contenuto del contratto di affitto d’azienda, ma fatti (equipollenti a quelli delineati dall’art. 2704 cod. civ. al fine di attribuire data certa al credito) che concernono l’esistenza di un accordo contrattuale che nel luglio 2010 ha portato Bricosarda a continuare l’esercizio dell’azienda per importi concordati con la ricorrente e a pagare quelle somme sino all’agosto 2011.

Il Tribunale di Cagliari non ha ammesso la prova testimoniale nonostante la stessa fosse idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito. Ne consegue che il giudice di primo grado è incorso nel vizio di motivazione.

6. Il motivo è inammissibile.

Se è pur vero che ove il documento contrattuale non sia munito di data certa, la prova del negozio e della sua stipulazione anteriore al fallimento può essere fornita, prescindendo dal documento contrattuale, con tutti gli altri mezzi consentiti, anche nei confronti dei terzi e del curatore, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto del negozio (vedi Cass. 2319/2016; conf. Cass n. 3956/2018 e n. 37028/2021), tuttavia, nel caso di specie, la mancata ammissione da parte del Tribunale di Cagliari delle prove articolate dalla ricorrente non dà luogo ad un vizio di motivazione, atteso che le circostanze capitolate non erano idonee ad investire un punto decisivo della controversia (vedi sul punto Cass. n. 16214/2019; conf. 27415/2018; Cass. n. 56544/2017), difettando nei capitoli deferiti ai testi quel grado di completezza e univocità nel ricostruire tutti gli elementi negoziali dell’affitto d’azienda, non dimostrabile con documenti afferenti al titolo, perché inopponibili al curatore. In particolare, ove, come nel caso di specie, la prova verta sulle mere circostanze di ‘esecuzione’ di un rapporto, che non parrebbe negato da alcuno, ma senza che sia possibile ricostruire quale fosse il suo titolo e quale fosse la precisa volontà delle parti, ad iniziare dal sinallagma godimento-corrispettivi, manca la decisività, che è onere della prova della parte ricorrente allegare e persuadere vi sia.

Dall’esame dei capitoli di prova articolati dall’odierno ricorrente nel giudizio di opposizione – e trascritti in ricorso – emerge che contengono un riferimento al contratto del 2000 – in ordine al quale il tribunale ha già giudicato tardiva la menzione di quel titolo – che non è, tuttavia, rilevante, avendo la ricorrente fondato la sua pretesa creditoria sul contratto del 2010. Pertanto, i capp. a-g, contraddicono un limite della causa petendi; alcuni sono generici (i), altri valutativi (k), altri inconferenti (n) o ultronei (p) o inutili (q) o un po’ velleitari (r) o scontati (s).

7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 93, 94, 99 e 101 legge fall. in relazione all’art. 183 comma 5 cod. proc. civ. nonché la nullità sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

Lamenta la ricorrente che ha errato il Tribunale di Cagliari nell’affermare che la domanda di riconoscimento dell’indennità di occupazione non fosse stata proposta in sede di insinuazione allo stato passivo.

In realtà, nelle note dell’1.10.2016 trasmesse al G.D. prima dell’approvazione dello stato passivo, riportate integralmente nel ricorso in opposizione e prodotte come documento n. 28, la ricorrente aveva già integrato la propria domanda, formulando la pretesa che le venisse riconosciuta l’indennità per l’illegittima occupazione dell’azienda.

La ricorrente ha, altresì, osservato che, anche alla luce dell’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte n. 12310/2015, dovendosi abbandonare il parametro di carattere formale che segnava la distinzione tra mutatio ed emendatio libelli, e soffermarsi piuttosto sulla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, non può ravvisarsi una domanda nuova per il solo fatto che nella richiesta di indennità di occupazione il titolo giuridico della pretesa sia diverso rispetto al titolo contrattuale.

8. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che la ricorrente ha dedotto che già nella fase di insinuazione allo stato passivo e, segnatamente, nelle note dell’1.10.2016 al progetto di stato passivo, aveva formulato la domanda di indennità per l’illegittima occupazione dell’azienda. Tale domanda si evincerebbe dal seguente passaggio di tali note, che è stato trascritto nel ricorso in opposizione ex art. 98 legge fall.: “In caso si ritenessero comunque inopponibili al fallimento sia la scrittura 8.8.2010 sia le relative fatture impagate sia l’ulteriore documentazione prodotta, non potrebbe comunque superarsi il fatto che Bricosarda detenesse il ramo d’azienda posto in Capoterra, Centro Commerciale i Gabbiani, via Lampedusa 29, in forza del contratto, oggi prodotto, autenticato in data 20/09/2000 rep. 10108/2711 dal Notaio Pasolini e ciò a decorrere dal 28/09/2000 sino al 5/3/2011 (vedi doc. 15 pag. 64) e che gli importi richiesti risultano mai pagati dalla società Bricosarda Srl.

In sintesi è indubitabile che la società fallita abbia detenuto in affitto un ramo d’azienda posta nel Centro Commerciale i Gabbiani, via Lampedusa 29, dal 20/9/2000 (vedi doc. 8) sino al 5/3/2013 e che, dal settembre 2011 (per la mensilità di agosto corrisposte solo Euro 3.000,00 contro 10.000,00 oltre iva) la Bricosarda Srl cessò di effettuare qualsivoglia altro pagamento del corrispettivo dovuto. Il rilascio avvenne nei primi giorni di marzo 2013 (vedi visura camerale doc. 15 pag. 64), mensilità peraltro di cui non si è chiesto il pagamento”.

Orbene, dall’esame dell’estratto delle note dell’1.10.2016, trascritto nel ricorso allo stato passivo – e sopra riportato integralmente – emerge in modo inequivocabile che la ricorrente non ha fatto alcun cenno ad una richiesta di indennità per l’illegittima occupazione dell’azienda, avendo semmai richiamato il contratto stipulato il 20.9.2000. Correttamente, quindi, il Tribunale di Cagliari ha ritenuto che la domanda subordinata di indennità di occupazione fosse stata formulata, inammissibilmente, solo in sede di opposizione allo stato passivo.

Infine, le censure della ricorrente sono palesemente infondate anche laddove nega che, con la richiesta dell’indennità di occupazione svolta nel ricorso ex art. 98 legge fall., abbia introdotto una domanda nuova.

Questa Corte (Cass. n. 6279/2022; conf. 26225/2017) ha più volte affermato che “sono inammissibili domande dell’opponente nuove rispetto a quelle spiegate nella precedente fase, non applicandosi il principio, proprio del giudizio di primo grado, secondo cui entro il primo termine di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., è consentita la “mutatio” di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda, petitum e causa petendi, sempre che essa, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio; il procedimento di opposizione allo stato passivo ha infatti natura impugnatoria, è disciplinato specificamente dall’art. 99 l. fall. e si coordina necessariamente con quanto previsto dall’art. 101 l. fall., non consentendo perciò l’applicazione, neppure analogica, dei principi espressi in tema di opposizione a decreto ingiuntivo”.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

Conclusione
Così deciso in Roma il 13 febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2024.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 14/02/2024) 15/03/2024, n. 7086

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere – Rel.

Dott. HMELIAK Tania – Consigliere

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso n. 4824/2016 proposto da:

Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12.

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, n. 7801, depositata il 25 agosto 2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 febbraio 2024 dal Consigliere Lunella Caradonna;

Svolgimento del processo
1. La Commissione tributaria provinciale di Salerno, con sentenza n. 2 del 17 maggio 2012 , aveva rigettato i riuniti ricorsi proposti da A.A. per l’annullamento di cinque avvisi di accertamento, con i quali, per gli anni 2007 e 2008, l’Agenzia delle Entrate, aveva rilevato costi non deducibili relativi in parte a mancata documentazione per euro 501.379,00 ed in parte ad utilizzazione di fatture soggettivamente false per euro 322.470,00, sulla base delle risultanze del P.V.C. redatto dalla Guardia di Finanza e sul presupposto che il ricorrente, aveva costituito, in data 2 gennaio 2008, una ditta individuale esercente l’attività di commercio all’ingrosso di autovetture ed autoveicoli leggeri, poi cessata il 31 dicembre 2008, che era servita esclusivamente per ricettare n. 27 auto di grossa cilindrata.

2. La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto da A.A., evidenziando, in via preliminare, l’incomprensibile asserzione “vennero forzatamente perfezionate nel libro giornale le discrasie rilevate dalle scritture contabili IVA e addirittura i pagamenti fatti e ricevuti”, in quanto il libro giornale tenuto in contabilità ordinaria assumeva in sé i registri IVA acquisti e vendite e le annotazioni di pagamenti fatti e ricevuti e affermando che dalla documentazione esibita dal contribuente (dichiarazione redditi, libro giornale, registri IVA acquisti e vendite, dichiarazioni IVA, dichiarazione redditi, libro giornale della soc. Auto HAURC -BURC venditrice delle autovetture), si deduceva l’acquisto e la vendita certa delle autovetture, la dichiarazione ai fini IVA ed II.DD. del reddito come emergente dalle scritture contabili, con la conseguenza che non si ravvisava alcuna omissione ed alcuna evasione; che, quanto al processo penale in corso in Germania, il A.A. ne aveva comunicato la definizione favorevole, ma non ne aveva prodotto prova e, tuttavia, l’Ufficio non aveva obiettato nulla nelle controdeduzioni.

3. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazioneDct6puba’ifficione affidato a tre motivi.

4. A.A. non ha svolto difese.

5. Con ordinanza interlocutoria n. 5563 del 22 febbraio 2023, questa Corte ha rinviato a nuovo ruolo, ordinando la notifica del ricorso per cassazione all’Agenzia delle Entrate nei confronti di A.A., personalmente, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza.

6. Con successiva ordinanza interlocutoria n. 20582 del 2023, questa Corte, sulla richiesta di rinvio formulata dall’Ufficio in data 27 marzo 2023, ha nuovamente rinviato a nuovo ruolo, disponendo il deposito dell’avviso di ricevimento della notifica del ricorso per cassazione, con termine di giorni sessanta decorrenti dalla comunicazione dell’ordinanza.

7. L’Agenzia delle Entrate ha depositato, in data 13 settembre 2023, con modalità informatiche, un’istanza, con la quale ha chiesto di disporre un nuovo termine per procedere al rinnovo della notifica del ricorso per cassazione, rappresentando che l’Ufficio UNEP presso la Corte di appello di Roma, con certificazione del 13 settembre 2023, allegata, aveva attestato l’indisponibilità dell’atto da parte dell’Autorità tedesca.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 e dell’art. 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, nonché dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 7 della legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. La Commissione tributaria regionale aveva ignorato il consolidato insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in conformità con i comuni canoni probatori stabiliti dall’art. 2697 cod. civ., competeva al contribuente, che avesse effettuato una detrazione di imposta, l’onere di dimostrare la sussistenza del diritto esercitato; tale prova non poteva consistere nella semplice esistenza di fatture formalmente regolari, allorquando l’Ufficio adduceva elementi che contrastavano con l’apparenza documentale; in questo caso, infatti, il contribuente che invocava il diritto alla detrazione doveva fornire ulteriori e più congrui elementi che dimostravano la veridicità (ideologica e/o materiale) della fattura e dei dati in essa esposti, e perciò, con specifico riguardo al caso di specie, della effettiva esistenza e della effettiva operatività dell’apparente venditore della merce; contrariamente a quanto la Commissione tributaria regionale mostrava di ritenere, la fattura, come gli altri registri contabili e le dichiarazioni IVA non costituivano documentazione dotata di fede privilegiata, ma un semplice documento commerciale avente la natura ed il valore probatorio di una scrittura privata; in guisa che, nel caso in cui ne era contestata la veridicità, non spettava a chi la contestava l’onere di dimostrare “con certezza” la falsità, ma spettava piuttosto a chi la utilizzava l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza dei fatti con essa rappresentati.

2. Il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 2697 cod. civ., nonché dell’art. 54 cod. proc. pen., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. La sentenza della Commissione tributaria regionale aveva accolto l’appello del contribuente sulla base della mera circostanza dell’intervenuta sentenza di assoluzione penale, peraltro indimostrata seppure non contestata dall’ufficio, che avrebbe esaminato i medesimi fatti oggetto del processo tributario, richiamandone genericamente l’esito; il giudicato penale non aveva alcuna efficacia vincolante nel processo tributario potendo i fatti in esso accertati costituire meri indizi, che il giudice tributario era comunque tenuto a vagliare in maniera dettagliata, attese le evidenti differenze processuali e sostanziali di imputazione e di acquisizione e valutazione delle prove.

3. Il terzo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc.

civ.. Punto decisivo della controversia era il disconoscimento nell’anno d’imposta 2008 anche di costi non sorretti da documentazione idonea a comprovarne l’effettività e l’inerenza, oltre l’insussistenza di un giudicato penale sulla parte della sentenza penale favorevole alla parte contribuente; la sentenza, sul punto, non aveva sufficientemente riscontrato le specifiche deduzioni dell’ufficio appellato. L’Amministrazione finanziaria aveva specificatamente dedotto, a pag. 4 dell’atto di costituzione in appello, che l’avviso di accertamento aveva ad oggetto il disconoscimento anche di alcuni costi in quanto non sorretto da alcuna documentazione giustificativa e su cui il contribuente non aveva presentato alcuna opposizione, oltre al fatto che la sentenza penale nella parte favorevole al contribuente era stata oggetto di appello incidentale e, dunque, il giudizio penale, benché conclusosi in senso favorevole per la parte privata, non aveva acquisito alcun valore di giudicato.

4. È preliminare all’esame delle censure la verifica della regolarità dell’instaurazione del contraddittorio nel giudizio di cassazione e, dunque, della validità della notificazione del ricorso introduttivo.

4.1 Nel caso in esame, come emerge dagli atti, la notifica nei confronti di A.A., è stata eseguita al domicilio eletto presso lo studio del dott. B.B. in La (PZ), via Da, n. (omissis) (come risulta dalla intestazione della sentenza impugnata), mediante servizio postale, consegnata dall’Avvocatura dello Stato il 19 febbraio 2016 e che, in assenza del destinatario, è stato lasciato avviso il 23 febbraio 2016, con l’emissione di Cad (omissis); nel fascicolo, poi, non è stato rinvenuto l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito.

4.2 Ciò posto, deve osservarsi che le Sezioni Unite di questa Corte si sono pronunciate, con riguardo ad un’analoga fattispecie che, pur concernendo la notifica di un atto impositivo, ha espresso un principio

applicabile alla notificazione di qualsivoglia atto processuale tramite il servizio postale: “Qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 24 e 111, comma 2, Cost.) dell’art. 8 della l. n. 890 del 1982 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informativa” (Cass., Sez. U., 15 aprile 2021, n. 10012).

4.3 In ordine alla necessità che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio de quo sia data esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’avviso di avvenuto deposito, deve ricordarsi quanto questa Corte ha già avuto modo di precisare sulle conseguenze di tale mancata produzione nel giudizio di legittimità, nelle ipotesi in cui la notifica al destinatario relativamente irreperibile riguardi il ricorso per cassazione: “La produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ai sensi dell’art. 149 cod. proc. civ., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ., è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. Ne consegue che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 cod. proc. civ., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal primo comma della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della corte in camera di consiglio di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372, secondo comma, cod. proc. civ.. In caso, però, di mancata produzione dell’avviso di ricevimento, ed in assenza di attività difensiva da parte dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ.” (Cass., Sez. U, 14 gennaio 2008, n. 627, Cass., 12 luglio 2018, n. 18361; Cass., 28 marzo 2019, n. 8641).

5. In conclusione, la riscontrata omissione nel deposito dell’avviso di ricevimento della “raccomandata CAD”, comporta l’inammissibilità del ricorso.

5.1 Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché l’intimato non ha svolto difese.

5.2 Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa (ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile), disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1 bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., 14 marzo 2014, n. 5955).

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, in data 14 febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 25/01/2024) 14/03/2024, n. 6853

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente rel.

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere

Dott. LENOCI Valentino – Consigliere

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12 in Roma è domiciliata;

– ricorrente –

Contro

A.A. (cf: omissis);

– intimato –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, n. 6665/8/2021 depositata il 16 luglio 2021, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 gennaio 2024 dal presidente relatore Lucio Napolitano.

Svolgimento del processo
L’Agenzia notificava al contribuente avviso di accertamento in data 3 maggio 2013. La raccomandata era inviata alla via G senza numero, in R. Stante l’assenza del destinatario, l’agente dava notizia del tentativo e del deposito con apposita raccomandata del 6 maggio 2013. Anche la suddetta raccomandata era inviata all’indirizzo ma sempre nell’assenza del destinatario, per cui ne veniva lasciato avviso nella cassetta, del che veniva dato atto nella ricevuta poi restituita all’Ufficio.

Il 4 marzo 2014 il contribuente proponeva ricorso avverso il suddetto avviso di accertamento, lamentando anzitutto l’inesistenza della notifica sopra descritta per violazione degli artt. 148 e 149 cod. proc. civ., 3, 6 e 14, L. n. 890/1982 e 42 e 60, D.P.R. n. 600/1973, oltre ad altri vizi procedurali e l’infondatezza nel merito della pretesa. La CTP rilevava la tardività del ricorso e lo dichiarava conseguentemente inammissibile. La CTR, adìta in sede d’appello dal contribuente, accoglieva il gravame, ritenendo che la sentenza Cass. Sez. U. n. 10012/2021, nello stabilire che l’amministrazione aveva l’onere di provare il perfezionamento del procedimento notificatorio, non essendo avvenuta la ricezione da parte del contribuente della raccomandata informativa dell’avvenuto deposito, comportava la nullità della notifica stessa. Sicché la proposizione del ricorso il 4 marzo 2014 aveva avuto effetto sanante, escludendo così la decadenza dell’amministrazione dal proprio potere impositivo (che si sarebbe invece consumato il successivo 31 dicembre 2014), ed era da considerarsi per l’effetto tempestiva.

Ricorre l’Agenzia per cassazione affidandosi a due motivi, mentre il contribuente è rimasto intimato, nonostante la regolarità della notifica eseguita a mezzo PEC in data 15 febbraio 2022.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21, D.Lgs. n. 546/1992 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.

Secondo l’Agenzia la CTR avrebbe errato nel ritenere che in assenza della prova della ricezione della raccomandata contenente l’avviso di deposito la notifica sarebbe nulla, determinandosi così la rimessione in termini del contribuente per la proposizione dell’impugnazione avverso l’atto impositivo.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 149 cod. proc. civ., 60 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 8 della L. n. 890 del 20.11.1982, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4, cod. proc. civ., lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe fatto corretta applicazione nel caso di specie dei principi pur richiamati affermati dalla succitata sentenza Cass. SU, n. 10012/2021, nella parte in cui ha ritenuto invalidamente eseguita la notifica dell’avviso di accertamento sebbene l’Amministrazione avesse prodotto l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa seguita alla prima raccomandata, con la quale era stata spedito l’atto impositivo per la notifica, pur in presenza dell’immissione dell’avviso nella cassetta del destinatario, nuovamente temporaneamente assente dal proprio domicilio, da esso risultando che il destinatario non avesse provveduto a curarne il ritiro nei dieci giorni successivi.

3. Va esaminato in ordine logico dapprima il secondo motivo, che è fondato.

La CTR della Sicilia, con la pronuncia in questa sede impugnata, non risulta avere fatto corretta applicazione nella fattispecie in esame dei principi posti dalla summenzionata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte.

Se è senz’altro vero che, in termini generali, essa abbia affermato che la produzione dell’avviso di ricevimento della CAD costituisce l’indefettibile prova di un presupposto implicito dell’effetto di perfezionamento della procedura notificatoria secondo le citate previsioni dell’art. 8, quarto e secondo comma, legge 890/982, che, qualora ritenuta giudizialmente raggiunta, trasforma tale effetto da “provvisorio” a”definitivo”, nella fattispecie in esame – in cui è incontroverso in fatto, dandone atto la sentenza impugnata, che l’Agenzia delle entrate ha prodotto, nel giudizio di merito, tanto la raccomandata originaria, quanto quella con cui era stata data notizia dell’avvenuto deposito (c.d. CAD), in cui era annotata l’assenza del destinatario (anche in tal caso) e l’avvenuta immissione in cassetta dell’avviso, senza che il destinatario, nuovamente temporaneamente assente, ne abbia poi curato il ritiro nei dieci giorni successivi dalla comunicazione di avvenuto deposito del 6 maggio 2013 – la notifica deve ritenersi validamente perfezionata al compimento di questi ultimi, in data 16 maggio 2013.

Questa Corte (cfr. Cass. sez. 6-5, ord. 2022, n. 8895), infatti, ha chiarito che “(i)n tema di notifica di un atto impositivo a mezzo del servizio postale, allorché dall’avviso di ricevimento prodotto risulti che l’ufficiale postale, assente il destinatario anche al momento della consegna della raccomandata informativa, abbia correttamente provveduto ad immettere l’avviso nella cassetta postale del medesimo e, quindi, a restituire l’atto al mittente, la notifica si perfeziona a seguito del decorso di dieci giorni senza che il predetto destinatario (nonostante l’invio della comunicazione di avvenuto deposito cd. CAD) abbia provveduto al ritiro del piego depositato presso l’ufficio, così determinando la compiuta giacenza; in tali casi, infatti, avendo la notifica raggiunto il suo scopo, in quanto la raccomandata informativa è pervenuta presso la sfera di conoscenza del destinatario che l’ha ricevuta presso il proprio indirizzo ed è risultato nuovamente assente, scegliendo di omettere il ritiro di tale plico presso l’ufficio postale, opera la presunzione di cui all’art. 1335 c.c.”.

La lettura fatta propria dalla CTR, per nulla autorizzata dalla sentenza n. 10012/2021 delle Sezioni Unite di questa Corte, finisce per rendere l’assenza del destinatario arbitra di un numero indefinito di avvisi, contro ogni logica e in aperta violazione dei principi espressi dalla pronuncia medesima.

4. All’accoglimento del secondo motivo consegue che risulta ugualmente fondato il primo, col quale la ricorrente censura la ritenuta ammissibilità, da parte della CTR, del ricorso proposto dal contribuente in primo grado solo in data 4 marzo 2014, quindi ben oltre il termine perentorio di cui all’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 dalla notifica dell’atto impositivo, che è da fissare, come nel paragrafo precedente chiarito in virtù delle osservazioni ivi svolte, alla data del 16 maggio 2013.

5. Ne consegue pertanto l’accoglimento del ricorso, con cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 382, terzo comma, cod. proc. civ., in quanto la causa non poteva essere proposta, restando quindi precluso al giudice tributario adito l’esame dei motivi di ricorso del contribuente nel merito della contestazione dell’accertamento basato su studi di settore.

6. Possono, in ragione del loro alterno esito, compensarsi tra le parti le spese dei gradi di merito del giudizio, ponendosi a carico dell’intimato, secondo soccombenza, le spese del giudizio di legittimità nella misura liquidata come in dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata.

Condanna l’intimato al pagamento in favore della ricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3500,00 oltre spese prenotate a debito, compensate quelle relative ai gradi di merito.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 16/01/2024) 12/03/2024, n. 6477

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente Aggiunto

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente di Sezione

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere-Rel.

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5062/2020 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

Unicar Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via XX Settembre 1, presso lo studio dell’avvocato Paolo Vitali, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3852/2019 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio – Sezione Staccata di Latina, depositata il 25/06/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere Enzo Vincenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto Mucci, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, con restituzione alla Sezione Tributaria, e, in subordine, per l’accoglimento;

uditi l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis e l’avvocato Paolo Vitali.

Svolgimento del processo
1. – Con ricorso affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale (C.T.R.) del Lazio, sezione staccata di Latina, resa pubblica in data 25 giugno 2019, che, in riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone del 7 novembre 2017, accoglieva l’appello della Unicar Srl e annullava, di conseguenza, l’avviso di accertamento emesso nei confronti di detta società con il quale, per l’anno di imposta 2013, era contestata la detrazione di I.V.A. per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, giacché attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti in ragione dell’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di A.A. M. & C. Sas

2. – La C.T.R. del Lazio, con la sentenza impugnata in questa sede, accoglieva l’appello del contribuente reputando che il comportamento da esso tenuto non dimostrasse “la sua consapevolezza nella partecipazione ad un meccanismo di frode”, non essendo egli “nella possibilità di sapere o di dover sapere” e ciò in forza di una pluralità di elementi, ossia: l’acquisto di veicoli che, al momento della consegna, sono soggetti a registrazione; il mancato coinvolgimento (desumibile dalle “intercettazioni telefoniche”) del legale rappresentante della Unicar Srl “nel meccanismo criminoso”; il numero esiguo di autoveicoli acquistati, “pari ad una irrisoria percentuale del totale”; l’incidenza sull’acquisto “ad un prezzo inferiore” delle “politiche aziendali, che mirano ad ottenere un maggior profitto”.

2. – L’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 19 e 21 del D.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. utilizzato a sostegno della decisione argomentazioni “fuorvianti e ultronee”, nonché prove “inesistenti, inconsistenti, ininfluenti, non allegate dalle parti”, così da invertire lo stesso onere probatorio incombente su di esse, gravando sul contribuente la dimostrazione della propria buona fede, una volta provata dall’amministrazione (come nella specie) “la natura di cartiera della società a monte” dell’operazione in frode.

Con il secondo motivo è, quindi, censurata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 19 e 21, comma settimo, del D.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. infranto i principi dettati dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sull’onere di “diligenza esigibile da un operatore accorto”, in assenza di dimostrazione, da parte della Unicar Srl, impresa con “esperienza pluriennale maturata nel settore del commercio degli autoveicoli”, di essersi comportata, nella vicenda, in conformità a detto parametro.

3. – Ha resistito con controricorso l’intimata Unicar Srl, la quale, oltre ad argomentare sull’infondatezza dell’impugnazione, ne ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità per “inesistenza” del ricorso, redatto in originale informatico, in quanto privo di sottoscrizione digitale del difensore.

4. – La trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Sezione Tributaria con ordinanza interlocutoria n. 13879 del 2022 adottata, ai sensi del terzo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (ratione temporis vigente), dalla Sezione Sesta Tributaria, dinanzi alla quale la controricorrente aveva depositato memoria, insistendo nell’anzidetta eccezione preliminare.

5. – All’esito dell’udienza pubblica, preceduta dal deposito delle conclusioni scritte del pubblico ministero (nel senso dell’accoglimento del ricorso) e delle memorie di entrambe le parti, la Sezione Tributaria, con ordinanza interlocutoria n. 16454 del 2023, reputando sussistente una questione di massima di particolare importanza in ordine al vizio ravvisabile nel ricorso per cassazione nativo digitale privo della firma digitale del difensore (nella specie, dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è indicato in calce al ricorso stesso), ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., il quale ha assegnato la causa a queste Sezioni Unite.

6. – La Unicar Srl ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione
1. – Queste Sezioni Unite, su sollecitazione della Sezione Tributaria, sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di diritto, di massima di particolare importanza, che attiene ad un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ossia, se mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore (come nel caso in esame, quale circostanza incontestata dalla stessa difesa erariale dell’Agenzia delle Entrate), un tale vizio sia da ricondursi alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 161, secondo comma, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, c.p.c.

2. – La Sezione rimettente evidenzia che, nel caso, trova rilievo “un possibile deficit strutturale dell’atto processuale”, richiedendo l’art. 365 c.p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall’art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione sia “sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo”, là dove la causa dell’inammissibilità – come ritenuto, segnatamente, da Cass. n. 18623/2016 – “non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.

L’ordinanza interlocutoria, richiamando la decisione di questa Corte evocata dalla controricorrente (Cass. n. 3379/2019), espressione di un orientamento consolidato in relazione a ricorso redatto in modalità analogica (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 6111/1999; Cass. n. 4116/2001; Cass., S.U., n. 11632/2003; Cass. n. 1275/2011), cui si oppone soltanto una pronuncia “assolutamente isolata” (Cass. n. 9490/2007), ricorda che il difetto di sottoscrizione degli atti da parte del difensore (o della parte abilitata a stare in giudizio personalmente) è riconducibile alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del “principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, ex art. 161, comma 2, c.p.c.”, essendo la sottoscrizione “elemento indispensabile per la formazione” dell’atto processuale.

Quanto, poi, al caso di specie, di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione digitale, la giurisprudenza di questa Corte in medias res – dal Collegio rimettente richiamata – si concentra in due (sole) pronunce: Cass. n. 14338/2017 e Cass., S.U., n. 22438/2018.

Secondo Cass. n. 14338/2017, che “si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale”, la mancanza della firma digitale comporta la nullità del ricorso, essendo la stessa equiparata dal D.Lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, la quale, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., costituisce “requisito dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”.

Con Cass., S.U., n. 22438/2018 si e affermato (sebbene – come riconosce l’ordinanza n. 16454/2023 – quale “snodo logico-giuridico” dell’approdo nomofilattico ex art. 363 c.p.c. sulla questione, diversa, della improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c.) il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.

La Sezione rimettente, pur dando atto della specifica portata nomofilattica di quel principio, anche ai sensi del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., ritiene meritevole di approfondimento la questione di diritto alla luce di una serie di argomentate considerazioni.

Anzitutto, l’inserirsi del precedente del 2018 in contesto giurisprudenziale in cui il vizio attinente al requisito della sottoscrizione del ricorso, dettato ai fini dell’ammissibilità dello stesso atto, è ricondotto alla categoria dell’inesistenza e non della nullità.

Ed ancora, l’ordinanza interlocutoria evidenzia che proprio attraverso il richiamo della nullità le citate Sezioni Unite ipotizzano “il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità dell’atto”, pur non soffermandosi – per non essere nel caso allora esaminato necessario – ad approfondire se detta paternità “debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini” oppure “una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale”.

La Sezione rimettente sostiene, quindi, che, sebbene “diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello analogico o tradizionale” (artt. 20 e 23, comma 2, del C.A.D.; art. 25, parr. 1 e 2, del Reg. UE n. 910/2014), il documento informatico, alla stregua di una sorta di “discriminazione al contrario”, “non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo”.

E nel caso della mancanza della firma digitale – soggiunge l’ordinanza interlocutoria – è ben difficile che la paternità del ricorso possa desumersi aliunde dalle “proprietà” del documento stesso o “dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso”. In quest’ultima ipotesi, non potrebbe “comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare”, là dove, poi, “è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale”.

La Sezione Tributaria, infine, assume, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, che, sebbene la relativa difesa abbia carattere impersonale, è “imprescindibile”, tuttavia, “che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile”. Difatti, il patrocinio assunto dall’Avvocatura erariale esclude soltanto la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c., ma non “l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione”, a tal fine non potendosi neppure ricorrere alla firma per autentica di detta procura, per l’appunto non necessaria nel caso in cui la parte sia abilitata ad avvalersi del suo patrocinio.

3. – L’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, contro la Unicar Srl per la cassazione della sentenza emessa il 25 giugno 2019 dalla C.T.R. del Lazio, sezione staccata di Latina, è ammissibile.

3.1. – Viene in rilievo un ricorso redatto in forma di documento informatico, privo di firma digitale, e, come tale, notificato a mezzo p.e.c. (dall’indirizzo del mittente: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) il 27 gennaio 2020, ma depositato in copia analogica l’11 febbraio 2020 (unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione) e munito di attestazione di conformità, ex art. 9 della legge n. 53 del 1994, con sottoscrizione autografa dell’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.

Tale, dunque, è la fattispecie processuale che – nell’ottica di necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e la vicenda portata alla cognizione del giudice – segna il perimetro entro il quale si colloca la decisione di ammissibilità.

3.2. – Nella specie occorre tenere conto, pertanto, del regime precedente a quello che si è venuto a determinare, dapprima, con la facoltatività, dal 31 marzo 2021, del deposito telematico a valore legale degli atti di parte nel giudizio di cassazione (e ciò per effetto del decreto direttoriale DGSIA del 27 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. 28 gennaio 2021, n. 22 ed emanato ai sensi dell’art. 221, comma 5, del D.L. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020) e, quindi, a definire con l’obbligatorietà di detto deposito a partire dal 1° gennaio 2023 (in virtù dell’art. 196-quater disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 4 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149).

Il contesto è, dunque, quello in cui, non potendosi procedere in cassazione al deposito telematico del ricorso nativo digitale come tale notificato, era affidato alla parte l’onere di attestare, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994 (e successive modificazioni), la conformità al predetto atto processuale originale della copia analogica depositata.

Ed è in siffatto contesto che la sentenza n. 22438 del 2018 di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare – nello sviluppo dell’iter argomentativo avente ad oggetto, segnatamente, la questione di procedibilità ex art. 369, primo comma, c.p.c. di ricorso nativo digitale notificato a mezzo p.e.c. e depositato in copia analogica priva di asseverazione ai sensi del citato art. 9 della legge n. 53/1994 – che la mancanza di sottoscrizione digitale del ricorso nativo digitale notificato (ossia, del documento informatico originale) costituisce un “vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo”.

3.3. – A tal riguardo varrà rammentare che la giurisprudenza di questa Corte (tra cui quella stessa indicata dall’ordinanza interlocutoria n. 16454/2023) assegna all’elemento formale della sottoscrizione la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, affinché possa dirsi certa la paternità dell’atto processuale.

A tal fine, dunque, la sottoscrizione si rivela elemento indispensabile per la formazione dell’atto stesso, il cui difetto ne comporta (come, per l’appunto, sovente affermato) l’inesistenza (in forza dell’estensione del principio della nullità insanabile stabilito dal secondo comma dell’art. 161 c.p.c.), qualora, però, non ne sia desumibile la paternità da altri elementi, come, in particolare, la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 6225/2005; Cass. n. 9490/2007; Cass. n. 1275/2011; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 32176/2022).

La funzione di rendere certa la paternità dell’atto processuale può, quindi, essere assolta tramite elementi, qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell’atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l’autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde.

3.3.1. – Un orientamento, questo, che la citata Cass., S.U., n. 22438/2018, muovendosi nella ricordata realtà ‘ibrida’ del processo civile telematico di legittimità (in cui, come detto, il ricorso, nativo digitale e notificato a mezzo p.e.c., doveva necessariamente essere depositato in formato analogico corredato da attestazione di conformità), ha ribadito alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (così anche: Cass., S.U., n. 25513/2016; Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024).

Di qui, pertanto, anche la rinnovata vitalità assegnata al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, dalla legge prescritte non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (tra le molte: Cass. n. 9772/2016; Cass., S.U., n. 14916/2016; Cass., S.U., n. 10937/2017; Cass. n. 8873/2020; Cass. n. 31085/2022; Cass. n. 14692/2023).

3.4. – L’atto su cui, pertanto, queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è la copia cartacea del ricorso per cassazione depositata dall’Agenzia delle Entrate e asseverata, unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c., dall’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.

3.4.1. – Nella specie, non è in discussione la conformità della copia al contenuto del ricorso nativo digitale, perché nulla è stato eccepito sul punto dal controricorrente.

I rilievi della Unicar Srl, infatti, si concentrano soltanto sull’assenza di firma digitale sull’originale del documento informatico, contestandosi, altresì, che l’apposta asseverazione ex art. 9 della legge n. 53/1994 sulla copia in formato analogico possa assolvere allo scopo di riferire l’atto al suo autore e cioè all’Avvocato dello Stato Faraci, anche perché in essa è attestato “un fatto non vero: ovverosia il fatto che il ricorso fosse stato sottoscritto digitalmente” (così a p. 9 della memoria depositata per l’udienza del 16 gennaio 2024; ma la contestazione era già presente a p. 3 della memoria depositata per l’udienza del 29 settembre 2022).

3.4.2. – Invero, pur essendo pacifica la circostanza della mancanza di sottoscrizione del ricorso nativo digitale notificato via p.e.c., non è, anzitutto, in discussione (neppure da parte della società controricorrente) la riferibilità del ricorso stesso alla difesa erariale dell’Avvocatura generale dello Stato in quanto tale, essendo ciò comprovato, comunque, dalla relativa notificazione eseguita dall’indirizzo p.e.c. (ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) censito nei pubblici registri e riferibile alla medesima Avvocatura, alla quale, in forza dell’art. 1, comma primo, del R.D. n. 1611 del 1933, spettano “(l)a rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”.

E tanto è consentito ritenere proprio in forza della natura impersonale del relativo patrocinio dalla legge stabilita e che viene a configurare un “unicum” rispetto alla difesa in giudizio di tutti gli altri enti pubblici che si avvalgano di avvocati del libero foro o dei propri uffici legali, essendo in questi casi il mandato difensivo sempre conferito al singolo avvocato in rappresentanza dell’ente.

Di ciò se ne ha ora conferma esplicita in base alle modifiche recentemente apportate al D.M. 44/2011 dal D.M. n. 217/2023 (modifiche entrate in vigore il 14 gennaio 2024), per cui l’Avvocatura dello Stato è espressamente menzionata, anche nelle sue articolazioni distrettuali, all’art. 2, comma 1, lettera m), n. 4, tra i soggetti abilitati esterni pubblici. Pertanto, è l’Avvocatura dello Stato in quanto tale ad essere censita sul registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (c.d. Reginde: art. 7 del D.M. n. 44/2011), quale difensore abilitato a operare nell’ambito del p.c.t., non i singoli avvocati e procuratori dello Stato e tanto in ragione proprio della ricordata natura impersonale del relativo patrocinio.

Del resto, il carattere impersonale della difesa dell’Avvocatura dello Stato è profilo più volte rimarcato dalla giurisprudenza di questa Corte che, anche in riferimento alla rappresentanza e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, ha affermato che gli avvocati dello Stato sono pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, per cui l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa (tra le altre: Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). E nella stessa prospettiva si è, altresì, precisato che, nel caso di ricorso proposto per conto di un’amministrazione dello Stato, se non si contesta che la sottoscrizione provenga da un legale dell’Avvocatura generale dello Stato, non rileva neanche se lo stesso si identifichi o meno con il nominativo indicato nell’epigrafe o in calce al ricorso (Cass., S.U., n. 59/1999; Cass. n. 21473/2007).

3.4.3. – Quanto, poi, alla necessità della sottoscrizione del ricorso nativo digitale depositato in modalità analogica da un determinato avvocato dello Stato, una siffatta esigenza è, nella specie, da ritenersi soddisfatta dall’attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato Faraci, di cui non è affatto contestata tale qualità.

L’asseverazione datata 29 gennaio 2020, nonostante attesti, in contrasto con la realtà fenomenica, che l’originale informatico dell’atto sia “sottoscritto con firma digitale dall’Avvocato dello stato Avv. Salvatore Faraci”, risulta comunque chiaramente riferita al ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la Unicar Srl e agli allegati messaggi di p.e.c. relativi alla notificazione del ricorso medesimo in data 27 gennaio 2020. E la inequivoca riferibilità dell’attestazione anzidetta al ricorso per cui è causa è circostanza che, invero, non è messa in discussione neppure dalla parte controricorrente, le cui difese, come detto, insistono sul profilo giuridico dell’inesistenza di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione e sulla inidoneità dell’attestazione ex lege n. 53/1994 a supplire a tale carenza.

Contrariamente, dunque, a quanto ritenuto dalla Unicar Srl, detta asseverazione esprime la paternità certa dell’atto, proveniente dall’Avvocatura generale dello Stato, in capo allo stesso avvocato dello Stato Faraci, operando in termini che, nello specifico contesto dato, possono ben essere assimilati alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, palesando anzi, in maniera anche più evidente di quest’ultima (che si riferisce indirettamente all’atto cui accede), il nesso tra l’atto e il suo autore.

3.5. – Pertanto, nella peculiarità della delineata situazione processuale ‘ibrida’ e in continuità con l’indirizzo, ribadito anche da Cass., S.U., n. 22438/2018 (alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali), per cui è possibile desumere aliunde, da elementi qualificanti, la paternità certa dell’atto processuale, va ritenuto che la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel Reginde e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato, rappresentano elementi univoci da cui desumere la paternità dell’atto, rimanendo così superato l’eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell’originale informatico del ricorso.

4. – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va, dunque, dichiarato ammissibile e il relativo esame rimesso alla Sezione Tributaria.

P.Q.M.
dichiara ammissibile il ricorso e ne rimette l’esame alla Sezione Tributaria.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione, in data 16 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 22/02/2024) 08/03/2024, n. 6352

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

dott. CRUCITTI Roberta – Presidente

dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere

dott. MACAGNO Gian Paolo – Consigliere

dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere – Rel.

dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale stesa a margine del ricorso, dall’Avv. Alfredo Sagliocco del Foro di Santa Maria Capua Vetere (Ce), che ha indicato recapito PEC, avendo la ricorrente dichiarato di eleggere domicilio presso lo studio del difensore, alla via Atellana n. 19 in Aversa (Ce);

– ricorrente –

contro

Equitalia Servizi di Riscossione Spa, incorporante Equitalia Sud Spa, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Alba Amatucci, in virtù di procura speciale allegata al controricorso, ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Simone Stefanelli (Nava & Associati Studio Legale), alla via Antonio Bertoloni n. 55 in Roma;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

avverso

la sentenza n. 2808, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania il 22.2.2016, e pubblicata il 21.3.2016;

ascoltata la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva:

Svolgimento del processo
1. L’Incaricato per l’esazione Equitalia Sud Spa, cui è succeduta Equitalia Servizi di Riscossione Spa, notificava a A.A. l’avviso di intimazione n. (Omissis), conseguente all’avviso di accertamento esecutivo n. (Omissis), con riferimento ai tributi dell’Irpef e dell’Irap in relazione all’anno 2008.

2. La contribuente impugnava l’ingiunzione di pagamento innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Caserta contestando innanzitutto l’invalidità dell’intimazione perché la sua notificazione non era stata preceduta dalla necessaria notificazione del prodromico avviso di accertamento. La CTP riteneva infondate le critiche proposte dalla parte privata, e rigettava il suo ricorso.

3. La contribuente spiegava appello avverso la decisione assunta dai giudici di primo grado, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, rinnovando le proprie censure, e si costituiva in giudizio anche l’Agenzia delle Entrate. Il giudice del gravame rigettava l’impugnazione.

4. Avverso la decisione assunta dal giudice dell’appello ha proposto ricorso per cassazione A.A., affidandosi a sei motivi di ricorso. Il successore di Equitalia Sud Spa, Equitalia Servizi di Riscossione Spa, e l’Agenzia delle Entrate, resistono mediante controricorso. La contribuente ha pure depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la contribuente contesta la violazione dell’art. 8 della legge n. 890 del 1982, per avere la CTR erroneamente ritenuto la validità della notificazione postale del prodromico avviso di accertamento sebbene, risultato assente il destinatario, non sia stata assicurata la prova della notificazione della comunicazione di avvenuto deposito (CAD).

2. Mediante il secondo strumento d’impugnazione, introdotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la ricorrente censura la violazione dell’art. 8 della legge n. 890 del 1982, per avere il giudice del gravame ritenuto non indispensabile, per provare la corretta notificazione postale dell’avviso di accertamento, la produzione della notificazione della CAD, mai depositata in giudizio.

3. Con il suo terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la contribuente critica la violazione di legge in cui è incorsa la CTR per aver ritenuto valida la notificazione indiretta del prodromico avviso di accertamento a mezzo del servizio postale sebbene, risultato assente il destinatario, non sia stata assicurata la prova della ricezione della comunicazione di avvenuto deposito (CAD).

4. Mediante il quarto mezzo d’impugnazione, introdotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2697 cod. civ., per avere il giudice del gravame ritenuto non indispensabile, per provare la corretta notificazione postale dell’avviso di accertamento, la produzione della CAD, mai intervenuta.

5. Con il suo quinto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., la contribuente contesta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, adottando una motivazione puramente apparente e pure riferita ad un preteso disconoscimento documentale, che però la ricorrente non ha mai effettuato.

6. Mediante il sesto strumento di ricorso la contribuente provvede all’”impugnazione del capo della sentenza relativo al regolamento delle spese di lite” (ric., p. 16), per non averle il giudice del gravame attribuito il favore delle spese processuali, sebbene abbia rigettato l’appello incidentale proposto da Equitalia.

La ricorrente riassume quindi le sue contestazioni e domanda a questa Corte di legittimità di pronunciarsi nel merito.

7. Con i suoi motivi di impugnazione dal primo al quinto la contribuente, con riferimento ai profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, contesta la impugnata pronuncia del giudice del gravame per aver erroneamente ritenuto la validità della notificazione del prodromico avviso di accertamento, sebbene non sia mai stata prodotta la cartolina attestante l’avvenuto deposito dell’atto (c.d. CAD). I motivi di ricorso presentano evidenti ragioni di connessione, e possono essere trattati congiuntamente per ragioni di sintesi e chiarezza espositiva.

7.1. La CTR ha rigettato le contestazioni in materia di invalidità della notificazione del prodromico avviso di accertamento, proposte dalla contribuente sin dal ricorso introduttivo in primo grado, osservando: “Questa Commissione ritiene l’appello infondato e va rigettato; correttamente il primo Giudice ha rilevato che il disconoscimento della originalità della copia andava fatto valere in modo formale e specifico e non genericamente come proposto dalla Fabozzi; in mancanza l’accertamento è divenuto definitivo e legittima è l’intimazione di pagamento” (sent. CTR, p. II).

7.2. La contribuente, nel suo ricorso per cassazione, replica che la decisione adottata dal giudice del gravame è omissiva, perché non esamina la questione centrale posta nel processo, la contestata invalidità della notificazione del prodromico avviso di accertamento alla Fabozzi.

La CTR, in realta, si limita a proporre succinte osservazioni circa le modalità in cui possa operarsi il disconoscimento della originalità della copia di un atto, ma non si comprende neppure a che cosa intenda riferirsi, perché in questo giudizio non è stato operato il disconoscimento della copia di alcun atto.

7.3. La ricorrente, in sintesi, ricorda quindi di aver sempre sostenuto di non aver mai ricevuto la notificazione del necessario prodromico avviso di accertamento mentre, secondo le controparti, la notificazione sarebbe stata regolarmente effettuata.

Osserva allora la contribuente che, pacificamente, la notificazione sarebbe avvenuta a mezzo del servizio postale, non mediante notificazione diretta bensì in via indiretta, essendosi l’Ente impositore avvalso di intermediario, un messo speciale notificatore “(tal Di Meglio)” (ric., p. 7). Queste valutazioni risultano confortate da più elementi, in primo luogo la raccomandata di spedizione è di tipo AG (atti giudiziari) e riporta la specifica indicazione del Messo speciale autorizzato dall’Amministrazione finanziaria a procedere alla notificazione. Inoltre, vi è l’indicazione di “‘Emesso Cad … scritto a mano … Euro 3,90’, lasciando intendere che si sia provveduto – in temporanea assenza del destinatario – anche ad inviare la Comunicazione di Avvenuto Deposito del plico presso l’ufficio postale” (ric., p. 7).

Ai fini della prova della regolarità della notificazione, tuttavia, nella prospettazione della ricorrente, risultava indispensabile la produzione della cartolina relativa alla CAD, che però non è mai stata depositata in giudizio, e la notificazione del prodromico avviso di accertamento non può quindi che valutarsi come radicalmente nulla.

7.4. Invero, risolvendo un contrasto sviluppatosi in materia anche a livello di giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite della Cassazione hanno condivisibilmente chiarito che “in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 24 e 111, comma 2, Cost.) dell’art. 8 della l. n. 890 del 1982 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informativa”, Cass. S.U., 15.4.2021, n. 10012.

7.5. Nelle loro pur ampie repliche le controricorrenti insistono nell’affermare che la notificazione dell’avviso di accertamento è risultata regolare, anche operando riferimento a tesi ormai superate dalla giurisprudenza, come quella che afferma la sufficienza della spedizione della raccomandata informativa, a prescindere dalla sua ricezione, ma non negano che l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la CAD non è mai stata prodotta in questo giudizio.

8. Il ricorso introdotto da A.A. deve essere quindi accolto, con riferimento ai primi cinque mezzi d’impugnazione, perché l’intimazione di pagamento impugnata risulta invalida, in quanto non preceduta dalla rituale notificazione di un necessario atto prodromico.

9. In ordine al sesto strumento di impugnazione, la contribuente ha esposto molto sinteticamente di impugnare la sentenza della CTR per non aver condannato l’Agente della Riscossione in conseguenza del rigetto dell’appello incidentale dallo stesso proposto.

Invero la CTR non pronuncia espressamente in materia.

Equitalia Servizi di Riscossione Spa ha chiarito nel suo controricorso che aveva proposto appello incidentale condizionato al fine di sollecitare l’intervento in giudizio dell’Ente impositore che si è quindi spontaneamente costituito, ed è anche per questo che la CTR non ha ritenuto di pronunciare.

In assenza di contestazioni specifiche proposte dalla ricorrente, la cui esposizione risulta lacunosa, il fondamento del sesto motivo di ricorso rimane indimostrato, e deve perciò essere respinto.

10. Devono quindi essere accolti i primi cinque motivi di ricorso proposti dalla contribuente, rigettato il sesto, e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte di legittimità può decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., accogliendo l’originario ricorso proposto dalla contribuente ed annullando l’intimazione di pagamento impugnata.

11. Tenuto conto delle oscillazioni giurisprudenziali verificatesi in un passato anche recente nella materia oggetto di causa, appare equo dichiarare compensate tra le parti le spese di lite dei gradi di merito del giudizio. Le spese processuali del giudizio di legittimità seguono invece l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate in dispositivo in considerazione della natura delle questioni affrontate e del valore della causa.

La Corte di Cassazione,

P.Q.M.
accoglie i primi cinque motivi di ricorso proposti da A.A., respinto il sesto, cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente ed annulla l’avviso di intimazione n. (Omissis)

Compensa le spese processuali dei gradi di merito del giudizio tra le parti e condanna le controricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della ricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.300,00 per compensi, oltre 15% per spese generali, Euro 200,00 per esborsi ed accessori come per legge, somme favore del procuratore dichiaratosi antistatario.

Conclusione
Così deciso in Roma il 22 febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria l’8 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 22/02/2024) 06/03/2024, n. 5987

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere

Dott. MACAGNO Gian Paolo – Consigliere

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere Rel.

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– ricorrente –

contro

L’Arte Povera del Principe Srl;

– intimata –

avverso

la sentenza n. 127, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia il 20.9.2016, e pubblicata il 18.1.2017;

ascoltata la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva:

Svolgimento del processo
1. Alla Srl L’Arte Povera del Principe, di cui era legale rappresentante A.A., veniva notificata la cartella esattoriale n. (Omissis), riportante le pretese tributarie avanzate mediante quattro avvisi di accertamento ed avente ad oggetto i tributi Irpef ed Iva in relazione all’anno 2004, per un valore complessivo dichiarato pari ad Euro 236.518,70.

2. La contribuente impugnava l’atto esattivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento contestando, innanzitutto, la radicale invalidità della cartella di pagamento opposta, perché non preceduta dalla necessaria notificazione degli atti prodromici, gli avvisi di accertamento. La CTP riteneva che la procedura di notificazione degli atti presupposti seguita dall’Agenzia risultasse incompleta, e pertanto accoglieva l’impugnazione della contribuente ed annullava l’atto di riscossione.

3. L’Agenzia delle Entrate spiegava appello avverso la pronuncia sfavorevole conseguita nel primo grado del giudizio, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, sostenendo la regolarità della notificazione degli atti prodromici. La CTR confermava la decisione adottata dalla CTP.

4. L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione, avverso la pronuncia ancora sfavorevole conseguita dal giudice del gravame, affidandosi ad un unico, articolato, strumento di impugnazione. La società riceveva la notifica del riscorso presso il difensore il 18/19.7.2017, ma non ha svolto difese nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
1. Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’Amministrazione finanziaria contesta la violazione dell’art. 60, comma 1, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, e degli artt. 137 e 140 cod. proc. civ., per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto che la produzione documentale offerta non assicurasse prova della piena regolarità della notificazione dei prodromici avvisi di accertamento alla contribuente.

2. In sostanza afferma l’Agenzia delle Entrate che il giudice del gravame è incorso in errore ritenendo che, in sede di notificazione degli avvisi di accertamento, si sia verificato un fenomeno di irreperibilità relativa della contribuente, per cui avrebbero dovuto applicarsi le regole di cui all’art. 140 cod. proc. civ., tra l’altro provvedendosi all’invio di raccomandata informativa, mentre in realtà ricorreva un’ipotesi di c.d. “irreperibilità assoluta”, con la conseguenza che la notificazione è stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 602 del 1973, liddove si prevede una procedura semplificata che, ad esempio, non richiede l’invio della raccomandata informativa.

2.1. L’AdE evidenzia che, in relazione a tutti e quattro gli avvisi di accertamento, la notificazione è stata effettuata sia nei confronti della società, a S (Ag), sia nei confronti del legale rappresentante A.A., che risultava residente ad A (Na).

In tutti i casi la notifica postale non ha raggiunto i destinatari, società e legale rappresentante, e l’Amministrazione finanziaria ha ritentato la notificazione, avvalendosi dei messi comunali. Neanche queste procedure hanno permesso di consegnare gli atti impositivi ai destinatari. In conseguenza, ritenuta accertata l’irreperibilità assoluta della società, la notificazione degli avvisi di accertamento, nella prospettazione della ricorrente, si è perfezionata con deposito presso la Casa comunale ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, che non prevede gli adempimenti ulteriori (affissione alla porta, invio di raccomandata informativa, etc.), propri di altre discipline di notificazione.

2.2. La CTR osserva che “correttamente i giudici di prime cure hanno ravvisato la nullità delle notifiche degli atti prodromici effettuate senza il rispetto dell’art. 140 c.p.c.” perché la notificazione, seguendosi la Suprema Corte, “nel sistema delineato dall’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all’art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov’è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune… nel caso che ci occupa, … non è stata seguita la procedura prevista per la notificazione degli atti prodromici, in quanto l’ufficio ha proceduto alla immediata affissione all’albo comunale, senza completare le formalità di notificazione, cosicché gli atti successivi devono intendersi travolti” (sent. CTR, p. 2 s.).

La valutazione del giudice dell’appello è quindi chiaramente intellegibile. La procedura di notificazione semplificata di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973 può essere seguita in caso di irreperibilità assoluta del destinatario, che sia accertato essersi trasferito in località sconosciuta, a seguito di ricerche del messo notificatore nel Comune di residenza. Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha dimostrato solo di avere tentato la notifica e di non aver rinvenuto il destinatario, quindi la validità della notificazione richiedeva l’adempimento delle formalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ., cui però l’Amministrazione finanziaria non ha provveduto.

2.3. Nel suo ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate insiste nel sottolineare di aver spedito, al fine di notificare gli avvisi di accertamento, ben otto raccomandate, quattro alla società in Sicilia e quattro alla legale rappresentante in Campania, che tutte hanno avuto quale esito la mancata consegna per irreperibilità dei destinatari. Successivamente ha inviato tramite messi notificatori comunali altre otto raccomandate, quattro alla società in Sicilia e quattro alla legale rappresentante in Campania, che tutte hanno avuto quale esito la mancata consegna per irreperibilità dei destinatari. Inoltre specifica l’Ente impositore che “la relata compilata dal messo di A … per ogni atto dichiarava di aver proceduto a tale modalità di notifica (di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), Dpr n. 600 del 1973) “poiché nello stesso Comune non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente”. In conseguenza ritiene l’Amministrazione finanziaria che sia stata accertata l’irreperibilità assoluta dei destinatari, e che la notificazione ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), Dpr n. 600 del 1973 sia risultata regolare.

2.4. Questa Corte regolatrice ha avuto occasione di occuparsi ripetutamente della questione dibattuta in questo giudizio, quando ricorra un’ipotesi di irreperibilità assoluta del contribuente che consenta di accedere alla indicata procedura di notificazione semplificata nei suoi confronti, e si è condivisibilmente chiarito che “in tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dall’art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973 in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più né l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha cassato la decisione impugnata ritenendo insufficienti, per l’effettuazione della notifica ex art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973, le generiche informazioni fornite dal custode dello stabile)”, Cass. sez. VI-V, 7.2.2018, n. 2877; non mancandosi di specificare che “la notificazione di cui all’art. 60 comma primo, lett. e) del d.P.R. n. 600 del 1973 (applicabile anche in tema di I.N.V.I.M., in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 20, comma terzo del d.P.R. n. 643 del 1972, e 49, comma terzo del d.P.R. n. 634 del 1972) è ritualmente eseguita solo nella ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non si rinvengano l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. La notificazione, in questi casi è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune”, Cass. sez. I, 13.12.1996, n. 11152.

2.4.1. Inoltre, questa Corte di legittimità ha più di recente ribadito che “in tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi dell’art. 60, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973, presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purché dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento”, Cass. sez. V, 27.7.2018, n. 19958 (evidenza aggiunta) e, già da tempo, è stato specificato: “poiché ai sensi dell’art. 60 primo comma lett. e) d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 l’affissione nell’albo municipale dell’avviso del deposito nella casa comunale di un avviso di accertamento I.R.P.E.F. è modalità sostitutiva idonea dell’affissione alla porta dell’abitazione, ufficio o azienda (art. 140 cod. proc. civ.) del destinatario soltanto se non è possibile reperire effettivamente tali luoghi nel comune ove il contribuente ha il domicilio fiscale, malgrado le ricerche del messo notificatore, se queste – secondo giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità – sono state insufficienti… la notifica dell’avviso di accertamento, senza il rispetto degli adempimenti prescritti dall’art. 140 cod. proc. civ., non è valida”, Cass. sez. I, 9.6.1997, n. 5100.

2.5. L’Amministrazione finanziaria non si confronta con la decisione adottata dalla CTR, che ha ritenuto indimostrata l’irreperibilità assoluta della società, e pertanto illegittima la notificazione degli avvisi di accertamento eseguita ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e) del Dpr n. 600 del 1973. L’Ente impositore, proponendo critiche generiche, insiste nel ribadire di avere indirizzato un gran numero di raccomandate alla società ed al suo legale rappresentante, e rappresenta che le stesse non sono state ricevute, ma non trascrive quale esito del recapito abbia annotato il notificatore, su ciascuna raccomandata (temporaneamente assente, irreperibile, sconosciuto, trasferito, altro?), contravvenendo all’obbligo di proposizione di censure specifiche nel giudizio di legittimità. Allega che nei confronti del legale rappresentante sarebbero state svolte dal messo notificatore le ricerche ai fini della reperibilità nel Comune, ma neppure illustra quali ricerche siano state effettuate, mentre neanche prospetta che simili ricerche siano state effettuate con riferimento alla società.

2.6. In definitiva la valutazione espressa dalla CTR, secondo cui l’Amministrazione finanziaria non ha provato la ricorrenza dell’irreperibilità assoluta della contribuente, e non era pertanto legittimata ad avvalersi della procedura semplificata di cui all’art. 60, primo coma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, appare corretta e condivisibile.

In assenza di valida notificazione degli atti presupposti, risulta invalida pure la cartella di pagamento impugnata dalla contribuente, ed il ricorso introdotto dall’Agenzia delle Entrate deve perciò essere respinto.

3. Non vi è luogo a pronunciare in materia di spese di lite, non avendo la società svolto difese nel giudizio di legittimità.

3.1. Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere Amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (c.d. doppio contributo).

La Corte di Cassazione,

P.Q.M.
rigetta il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate.

Conclusione
Così deciso in Roma il 22 febbraio 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2024.