Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 16/01/2024) 12/03/2024, n. 6477

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente Aggiunto

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente di Sezione

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere-Rel.

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5062/2020 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

Unicar Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via XX Settembre 1, presso lo studio dell’avvocato Paolo Vitali, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3852/2019 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio – Sezione Staccata di Latina, depositata il 25/06/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere Enzo Vincenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto Mucci, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, con restituzione alla Sezione Tributaria, e, in subordine, per l’accoglimento;

uditi l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis e l’avvocato Paolo Vitali.

Svolgimento del processo
1. – Con ricorso affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale (C.T.R.) del Lazio, sezione staccata di Latina, resa pubblica in data 25 giugno 2019, che, in riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone del 7 novembre 2017, accoglieva l’appello della Unicar Srl e annullava, di conseguenza, l’avviso di accertamento emesso nei confronti di detta società con il quale, per l’anno di imposta 2013, era contestata la detrazione di I.V.A. per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, giacché attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti in ragione dell’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di A.A. M. & C. Sas

2. – La C.T.R. del Lazio, con la sentenza impugnata in questa sede, accoglieva l’appello del contribuente reputando che il comportamento da esso tenuto non dimostrasse “la sua consapevolezza nella partecipazione ad un meccanismo di frode”, non essendo egli “nella possibilità di sapere o di dover sapere” e ciò in forza di una pluralità di elementi, ossia: l’acquisto di veicoli che, al momento della consegna, sono soggetti a registrazione; il mancato coinvolgimento (desumibile dalle “intercettazioni telefoniche”) del legale rappresentante della Unicar Srl “nel meccanismo criminoso”; il numero esiguo di autoveicoli acquistati, “pari ad una irrisoria percentuale del totale”; l’incidenza sull’acquisto “ad un prezzo inferiore” delle “politiche aziendali, che mirano ad ottenere un maggior profitto”.

2. – L’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 19 e 21 del D.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. utilizzato a sostegno della decisione argomentazioni “fuorvianti e ultronee”, nonché prove “inesistenti, inconsistenti, ininfluenti, non allegate dalle parti”, così da invertire lo stesso onere probatorio incombente su di esse, gravando sul contribuente la dimostrazione della propria buona fede, una volta provata dall’amministrazione (come nella specie) “la natura di cartiera della società a monte” dell’operazione in frode.

Con il secondo motivo è, quindi, censurata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 19 e 21, comma settimo, del D.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. infranto i principi dettati dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sull’onere di “diligenza esigibile da un operatore accorto”, in assenza di dimostrazione, da parte della Unicar Srl, impresa con “esperienza pluriennale maturata nel settore del commercio degli autoveicoli”, di essersi comportata, nella vicenda, in conformità a detto parametro.

3. – Ha resistito con controricorso l’intimata Unicar Srl, la quale, oltre ad argomentare sull’infondatezza dell’impugnazione, ne ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità per “inesistenza” del ricorso, redatto in originale informatico, in quanto privo di sottoscrizione digitale del difensore.

4. – La trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Sezione Tributaria con ordinanza interlocutoria n. 13879 del 2022 adottata, ai sensi del terzo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (ratione temporis vigente), dalla Sezione Sesta Tributaria, dinanzi alla quale la controricorrente aveva depositato memoria, insistendo nell’anzidetta eccezione preliminare.

5. – All’esito dell’udienza pubblica, preceduta dal deposito delle conclusioni scritte del pubblico ministero (nel senso dell’accoglimento del ricorso) e delle memorie di entrambe le parti, la Sezione Tributaria, con ordinanza interlocutoria n. 16454 del 2023, reputando sussistente una questione di massima di particolare importanza in ordine al vizio ravvisabile nel ricorso per cassazione nativo digitale privo della firma digitale del difensore (nella specie, dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è indicato in calce al ricorso stesso), ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., il quale ha assegnato la causa a queste Sezioni Unite.

6. – La Unicar Srl ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione
1. – Queste Sezioni Unite, su sollecitazione della Sezione Tributaria, sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di diritto, di massima di particolare importanza, che attiene ad un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ossia, se mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore (come nel caso in esame, quale circostanza incontestata dalla stessa difesa erariale dell’Agenzia delle Entrate), un tale vizio sia da ricondursi alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 161, secondo comma, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, c.p.c.

2. – La Sezione rimettente evidenzia che, nel caso, trova rilievo “un possibile deficit strutturale dell’atto processuale”, richiedendo l’art. 365 c.p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall’art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione sia “sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo”, là dove la causa dell’inammissibilità – come ritenuto, segnatamente, da Cass. n. 18623/2016 – “non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.

L’ordinanza interlocutoria, richiamando la decisione di questa Corte evocata dalla controricorrente (Cass. n. 3379/2019), espressione di un orientamento consolidato in relazione a ricorso redatto in modalità analogica (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 6111/1999; Cass. n. 4116/2001; Cass., S.U., n. 11632/2003; Cass. n. 1275/2011), cui si oppone soltanto una pronuncia “assolutamente isolata” (Cass. n. 9490/2007), ricorda che il difetto di sottoscrizione degli atti da parte del difensore (o della parte abilitata a stare in giudizio personalmente) è riconducibile alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del “principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, ex art. 161, comma 2, c.p.c.”, essendo la sottoscrizione “elemento indispensabile per la formazione” dell’atto processuale.

Quanto, poi, al caso di specie, di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione digitale, la giurisprudenza di questa Corte in medias res – dal Collegio rimettente richiamata – si concentra in due (sole) pronunce: Cass. n. 14338/2017 e Cass., S.U., n. 22438/2018.

Secondo Cass. n. 14338/2017, che “si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale”, la mancanza della firma digitale comporta la nullità del ricorso, essendo la stessa equiparata dal D.Lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, la quale, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., costituisce “requisito dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”.

Con Cass., S.U., n. 22438/2018 si e affermato (sebbene – come riconosce l’ordinanza n. 16454/2023 – quale “snodo logico-giuridico” dell’approdo nomofilattico ex art. 363 c.p.c. sulla questione, diversa, della improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c.) il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.

La Sezione rimettente, pur dando atto della specifica portata nomofilattica di quel principio, anche ai sensi del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., ritiene meritevole di approfondimento la questione di diritto alla luce di una serie di argomentate considerazioni.

Anzitutto, l’inserirsi del precedente del 2018 in contesto giurisprudenziale in cui il vizio attinente al requisito della sottoscrizione del ricorso, dettato ai fini dell’ammissibilità dello stesso atto, è ricondotto alla categoria dell’inesistenza e non della nullità.

Ed ancora, l’ordinanza interlocutoria evidenzia che proprio attraverso il richiamo della nullità le citate Sezioni Unite ipotizzano “il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità dell’atto”, pur non soffermandosi – per non essere nel caso allora esaminato necessario – ad approfondire se detta paternità “debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini” oppure “una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale”.

La Sezione rimettente sostiene, quindi, che, sebbene “diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello analogico o tradizionale” (artt. 20 e 23, comma 2, del C.A.D.; art. 25, parr. 1 e 2, del Reg. UE n. 910/2014), il documento informatico, alla stregua di una sorta di “discriminazione al contrario”, “non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo”.

E nel caso della mancanza della firma digitale – soggiunge l’ordinanza interlocutoria – è ben difficile che la paternità del ricorso possa desumersi aliunde dalle “proprietà” del documento stesso o “dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso”. In quest’ultima ipotesi, non potrebbe “comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare”, là dove, poi, “è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale”.

La Sezione Tributaria, infine, assume, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, che, sebbene la relativa difesa abbia carattere impersonale, è “imprescindibile”, tuttavia, “che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile”. Difatti, il patrocinio assunto dall’Avvocatura erariale esclude soltanto la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c., ma non “l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione”, a tal fine non potendosi neppure ricorrere alla firma per autentica di detta procura, per l’appunto non necessaria nel caso in cui la parte sia abilitata ad avvalersi del suo patrocinio.

3. – L’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, contro la Unicar Srl per la cassazione della sentenza emessa il 25 giugno 2019 dalla C.T.R. del Lazio, sezione staccata di Latina, è ammissibile.

3.1. – Viene in rilievo un ricorso redatto in forma di documento informatico, privo di firma digitale, e, come tale, notificato a mezzo p.e.c. (dall’indirizzo del mittente: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) il 27 gennaio 2020, ma depositato in copia analogica l’11 febbraio 2020 (unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione) e munito di attestazione di conformità, ex art. 9 della legge n. 53 del 1994, con sottoscrizione autografa dell’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.

Tale, dunque, è la fattispecie processuale che – nell’ottica di necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e la vicenda portata alla cognizione del giudice – segna il perimetro entro il quale si colloca la decisione di ammissibilità.

3.2. – Nella specie occorre tenere conto, pertanto, del regime precedente a quello che si è venuto a determinare, dapprima, con la facoltatività, dal 31 marzo 2021, del deposito telematico a valore legale degli atti di parte nel giudizio di cassazione (e ciò per effetto del decreto direttoriale DGSIA del 27 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. 28 gennaio 2021, n. 22 ed emanato ai sensi dell’art. 221, comma 5, del D.L. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020) e, quindi, a definire con l’obbligatorietà di detto deposito a partire dal 1° gennaio 2023 (in virtù dell’art. 196-quater disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 4 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149).

Il contesto è, dunque, quello in cui, non potendosi procedere in cassazione al deposito telematico del ricorso nativo digitale come tale notificato, era affidato alla parte l’onere di attestare, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994 (e successive modificazioni), la conformità al predetto atto processuale originale della copia analogica depositata.

Ed è in siffatto contesto che la sentenza n. 22438 del 2018 di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare – nello sviluppo dell’iter argomentativo avente ad oggetto, segnatamente, la questione di procedibilità ex art. 369, primo comma, c.p.c. di ricorso nativo digitale notificato a mezzo p.e.c. e depositato in copia analogica priva di asseverazione ai sensi del citato art. 9 della legge n. 53/1994 – che la mancanza di sottoscrizione digitale del ricorso nativo digitale notificato (ossia, del documento informatico originale) costituisce un “vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo”.

3.3. – A tal riguardo varrà rammentare che la giurisprudenza di questa Corte (tra cui quella stessa indicata dall’ordinanza interlocutoria n. 16454/2023) assegna all’elemento formale della sottoscrizione la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, affinché possa dirsi certa la paternità dell’atto processuale.

A tal fine, dunque, la sottoscrizione si rivela elemento indispensabile per la formazione dell’atto stesso, il cui difetto ne comporta (come, per l’appunto, sovente affermato) l’inesistenza (in forza dell’estensione del principio della nullità insanabile stabilito dal secondo comma dell’art. 161 c.p.c.), qualora, però, non ne sia desumibile la paternità da altri elementi, come, in particolare, la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 6225/2005; Cass. n. 9490/2007; Cass. n. 1275/2011; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 32176/2022).

La funzione di rendere certa la paternità dell’atto processuale può, quindi, essere assolta tramite elementi, qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell’atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l’autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde.

3.3.1. – Un orientamento, questo, che la citata Cass., S.U., n. 22438/2018, muovendosi nella ricordata realtà ‘ibrida’ del processo civile telematico di legittimità (in cui, come detto, il ricorso, nativo digitale e notificato a mezzo p.e.c., doveva necessariamente essere depositato in formato analogico corredato da attestazione di conformità), ha ribadito alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (così anche: Cass., S.U., n. 25513/2016; Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024).

Di qui, pertanto, anche la rinnovata vitalità assegnata al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, dalla legge prescritte non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (tra le molte: Cass. n. 9772/2016; Cass., S.U., n. 14916/2016; Cass., S.U., n. 10937/2017; Cass. n. 8873/2020; Cass. n. 31085/2022; Cass. n. 14692/2023).

3.4. – L’atto su cui, pertanto, queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è la copia cartacea del ricorso per cassazione depositata dall’Agenzia delle Entrate e asseverata, unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c., dall’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.

3.4.1. – Nella specie, non è in discussione la conformità della copia al contenuto del ricorso nativo digitale, perché nulla è stato eccepito sul punto dal controricorrente.

I rilievi della Unicar Srl, infatti, si concentrano soltanto sull’assenza di firma digitale sull’originale del documento informatico, contestandosi, altresì, che l’apposta asseverazione ex art. 9 della legge n. 53/1994 sulla copia in formato analogico possa assolvere allo scopo di riferire l’atto al suo autore e cioè all’Avvocato dello Stato Faraci, anche perché in essa è attestato “un fatto non vero: ovverosia il fatto che il ricorso fosse stato sottoscritto digitalmente” (così a p. 9 della memoria depositata per l’udienza del 16 gennaio 2024; ma la contestazione era già presente a p. 3 della memoria depositata per l’udienza del 29 settembre 2022).

3.4.2. – Invero, pur essendo pacifica la circostanza della mancanza di sottoscrizione del ricorso nativo digitale notificato via p.e.c., non è, anzitutto, in discussione (neppure da parte della società controricorrente) la riferibilità del ricorso stesso alla difesa erariale dell’Avvocatura generale dello Stato in quanto tale, essendo ciò comprovato, comunque, dalla relativa notificazione eseguita dall’indirizzo p.e.c. (ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) censito nei pubblici registri e riferibile alla medesima Avvocatura, alla quale, in forza dell’art. 1, comma primo, del R.D. n. 1611 del 1933, spettano “(l)a rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”.

E tanto è consentito ritenere proprio in forza della natura impersonale del relativo patrocinio dalla legge stabilita e che viene a configurare un “unicum” rispetto alla difesa in giudizio di tutti gli altri enti pubblici che si avvalgano di avvocati del libero foro o dei propri uffici legali, essendo in questi casi il mandato difensivo sempre conferito al singolo avvocato in rappresentanza dell’ente.

Di ciò se ne ha ora conferma esplicita in base alle modifiche recentemente apportate al D.M. 44/2011 dal D.M. n. 217/2023 (modifiche entrate in vigore il 14 gennaio 2024), per cui l’Avvocatura dello Stato è espressamente menzionata, anche nelle sue articolazioni distrettuali, all’art. 2, comma 1, lettera m), n. 4, tra i soggetti abilitati esterni pubblici. Pertanto, è l’Avvocatura dello Stato in quanto tale ad essere censita sul registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (c.d. Reginde: art. 7 del D.M. n. 44/2011), quale difensore abilitato a operare nell’ambito del p.c.t., non i singoli avvocati e procuratori dello Stato e tanto in ragione proprio della ricordata natura impersonale del relativo patrocinio.

Del resto, il carattere impersonale della difesa dell’Avvocatura dello Stato è profilo più volte rimarcato dalla giurisprudenza di questa Corte che, anche in riferimento alla rappresentanza e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, ha affermato che gli avvocati dello Stato sono pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, per cui l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa (tra le altre: Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). E nella stessa prospettiva si è, altresì, precisato che, nel caso di ricorso proposto per conto di un’amministrazione dello Stato, se non si contesta che la sottoscrizione provenga da un legale dell’Avvocatura generale dello Stato, non rileva neanche se lo stesso si identifichi o meno con il nominativo indicato nell’epigrafe o in calce al ricorso (Cass., S.U., n. 59/1999; Cass. n. 21473/2007).

3.4.3. – Quanto, poi, alla necessità della sottoscrizione del ricorso nativo digitale depositato in modalità analogica da un determinato avvocato dello Stato, una siffatta esigenza è, nella specie, da ritenersi soddisfatta dall’attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato Faraci, di cui non è affatto contestata tale qualità.

L’asseverazione datata 29 gennaio 2020, nonostante attesti, in contrasto con la realtà fenomenica, che l’originale informatico dell’atto sia “sottoscritto con firma digitale dall’Avvocato dello stato Avv. Salvatore Faraci”, risulta comunque chiaramente riferita al ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la Unicar Srl e agli allegati messaggi di p.e.c. relativi alla notificazione del ricorso medesimo in data 27 gennaio 2020. E la inequivoca riferibilità dell’attestazione anzidetta al ricorso per cui è causa è circostanza che, invero, non è messa in discussione neppure dalla parte controricorrente, le cui difese, come detto, insistono sul profilo giuridico dell’inesistenza di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione e sulla inidoneità dell’attestazione ex lege n. 53/1994 a supplire a tale carenza.

Contrariamente, dunque, a quanto ritenuto dalla Unicar Srl, detta asseverazione esprime la paternità certa dell’atto, proveniente dall’Avvocatura generale dello Stato, in capo allo stesso avvocato dello Stato Faraci, operando in termini che, nello specifico contesto dato, possono ben essere assimilati alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, palesando anzi, in maniera anche più evidente di quest’ultima (che si riferisce indirettamente all’atto cui accede), il nesso tra l’atto e il suo autore.

3.5. – Pertanto, nella peculiarità della delineata situazione processuale ‘ibrida’ e in continuità con l’indirizzo, ribadito anche da Cass., S.U., n. 22438/2018 (alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali), per cui è possibile desumere aliunde, da elementi qualificanti, la paternità certa dell’atto processuale, va ritenuto che la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel Reginde e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato, rappresentano elementi univoci da cui desumere la paternità dell’atto, rimanendo così superato l’eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell’originale informatico del ricorso.

4. – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va, dunque, dichiarato ammissibile e il relativo esame rimesso alla Sezione Tributaria.

P.Q.M.
dichiara ammissibile il ricorso e ne rimette l’esame alla Sezione Tributaria.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione, in data 16 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 22/02/2024) 06/03/2024, n. 5987

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere

Dott. MACAGNO Gian Paolo – Consigliere

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere Rel.

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– ricorrente –

contro

L’Arte Povera del Principe Srl;

– intimata –

avverso

la sentenza n. 127, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia il 20.9.2016, e pubblicata il 18.1.2017;

ascoltata la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva:

Svolgimento del processo
1. Alla Srl L’Arte Povera del Principe, di cui era legale rappresentante A.A., veniva notificata la cartella esattoriale n. (Omissis), riportante le pretese tributarie avanzate mediante quattro avvisi di accertamento ed avente ad oggetto i tributi Irpef ed Iva in relazione all’anno 2004, per un valore complessivo dichiarato pari ad Euro 236.518,70.

2. La contribuente impugnava l’atto esattivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento contestando, innanzitutto, la radicale invalidità della cartella di pagamento opposta, perché non preceduta dalla necessaria notificazione degli atti prodromici, gli avvisi di accertamento. La CTP riteneva che la procedura di notificazione degli atti presupposti seguita dall’Agenzia risultasse incompleta, e pertanto accoglieva l’impugnazione della contribuente ed annullava l’atto di riscossione.

3. L’Agenzia delle Entrate spiegava appello avverso la pronuncia sfavorevole conseguita nel primo grado del giudizio, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, sostenendo la regolarità della notificazione degli atti prodromici. La CTR confermava la decisione adottata dalla CTP.

4. L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione, avverso la pronuncia ancora sfavorevole conseguita dal giudice del gravame, affidandosi ad un unico, articolato, strumento di impugnazione. La società riceveva la notifica del riscorso presso il difensore il 18/19.7.2017, ma non ha svolto difese nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
1. Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’Amministrazione finanziaria contesta la violazione dell’art. 60, comma 1, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, e degli artt. 137 e 140 cod. proc. civ., per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto che la produzione documentale offerta non assicurasse prova della piena regolarità della notificazione dei prodromici avvisi di accertamento alla contribuente.

2. In sostanza afferma l’Agenzia delle Entrate che il giudice del gravame è incorso in errore ritenendo che, in sede di notificazione degli avvisi di accertamento, si sia verificato un fenomeno di irreperibilità relativa della contribuente, per cui avrebbero dovuto applicarsi le regole di cui all’art. 140 cod. proc. civ., tra l’altro provvedendosi all’invio di raccomandata informativa, mentre in realtà ricorreva un’ipotesi di c.d. “irreperibilità assoluta”, con la conseguenza che la notificazione è stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 602 del 1973, liddove si prevede una procedura semplificata che, ad esempio, non richiede l’invio della raccomandata informativa.

2.1. L’AdE evidenzia che, in relazione a tutti e quattro gli avvisi di accertamento, la notificazione è stata effettuata sia nei confronti della società, a S (Ag), sia nei confronti del legale rappresentante A.A., che risultava residente ad A (Na).

In tutti i casi la notifica postale non ha raggiunto i destinatari, società e legale rappresentante, e l’Amministrazione finanziaria ha ritentato la notificazione, avvalendosi dei messi comunali. Neanche queste procedure hanno permesso di consegnare gli atti impositivi ai destinatari. In conseguenza, ritenuta accertata l’irreperibilità assoluta della società, la notificazione degli avvisi di accertamento, nella prospettazione della ricorrente, si è perfezionata con deposito presso la Casa comunale ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, che non prevede gli adempimenti ulteriori (affissione alla porta, invio di raccomandata informativa, etc.), propri di altre discipline di notificazione.

2.2. La CTR osserva che “correttamente i giudici di prime cure hanno ravvisato la nullità delle notifiche degli atti prodromici effettuate senza il rispetto dell’art. 140 c.p.c.” perché la notificazione, seguendosi la Suprema Corte, “nel sistema delineato dall’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all’art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov’è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune… nel caso che ci occupa, … non è stata seguita la procedura prevista per la notificazione degli atti prodromici, in quanto l’ufficio ha proceduto alla immediata affissione all’albo comunale, senza completare le formalità di notificazione, cosicché gli atti successivi devono intendersi travolti” (sent. CTR, p. 2 s.).

La valutazione del giudice dell’appello è quindi chiaramente intellegibile. La procedura di notificazione semplificata di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973 può essere seguita in caso di irreperibilità assoluta del destinatario, che sia accertato essersi trasferito in località sconosciuta, a seguito di ricerche del messo notificatore nel Comune di residenza. Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha dimostrato solo di avere tentato la notifica e di non aver rinvenuto il destinatario, quindi la validità della notificazione richiedeva l’adempimento delle formalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ., cui però l’Amministrazione finanziaria non ha provveduto.

2.3. Nel suo ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate insiste nel sottolineare di aver spedito, al fine di notificare gli avvisi di accertamento, ben otto raccomandate, quattro alla società in Sicilia e quattro alla legale rappresentante in Campania, che tutte hanno avuto quale esito la mancata consegna per irreperibilità dei destinatari. Successivamente ha inviato tramite messi notificatori comunali altre otto raccomandate, quattro alla società in Sicilia e quattro alla legale rappresentante in Campania, che tutte hanno avuto quale esito la mancata consegna per irreperibilità dei destinatari. Inoltre specifica l’Ente impositore che “la relata compilata dal messo di A … per ogni atto dichiarava di aver proceduto a tale modalità di notifica (di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), Dpr n. 600 del 1973) “poiché nello stesso Comune non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente”. In conseguenza ritiene l’Amministrazione finanziaria che sia stata accertata l’irreperibilità assoluta dei destinatari, e che la notificazione ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), Dpr n. 600 del 1973 sia risultata regolare.

2.4. Questa Corte regolatrice ha avuto occasione di occuparsi ripetutamente della questione dibattuta in questo giudizio, quando ricorra un’ipotesi di irreperibilità assoluta del contribuente che consenta di accedere alla indicata procedura di notificazione semplificata nei suoi confronti, e si è condivisibilmente chiarito che “in tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dall’art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973 in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più né l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha cassato la decisione impugnata ritenendo insufficienti, per l’effettuazione della notifica ex art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973, le generiche informazioni fornite dal custode dello stabile)”, Cass. sez. VI-V, 7.2.2018, n. 2877; non mancandosi di specificare che “la notificazione di cui all’art. 60 comma primo, lett. e) del d.P.R. n. 600 del 1973 (applicabile anche in tema di I.N.V.I.M., in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 20, comma terzo del d.P.R. n. 643 del 1972, e 49, comma terzo del d.P.R. n. 634 del 1972) è ritualmente eseguita solo nella ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non si rinvengano l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. La notificazione, in questi casi è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune”, Cass. sez. I, 13.12.1996, n. 11152.

2.4.1. Inoltre, questa Corte di legittimità ha più di recente ribadito che “in tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi dell’art. 60, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973, presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purché dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento”, Cass. sez. V, 27.7.2018, n. 19958 (evidenza aggiunta) e, già da tempo, è stato specificato: “poiché ai sensi dell’art. 60 primo comma lett. e) d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 l’affissione nell’albo municipale dell’avviso del deposito nella casa comunale di un avviso di accertamento I.R.P.E.F. è modalità sostitutiva idonea dell’affissione alla porta dell’abitazione, ufficio o azienda (art. 140 cod. proc. civ.) del destinatario soltanto se non è possibile reperire effettivamente tali luoghi nel comune ove il contribuente ha il domicilio fiscale, malgrado le ricerche del messo notificatore, se queste – secondo giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità – sono state insufficienti… la notifica dell’avviso di accertamento, senza il rispetto degli adempimenti prescritti dall’art. 140 cod. proc. civ., non è valida”, Cass. sez. I, 9.6.1997, n. 5100.

2.5. L’Amministrazione finanziaria non si confronta con la decisione adottata dalla CTR, che ha ritenuto indimostrata l’irreperibilità assoluta della società, e pertanto illegittima la notificazione degli avvisi di accertamento eseguita ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e) del Dpr n. 600 del 1973. L’Ente impositore, proponendo critiche generiche, insiste nel ribadire di avere indirizzato un gran numero di raccomandate alla società ed al suo legale rappresentante, e rappresenta che le stesse non sono state ricevute, ma non trascrive quale esito del recapito abbia annotato il notificatore, su ciascuna raccomandata (temporaneamente assente, irreperibile, sconosciuto, trasferito, altro?), contravvenendo all’obbligo di proposizione di censure specifiche nel giudizio di legittimità. Allega che nei confronti del legale rappresentante sarebbero state svolte dal messo notificatore le ricerche ai fini della reperibilità nel Comune, ma neppure illustra quali ricerche siano state effettuate, mentre neanche prospetta che simili ricerche siano state effettuate con riferimento alla società.

2.6. In definitiva la valutazione espressa dalla CTR, secondo cui l’Amministrazione finanziaria non ha provato la ricorrenza dell’irreperibilità assoluta della contribuente, e non era pertanto legittimata ad avvalersi della procedura semplificata di cui all’art. 60, primo coma, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973, appare corretta e condivisibile.

In assenza di valida notificazione degli atti presupposti, risulta invalida pure la cartella di pagamento impugnata dalla contribuente, ed il ricorso introdotto dall’Agenzia delle Entrate deve perciò essere respinto.

3. Non vi è luogo a pronunciare in materia di spese di lite, non avendo la società svolto difese nel giudizio di legittimità.

3.1. Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere Amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (c.d. doppio contributo).

La Corte di Cassazione,

P.Q.M.
rigetta il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate.

Conclusione
Così deciso in Roma il 22 febbraio 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2024.


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 15/11/2023) 21/11/2023, n. 32287

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 3733/2022 R.G. proposto da:

A.A., e B.B., elettivamente domiciliata in Roma, Via Lungotevere Prati n. 21, presso lo studio dell’avv. Luca Tedeschi, che li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

VARUGA IMMOBILIARE Sas di C.C. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Mariolino Conte, come da procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7091/2021, depositata il 28.10.2021;

udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 13.9.2023 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija;

udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto rimettersi la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine la declaratoria della sua inammissibilità;

udito l’avv. Luca Tedeschi per i ricorrenti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto del 27.1.2015, A.A. – in forza di sentenza n. 2639/08 emessa dal Tribunale di Cosenza, confermata in appello, con cui la Varuga Immobiliare Sas era stata condannata al pagamento a titolo risarcitorio, in favore del predetto e della propria moglie, B.B., della somma di Euro 20.000,00 oltre accessori – intimò precetto alla debitrice per il pagamento della residua somma di Euro 15.032,15, dopo aver detratto la somma di Euro 8.000,00 frattanto pagata dalla stessa debitrice in favore di entrambi i creditori. La società propose quindi opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 1, deducendo di aver versato ulteriori Euro 3.500,00, non decurtati dall’intimante, e negando la legittimazione attiva di questi in relazione al credito spettante alla predetta B.B., non sussistendo la solidarietà attiva, con conseguente errato calcolo degli interessi. In corso di causa, il A.A. rinunciò provvisoriamente (in attesa dei necessari accertamenti richiesti in sede penale) alla somma di Euro 3.500,00, dichiarando di accettare a titolo di acconto l’importo di Euro 4.886,67, offerto dall’intimata banco iudicis. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10.9.2018, nel contraddittorio col A.A. e con la B.B. (costituitasi con autonoma comparsa d’intervento volontario) accolse parzialmente l’opposizione, ritenendo l’illegittimità del precetto sia in relazione alla quota parte di interessi riferibili al credito provvisoriamente rinunciato, sia in relazione alla carente legittimazione attiva del A.A. circa il credito di pertinenza della propria moglie (non essendovi solidarietà attiva). Il Tribunale ritenne inoltre la portata estintiva del pagamento banco iudicis, occorrendo solo ricalcolare le spese intimate col precetto, sulla base del credito accertato. La sentenza venne gravata d’appello da A.A. e da B.B.; la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 28.10.2021, dichiarò la carenza di legittimazione ad impugnare di quest’ultima, confermando nel resto la prima decisione.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione A.A. e B.B., affidandosi a formali tre motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la Caruga Immobiliare s.a.s.; il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, ribadite nel corso dell’udienza pubblica, chiedendo la rimessione della trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine dichiararsi l’inammissibilità del ricorso per tardività.

1.1 – Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la Corte d’appello tenuto conto del riconoscimento implicito della solidarietà attiva tra concreditori: la società debitrice, infatti, a parziale estinzione del debito complessivo cui era tenuta, aveva già corrisposto titoli di credito cointestati ad entrambi i creditori, così dimostrando di ritenere sussistente la solidarietà attiva tra gli stessi. Di conseguenza, ne discende la piena legittimazione attiva del A.A. e quella alla proposizione dell’appello da parte della B.B..

1.2 – Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ossia l’intervento volontario della creditrice B.B. nel giudizio, da ciò derivando, in tesi, la dimostrazione del potere del A.A. di agire anche per il recupero del credito della propria moglie.

1.3 – Con il terzo motivo, infine, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine al calcolo degli interessi e alla decorrenza degli stessi.

2.1 – Il ricorso è stato notificato in data 24.1.2022, sul presupposto di operatività del termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1 (la sentenza essendo stata pubblicata il 28.10.2021) e quindi ampiamente entro il semestre.

Senonchè, la società controricorrente ha eccepito di aver notificato la sentenza d’appello, ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c., con messaggio PEC del 31.10.2021, restituito dal sistema con la dicitura “… è stato rilevato un errore 5.2.2 – InfoCert Spa – casella piena. Il messaggio è stato rifiutato dal sistema”. Da tanto, la controricorrente fa dunque discendere che – poichè la mancata consegna è imputabile a negligenza del destinatario, titolare della casella PEC – la notifica della sentenza deve intendersi perfezionata alla data del 31.10.2021, detta comunicazione equivalendo al messaggio di avvenuta consegna (si richiama, tra l’altro, l’insegnamento di Cass. n. 3164/2020 e di Cass. n. 11559/2021). Quale ulteriore conseguenza, nella prospettazione della controricorrente discende dunque che il ricorso sarebbe stato notificato allorquando il termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2, era già spirato.

3.1 – Ora, sul tema della notifica a mezzo PEC, restituita dal sistema con messaggio di mancata consegna per “casella piena”, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano, in effetti, orientamenti non proprio univoci.

Un primo – invocato dalla controricorrente – può ben essere rappresentato dal principio specificamente affermato, per la prima volta (ma v. infra), da Cass., Sez. 3, ord., n. 3164/2020, secondo cui “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”.

Nella motivazione della citata ordinanza, la Corte ha in proposito precisato che è possibile desumere una sostanziale equivalenza – ai fini che interessano – tra il disposto del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv. in L. n. 221 del 2012 (come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, conv. in L. n. 114 del 2014), dettato in tema di comunicazioni di cancelleria, e l’art. 149-bis c.p.c., comma 3, dettato in tema di notificazioni eseguite telematicamente dall’ufficiale giudiziario, laddove essa disposizione così recita: “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”.

In proposito, richiamando anche la regola dettata dal D.M. n. 40 del 2011, art. 20 (secondo cui “Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione”) ed evidenziando, dunque, che “costituisce onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di PEC”, la Corte conclude il ragionamento valorizzando l’espressione “rendere disponibile”, riportata nell’art. 149-bis cit.: essa, infatti, “individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario, (sicchè) si giustifica la conclusione che, qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato”.

3.2 – Detta impostazione è stata nella sua perentorietà ribadita, nella sostanza, da Cass., Sez. 3, ord., n. 24110/2021, ma a ben vedere era stata già anticipata – seppure su meno approfondite argomentazioni – dal pronunciamento di Cass., Sez. L, n. 12451/2018, con cui s’era ritenuta corretta la decisione di merito, che aveva rilevato l’inammissibilità dell’opposizione allo stato passivo, L. Fall., ex art. 98, in quanto tardivamente proposta rispetto alla data di comunicazione di cancelleria, effettuata a mezzo PEC ma rifiutata dal sistema causa “casella piena” del destinatario.

Va qui aggiunto, per completezza, che la pronuncia di Cass., Sez. L, n. 11559/2021, invocata dalla controricorrente, non è pertinente, mentre ulteriori decisioni di questa Corte (quali, ad esempio, Cass., Sez. 3, ord., n. 26810/2022 e Cass., Sez. 1, ord., n. 25586/2023) si sono limitate a condividere, in linea di massima, l’impostazione della citata Cass. n. 3164/2020, seppur senza farne diretta applicazione nel caso rispettivamente al vaglio, in quanto non necessaria ai fini della decisione.

4.1 – Sul tema si registra, però, un altro orientamento, inaugurato da Cass., Sez. 3, n. 40758/2021, così massimata: “In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorchè per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”.

Detta pronuncia muove dal presupposto per cui, anche in assenza di indicazione di “domicilio digitale” (ossia, ove manchi l’indicazione dell’indirizzo PEC cui si intendono ricevere notifiche e comunicazioni), è valida la notifica comunque effettuata all’indirizzo PEC del difensore risultante dal Reginde, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, conv. in L. n. 221 del 2012, e modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, convertito a sua volta in L. n. 114 del 2014. Ove però tanto non sia possibile per fatto imputabile al destinatario (come, appunto, nel caso di mancata consegna per saturazione della casella PEC), viene in rilievo il generale principio dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio, occorrendo dunque che – in un tempo ragionevolmente contenuto (di regola, la metà del termine concretamente applicabile – v. Cass., Sez. Un., n. 14594/2016) – il notificante proceda ad ulteriore notifica, nelle forme tradizionali, presso il domicilio fisico eventualmente eletto (e sempre che tanto sia avvenuto): ciò perchè deve escludersi “che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati” (così la citata pronuncia, in motivazione).

Più in dettaglio, la citata sentenza n. 40758/2021 ha anche richiamato, in motivazione, l’insegnamento di Cass. n. 29851/2019, secondo cui, in linea generale, il mancato perfezionamento della notifica per fatto imputabile al destinatario “impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 c.p.c. e segg., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, u.p. (…)”, in quanto detta ultima norma è riferibile alle sole notificazioni e comunicazioni effettuate dalla cancelleria.

In ogni caso, seguendo detta impostazione, assume carattere dirimente la circostanza che il destinatario abbia o meno eletto (anche) il domicilio fisico: ove tanto non sia avvenuto, non può “sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante” (così ancora l’arresto più volte citato). Nè può ritenersi condivisibile – conclude la Corte – l’insegnamento della già citata Cass. n. 3164/2020: anzitutto, per il carattere neutro della formulazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, con riguardo all’espressione “rendere disponibile” il documento informatico nella casella del destinatario; in secondo luogo, perchè il perfezionamento della notifica già al primo invio della PEC (non andato a buon fine per “casella piena” dello stesso destinatario), qualora quest’ultimo abbia eletto il domicilio fisico, presupporrebbe che la previsione legale del domicilio digitale abbia soppresso la correlativa facoltà processuale, in assenza di una specifica norma in questo senso; si aggiunge, ancora, che il disposto del D.M. n. 44 del 2011, art. 20, data la natura secondaria della fonte, non può giustificare la conclusione che in presenza di casella di PEC satura la notificazione si abbia per perfezionata; infine, conclude la Corte, neppure appare decisivo il disposto dell’art. 138 c.p.c., comma 2, che considera perfezionata la notifica, che sia stata tentata “a mani proprie”, in caso di rifiuto di riceverla da parte del destinatario: “la responsabilità, in ipotesi anche colposa, di lasciare la casella di p.e.c. satura, non può equivalere a un intenzionale rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa, tanto più attesa l’alternativa elezione di domicilio fisico utilizzabile”.

4.2 – Si inscrive in questo secondo solco la più recente Cass., Sez. T, ord., n. 2193/2023, anch’essa relativa ad un caso di rifiuto della notificazione per “casella piena” del destinatario; in detta pronuncia, peraltro, si richiama un risalente insegnamento (Cass. n. 4502/1996), secondo cui, in caso di invalida elezione di domicilio (fisico) da parte dell’appellato, il ricorso per cassazione può essere notificato presso la cancelleria del giudice a quo.

5.1 – Ciò posto, ritiene il Collegio come, in effetti, la ricognizione della giurisprudenza sopra succintamente richiamata – per quanto non sempre riferibile al medesimo ambito applicativo – riveli una non conciliabile diversità di vedute sul tema controverso; per di più senza che nè l’una nè l’altra impostazione paiano del tutto convincenti, sia sul piano del metodo, che del risultato ermeneutico.

5.2 – Infatti, seppur le esigenze sottese all’indirizzo più rigoroso (Cass. n. 3164/2020) meritino apprezzamento, perchè il rischio di escludere ogni valenza alla notifica PEC non consegnata al destinatario per “casella piena” può effettivamente disincentivare gli operatori dalla necessaria cura del proprio indirizzo PEC e degli specifici adempimenti connessi alla peculiarità del mezzo telematico ormai in via generalizzata imposto come modalità di interazione tra i soggetti tenuti a dotarsene, al contrario promuovendo comportamenti strumentali e improntati, in senso lato, almeno a grave negligenza e con sostanziale neutralizzazione o vanificazione dell’operatività dell’innovazione tecnologica introdotta, dall’altro occorre pure evidenziare che l’opposta opzione ermeneutica (Cass. n. 40758/2021) si fonda su una specifica caratteristica della fattispecie: ossia, quella della necessaria compresenza di un domicilio digitale della parte (sostanzialmente immanente, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-sexies) e di un domicilio elettivo fisico, o tradizionale.

Tuttavia, se in tale evenienza (ricorrente pure nel caso che occupa, come emerge dall’intestazione della sentenza qui impugnata) la configurabilità dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio può comunque giustificarsi, in forza della perdurante rilevanza da attribuire ad una simile facoltà processuale del difensore della parte destinataria della notifica (non elisa dalla disciplina sulla indefettibilità del domicilio digitale), tale opzione rivela però una non risolvibile aporia, sul piano logico, ove elezione di domicilio fisico non vi sia stata: in tal caso, infatti, si è affermato che nessuna altra condotta sia esigibile da parte del notificante (v. supra, par. 4.1).

5.3 – E’ opinione del Collegio che tanto, però, non risolva il problema di fondo, ossia se e quando la notifica telematica del messaggio PEC, non consegnato per “casella piena”, si perfezioni.

Infatti, a seguire fino in fondo la tesi di Cass. n. 40758/2021, dovrebbe allora inferirsene che una simile notifica debba ritenersi perfezionata o meno a seconda, rispettivamente, che non sia stato eletto domicilio fisico, o al contrario, che esso sia stato eletto dalla parte: soluzione che, all’evidenza, non si confronta con la necessità di rinvenire, nell’ordito normativo, una regola generale che risolva le suddette questioni già all’interno della fattispecie “minima” (ossia, messaggio PEC non consegnato per “casella piena” del destinatario), a prescindere dall’elezione di domicilio fisico.

Del resto, è evidente che, nel caso di “casella piena”, non avrebbe alcun senso logico, prim’ancora che giuridico, rinnovare la notifica presso il domicilio fisico (ove questo sia stato eletto), qualora si ritenesse la notifica comunque già perfezionata.

5.4 – Come già anticipato, neppure pare al Collegio pienamente convincente quell’orientamento che prima s’è definito più rigoroso.

Esso, infatti, si fonda su un’interpretazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, relativo alle notifiche telematiche dell’ufficiale giudiziario (supra riportata, par. 3.1), valorizzando una lettura restrittiva dell’espressione “rendere disponibile”, ossia negandone la sua valenza finalistica, e sostanzialmente ricorrendo all’applicazione analogica alla fattispecie della notifica ex lege n. 53 del 1994, senza però adeguatamente considerare che l’art. 3-bis, comma 3 di detta stessa Legge (nel testo applicabile ratione temporis), così recita: “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dal d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 2”.

Insomma, se presupposto dell’applicazione analogica è la sussistenza di una lacuna normativa, sì da dover ricorrere alla regola dettata per casi analoghi, pare al Collegio che detta lacuna non possa configurarsi, almeno con riferimento al caso della notifica diretta da parte dell’avvocato, perchè risulta evidente non solo che una specifica regola è espressamente dettata dalla legge (che prevede appunto come la notifica si perfezioni con la generazione della ricevuta di consegna), ma pure che essa non pare ammettere equipollenti.

La specifica regola suddetta, comunque, non risulta oggetto di approfondimento, nè di confronto, con quella dettata dall’art. 149-bis c.p.c., comma 3, da parte di quelle pronunce del c.d. orientamento rigoroso, che come s’è visto ritengono comunque perfezionata una notifica come quella qui in discorso, che prescinde dalla specifica conoscenza da parte del destinatario sia del contenuto, che anche dalla sua mera conoscibilità (non apparendo neppure applicabile la disciplina di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, relativa alle sole comunicazioni dell’ufficio). E varrà ricordare che, ancora di recente, si è ribadito che, ferma la scissione degli effetti tra i soggetti della notifica per posta elettronica, imprescindibile presupposto per la produzione di quelli sia per il notificante che per il destinatario è che la notifica si sia perfezionata pure nei confronti di quest’ultimo (Cass., ord., n. 28403/2023).

Insomma, l’orientamento in parola – in assenza di una chiara indicazione normativa in tal senso – giunge al risultato di ritenere perfezionata la notifica non fondata nè sulla conoscenza, nè sulla stessa conoscibilità della notifica da parte del destinatario, giacchè, come pure esattamente osservato dalla citata Cass. n. 40758/2021, la situazione di chi non riceve la notifica a mezzo PEC per “casella piena” non è necessariamente equiparabile a quella del rifiuto di ricevere la consegna dell’atto ai sensi dell’art. 138 c.p.c., comma 2. Il che, ad avviso del Collegio, lascia più di un dubbio sulla stessa compatibilità con l’art. 24 Cost., di un simile risultato interpretativo.

5.5.1 – Osserva tuttavia il Collegio che, al medesimo risultato ermeneutico di Cass. n. 3164/2020 potrebbe giungersi anche per altra via, attraverso un ragionamento diverso e di più ampio respiro, fondato sui principi di autoresponsabilità e di affidamento.

Invero, quanto al primo, non può negarsi che – in materia di osservanza di termini processuali – l’art. 153 c.p.c., comma 2, fissi un chiaro principio, ovvero che la parte “incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”. Ed è noto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, proprio in nome del principio di autoresponsabilità, opta per un concetto assai rigoroso di causa “non imputabile”, identificata in “un evento che presenti il carattere della assolutezza – e non già una impossibilità relativa, nè tantomeno una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione” (così, tra le altre, Cass., Sez. Un., n. 27773/2020, che richiama Cass., Sez. 1, n. 30512/2018, Rv. 651875-01, e Cass., Sez. L, n. 3482/2019).

Deve, dunque, trattarsi di “un fatto ostativo che risulti oggettivamente estraneo alla volontà della parte (che l’applicazione della rimessione chiede) e che dalla stessa non risulti governabile, neppure con “difficoltà”” (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 6-1, ord., n. 22342/2021, Rv. 661991-01).

5.5.2 – D’altra parte, l’introduzione generalizzata del mezzo telematico per l’esecuzione delle notifiche tra soggetti obbligati per legge a dotarsene, tutti definibili a vario titolo professionisti, potrebbe implicare un onere di diligente organizzazione, tale da consentirne il regolare funzionamento; senza tralasciare l’esigenza, a tale introduzione sottesa, di un generalizzato affidamento sulla diligenza professionale dei singoli operatori (con obblighi di comportamento in capo al professionista, quali quelli affermati per gli operatori sanitari da Cass. n. 589/1999 e, per gli avvocati ed a fini disciplinari per la rilevanza deontologica di tali obblighi, da Cass. Sez. Un. 6216/2005).

5.5.3 – Solo in tal modo potrebbe giungersi alla conclusione che, qualora la consegna del messaggio PEC non possa avere buon esito per “casella piena” del destinatario – in un’epoca di telematizzazione talmente spinta delle relazioni interindividuali, che c’è persino chi teorizza l’esistenza di “soggetti giuridici digitali” – questi dovrebbe imputare a se stesso la conseguenza dell’impossibilità della notificazione, salvo a dimostrare che l’evento sia dipeso da cause a lui non imputabili, quali ad es. le disfunzioni del sistema informatico, et similia: e ciò proprio in forza del principio di autoresponsabilità, se non pure dell’affidamento ingenerato nel soggetto notificante, specie se – come nel caso – esercente una professione protetta, così come il destinatario.

6.1 – Pur così “vestita” la soluzione dell’avvenuto perfezionamento di una notifica come quella che occupa, non può tuttavia tralasciarsi un elemento essenziale: anche una simile soluzione deve necessariamente confrontarsi col dato normativo vigente, e dunque con il già visto della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, che specificamente cristallizza il momento di perfezionamento della notifica effettuata dall’avvocato in quello della generazione del messaggio di “avvenuta” consegna. L’utilizzo del participio passato del verbo “avvenire”, ad avviso del Collegio, non autorizza altra interpretazione, già sul piano letterale, diversa da quella per cui, in caso di mancata generazione di un simile messaggio, non possa in realtà discutersi di effettivo perfezionamento della notifica.

6.2 – Del resto, va qui rilevato che, nel sistema vigente, non mancano elementi a sostegno della ulteriore tesi che – discostandosi sia da Cass. n. 3164/2020, sia da Cass. n. 40758/2021 – parrebbe più aderente al dato normativo.

Ci si riferisce, in particolare, alla L. Fall., art. 15, comma 3, come modificato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, lett. a), conv. in L. n. 221 del 2012. Con detta disposizione – con cui, se non si erra, s’è stabilita per la prima volta l’obbligatorietà della notifica di un atto introduttivo di un procedimento giudiziario a mezzo PEC, benchè a cura della cancelleria, per i procedimenti iniziati dopo il 31.12.2013 – è espressamente stabilito, al secondo, quarto e quinto periodo, che “Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti…. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso”.

Sulla stessa scia si pone la normativa oggi dettata, per lo stesso ambito, dal D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 40, commi 6, 7 ed 8, (CCII), in vigore dal 15.7.2022, ove si stabilisce ancor più esplicitamente che: “6. In caso di domanda proposta da un creditore, da coloro che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa o dal pubblico ministero, il ricorso e il decreto di convocazione devono essere notificati, a cura dell’ufficio, all’indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti. L’esito della comunicazione è trasmesso con modalità telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente.

7. Quando la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata di cui al comma 6, non risulta possibile o non ha esito positivo per causa imputabile al destinatario, il ricorso e il decreto sono notificati senza indugio, a cura della cancelleria, mediante il loro inserimento nell’area web riservata ai sensi dell’art. 359. La notificazione si ha per eseguita nel terzo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento.

8. Quando la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, per cause non imputabili al destinatario, la notifica, a cura del ricorrente, si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese o, per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, presso la residenza. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese ovvero presso la residenza per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, e si perfeziona nel momento del deposito stesso. Per le persone fisiche non obbligate a munirsi del domicilio digitale, del deposito è data notizia anche mediante affissione dell’avviso in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio e per raccomandata con avviso di ricevimento”. Insomma, in un ambito (quello concorsuale) in cui l’esigenza della conoscenza o dell’effettiva conoscibilità delle iniziative poste in essere dai propri creditori (o dal pubblico ministero) è intuitivamente assai rilevante, sia che la mancata consegna del messaggio PEC derivi da causa imputabile al destinatario, sia che derivi da causa a lui non imputabile, ciò non comporta mai il perfezionamento della notifica, sempre occorrendo una ulteriore iniziativa del notificante, quale che sia.

Ovviamente, non v’è alcuna ragione per relegare una simile impostazione al solo ambito concorsuale, perchè il tema investe direttamente il diritto di difesa e al contraddittorio, costituzionalmente rilevanti per tutti i consociati ex artt. 24 e 101 Cost..

6.3 – Di ciò può scorgersi conferma anche nella legislazione ancor più recente, specie a seguito del D.Lgs. n. 149 del 2022, che vede la notifica telematica degli atti processuali come ormai sostanzialmente obbligatoria, salvi casi residuali. Non è affatto casuale che la citata riforma, introducendo della L. n. 53 del 1994, art. 3-ter (da ultimo modificato dalla L. n. 87 del 2023), ha stabilito, al comma 2, che: “quando per causa imputabile al destinatario la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato non è possibile o non ha esito positivo:

a) se il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, l’avvocato esegue la notificazione mediante inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’art. 359 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dichiarando la sussistenza di uno dei presupposti per l’inserimento; la notificazione si ha per eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento;

b) se il destinatario è una persona fisica o un ente di diritto privato non tenuto all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese e ha eletto il domicilio digitale di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-quater, l’avvocato esegue la notificazione con le modalità ordinarie”.

Insomma, per quanto la disposizione non sia applicabile nel caso in esame ratione temporis, essa non fa che confermare quanto già prima prospettato, ossia che l’ordinamento positivo – come già in passato – non considera mai perfezionata una notifica di messaggio a mezzo PEC, effettuata da un avvocato ai sensi della L. n. 53 del 1994, qualora essa non sia andata a buon fine, benchè per causa imputabile al destinatario.

7.1 – Stima, pertanto, il Collegio che tutto quanto precede renda dunque evidente che, sul tema, nell’attualità, sia pure in esito al crescente approfondimento della materia indotto dall’evoluzione del sistema normativo, la giurisprudenza della Corte non possa dirsi univoca e che, comunque, la tematica delle condizioni di validità e delle conseguenze della notifica telematica non completata per “casella piena” del destinatario integra una questione di massima di particolare importanza, involgendo i presupposti stessi del funzionamento delle modalità di notificazione coi nuovi e generalizzati strumenti tecnologici in ogni ambito processuale: ciò che ne individua quale sede naturale per la disamina le Sezioni Unite di questa Corte, come del resto pure ritenuto dal Procuratore Generale.

8.1 – In definitiva, il Collegio reputa opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite.

P.Q.M.
la Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione il 13.9.2023 e a seguito di riconvocazione telematica, il 15 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2023


Cass. civ. Sez. Lavoro, Sent., (Ud. 14/9/2023) n. 30082

REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ROBERTO BELLÈ Presidente
ANDREA ZULIANI Consigliere-Rel.
NICOLA DE MARINIS Consigliere
MARIA LAVINIA BUCONI Consigliere
ANTONELLA F. SARRACINO Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27781/2018 R.G. proposto da Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege
– ricorrente –
contro
e rappresentati e difesi dall’Avv. e domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti –
– intimati –
avverso la sentenza n. 209/2018 della Corte d’Appello di Palermo, depositata il 20/3/2018;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/9/2023 dal Consigliere Andrea Zuliani.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Palermo ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca contro la sentenza con cui il Tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, aveva accolto le domande di cinque impiegati amministrativi (personale volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato a seguito dell’utile collocazione nella graduatoria di prima fascia, con il riconoscimento dei relativi diritti economici. La Corte territoriale non ha affrontato il merito della controversia, ritenendo fondata l’eccezione pregiudiziale di inesistenza della notificazione dell’atto d’appello sollevata da tre degli appellati (gli altri due essendo rimasti contumaci in appello).
Contro tale decisione in rito, il Ministero ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
e si sono difesi con controricorso, mentre gli altri lavoratori sono rimasti intimati. I controricorrenti hanno altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con i primi due motivi di ricorso il Ministero denuncia:
1.1. «violazione e falsa applicazione del d. P. R. 11.2.2015 n. 68, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.»;
1.2. «violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
1.3. Il ricorrente contesta alla Corte territoriale di non avere considerato il dovere del destinatario della notificazione di segnalare al notificante eventuali anomalie nell’invio degli atti mediante posta elettronica certificata (PEC) e di avere trattato come inesistenza un’ipotesi «di mera irregolarità o, al più, di nullità della notificazione».
2. Tali motivi sono parzialmente fondati, nei termini di seguito esposti.
2.1. È opportuno premettere una precisa descrizione della fattispecie, per quanto di interesse ai fini della decisione. Il ricorso in appello venne depositato in cancelleria e, quindi, integrato con il decreto di fissazione dell’udienza, come previsto dal rito del lavoro. L’Avvocatura dello Stato provvide a trasmettere a mezzo PEC al difensore comune dei cinque ricorrenti in primo grado un messaggio contenente la menzione degli atti notificati («appello depositato», «decreto fissazione udienza», «relata») e apparentemente allegati al messaggio.
Tuttavia, dalla indicata dimensione degli atti («1 bytes»), la Corte d’Appello ha ritenuto provata l’allegazione dei difensori dei lavoratori (costituitisi in appello per tre soltanto di loro, stando a quanto afferma la sentenza impugnata) che si trattasse di file del tutto vuoti. Sulla base di tale accertamento di fatto, il giudice ha ritenuto inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, «per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare».
2.2. La qualificazione del vizio della notificazione come inesistenza è stata decisiva per la dichiarazione della improcedibilità dell’appello, perché sono state di conseguenza rifiutate sia l’ipotesi della sanatoria della nullità per effetto della costituzione degli appellati (con riguardo a quelli di loro che si erano costituiti), sia l’ipotesi di concedere all’appellante un termine per rinnovare la notificazione, eventualmente previa rimessione in termini, che era stata infatti richiesta, sia pure in via subordinata. Anche nel rito del lavoro, infatti, è stato da tempo superato l’orientamento che consentiva al giudice di concedere, ai sensi dell’art. 421, comma 1, c.p.c., un termine per procedere alla notificazione non effettuata del ricorso tempestivamente depositato in cancelleria. La concessione del termine è ora consentita solo in caso di notificazione nulla, non anche nel caso di notificazione omessa o inesistente (v. Cass. S.U. n. 20604/2008 e molte altre successive conformi).
2.3. Ciò posto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il nonatto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (Cass. S.U. n. 14916/2016 ed altre conformi). Nel caso di specie, il procedimento di trasmissione degli atti risulta perfettamente conforme al diritto. Il mittente e il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti. Viene invece in rilievo l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.
2.4. Con riferimento alle anomalie che rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio di notificazione a mezzo PEC, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il destinatario ha il dovere di «informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente» (Cass. n. 25819/2017; conf. Cass. nn. 21560/2019; 4624/2020).
La Corte d’Appello, così come la difesa dei controricorrenti, ha sottolineato che il mittente avrebbe potuto facilmente accorgersi dell’anomalia, proprio perché il sistema indicava le dimensioni inverosimili degli allegati («1 bytes»), il che escluderebbe quella incolpevolezza del notificante che, secondo la giurisprudenza di legittimità, sembrerebbe un presupposto implicito del dovere di collaborazione del destinatario.
Ma non è il tema della colpevolezza o meno a governare l’accaduto, in quanto ciò che conta è se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello.
2.5. In proposito assume decisiva rilevanza il fatto che il messaggio PEC trasmesso al difensore degli appellati (e riportato per esteso nel ricorso per cassazione) indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»). Ne deriva che la consegna del messaggio, seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione.
Ciò esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.
Del resto, le S.U. hanno ritenuto – nel caso assimilabile dell’atto notificato solo nelle pagine dispari, con conseguente impossibilità per il destinatario di comprenderne il contenuto – che, a fronte di un originale ritualmente depositato e completo, il vizio è della notificazione, e non dell’atto notificato, integrando una nullità come tale «sanabile con efficacia ex tunc mediante la nuova notifica di una copia integrale del ricorso, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di Cassazione (qui, Corte d’Appello, n.d.r.) ovvero per effetto della costituzione dell’intimato (qui, appellati, n.d.r.), salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese» (Cass. S.U. n. 18121/2016).
Principio che, una volta adattato al caso della notifica a mezzo Pec contenente un allegato inconsistente e dunque tale da impedire la comprensione alla controparte, porta inevitabilmente alle medesime conclusioni.
2.6. Esclusa l’inesistenza della notificazione, la mera nullità della stessa avrebbe dunque imposto al giudice d’appello di fissare un termine perentorio per la rinnovazione che «impedisce ogni decadenza», perlomeno nei confronti degli appellati contumaci, secondo la regola generale contenuta nell’art. 291 c.p.c., che – a differenza della rimessione in termini (art. 153, comma 2, c.p.c.) – prescinde da qualsiasi valutazione sulla incolpevolezza del notificante (per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c. anche al rito di lavoro e, in particolare, all’appello proposto secondo il rito di lavoro, v., per tutte, Cass, n. 8125/2013).
2.7. Ma anche con riguardo agli appellati costituiti, rimane la valutazione essenziale che l’appello non avrebbe dovuto essere dichiarato improcedibile, dovendo, a tutto concedere, la Corte d’Appello dare le opportune disposizioni (ad es., rinvio in favore degli appellati che si assumessero lesi anche nei termini a difesa) per la prosecuzione del processo nel rispetto del principio del contraddittorio.
2.8. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Palermo, perché proceda alla trattazione del processo – è infatti evidente che con la regolare riassunzione in sede di rinvio ogni vizio verso gli appellati già costituiti in secondo grado sarà sanato – e decida anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. La Corte territoriale dovrà attenersi al seguente principio di diritto:
«Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».
3. È appena il caso di aggiungere che non sono d’ostacolo all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso le eccezioni preliminari in rito sollevate nel controricorso. Quanto alla prima («inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.»), essa non coglie l’oggetto e il significato dell’impugnazione, che non è volta a contestare il consolidato orientamento secondo cui non si può dare luogo alla rinnovazione della notificazione inesistente, ma contesta il presupposto dell’inesistenza, sostenendo (con buon fondamento, per come si è visto) che la notificazione era soltanto nulla.
Anche la seconda eccezione («inammissibilità ed improcedibilità – violazione degli artt. 358 c.p.c., 387 c.p.c. e 324 c.p.c.; violazione dell’art. 360 c.p.c. carenza di interesse») ha il vizio di dare per acquisito il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado per la (definitiva) improcedibilità dell’appello, mentre è proprio quest’ultima a essere contestata con il ricorso per cassazione.
Infine, la terza eccezione («inammissibilità del ricorso; violazione dell’art. 360 e 360-bis c.p.c.») non considera che quello richiesto dal ricorrente non è un riesame di fatti sostanziali, il cui accertamento è riservato al giudice del merito, ma un riesame di fatti processuali, debitamente veicolati dai motivi di ricorso e come tali da verificare anche in sede di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).
4. Il terzo motivo di ricorso denuncia «violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo del raggiungimento dello scopo, dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
4.1. Premesso che è a questo punto irrilevante l’assunto del Ministero secondo cui tutti gli appellati si sarebbero costituiti in secondo grado (assunto che desume solo dal deposito di una memoria in corso di causa asseritamente depositata «per conto di tutti gli appellati»), il motivo può essere assorbito, in quanto anche una costituzione in ipotesi finalizzata a far rilevare un difetto notificatorio non potrebbe mai considerarsi in sé sanante, dovendosi – nel caso di nullità della notificazione – concedere i debiti termini a difesa, sicché quanto detto sui primi due motivi già esaurisce in ogni caso il tema processuale.
5. Anche il quarto motivo, che denuncia «omessa pronuncia sull’istanza di rimessione in termini e di assegnazione di termine per la rinotificazione in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c.», può essere assorbito, in quanto la necessità di attivazione dei meccanismi di sanatoria che consegue all’accoglimento dei primi due motivi rende superfluo ragionare su una remissione in termini.
6. Infine, il quinto motivo di ricorso denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, in relazione all’art. 436 c.p.c.».
6.1. Il motivo, che lamenta il mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della produzione documentale con cui gli appellati costituiti hanno provato l’anomalia della trasmissione a mezzo PEC, deve intendersi parimenti assorbito, per mancanza di interesse alla decisione della parte ricorrente, una volta accolti i primi due motivi di ricorso, nei termini sopra esposti.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14.9.2023.
Il Presidente
Roberto BELLÈ


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 03/10/2023) 24/10/2023, n. 29438

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. CAPONI Remo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2287/2020 proposto da:

Garante per la protezione dei dati personali, difeso dall’Avvocatura generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

Comune di Tarvisio, difeso dall’avvocato David D’Agostini;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza del Tribunale di Udine n. 586/2019 del 24/10/2019;

Ascoltata la relazione del consigliere Dott. Remo Caponi nella camera di consiglio del 3/10/2023.

Svolgimento del processo
Nel dicembre 2017 l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali emanava nei confronti del Comune di Tarvisio due ordinanze ingiunzione di Euro 20.000 ciascuna, come sanzioni pecuniarie per la violazione ex art. 162, comma 2bis in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 19, comma 3 vigente al tempo. Infatti, una persona aveva segnalato (più volte) il permanere pubblicati di dati personali sul sito internet dell’albo pretorio comunale oltre il periodo di quindici giorni previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124.

Il Comune proponeva dinanzi al Tribunale di Udine nei confronti dell’Autorità Garante opposizione avverso i due provvedimenti sanzionatori, facendo valere: (a) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2 per notifica tardiva, cioè oltre il termine di novanta giorni dall’accertamento delle violazioni (quanto al primo provvedimento, n. (Omissis), la contestazione era avvenuta il (Omissis), dopo che il (Omissis) era stato comunicato al segnalante che non sarebbero stati adottati provvedimenti prescrittivi o inibitori; quanto al secondo provvedimento, n. (Omissis), la contestazione era avvenuta il (Omissis), dopo che il (Omissis) era stato comunicato al segnalante che non sarebbero stati adottati provvedimenti prescrittivi o inibitori); (b) la violazione del principio del ne bis in idem, poichè l’infrazione è unica; (c) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2 poichè si tratta di una sola azione/omissione (la configurazione del software di pubblicazione on line dei provvedimenti del Comune); (d) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 poichè il sito internet oggetto di segnalazione non era, nè era mai stato, di titolarità del Comune, nè gestito dal medesimo; (e) l’insussistenza della violazione contestata, posto che il termine di quindici giorni per la pubblicazione nell’Albo pretorio di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 non è perentorio.

Il Tribunale ha accolto l’opposizione e annullato le ordinanze-ingiunzione poichè la violazione non sussiste, con compensazione delle spese legali.

Ricorre l’Autorità Garante con due motivi di ricorso. Resiste il Comune di Tarvisio con controricorso e ricorso incidentale con sette motivi, illustrati da memoria.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo censura D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, comma 1bis e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 che il Tribunale non abbia rilevato l’inammissibilità dei motivi di ricorso per omessa impugnazione dei provvedimenti dirigenziali di chiusura dell’istruttoria preliminare, che costituiscono ex art. 7 Regolamento 1/2007 provvedimenti amministrativi.

Il secondo motivo denuncia che la sentenza impugnata abbia violato le disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui la diffusione di dati personali da parte di un soggetto pubblico è ammessa unicamente quando è prevista da una norma di legge o di regolamento, nel rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza. Si deduce la violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 19, comma 3, art. 11, comma 1, lett. d) (nella versione anteriore alla riforma ex D.Lgs. n. 101 del 2018 di adeguamento alla nuova disciplina Europea), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 e D.P.R. n. 118 del 2000, art. 1.

2. – Il primo motivo è rigettato.

Gli atti di cui si lamenta la mancata impugnazione tempestiva (cioè, i provvedimenti dirigenziali di chiusura dell’istruttoria preliminare) rivestono carattere preliminare, non lesivo della sfera dell’ente che sarà solo in seguito destinatario delle sanzioni amministrative. Pertanto, non vi è interesse ad impugnare.

3. – Quanto al secondo motivo, esso si rivela parimenti infondato.

Censurata è la seguente parte della sentenza impugnata. Il Tribunale ha rilevato che si tratta di dati personali, ha osservato che la pubblicazione sull’albo pretorio è avvenuta sul fondamento del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124, comma 1 (pubblicazione delle delibere per quindici giorni) e della L. n. 69 del 2009, art. 32, comma 1 (sostituzione della pubblicazione cartacea con quella sui siti telematici), ha considerato che le finalità di trasparenza, conoscibilità e controllo dell’attività amministrativa sono da bilanciare con la tutela della riservatezza, che implica la necessità, la pertinenza e la non eccedenza del riferimento alla persona D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 11, comma 1, lett. d) e lett. e). Quanto all’asserita violazione del termine di quindici giorni, il Tribunale ha invocato a sostegno Cass. 20615/2016, che ha accertato il carattere non perentorio di tale termine.

La censura è argomentata essenzialmente in questi termini. Il Garante ha richiamato indicazioni di carattere generale sul trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici per finalità di pubblicazione e diffusione sul web (cfr. le linee guida del 15/05/2014). Ha considerato che, quanto ai dati personali, in tali elenchi possono essere riportati solo quelli necessari ad individuare i soggetti interessati (nominativi e data di nascita). Il Garante osserva che non è giustificato diffondere ulteriori dati non pertinenti. Ne deduce che la sentenza è incorsa in errore nel ritenere che al caso di specie fossero estensibili i principi espressi da Cass. 20615/2016. Il punto decisivo – rimarca infine il Garante – è la sproporzionata esposizione della sfera personale dell’interessato, che deriva dalla pluriennale pubblicazione dei dati personali, a fronte di un termine di legge di due settimane.

4. – L’argomentazione della sentenza impugnata resiste bene alle critiche del Garante.

Nel rifarsi alle linee guida, la prima censura non coglie il bersaglio. E’ irrilevante sottolineare che i soggetti pubblici abilitati a pubblicare e diffondere sul web i dati devono riportare solo i dati necessari ad individuare i soggetti interessati, se non si allega specificamente che nel caso di specie il novero dei dati pubblicati abbia ecceduto quelli necessari al perseguimento del fine istituzionale.

In secondo luogo, il Tribunale ha correttamente richiamato a sostegno della propria decisione il precedente di Cass. 20615/2016. Nel caso sotteso a tale pronuncia, alcune persone avevano convenuto in un precedente giudizio un’amministrazione comunale, la quale si era costituita in giudizio sulla base di due delibere di giunta pubblicate sul sito internet istituzionale. Ad avviso degli attori il contenuto delle delibere violava il loro diritto alla riservatezza e pertanto convenivano di nuovo in giudizio il Comune con una correlativa domanda risarcitoria, accolta dal giudice di merito. Nell’annullare la sentenza, Cass. 20615/2016 ha osservato che la pubblicazione e la divulgazione di atti che determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi lecita qualora prevista da una norma di legge o di regolamento, quindi per le finalità istituzionali dell’ente – mentre non ha carattere perentorio il termine previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 (“Tutte le deliberazioni del comune e della provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio, nella sede dell’ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”). Ad abundantiam, a sostegno del carattere non perentorio del termine, Cass. 20615/2016 richiama il termine di cinque anni di durata della pubblicazione, previsto dal D.Lgs. n. 33 del 2013, art. 8 di riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.

Il Garante mostra di ritenere che Cass. 20615/2016 non si attaglia, ma per dimostrarlo seleziona esattamente la parte della motivazione che è misurata sul caso sotteso a quel precedente e che è qui irrilevante. Viceversa, gli elementi rilevanti sono il fondamento legislativo del potere di pubblicazione, la necessità della pubblicazione per perseguire il fine istituzionale dell’ente, il carattere non perentorio del termine D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 124. Non si attaglia piuttosto Cass. 30981/2017 richiamata dal Garante. Tale pronuncia riguarda i dati sensibili, ma il Garante non argomenta se i dati della cui pubblicazione si tratta nel caso di specie siano sensibili.

Quanto alla doglianza relativa alla violazione del principio di non eccedenza sotto il profilo della protrazione temporale della esposizione al pubblico dei dati personali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, lett. d vigente al tempo) il Garante non si confronta con il punto a tal riguardo centrale della motivazione: il Tribunale ha concluso il proprio ragionamento facendo proprio il dato emerso dalla relazione tecnica resa dal gestore del software che ha spiegato che la visibilità residua dei dati riguardanti la persona, anche dopo le segnalazioni del Garante e gli interventi eseguiti sulla piattaforma informatica (interventi sollecitati dal Comune, che attestano un atteggiamento collaborativo), fosse riferibile all’utilizzo di un meccanismo informatico, cioè la memorizzazione e l’utilizzo reiterato dell’indirizzo web (URL) della pagina pubblicata, utilizzato non da chiunque ma dal diretto interessato motivato a controllare il persistere della pubblicazione.

Nè infine aiuta il Garante il finale richiamo dottrinario al fatto che “l’identità più che come dato preesistente viene vista come processo, costantemente in atto, aperto ad una pluralità di esiti e continuamente esposto all’interferenza capillare e pervasiva, delle varie forme di potere sociale”. E’ superfluo ricordare che in tale dialettica tra la sfera della libertà e dell’autonomia del sè e l’incidenza del potere altrui – tratto di fondo dell’evo moderno – quest’ultimo può esercitare a seconda dei casi non solo un ruolo oppressivo o limitativo, ma anche cooperativo e proattivo. Tale è il profilo che entra specificamente in gioco nel caso di specie, in cui – ferma la necessità della pubblicazione per il fine istituzionale – il Comune ha dimostrato, nell’arco del procedimento amministrativo sollecitato dalla segnalazione al Garante, un atteggiamento cooperativo nell’adottare rimedi diretti a venire incontro al bisogno di tutela mostrato dal segnalante.

Il secondo motivo è rigettato e con ciò è rigettato il ricorso principale nel suo complesso.

5. – Quanto al ricorso incidentale, il primo motivo denuncia la mancata dichiarazione di decadenza dalle domande e dalle eccezioni ex art. 416 c.p.c. per tardività della costituzione in giudizio. Il secondo motivo denuncia, sotto il profilo dell’omesso esame circa un fatto decisivo, la determinazione del momento di accertamento della violazione quale dies a quo per il computo del termine L. n. 689 del 1981, ex art. 14, comma 2. In particolare, si censura che, pur essendo da tempo a conoscenza di tutti gli elementi necessari e utili alla valutazione, l’autorità abbia tardato notificare i provvedimenti di contestazione (si invoca Cass. 7681/2014 ove si soppesa anche l’interesse dell’autore della condotta a vedere concluso l’accertamento in tempi brevi). Il terzo motivo denuncia l’inosservanza del termine L. n. 689 del 1981, ex art. 14, comma 2. Il quarto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione all’inosservanza del ne bis in idem nella contestazione di tante violazioni quanti sono stati i documenti pubblicati ovvero in numero pari alle segnalazioni ricevute. Il quinto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 8, comma 1 (“(…) chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni (…) o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione (…) per la violazione più grave, aumentata sino al triplo”). In particolare, si fa valere che a monte vi è un’unica azione: la configurazione del software di pubblicazione on line dei provvedimenti del Comune. Il sesto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 3 (“(…) ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”), poichè il sito internet oggetto di segnalazione non era, nè era mai stato, di titolarità del Comune, nè gestito dal medesimo. Il settimo motivo censura ex art. 92 la compensazione delle spese disposta per la complessità della questione.

Il ricorso incidentale riveste carattere sostanzialmente condizionato all’accoglimento del ricorso principale e rimane pertanto assorbito.

6. – E’ rigettato il ricorso principale, è assorbito il ricorso incidentale. Le spese secondo la soccombenza sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale e condanna la parte ricorrente in via principale al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della parte controricorrente, che liquida in Euro 4.500, oltre a Euro 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi e agli accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 11/10/2023) 19/10/2023, n. 29119

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. DE ROSA Maria L. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. CORTESI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7485/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata ope legis in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.

– ricorrente –

contro

D.M. C. Costruzioni Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, A.A., e B.B., rappresentati e difesi dall’avv. Cesare Glendi, elettivamente domiciliati in Roma alla via Alberico II n. 33, presso l’avv. Andrea Manzi.

– controricorrenti – avverso la sentenza n. 859 della Commissione tributaria regionale della Liguria, pronunciata in data 3 aprile 2014, depositata in data 29 luglio 2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2023 dal consigliere Dott. Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
CHE:

L’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo contro D.M. C. Costruzioni Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, A.A. e B.B., che resistono con controricorso, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria indicata in epigrafe, che ha rigettato gli appelli riuniti dell’ufficio contro le decisioni della Commissione tributaria provinciale di Genova, che avevano accolto i ricorsi dei contribuenti, ritenendo che gli avvisi di accertamento fossero stati erroneamente emessi e notificati nei confronti della D.M. C. Costruzioni Srl e dei soci, pur avendo ad oggetto il controllo della posizione fiscale per gli anni (Omissis) della D.M. C. Costruzioni Sas e dei soci di quest’ultima.

Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio dell’11 ottobre 2023, ai sensi degli art. 375, u.c., e art. 380 – bis. 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Il P.G. Francesco Salzano ha fatto pervenire conclusioni scritte con cui ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1.1. Con l’unico motivo, l’Agenzia delle entrate denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2498 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente deduce che la società nata dalla trasformazione conserva tutti i diritti e gli obblighi anteriori alla trasformazione stessa, che fa semplicemente mutare l’organizzazione già esistente (Cass. 851/2000), la quale prosegue i rapporti processuali e sostanziali che ad essa fanno capo (Cass. 5963/2001) senza che si determini alcuna interruzione della vita sociale nè l’estinzione della società. La trasformazione, dunque, non comporta l’estinzione della società preesistente e la nascita di una nuova società: è la stessa società che continua a vivere in una veste giuridica rinnovata e che conserva i diritti e gli obblighi anteriori a tale operazione.

Ne consegue che l’avviso di accertamento afferente a un periodo di imposta anteriore alla trasformazione è correttamente notificato al legale rappresentante della società risultante dalla trasformazione stessa, non implicando, questa, alcun mutamento del soggetto passivo del rapporto tributario.

1.2. Il motivo è fondato e va accolto.

La presente controversia concerne una serie di avvisi di accertamento, emessi per gli anni di imposta (Omissis) nei confronti della società, allora avente ragione sociale di società in accomandita semplice, nonchè, ex art. 5 T.u.i.r, nei confronti dei singoli soci, A.A. e B.B..

Gli atti impositivi sono il risultato di una verifica fiscale conclusasi con p.v.c. del 25.5.2010, che ha riguardato, in particolare, la documentazione bancaria e i rapporti commerciali della società DMC Costruzioni Sas di B.B. & C. con la ditta individuale MM Edilizia di C.C.. Successivamente all’emissione del p.v.c., in data 28.1.2010 la società D.M. C. Costruzioni Sas di B.B. & C., il cui socio accomandante era la Sig.ra A.A., si è trasformata in D.M. C. Costruzioni Srl , con legale rappresentante la stessa Sig.ra A.A.. In considerazione di tale trasformazione societaria, l’avviso di accertamento relativo alla società in accomandita semplice è stato notificato alla signora A.A. in qualità di legale rappresentante della D.M. C. Costruzioni Srl Con distinti ricorsi davanti alla C.t.p. di Genova la società e i soci impugnavano gli atti impositivi lamentando, in primo luogo, il proprio difetto di legittimazione passiva, posto che l’avviso di accertamento era stato emesso e notificato nei confronti di DMC Costruzioni Srl in persona del legale rappresentante pro tempore A.A. e dei due soci, mentre la verifica fiscale riguardava la preesistente società DMC Costruzioni Sas di B.B. & C. Inoltre, i ricorrenti eccepivano ulteriori profili di illegittimità degli accertamenti, sia di carattere formale che di carattere sostanziale.

La C.t.r., con la sentenza impugnata, ha rigettato gli appelli riuniti dell’ufficio contro le decisioni della Commissione tributaria provinciale di Genova, che aveva accolto i ricorsi dei contribuenti, ritenendo il difetto di legittimazione passiva degli appellati, con il conseguente assorbimento di ogni altra questione.

Sul punto deve rilevarsi che l’art. 2498 c.c. dispone che “con la trasformazione, l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione”.

Dunque, poichè a seguito del processo di trasformazione, si ha un trasferimento integrale dei rapporti giuridici preesistenti, la notificazione di un avviso che contesti fatti gestionali verificatisi ante trasformazione deve necessariamente e correttamente essere intestato e notificato al soggetto risultante dalla trasformazione, in quanto soggetto subentrato in tutti i diritti e obblighi anteriori alla trasformazione.

In termini è la sentenza di questa Corte n. 4510/1981 che, con principio non più sottoposto a rivisitazione, ha affermato che “in ipotesi di trasformazione di una società in accomandita semplice in società di capitali, l’avviso di accertamento, per imposta di ricchezza mobile afferente un periodo anteriore a detta trasformazione, va notificato al legale rappresentante della società risultante dalla trasformazione stessa, tenuto conto che questa determina un semplice mutamento organizzativo dell’ente, senza incidere sui rapporti giuridici in atto”.

Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio secondo cui “la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorchè connotato di personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione societaria” (ex multis, Cass. n. 7258/1990; n. 9569/2007; n. 21961/2010; n. 18373/2016; vedi anche Cass. n. 25846/2014, richiamata nella conclusioni scritte del P.G. e relativa proprio alle pendenze fiscali di una S.a.s.).

Ancora, con la sentenza n. 3269/2009, questa Corte ha ribadito che “la trasformazione di una società di persone in società di capitali non comporta l’estinzione di un soggetto e la creazione di un altro soggetto, ma la semplice modificazione della struttura e dell’organizzazione societaria, che lascia immutata l’identità soggettiva dell’ente ed immutati i rapporti giuridici ad essa facenti capo”, ritenendo la validità della notifica di una cartella di pagamento indirizzata alla società con la denominazione anteriore alla trasformazione, purchè non implicante una situazione d’incertezza sull’identificazione della parte stessa; tale considerazione presuppone l’assunto che, in caso di trasformazione, la notifica vada fatta, di regola, al soggetto risultante dalla trasformazione.

Va ulteriormente precisato che, nel caso in esame, gli avvisi di accertamento nei confronti dei soci dipendono dalla imputazione per trasparenza dei redditi della società di persone, ex art. 5 T.u.i.r., applicabile anche alle società in accomandita semplice, forma che la società rivestiva negli anni oggetto di verifica fiscale.

In conclusione, la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 11/07/2023) 18/10/2023, n. 28852

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2596/2021 R.G. proposto da:

A.A. TOURS Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Bernardo Barbiellini Amidei n. 45, presso lo studio dell’Avv. Chiara Iovine, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Aniello Pullano e Rosa-Anna Paloscia;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE;

– intimato –

Avverso la sentenza n. 409/2020 del TRIBUNALE DI FROSINONE, pubblicata il 17 giugno 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio tenuta il giorno 11 luglio 2023 dal Consigliere RAFFAELE ROSSI.

Svolgimento del processo
1. La A.A. tours Srl impugnò una comunicazione preventiva di iscrizione di fermo amministrativo su veicolo di sua proprietà notificata dall’Agenzia delle Entrate Riscossione, emessa, tra l’altro, per la soddisfazione di un credito causalmente ascritto a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada.

2. Svolto il giudizio in contraddittorio con l’agente della riscossione, la domanda attorea è stata disattesa in ambedue i gradi di merito.

3. Ricorre per cassazione la A.A. Tours Srl , affidandosi a sei motivi; non svolge difese in grado di legittimità l’intimata.

4. All’esito dell’adunanza camerale sopra indicata, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di cui al comma 2 dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c., si assume che il giudice territoriale abbia “erroneamente riferito il denunciato vizio della inesistenza della notifica dell’atto impugnato alla cartella di pagamento sottesa al preavviso di fermo e non al preavviso, come invece denunciato dalla A.A. tours”.

La doglianza è inammissibile e, comunque, infondata.

1.1. Inammissibile per carente esposizione del fatto processuale, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, num. 3, c.p.c..

L’impugnante lamenta, in sostanza, l’errata comprensione, ad opera del giudice di appello, dell’oggetto della domanda: ma di essa omette di riferire – per il tramite della trascrizione, nelle parti di interesse o comunque nei tratti essenziali, dei propri scritti difensivi nel ricorso di adizione di questa Corte – il contenuto in maniera compiuta ed idonea, mancando, in particolare, di precisare se la irregolarità della notificazione fosse stata lamentata con riferimento al preavviso di fermo oppure alla prodromica cartella.

Specificazione tanto più necessaria poichè la gravata sentenza, nella narrazione del fatto processuale, dà conto di vizi notificatori denunciati con riguardo tanto alla cartella quanto al preavviso.

1.2. Ad ogni buon conto, la censura è destituita di fondamento.

La pronuncia in parola ha infatti vagliato nel merito i vizi di regolarità formale di tutti gli atti della riscossione dedotti in lite; ha poi argomentato la irrilevanza delle nullità notificatorie per intervenuta sanatoria facendo richiamo alla conoscenza del destinatario evinta dalla impugnativa proposta contro l’atto, circostanza univocamente riferibile soltanto alla comunicazione preventiva di fermo.

2. Con il secondo motivo, per violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c., si prospetta la giuridica inesistenza della notificazione, avvenuta a mezzo pec, per allegazione alla mail dell’atto in formato.pdf (copia per immagine su supporto informatico) e non già come documento informatico provvisto di firma digitale (.pdf nativo digitale).

2.1. Il motivo – sviluppato in maniera confusa ed aspecifica, dacchè a tratti riferito alla notificazione della cartella, a tratti alla notificazione del preavviso di fermo – è inammissibile.

Sul punto, il giudice territoriale ha ritenuto irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file “pdf nativo” sul rilievo che si trattava di “atto già notificato nell’anno 2017, e quindi ben noto all’opponente, che, per di più, non contesta affatto la sua difformità rispetto all’originale”.

L’argomentare del ricorrente non attinge criticamente la trascritta ratio decidendi: e tanto giustifica l’inammissibilità della doglianza.

2.2. Sol per dovere nomofilattico e nei limiti in cui il suo contenuto è dato evincere dalle modalità di formulazione della censura già rilevate ai fini della sua inammissibilità, si evidenzia la sua infondatezza.

Valorizzando le disposizioni dettate dal D.P.R. n. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 1, comma 1, lett. c), f) ed i-ter), e del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 20, questa Corte ha ripetutamente affermato che “la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”)”, ossia, appunto, un file in formato PDF (portable document format), con l’ulteriore precisazione, che “nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale” (testualmente Cass. 27/11/2019, n. 30948; conf., ex multis, Cass. 05/10/2020, n. 21328; Cass. 08/07/2020, n. 14402).

Donde vizio della notifica per tale ragione non è dato riscontrare.

3. Il terzo mezzo rileva nullità della sentenza per motivazione inesistente ed apparente ex art. 360, comma 1, num. 4, c.p.c., in relazione all’eccepito vizio della notifica per assenza della relata.

3.1. Il motivo è infondato.

Ricorre “motivazione apparente”, causa di nullità della sentenza, quando il giudice ometta di esporre i motivi, in fatto ed in diritto, della decisione, di rendere intellegibile l’iter logico seguito per pervenire al dictum reso, così impedendo la praticabilità di un controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (sulla nozione di “motivazione apparente” cfr., tra le tantissime, Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. U., 22/09/2014, n. 19881; Cass., Sez. U., 21/06/2016, n. 16599; Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. 22232; Cass. 25/09/2018, n. 22598; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Nella vicenda in parola, il giudice territoriale ha compiutamente risposto al rilievo della parte attrice: “quanto alla relata di notifica” ha considerato “il vizio sanato con la proposizione dell’opposizione, avendo l’atto raggiunto il suo scopo, specie qualora non sia contestata la provenienza dell’atto”.

Motivazione sintetica, ma adeguatamente sufficiente, poichè senza dubbio idonea a dare conto delle ragioni fondanti il dictum.

4. Con il quarto motivo, replicando in sostanza le deduzioni già poste a suffragio del secondo, il ricorrente assume violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c.: nuovamente sostiene la giuridica inesistenza della notificazione, dacchè concretata nel caso dalla trasmissione di una mera scansione dell’atto, oltremodo priva della sottoscrizione digitale.

4.2. La doglianza è destituita di fondamento: valgano, a suffragio della conclusione, le argomentazioni già svolte sopra, sub p. 2.2., da intendersi qui integralmente riportate e trascritte, in uno agli operati richiami ai precedenti arresti nomofilattici.

5. Il quinto motivo censura l’operata liquidazione delle spese legali, per violazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c..

Sull’assunto che il valore della controversia era pari ad Euro 1.066,20 (per essere l’impugnativa del fermo limitata alla sola cartella di pagamento per siffatto importo), l’impugnante rileva che i compensi liquidabili secondo i valori medi di tariffa (cui il giudicante aveva fatto richiamo) ammontano ad Euro 640, sicchè erronea risulta la quantificazione degli stessi in Euro 2.025 operata in sentenza.

5.1. La doglianza è inammissibile, ancora una volta per carente esposizione del fatto processuale, in trasgressione del disposto dell’art. 366, comma 1, num. 3, c.p.c..

La narrazione dello svolgimento della vicenda contenziosa compiuta nel libello introduttivo non consente a questa Corte – cui è precluso, per la natura del giudizio di legittimità ed altresì in considerazione del tipo di vizio dedotto, l’accesso ad altre fonti ed atti del processo – una chiara e sicura comprensione dell’esatto thema decidendum devoluto al giudice del merito e sul quale la gravata pronuncia ha statuito.

Più in particolare, la rappresentazione dei motivi dedotti a supporto dell’azione nel merito proposta genera non superabili incertezze circa la direzione della domanda di annullamento, cioè a dire se essa avesse ad oggetto la comunicazione di preavviso di fermo nella sua interezza (come sembrerebbe inferirsi da alcuni vizi denunciati, attinenti alla regolarità formale di tale atto nel suo complesso e, quindi, miranti ad una caducazione integrale dello stesso), oppure soltanto una cartella ad esso sottesa (cartella del valore di Euro 1.066,20, ovvero parte del credito totale azionato con il fermo, pari ad Euro 2.999,08).

Sul punto, non traendosi elementi dalla gravata sentenza, la mancata riproduzione, nel ricorso di adizione di questa Corte, delle conclusioni rassegnate nel giudizio di merito impedisce di poter apprezzare il valore della causa, parametro di determinazione della contestata liquidazione, e, quindi, in ultima analisi, di vagliare la fondatezza nel merito del motivo de quo.

6. Il sesto motivo lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c..

Ad avviso dell’impugnante, è errata la “condanna al pagamento” del raddoppio del contributo unificato per difetto dei presupposti, in specie poichè l’appello non è stato dichiarato nè inammissibile, nè improcedibile nè rigettato integralmente.

6.1. La doglianza è inammissibile.

Basti, sul tema, ribadire il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in ragione della inammissibilità o improcedibilità o dell’integrale rigetto della impugnazione, non ha natura di condanna – non riguardando l’oggetto del contendere tra le parti in causa – bensì la funzione di agevolare l’accertamento amministrativo sulla correlata obbligazione tributaria: la attestazione resa dalla sentenza non può pertanto formare oggetto di impugnazione, restando riservata alla competente sede del giudizio tributaria ogni contestazione ad opera delle parti circa i presupposti della debenza del c.d. doppio contributo (in tal senso, ex multis, Cass. 27/11/2020, n. 27131; Cass. 13/11/2019, n. 29424; Cass. 11/06/2018, n. 15166; Cass. 09/11/2016, n. 22867).

7. Rigettato il ricorso, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado, in ragione della indefensio della parte intimata.

9. Atteso il rigetto del ricorso, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 11 luglio 2023.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 19/12/2022) 05/10/2023, n. 28093

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo – Consigliere –

Dott. POLETTI Dianora – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al R.G.N. 2274/2018 proposto da:

AVV. A.A., in proprio, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIULIA, 66, presso il proprio studio;

– ricorrente –

contro

MARCHIO COSTRUZIONI GENERALI Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6594/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/10/2017; udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/12/2022 dal Consigliere Dott. DIANORA POLETTI.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6594/2017, la Corte di Appello di Roma dichiarava inammissibile il gravame proposto dall’avvocato A.A. contro la sentenza emessa dal Tribunale di Roma n. 5561/2013 per nullità della notifica dell’atto di appello, siccome effettuata in violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, non sanata dalla successiva rinnovazione.

Affermava la Corte che dall’esame di quanto depositato, unitamente all’atto di appello in rinnovazione, si evinceva che l’avvocato notificante, abilitato ai sensi della L. n. 53 del 1994, aveva compilato “”l’avviso di ricevimento della comunicazione di avvenuto deposito della raccomandata” (CAD)”, e non già l’avviso di ricevimento della raccomandata (intendi, quella integrante la notifica a mezzo del servizio postale: n.d.r.); e che, comunque, in tale avviso non risultava indicata la qualità del soggetto che aveva ricevuto l’atto, ma esclusivamente il nominativo di questo, privo di qualunque specificazione in ordine al suo rapporto con il destinatario.

Avverso tale decisione l’avv. A.A. ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.

Marchio Costruzioni Generali Srl è rimasta intimata.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 160 c.p.c., e del principio della tassatività delle nullità.

Sostiene che la prima notificazione dell’atto di appello, effettuata al difensore domiciliatario, notificazione in forza della quale era stata dichiarata la contumacia della società in allora appellata, era pienamente legittima, non rinvenendosi nella L. 53 del 1994, art. 3, alcuna prescrizione di riscontrare nella ricevuta di ritorno l’indicazione della qualifica del destinatario, stante la tassatività delle nullità e l’operatività di questo rimedio solo quando vi è incertezza sulla persona a cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data di notifica.

Inoltre, l’atto che dispone la rinnovazione della notifica, quando una rituale notifica vi sia già stata, deve ritenersi nullo ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

2. – Con il secondo motivo il ricorrente espone la violazione di legge con riferimento agli artt. 156, 160, 162, 164, 183, 291 e 359 c.p.c..

Deduce che la ritenuta nullità della notifica, successiva alla declaratoria di contumacia, deve condurre alla rinnovazione della medesima, con termine da concedere all’appellante. La decisione è dunque illegittima per violazione dell’art. 156 c.p.c., che detta il principio di tassatività delle nullità e dell’art. 160 c.p.c., secondo cui la nullità opera solo in caso di incertezza assoluta sulla persona del destinatario. Nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, qualora l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento nello spazio appositamente riservato e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario stesso fino a querela di falso.

3. – I successivi tre motivi ripropongono le questioni di merito non esaminate dalla Corte di appello, che il ricorrente richiama per evidenziare l’interesse specifico all’annullamento della sentenza.

4. – Entrambi i suddetti motivi – da esaminare congiuntamente per la loro interconnessione – sono infondati, a stregua della documentazione così come depositata agli atti (che questa Corte è chiamata ad esaminare, essendo stato dedotto un error in procedendo), sebbene debba correggersi, ai sensi dell’art. 384, u.c., la motivazione della pronuncia impugnata.

4.1. – La Corte d’appello, sciogliendo la riserva espressa all’udienza dell’11.2.2014 (v. pag. 10 del ricorso), dichiarò la nullità della notificazione dell’atto introduttivo, effettuata a mezzo del servizio postale dall’avv. A.A., per violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, ne dispose per la rinnovazione e, all’esito, all’udienza del 28.10.2014 (v. pag. 11 del ricorso) dichiarò la contumacia della parte appellata. Salvo, poi, re melius perpensa revocare tale dichiarazione e decidere l’appello dichiarandone l’inammissibilità per le ragioni indicate supra in narrativa.

Due, pertanto, le questioni poste dal ricorso: a) se sia legittima la declaratoria di nullità della notifica dell’atto d’appello; e solo in caso affermativo, b) se sia stata, a sua volta, validamente rinnovata tale notificazione, in ottemperanza dell’ordine della Corte territoriale.

4.1.1. – Riguardo alla prima questione, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di notifica a mezzo del servizio postale la L. n. 890 del 1982, consente (non diversamente da quanto dispone l’art. 139 c.p.c., per la notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario), la ricezione dell’atto da parte di un soggetto diverso dal destinatario attraverso la previsione di una successione preferenziale tassativa e vincolante delle categorie di persone alle quali la copia deve essere consegnata, successione che presuppone la necessità, ai fini della validità della notifica, dell’assenza di coloro che si trovino in posizione di precedenza per giustificare la consegna a soggetti appartenenti alla categoria successiva. E di tale assenza o rifiuto l’ufficiale postale (o l’ufficiale giudiziario) deve dare atto nell’avviso di ricevimento (o nella relata). Ne consegue che è nulla la notifica effettuata a mani del portiere dello stabile, allorquando la relazione dell’ufficiale postale non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o dell’assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale (persona di famiglia, addetta alla casa o al servizio) (così Cass. n. 6021/07).

Nè tale assenza può desumersi o ritenersi altrimenti implicata dalla consegna stessa del piego al portiere. Un siffatto ragionamento equivarrebbe a eludere l’attestazione di cui sopra e, con essa, la necessità di osservare l’anzidetto ordine di preferenza nella consegna, che resterebbe di fatto vanificato.

A sua volta, tale nullità può essere sanata (oltre che dalla costituzione della parte convenuta, anche) qualora sia provata la ricezione della raccomandata semplice, c.d. informativa, contenente la notizia dell’avvenuta notificazione. Quest’ultima, infatti, non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazioni a mezzo posta, ma solo al regolamento postale, sicchè, ai fini della sua validità, è sufficiente che il plico sia consegnato al domicilio del destinatario e che il relativo avviso di ricevimento sia sottoscritto dalla persona rinvenuta dall’ufficiale postale, non essendo necessario che da esso risulti anche la qualità del consegnatario o la sua relazione con il destinatario (v. Cass. nn. 24899/22 e 19795/17).

Nella specie, parte ricorrente ha depositato il duplicato dell’avviso di ricevimento della notificazione dell’atto d’appello, che risulta effettuata a mezzo del servizio postale con raccomandata a.r. n. (Omissis), sub n. reg. cronologico 144. Tale duplicato, rilasciato dall’ufficio postale il 6.2.2014, attesta che la ridetta raccomandata (indirizzata all’avv. Matteo Serva, difensore in primo grado della società convenuta in appello) è stata consegnata il (Omissis) “a firma: portiere dello stabile” (così, testualmente). Nella parte centrale di tale duplicato si rileva, inoltre, un timbro rettangolare ove si legge “Emessa racc.ta n. (Omissis) del (Omissis)”, nonchè, a lato, una stampigliatura verticale dicente “regolarizzato d’ufficio”.

In tale duplicato manca, per contro, qualsiasi attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o dell’assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale rispetto a quella del portiere.

E’ probabile che la raccomandata emessa sotto il n. (Omissis) in data (Omissis) altro non sia che la raccomandata semplice prevista in funzione informativa, non essendovi stata consegna diretta al destinatario. Ma non risulta affatto che essa sia stata ricevuta, per cui la nullità della notificazione, per le superiori ragioni indicate, permane e non può ritenersi sanata.

Nè ha pregio alcuno l’assunto del ricorrente secondo cui la notificazione è nulla, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., solo se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta: la norma invocata, infatti, prevede quale causa di nullità anche l’inosservanza delle disposizioni circa la persona cui deve essere consegnata la copia dell’atto.

4.1.2. – Quanto alla seconda questione, va premesso che è nulla la notifica dell’atto d’appello a mezzo del servizio postale ove nella relazione di notificazione sia indicato solo il nome del consegnatario ma non il suo rapporto con il destinatario, a meno che l’appellante non deduca e dimostri la sussistenza, tra consegnatario e destinatario, di uno dei rapporti richiesti dalla legge per la validità della notificazione (cfr. Cass. nn. 4400/08, 4942/94, 304/73 e 2475/72).

Nella specie, si rileva che la ricevuta di ritorno della raccomandata a.r. n. (Omissis), contenente l’atto di citazione in rinnovazione, oltre ad essere stata redatta sul diverso modulo previsto per la “comunicazione di avvenuto deposito” di atto giudiziario, reca la sottoscrizione del ricevente (B.B., persona diversa dal destinatario), ma non anche la specificazione della qualità rivestita.

Nè vale il richiamo, operato da parte ricorrente, a S.U. n. 9962/10, che concerne una fattispecie del tutto diversa. Infatti, detto precedente afferma che nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, con grafia illeggibile, nello spazio relativo alla “firma del destinatario o di persona delegata”, e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2 (corsivo di questo estensore), la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, a nulla rilevando che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 c.p.c..

Nel caso di specie, invece, è indiscusso e indiscutibile che la consegna sia avvenuta a mani non del destinatario (avv. Matteo Serva), ma di un altro soggetto, di cui, però, l’avviso di ricevimento non indica la qualità.

5. – Il rigetto dei primi due motivi assorbe l’esame dei restanti, peraltro di per sè inammissibili, in quanto aventi ad oggetto questioni rimaste assorbite nel grado d’appello.

6. – Il ricorso è, dunque, respinto.

7. – Nulla per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

8. – Segue il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 19/12/2022) 28/09/2023, n. 27540

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo – Consigliere –

Dott. POLETTI Dianora – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al R.G.N. 4468/2018 proposto da:

A.A., rappresentata e difesa dall’avvocato FEDERICA MONTESI, giusta procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE, 44, presso lo studio dell’avvocato AGNESE LATERZA CRISTOFARO, rappresentato e difeso in proprio e dall’avvocato FRANCESCO MARIA D’ACUNTO, giusta procura speciale in atti;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di RAVENNA, depositata il 26/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/12/2022 dal Consigliere Dott. DIANORA POLETTI.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., l’avv. B.B. chiedeva al Tribunale di Ravenna la condanna di A.A. al pagamento dei corrispettivi professionali conseguenti all’attività di rappresentanza e assistenza legale svolta in suo favore nel procedimento iscritto al r.g. n. 2697/2009 promosso dai coeredi C.C. e D.D. davanti al Tribunale di Napoli, conclusosi con transazione del (Omissis).

A.A. rimaneva contumace.

2. Con ordinanza del 26/11/2016 il Tribunale di Ravenna liquidava al ricorrente, per l’attività professionale svolta in favore di A.A., il compenso di Euro 14.442,00 oltre al 15% per spese generali, Iva e contributi di legge, al lordo dell’acconto già versato di Euro 3.000,00, oltre agli interessi legali della domanda al soddisfo e alle spese del procedimento.

3. Avverso tale ordinanza A.A. ha proposto ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., notificato il 19.1.2018, basato su un unico motivo.

4. L’avv. B.B. ha resistito con controricorso, corredato da memoria depositata in prossimità dell’udienza, insistendo nella dichiarazione di inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso.

Motivi della decisione
1.- Con l’unico motivo del ricorso A.A. deduce la nullità della notificazione del ricorso introduttivo ex art. 702 bis c.p.c. del procedimento iscritto al R.G. n. 761/2016 presso il Tribunale di Ravenna e la nullità della notificazione dell’ordinanza in forma esecutiva ai fini dell’idoneità a far decorrere il termine breve per la proposizione del mezzo di gravame, per violazione e falsa applicazione degli artt. 138, 139, 140 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere stata la stessa eseguita presso la sua residenza anagrafica in assenza del requisito della temporanea/precaria assenza della resistente, senza aver tenuto conto della residenza effettiva e/o del domicilio effettivo.

Sostiene la ricorrente che in data (Omissis) (data del mancato ritiro entro il decimo giorno del ricorso introduttivo iscritto al RGN 761/2016 del Tribunale di Ravenna) la stessa non aveva la residenza effettiva in (Omissis), bensì a (Omissis), nonchè era in carica – svolgendo attività di magistrato – presso la Corte di Appello di Milano, per cui la notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., a (Omissis) nella residenza anagrafica doveva essere dichiarata nulla. Di conseguenza, la nullità dell’intero procedimento e dell’ordinanza impugnata.

Analogamente, sostiene, è nulla la notificazione dell’ordinanza impugnata in forma esecutiva, formulata ai fini della decorrenza del termine per la proposizione del ricorso straordinario per Cassazione.

Aggiunge la ricorrente di essere venuta a conoscenza del procedimento di cui è causa solo nel mese di (Omissis), in occasione dell’inizio delle trattenute sulla sua retribuzione a seguito del pignoramento presso terzi avviato dall’avv. B.B..

2.- Il motivo è fondato e merita accoglimento.

In primo luogo, è priva di pregio è l’eccezione del controricorrente che invoca l’avvenuta decorrenza del termine “lungo” semestrale dal deposito dell’ordinanza anche per la proposizione del ricorso straordinario per cassazione, e dunque la tardività dello stesso. Infatti, la disposizione dell’art. 327 c.p.c., comma 1, non si applica, per l’espressa previsione di cui al comma 2 del medesimo articolo, nel caso in cui la parte contumace dimostri la ricorrenza di due presupposti, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo, consistenti nel non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa.

Presupposti, entrambi, che ricorrono nella specie, per le ragioni che seguono.

La costante giurisprudenza di questa Corte, con riguardo alla notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., presso la residenza anagrafica del destinatario dell’atto, in realtà dimorante stabilmente altrove, ha affermato che la notifica deve ritenersi correttamente eseguita solo qualora non possa addebitarsi al notificante l’inosservanza dell’obbligo di ordinaria diligenza nell’accertamento dell’effettiva residenza del destinatario della stessa (v. Cass. n. 19473/2007, n. 16941/2003, n. 2230/1998, n. 10248/1991). E’ stato precisato che la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non è valida anche se effettuata nel luogo di residenza del destinatario risultante dai registri anagrafici, nell’ipotesi in cui questi si sia trasferito altrove e il notificante ne abbia conosciuto, ovvero con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto conoscerne, l’effettiva residenza, dimora o domicilio, dove è tenuto ad effettuare la notifica stessa, in osservanza dell’art. 139 c.p.c. (Cass. n. 30952/2017; 11369/2006; n. 16941/2003; v. anche Cass. n. 3590/2015; n. 30952/2017).

L’orientamento tiene conto dell’efficacia meramente presuntiva delle risultanze anagrafiche: è stato infatti riconosciuto che “la circostanza secondo la quale nell’indirizzo risultante dai registri anagrafici si trovi la residenza effettiva del destinatario costituisce mera presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova, in quanto non coperta dalla fidefacenza della relata” (Cass. n. 4274/2019).

Inoltre, la prova della mancata conoscenza del processo a causa della nullità della notifica della citazione può essere fornita, a sua volta, mediante l’impiego di presunzioni (giurisprudenza anch’essa costante di questa Corte: cfr. ex multis nn. 26427/17 e 19225/07).

Nel caso di specie, tanto la nullità della notifica della citazione quanto la prova della mancata conoscenza del processo a causa di ciò, si traggono dal fatto che l’effettiva residenza, dimora o domicilio della A.A. in luogo diverso dalla residenza anagrafica era ed è agevolmente ritraibile dall’attività di magistrato svolta dalla medesima in altra sede, circostanza, questa, di cui l’avv. B.B. era a perfetta conoscenza, come si ricava dalle dichiarazioni contenute nell’atto introduttivo del giudizio, riportate a pag. 7 del ricorso.

Se ne deve trarre, pertanto, sia la nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di merito, sia la prova, di tipo presuntivo, che l’odierna ricorrente non abbia appreso del procedimento a causa di tale nullità.

3.- In conseguenza dell’accoglimento del motivo, l’ordinanza impugnata deve essere cassata con rinvio al Tribunale di Ravenna, in altra composizione collegiale, che provvederà a decidere nuovamente la causa nel merito e a regolare anche le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Ravenna, in diversa composizione collegiale, anche per le spese del presente giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 19 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 12/09/2023) 21/09/2023, n. 27007

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. BILLI Stefania – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7121/2016 proposto da:

EQUITALIA SUD Spa in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Michela Nocco ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Bianca Maria Casadei in Roma, Via San Giovanni in Laterano n. 226/210;

– ricorrente –

contro

A.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Maria Giannini il quale dichiara di voler ricevere le notificazioni comunicazioni all’indirizzo di posta elettronica certificata (Omissis).

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1825/11/15 della Commissione tributaria Regionale della Puglia, depositata il 7/9/2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/9/2023 dal Consigliere Dott. Stefano Pepe.

Svolgimento del processo
Che:

1. La Commissione tributaria regionale della Puglia (CTR) con la sentenza n. 1825/11/2015, depositata il 7.9.2015, accoglieva l’appello del contribuente sul rilievo che le cartelle di pagamento, poste a fondamento delle intimazioni di pagamento impugnate, erano state notificate mediante servizio postale in violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26 in quanto tale notifica era avvenuta ad opera del Concessionario, soggetto non abilitato. In ragione di ciò, conclude la CTR, la suindicata notifica doveva considerarsi inesistente. I giudici di merito osservavano, poi, che il Concessionario non aveva dato prova dell’avvenuta emissione e notifica (avvenuta in plico chiuso) delle cartelle, non essendo all’uopo sufficiente: il deposito della cartolina di ricevimento della raccomandata, la notificazione delle successive intimazioni di pagamento, le fotocopie degli estratti di ruolo.

2. Avverso tale sentenza Equitalia Sud Spa propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

3. A.A. ha depositato controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo Equitalia Sud Spa deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26. La ricorrente rileva che l’art. 26 cit., diversamente da quanto affermato dalla CTR, consente al Concessionario di avvalersi direttamente del servizio postale per la notifica degli atti impositivi, rappresentando tale notifica una forma alternativa alle altre previste dalla stessa disposizione.

2. Con il secondo motivo si lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e dell’art. 115 c.p.c., per avere la CTR, a fronte dell’eccezione della parte di non aver ricevuto le cartelle, ritenuto la produzione documentale offerta quale prova dell’avvenuta notifica delle cartelle, ovvero le copie conformi delle ricevute di ritorno delle raccomandate attestanti la consegna delle stesse, insufficienti a fornire la prova richiesta. Rileva la ricorrente l’erroneità di tale affermazione, tenuto conto anche della produzione in copia conforme degli estratti di ruolo in cui erano riportate le cartelle, di talchè con tale ultima produzione, unitamente a quella suindicata, risultava assolto l’onere probatorio imposto al Concessionario e la legittimità della pretesa azionata nei confronti del contribuente.

La censura in esame teneva, altresì, conto della circostanza che il A.A. aveva lamentato l’omessa notifica delle cartelle non avendo, al contrario, mai contestato il contenuto degli atti notificati.

3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2719 c.c. e del D.L. n. 669 del 1996, art. 5, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR affermato che le copie delle ricevute di ritorno delle raccomandate con le quali erano state notificate le cartelle di pagamento, non erano idonee a provare l’avvenuta notifica. In particolare, la CTR non aveva tenuto conto del fatto che erano state depositate copie conformi agli originali (delle quali il contribuente non aveva mai negato la veridicità) e non mere fotocopie avendo, poi, del tutto omesso di valutare il potere certificativo del Concessionario ex art. 5 cit..

4. In via preliminare va rilevato che nessun rilievo, ai fini della richiesta interruzione del giudizio, assume l’avvenuto decesso del contribuente comunicato dal procuratore dello stesso. Ed invero, nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, nè consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo (Cass. n. 1757 del 2016 Rv. 638717 – 01).

5. Il primo motivo è manifestamente fondato.

Nella specie è incontroverso che l’agente della riscossione ha provveduto alla notifica diretta a mezzo del servizio postale, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26 delle cartelle di pagamento.

Il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, nel testo vigente ratione temporis prevedeva che “La cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal comma 2 o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda. (omissis). Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.

Per effetto di tale disposizione la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte dell’art. 26 cit. prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, comma penultimo, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione.

Quanto sopra trova conferma nell’indirizzo univoco di questa Corte (ex plurimis Cass. n. 10037 del 2019 Rv. 653680 – 01 e n. 1686 del 2023 Rv. 666661 – 01) secondo cui “La notificazione a mezzo posta della cartella esattoriale da parte del concessionario della riscossione (ora ADER) eseguita mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 si perfeziona, secondo la disciplina del D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39 con la consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona, individuata come legittimata alla ricezione, apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente. Ne consegue che, qualora nell’avviso di ricevimento manchino le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato (adempimento non previsto da alcuna norma) e la relativa sottoscrizione non risulti intellegibile, l’avviso di ricevimento, in quanto atto pubblico, è assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c. avuto riguardo alla relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è consegnato (oggetto del preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale)”.

Risulta da quanto sopra del tutto errata l’affermazione della CTR circa l’inesistenza della notifica della cartella fondata sul rilievo che il Concessionario non poteva all’uopo effettuarla mediante il servizio postale.

6. Il secondo e il terzo motivo, da trattarsi congiuntamente stante la loro connessione, sono manifestamente fondati. In tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, la prova del perfezionamento del procedimento di notifica e della relativa data è assolta mediante la produzione della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento, recanti il numero identificativo della cartella, non essendo necessaria la produzione in giudizio della copia o dell’originale della cartella stessa (ex plurimis e da ultimo Cass. n. 8201 del 2023). Nel caso di specie, la CTR dà conto dell’avvenuta produzione, da parte dell’agente della riscossione, delle copie fotostatiche delle relate di notifica delle cartelle e dei relativi estratti di ruolo, e la conformità delle copie agli originali non risulta essere stata posta in discussione dal contribuente. L’estratto di ruolo, inoltre, è l’equipollente della matrice, in quanto è la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale, che contiene tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l’ammontare della pretesa creditoria (cfr. Cass. n. 16121 del 2019, Cass. n. 33563 del 2018, Cass. n. 23902 del 2017).

7. In accoglimento dei motivi, la sentenza deve essere cassata con rinvio al giudice di merito per la valutazione delle ulteriori doglianze sollevate dal contribuente.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per la Puglia in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 12 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2023


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 13/06/2023) 31/08/2023, n. 25544

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERTUZZI Mario – Presidente –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. TRAPUZZANO Cesare – Consigliere –

Dott. CAPONI Remo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28812/2020 proposto da:

Unione (Omissis), difesa dall’avvocato Alessandra Tuffanelli;

– ricorrente –

contro

A.A., difeso dall’avvocato Nicola Rigobello e domiciliato in Roma presso lo studio dell’avvocato Luigi Fedeli Barbantini;

-controricorrente-

contro la sentenza del Tribunale di Ferrara n. 269/2020 depositata il 21/05/2020.

Ascoltata la relazione del consigliere Remo Caponi nella camera di consiglio del 13/06/2023.

Svolgimento del processo
Nel 2018 A.A. proponeva opposizione dinanzi al Giudice di Pace di Ferrara avverso il verbale di contestazione della violazione dell’art. 142 comma 9 C.d.S., emesso dalla Polizia locale appartenente alla Unione (Omissis), per eccesso di velocità rispetto al limite di 70 Km/h, con sanzione di circa Euro 550 e decurtazione di sei punti sulla patente di guida. Il ricorrente faceva valere l’omesso rispetto della distanza minima di un chilometro tra il segnale di limite di velocità e l’autovelox, di cui all’art. 25 comma 2 l. 120/2010 e capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017.

Rigettata in primo grado, l’opposizione è stata accolta in secondo grado. Ricorre in cassazione l’Amministrazione con tre motivi. Resiste il privato con controricorso.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo si censura che il giudice di appello abbia rilevato d’ufficio la questione relativa all’omesso rispetto della distanza minima di un chilometro tra il segnale di limite di velocità e l’autovelox, requisito ex art. 25 comma 2 l. 120/2010 e capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017. Si allega che tale questione non è stata dedotta dal ricorrente, che si è limitato a dedurre il difettoso posizionamento dell’auto-velox rispetto al segnale di preavviso della presenza di postazione di rilevazione. Si deduce quindi si deduce violazione degli artt. 112 c.p.c., 204 C.d.S., 7 D.Lgs. n. 150 del 2011.

Censurato è il seguente ragionamento del Tribunale: è da esaminare la questione sollevata dal privato nelle note conclusive, poichè offre all’attenzione un argomento difensivo diverso da quello che insiste sul difettoso posizionamento dell’autovelox rispetto al segnale di preavviso, fatto valere con il terzo motivo di appello. Peraltro, tale questione, relativa al mancato rispetto della distanza minima tra il segnale di limite di velocità e la postazione di rilevazione, è fondata su norme giuridiche ed è pertanto rilevabile d’ufficio.

La censura del ricorrente invoca tra l’altro Cass. 24037/2020, ove si statuisce che nel giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione, il giudice incontra il divieto ex art. 112 c.p.c. di rilevare d’ufficio vizi diversi da quelli fatti valere con l’atto introduttivo, nel senso che egli non può fondare la decisione su fatti estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo diverso da quello allegato dalla parte.

Il primo motivo non è fondato.

Risulta dagli atti che una delle ragioni dell’impugnazione del verbale è “l’illegittimo posizionamento dell’apparecchiatura per il rilevamento automatico della velocità ad una distanza inferiore a 1 km dal cartello segnalatore della velocità consentita”, che è il motivo sul quale il giudice ha fondato l’accoglimento dell’opposizione.

Ciò assorbe l’altra questione: se il ricorrente non avesse fatto valere il mancato rispetto della distanza minima tra segnale di limite della velocità e autovelox, ci si potrebbe domandare infatti se davvero l’ac-coglimento dell’opposizione sotto tale profilo avrebbe urtato contro l’orientamento della giurisprudenza di legittimità invocato dal ricorrente, una volta che si dia adeguato peso alle circostanze che il difettoso posizionamento della postazione di rilevazione della velocità rispetto a precedenti segnalazioni è comunque entrato a far parte della materia del contendere e che il predetto orientamento giurisprudenziale è maturato in relazione ad effettive deviazioni della pronuncia del giudice rispetto alla materia del contendere. Cfr. in particolare Cass. 13751/2006: il privato fu sanzionato per inosservanza di una normativa Europea; egli fece opposizione lamentando (unicamente) di averla rispettata; il giudice accolse l’opposizione perchè vide che il verbale non recava l’indicazione del luogo in cui era stata accertata la violazione.

Il primo motivo è rigettato.

2. – Con il secondo motivo si censura che il capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017 di attuazione dell’art. 25 comma 2 l. 120/2010 non sia stato disapplicato ex artt. 3 Cost., 4, 5 l. 2248/1865 All. E. La censura è argomentata come segue: secondo l’art. 25 comma 2 l. 120/2010, “fuori dei centri abitati (gli autovelox) non possono comunque essere utilizzati o installati ad una distanza inferiore ad un chilometro dal segnale che impone il limite di velocità” (il corsivo è del Collegio). Ciò consente all’utente di avere a disposizione uno spazio ragionevole per diminuire la velocità al fine rispettare il limite. Tale ragione giustificatrice delimita l’ambito di applicazione del limite minimo di distanza alle ipotesi in cui vi è un segnale che imponga di abbassare il limite di velocità (per la prima volta) e non di un segnale che ripeta (in modo inalterato) il limite precedente. Tuttavia, il capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017 dispone: “Nel caso di diverso limite massimo di velocità anche lungo un solo ramo della intersezione, sia maggiore che minore (il corsivo è del Collegio) rispetto a quello ripetuto dopo l’intersezione, la distanza minima di un chilometro si computa dopo quest’ultimo in modo da garantire a tutti gli utenti della strada in approccio alla postazione lo stesso trattamento”. La parte ricorrente considera che tale disposizione regolamentare sia irragionevole ex art. 3 Cost. poichè equipara il caso dell’intersezione di strada ove il limite di velocità è minore (come nel caso di specie in cui si allega che la strada dalla quale è provenuto il privato incontri il limite di velocità di 50 km orari) con il caso di intersezione di strada ove il limite di velocità è maggiore.

Il secondo motivo non è fondato.

L’argomento letterale invocato dall’amministrazione a fondamento della richiesta di disapplicazione di un decreto governativo in danno del cittadino è di insostenibile fragilità e si può rovesciare, argomentando con pari persuasività che il segnale di limite di velocità, poichè prescrive un divieto (di superare quella velocità), segnala in ogni caso un’impo-sizione, indipendentemente dall’esistenza di un precedente limite e dall’entità di tale limite. Si aggiunga che il decreto ministeriale si informa a un’esigenza di uniformità semplificante che difficilmente lo espone a rilievi sul fronte della ragionevolezza ex art. 3 Cost. Infine, ove mai tali rilievi potessero trovare ingresso con effetto di disapplicazione, il privato sarebbe assoggettato a una sanzione amministrativa in forza di un parametro normativo concretizzatosi nell’occasione del giudizio e non già prima della commissione della violazione.

Il secondo motivo è rigettato.

3. – Con il terzo motivo, in via ulteriormente subordinata, si denuncia che il privato non abbia allegato di essersi immesso nella strada provinciale di cui è causa dall’unica strada recante un limite di velocità (50 chilometri orari) inferiore. Si lamenta il mancato rilievo del difetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. Il terzo motivo è inammissibile, poichè è diretto a far valere una questione irrilevante rispetto alla pronuncia che ha annullato il verbale di violazione del codice della strada per il posizionamento dell’autove-lox ad una distanza inferiore ad un chilometro dal segnale di limite di velocità.

4. – Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

Inoltre, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista a titolo di contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della parte controricorrente, che liquida in Euro 550, oltre a Euro 100 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi e agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista a titolo di contributo unificato per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2023


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 20/06/2023) 20/07/2023, n. 21607

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. FEDELE Ileana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25305-2022 proposto da:

A.A., rappresentato e difeso dagli avv.ti Vittorio Perria, e Martina Vacca, con domicilio digitale presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dei difensori D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 sexies conv. con modif. in L. n. 221 del 2012;

– ricorrente –

contro

Comune di Arzachena, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Forgiarini, dirigente dell’avvocatura comunale, con domicilio digitale presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dell’avvocatura inserito nel pubblico elenco “Reginde”: avvocatura.pec.c.omunearzachena.it;

avverso la sentenza n. 123/2022 della Corte d’appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari, depositata il 19/08/2022 r.g.n. 41/2022;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2023 dal Consigliere Dott. Ileana Fedele;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Fresa Mario, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo
1. – La Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ha respinto il reclamo proposto ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, da A.A., dipendente del Comune di Arzachena in qualità di Comandante del Servizio di Polizia Locale, in ordine all’impugnazione del licenziamento intimatogli in data 27 febbraio 2018 per falsa attestazione della presenza in servizio D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 quater.

2. – Per quanto qui rileva, la Corte territoriale dopo aver analiticamente illustrato le vicende processuali e le valutazioni rese nelle precedenti fasi dal Tribunale di Tempio Pausania, ha ritenuto infondati i motivi di gravame sulla base dei seguenti rilievi.

2.1. – Al lavoratore era contestato “l’allontanamento dal luogo di lavoro per motivi privati senza far risultare tale assenza mediante l’utilizzo del dispositivo marcatempo” nei giorni e nelle ore riportate nella raccomandata del 17 gennaio 2018, comportamento integrante la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, n. 1, lett. a), cui era seguita la sanzione del licenziamento senza preavviso.

2.2. – L’istruttoria svolta aveva confermato le uscite e i rientri del lavoratore dal Municipio del Comune di Arzachena senza attivare l’utilizzo del badge.

2.3. – Il lavoratore, senza negare in fatto le circostanze contestate, le aveva ritenute giustificate per essere stato assolto dal Giudice per l’udienza preliminare perchè il fatto non sussiste; la difesa si fondava sulla natura delle funzioni svolte, in virtù delle quali il lavoratore non era tenuto a utilizzare il badge per documentare la presenza in ufficio, non essendo neppure vincolato all’osservanza di un orario di lavoro oltre quello minimo di trentasei ore previsto contrattualmente, orario minimo che non era controverso che egli avesse sempre rispettato, senza che fosse stato arrecato alcun pregiudizio economico al datore di lavoro, non avendo percepito alcun compenso per lavoro straordinario ovvero riposi compensativi, avendo al contrario svolto attività lavorativa ben oltre detto orario minimo; ove avesse timbrato in uscita sarebbe stato privato della tutela antinfortunistica assicurata dall’INAIL nonchè della qualifica di agente di polizia; il luogo di lavoro non era il Municipio ma, per esigenze di servizio, l’intero territorio comunale; quale responsabile delegato del servizio di protezione civile era tenuto a conoscere tempestivamente le allerte della protezione civile, conoscenza che, in quel periodo, poteva acquisire solo dal personale computer di casa, atteso che quello di ufficio non era accessibile a causa di un sistema di protezione aggirabile solo in presenza del dipendente che lo aveva installato, all’epoca assente per malattia; aveva continuato a lavorare anche dalla propria abitazione mediante l’utilizzo del cellulare, ricetrasmittente e personal computer;

2.4. – Le giustificazioni addotte non erano fondate posto che: il comportamento sanzionato dall’art. 55 quater è quello del pubblico dipendente che fa apparire di essere in servizio (che ben può svolgersi anche in luogo diverso dall’ufficio dove è situato l’apparecchio marcatempo) mentre in realtà è impegnato in attività estranee a quelle d’ufficio oppure è in luoghi diversi da quelli dove avrebbe dovuto recarsi per dovere di ufficio; tra tali luoghi vi è l’abitazione privata, salvo che il lavoratore sia a ciò previamente autorizzato, circostanza non allegata nè documentata nel caso di specie, non essendo stato giustificato perchè, dopo essersi recato presso l’abitazione per accedere al sito della protezione civile, non avesse poi fatto ritorno in ufficio per svolgere le attività necessarie, essendo incontestabile che il lavoratore avesse scelto di rimanere a casa ben oltre il tempo necessario per accedere al sito della protezione civile, circostanza comunque inidonea a giustificare il contestato comportamento per ventisei giorni per un totale di ottanta ore (apparendo comunque inverosimile la dedotta necessità di recarsi presso l’abitazione per accedere al sito della protezione civile, inaccessibile dall’ufficio). Parimenti irrilevanti le circostanze del rispetto dell’orario minimo di lavoro e dell’assenza dell’obbligo di rispettare un orario di lavoro per il tempo successivo, visto che il lavoratore era stato autorizzato a svolgere lavoro straordinario per fruire di giorni compensativi ovvero per la corresponsione di compenso straordinario, nei limiti delle risorse finanziarie, non essendo, di contro, autorizzato ad omettere l’utilizzo del cartellino marcatempo per la quantificazione del lavoro straordinario, il cui uso era dunque necessario per ottenere il relativo trattamento economico ovvero il riposo compensativo (di cui il A.A. aveva concretamente usufruito il (Omissis)), assumendo rilievo non già la concreta percezione di emolumenti ma il compimento di attività preordinate a conseguire tale utilità.

2.5. – Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto irrilevante il giudicato penale di assoluzione ex art. 425 c.p.p., in quanto tale sentenza era fondata sulle dichiarazioni del lavoratore di non essere tenuto a registrare le entrate e le uscite in ufficio e di non essere tenuto all’osservanza di un orario di lavoro prefissato ex art. 39 del regolamento della polizia locale, non avendo percepito alcun compenso ed avendo svolto attività di responsabile delegato del COC ed attività investigativa accedendo ai posti di indagine. La sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal giudice per l’udienza preliminare non era ostativa al giudizio disciplinare, non essendo comunque preclusa una diversa valutazione dei fatti con il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento svolto sul piano materiale in sede penale. La contestazione disciplinare aveva ad oggetto la condotta del lavoratore che, uscito dalla sede della polizia senza timbrare, si era recato presso la propria abitazione e non anche le diverse condotte in cui il predetto, uscito senza utilizzare il badge, aveva svolto attività di servizio sul territorio (la contestazione, quindi, atteneva all’essersi recato ripetutamente, per ben ventisei giorni, per un totale di ottanta ore, in meno di tre mesi di indagine, nella propria abitazione senza fare uso del badge).

2.6. – In questo senso, era improprio il richiamo alla normativa antinfortunistica INAIL, perchè tendeva ad estendere tale tutela anche all’abitazione privata in assenza di autorizzazione o indicazione scritta del datore per l’utilizzo di quest’ultima quale luogo di lavoro, mentre la qualifica di ufficiale di polizia, ai sensi dell’art. 57 c.p., prescindeva dall’orario di lavoro, e non poteva reputarsi illegittima se svolta oltre tale orario.

2.7. – Pertanto, erano irrilevanti le prove articolate, perchè non avrebbero corrisposto alla prova di aver sempre svolto attività lavorativa presso l’abitazione, e parimenti irrilevanti, anche se sotto diverso profilo, erano i capi di prova relativi all’attività svolta in luogo diverso dalla propria abitazione. Irrilevante, infine, anche la richiesta di acquisizione dei tabulati e dell’hard disk del personal computer, dovendosi dimostrare tramite tali acquisizioni che il lavoratore aveva svolto attività lavorativa per tutto il periodo in cui si trovava presso l’abitazione.

2.8. – Integrata la fattispecie contestata, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater (sotto il profilo della falsa attestazione in ordine alle registrazioni in entrata e in uscita, in quanto la condotta si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili, idonea ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro), è risultata altresì proporzionata la sanzione espulsiva in relazione alla gravità dei fatti (reiterazione in breve arco di tempo, sistematicità della condotta), che incide sull’elemento fiduciario del rapporto, anche in considerazione del ruolo istituzionale ricoperto.

2.9. La Corte territoriale ha altresì escluso la natura ingiuriosa del licenziamento, in condivisione delle valutazioni espresse dal primo giudice, considerate le dichiarazioni rese dal Sindaco alla stampa e gli articoli di giornali, da cui non emergeva la prova che la notizia fosse stata divulgata da parte dell’amministrazione, essendosi il Sindaco limitato a rispondere alle domande del giornalista, a conferma di una notizia di cui il medesimo giornalista appariva essere già a conoscenza.

3. – Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il A.A. articolando sette motivi, cui resiste il Comune di Arzachena con controricorso.

4. – Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

5. Le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, anche in relazione al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 62 e all’art. 13 del regolamento del servizio di polizia locale del comune di Arzachena, prospettando un’indebita confusione tra la nozione di “luogo di lavoro” e quella di “presenza in servizio”.

1.1. – Il motivo è infondato, stante il consolidato indirizzo di questa Corte, da cui non vi sono motivi per discostarsi (Cass. Sez. L, 06/09/2016, n. 17637, Cass. Sez. L, 14/12/2016, n. 25750, Cass. Sez. L, 24/05/2021, n. 14199), secondo cui integra la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater anche l’assenza intermedia dal luogo di lavoro fra le timbrature di entrata ed uscita, circostanza che sussiste nel caso di specie, come accertato sul piano fattuale dal giudice di merito (in senso conforme, più di recente, per una fattispecie di rientro presso l’abitazione nonostante le registrazioni del tesserino attestassero la presenza del lavoratore in ufficio, in base all’accertamento di fatto svolto dal giudice di merito, Cass. Sez. L, 06/03/2023, n. 6660).

1.2. – Quanto alla giustificazione addotta dal A.A., relativa alla possibilità, in ragione delle mansioni svolte, di eseguire la prestazione anche al di fuori dall’ufficio e pure dall’abitazione, ciò non vale di per sè ad escludere che il lavoratore fosse comunque tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo rispettare un orario minimo (irrilevante, che, in concreto svolgesse più ore), trovandosi comunque a dover giustificare perchè, in concreto, avesse scelto di lavorare da casa invece che presso la sede di servizio, ciò che evidenzia l’alterazione indotta dall’apparente presenza in ufficio in virtù delle timbrature effettuate.

1.3. – Risulta, pertanto, integrata la fattispecie oggetto di contestazione, in conformità alla richiamata interpretazione resa sul punto da questa Corte, con conseguente insussistenza della dedotta violazione di legge, risolvendosi ogni ulteriore censura in un’inammissibile sollecitazione ad un differente accertamento dei fatti.

2. – Con il secondo motivo il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con particolare riferimento al sollecitato accertamento in ordine allo svolgimento dell’attività lavorativa al di fuori del comando e/o presso il domicilio, essendosi pervenuto al rigetto dell’impugnativa del licenziamento per asserita irrilevanza delle prove dedotte sul punto dal lavoratore.

2.1. – In disparte ogni profilo di inammissibilità della censura, prospettata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 rispetto ad un’ipotesi di cd. “doppia conforme” e senza neppure aver illustrato le differenze fra le sentenze di merito, idonee a consentire in siffatta evenienza la proposizione del ricorso, il motivo è comunque infondato, in quanto la Corte ha ritenuto le prove articolate irrilevanti in virtù della ratio decidendi adottata (mancata autorizzazione allo svolgimento dell’attività lavorativa presso l’abitazione, irrilevante che avesse comunque prestato la propria attività lavorativa dall’abitazione e comunque non per tutto il periodo), rispetto alla quale, in ogni caso, le circostanze oggetto delle richieste istruttorie non rivestono la portata decisiva invece attribuita dal ricorrente, neppure ai fini giudizio di proporzionalità, espresso dalla Corte non solo in ordine alla reiterazione delle condotte ma anche con particolare riferimento alla lesione dell’elemento fiduciario per il rilevante ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore.

3. – Con il terzo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, anche in relazione agli art. 111 Cost., art. 132 c.p.c. e L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 59 e 60, per omessa ammissione di prove ammissibili e rilevanti e conseguente rigetto del reclamo per asserite carenze istruttorie.

3.1. – Il motivo è infondato, come già osservato in relazione alla censura precedente, per la ritenuta irrilevanza delle prove articolate al fine di escludere la configurabilità dell’addebito.

4. – Con il quarto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 653 c.p.p., anche in relazione alla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, per non essere stata considerata la rilevanza della sentenza penale di proscioglimento perchè il fatto non sussiste e l’accertamento, in quella sede, di fatti positivi che valgono ad escludere la sussistenza dell’addebito, avuto riguardo alla irrevocabilità di fatto della sentenza di non luogo a procedere.

4.1. – Il motivo, che postula la valutazione in ordine alla valenza nel procedimento disciplinare dell’accertamento svolto in sede penale, è infondato.

4.2. – Occorre qui evidenziare che il A.A. è stato prosciolto in sede di udienza preliminare perchè il fatto non sussiste. Viene, dunque, in rilievo la questione dell’applicabilità o meno dell’art. 653 c.p.p., considerato che nella specie la sentenza di proscioglimento è stata emessa dal giudice in sede di udienza preliminare come sentenza di non luogo a procedere. Tale pronuncia non è tecnicamente suscettibile di inquadramento quale “sentenza irrevocabile” cui l’art. 653 c.p.p. (“sentenza penale irrevocabile di assoluzione”) riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare: infatti, basta qui considerare che la sentenza di non luogo a procedere può essere revocata in determinati casi, ai sensi dell’art. 434 c.p.p., ed è assistita, pertanto, da un grado di stabilità “relativa”, non riconducibile al paradigma di “irrevocabilità” che qualifica la fattispecie disciplinata dalla richiamata disposizione, per essere piuttosto caratterizzata da un’efficacia preclusiva rebus sic stantibus (nel senso della non definitività dell’accertamento, che spiega la revocabilità della sentenza, impedendo di farne parametro per un giudizio di revisione, Cass. Sez. pen. 15/12/2005, n. 1538, secondo cui “In materia di revisione, nella nozione di “altra sentenza penale irrevocabile”, di cui all’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a), non rientra la sentenza di non luogo a procedere emessa all’esito dell’udienza preliminare, perchè la non definitività dell’accertamento, che spiega la revocabilità della sentenza, impedisce di farne parametro per un giudizio di revisione”; in senso conforme, fra molte, Cass. Sez. pen. 04/06/2009, n. 26189, e Cass. Sez. pen. 18/06/2014, n. 39191).

4.3. Nè potrebbe la differenza “ontologica” fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento irrevocabile essere colmata dalla asserita “ratio” della disposizione, per come dedotto dal ricorrente, atteso che la sentenza di non luogo a procedere rimane caratterizzata da un regime di revocabilità che non consente di equipararla ad una sentenza irrevocabile di assoluzione, profilo che renderebbe irrilevante, sul piano dell’individuazione del tertium comparationis, anche ogni valutazione circa un’eventuale denuncia di incostituzionalità della disposizione.

5. – Con il quinto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, anche in relazione all’art. 2119 c.c. e all’art. 3 del c.c.n.l. applicato, con riferimento alla proporzione fra il comportamento addebitato e la massima sanzione applicata.

5.1. – Il motivo è infondato, perchè la Corte di merito, come già sopra osservato, ha compiuto una espressa e compiuta valutazione sulla gravità fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione irrogata, con conseguente insussistenza della dedotta violazione di legge, risolvendosi ogni censura sul punto in un’inammissibile richiesta di rivalutazione nel merito.

6. – Con il sesto motivo il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la motivazione addotta siccome meramente apparente in ordine alla valutazione della proporzionalità della sanzione in relazione agli elementi errati e/o non provati sui quali la Corte territoriale ha espresso il proprio giudizio.

6.1. – Anche questo motivo è infondato, secondo già osservato in relazione alla precedente censura, in quanto la Corte ha espresso il proprio argomentato convincimento sul punto, onde non è ravvisabile la denunciata ipotesi di motivazione apparente, mentre le ulteriori argomentazioni sviluppate in proposito nel ricorso tendono – il che non è consentito in sede di legittimità – ad infirmare l’accertamento fattuale e/o il governo delle prove espressi nella sentenza impugnata.

7. – Con il settimo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza e/o del procedimento, per essere stata addotta una motivazione contraria ai documenti allegati in ordine alla lamentata ingiuriosità del licenziamento.

7.1. – La censura è infondata, in quanto la Corte di merito ha motivato chiaramente le ragioni per le quali ha escluso la responsabilità dell’ente, onde non è ravvisabile l’ipotesi di motivazione apparente, risolvendosi, anche in questo caso, le ulteriori doglianze in un’inammissibile richiesta di rivalutazione nel merito della ricostruzione fattuale posta a fondamento della sentenza impugnata.

8. – In definitiva, il ricorso è complessivamente infondato e va respinto.

9. – Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo in ragione della difesa della parte controricorrente assunta dalla avvocatura comunale.

10. – Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 5.000,00 Euro per compensi, oltre agli esborsi liquidati in Euro 200,00.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2023


Cass. civ., Sez. V, Ordinanza, 30/06/2023, n. 18614

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo M. – Consigliere –

Dott. DI PISA Fabio – rel. Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2725/2014 R.G. proposto da:

EQUITALIA SUD Spa , elettivamente domiciliato in ROMA VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato CASADEI BIANCA MARIA (CSDBCM66M56H501X) rappresentato e difeso dall’avvocato RAGNI VINCENZO (RGNVCN66S16A662S);

-ricorrente-

contro

(Omissis) Srl ;

-intimato-

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. BARI n. 30/2013 depositata il 13/06/2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/05/2023 dal Consigliere FABIO DI PISA.

Svolgimento del processo
1. la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 30/07/2013 depositata in data 13/06/2013 e non notificata, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da Equitalia Sud Spa nonchè in parziale accoglimento dell’appello incidentale avanzato dalla società (Omissis) Srl riformava parzialmente la sentenza di primo grado determinando il debito tributario oggetto di iscrizione ipotecaria nella minore somma di Euro 6.800,32;

1.1 ad avviso dei giudici di merito andavano esclusi gli importi di cui alle cartelle di pagamento prodromiche all’iscrizione ipotecaria nn. (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis) e (Omissis) che risultavano notificate irritualmente in violazione del disposto di cui all’art. 145 c.p.c., nel testo ratione temporis vigente;

2. Equitalia Sud Spa propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo;

3. la (Omissis) Srl è rimasta intimata;

4. la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. a seguito della relazione del consigliere relatore, ex art. 380-bis c.p.c., il quale ha rilevato l’infondatezza della censura;

Motivi della decisione
1. Equitalia Sud Spa , con un unico motivo, deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 145 c.p.c. nel testo ratione temporis vigente;

1.1. ad avviso di parte ricorrente i giudici di appello avevano applicato un principio di diritto erroneo non considerando che le notifiche in questione, eseguite direttamente presso la residenza dell’allora legale rappresentante della società, ante riforma del 2006, dovevano essere ritenute valide alla luce di principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità;

2. il ricorso è fondato;

2.1. la questione sollevata è stata oggetto di una interpretazione non univoca da parte della giurisprudenza di legittimità che, in più occasioni, ha affermato che gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa (nel regime anteriore alle modifiche introdotte con la L. 28 dicembre 2005, n. 263), secondo la disciplina dell’art. 145, comma 1, c.p.c. e, solo qualora tale modalità risulti impossibile, in base al successivo comma 3 del medesimo art. 145, la notifica potrà essere eseguita, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l’ente. (vedi Sez. 5, Sentenza n. 8649 del 15/04/2011, Rv. 617529 – 01; in senso conforme, Sez. 2, Sentenza n. 8402 del 20/06/2000, Rv. 537846 – 01 nonchè Sez. 3, Sentenza n. 20104 del 18/09/2006, Rv. 592280 – 01 e Sez. 5, Sentenza n. 15399 del 11/06/2008, Rv. 604055 – 01);

2.2. in altre occasioni la giurisprudenza si è pronunziato nel senso prospettato da parte ricorrente (vedi Cass. 19468/2007 nonchè Cass. 7898/2013);

2.3. ad avviso di questo Collegio occorre tenere conto di quanto successivamente affermato da S.U. n. 22086/2017 in ordine al fatto che la notificazione di un atto ad una società – data la diretta riferibilità ad essa, in virtù del principio di immedesimazione organica, degli atti compiuti da e nei confronti di coloro che la rappresentano e ne realizzano esecutivamente le finalità – è regolarmente effettuata alla persona specificamente preposta alla ricezione per conto dell’ente sociale, anche se reperita in luogo diverso dalla sede ufficiale dello stesso, per la medesima regola sancita per le persone fisiche dall’art. 138 c.p.c., secondo cui la consegna a mani proprie è valida ovunque sia stato trovato il destinatario nell’ambito territoriale della circoscrizione;

2.4. trovando applicazione alla fattispecie in esame, ratione temporis, il testo dell’art. 145, comma 2, c.p.c., anteriore alla modifica apportatavi dalla L. n. 263/05, pur non risultando tentata la notificazione nella sede legale indicata nell’art. 19 c.p.c., deve ritenersi, alla luce del condivisibile principio sopra richiamato, che la notificazione delle cartelle de quibus poteva ritualmente avvenire mediante consegna nelle mani dello stesso legale rappresentante, ovunque reperito (vedi, anche, Cass. nn. 1856/84, 8402/00 e 20104/06);

2.5. nella specie la notificazione delle cartelle in questione è stata effettuata al legale rappresentante della società presso l’abitazione dello stesso sicchè è da ritenere ritualmente avvenuta, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito;

3. conseguentemente la sentenza impugnata va annullata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, decidendo nel merito va rigettato il ricorso introduttivo proposto in primo grado dalla società contribuente, ferma restando la declaratoria di difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle riguardanti crediti non tributari;

3.1. la natura delle questioni trattate, non sempre oggetto di univoca interpretazione giurisprudenziale e la interpretazione chiarificatrice delle S.U. intervenuta nelle more del giudizio, giustificano l’integrale compensazione di tutte le spese dei vari gradi di giudizio.

P.Q.M.
La Corte ferma la declaratoria di difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle relative a crediti non tributari, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso proposto in primo grado dalla (Omissis) Srl ; dichiara compensate le spese dell’intero giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 3 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 13/04/2023) 15/06/2023, n. 17251

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. LENOCI Valentino – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere –
Dott. ANGARANO Rosanna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19529/2018 R.G. proposto da:
A.A. Srl , elettivamente domiciliata in Roma, Viale XXI Aprile, 21, presso lo studio dell’Avvocato Marco Cianfarini, che la rappresenta e difende unitamente all’Avv. Francesca Cesaroni;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e AGENZIA ENTRATE RISCOSSIONE;
– intimata –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LAZIO, n. 7802/17, depositata il 19/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 aprile 2023 dal consigliere
Dott. Rosanna Angarano.
Svolgimento del processo
che:
1. A.A. S rl ricorre, con cinque motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, e nei confronti di Agenzia delle Entrate Riscossione, che non ha svolto attività difensiva, avverso la sentenza indicata in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello della contribuente avverso la sentenza che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso spiegato avverso l’intimazione dipagamento, la cartella esattoriale e il preavviso di fermo amministrativo emessi in ragione di tre avvisi di accertamento per maggiori imposte – iva, irpeg ed irap – accertate per gli anni (Omissis).
2. Con un primo ricorso la contribuente impugnava l’intimazione di pagamento (Omissis) e la sottesa cartella esattoriale (Omissis), relativa a tre avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio aveva rilevato, ai fini Irpeg, Irap ed Iva che per gli anni (Omissis) erano stati dedotti costi per fatture emesse da una terza società, la Temo Costruzioni Srl , per operazioni ritenute inesistenti. Con un secondo ricorso la contribuente impugnava il preavviso di fermo n. (Omissis) notificato il 21 novembre 2014 in ragione di alcune cartelle tra le quali anche quella oggetto del precedente ricorso.
2. La C.t.p., riuniti i ricorsi, li rigettava con sentenza confermata in appello.
Motivi della decisione
che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 e 145 c.p.c. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale. In particolare, assume che la C.t.r. ha errato nel non considerare che la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c. – utilizzata nella fattispecie – poteva essere effettuata solo in caso di notifica infruttuosa al legale rappresentante e non alla società presso la sua sede, come verificatosi nel caso concreto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 c.p.c. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26.
Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale ai sensi dell’art. 140 c.p.c. senza esaminare le prospettazioni della contribuente in ordine alla querela di falso sporta avverso l’avviso di ricevimento.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver rilevato che l’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2003 era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver esaminato l’illegittimitàdella notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis)).
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per carenza della motivazione nella parte in cui ha ritenuto provata l’insussistenza delle operazioni commerciali oggetto del recupero a tassazione senza esaminare le censure sollevate.
6. Il primo motivo è fondato, restando assorbito il secondo.
6.1. L’art. 145 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. c) prevede che la notifica alle persone giuridiche si esegue nella loro sede mediante consegna ai soggetti ivi espressamente indicati, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile ove ha sede la società. In alternativa, se nell’atto risultano le indicazioni necessarie, la notifica può essere eseguita anche alla persona fisica che rappresenta l’ente, secondo le modalità di cui agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.
Il comma 3 precisa che se la notificazione non può essere eseguita ai sensi del comma 1 la notificazione alla persona fisica che rappresenta l’ente può eseguirsi ai sensi degli artt. 140 e 143 c.p.c. 6.2. Ciò posto, risulta in fatto che la notifica della cartella esattoriale è stata tentata in data 27 agosto 2009 presso la sede della società, in (Omissis). Il messo notificatore attestava, tuttavia, il rifiuto delle persone ivi rinvenute e non identificate. Precisava, infatti, che queste ultime non avevano voluto declinare le proprie generalità nè ricevere l’atto; quindi, annotava il rifiuto della cartella e dava atto di aver provveduto al deposito dell’atto presso la Casa Comunale, affiggendo il relativo avviso, e di aver dato comunicazione del deposito e dell’affissione con raccomandata con avviso di ricevimento. Dall’avviso di ricevimento, versato in atti, risulta, poi, che la raccomandata, veniva indirizzata anch’essa alla società presso la sua sede e veniva ricevuta dal portiere.
6.3. In primo luogo deve rilevarsi che la notifica presso la sede sociale non è andata a buon fine in quanto il messo notificatore, oltre ad annotare il rifiuto, ha precisato che non era stato possibile identificare le persone ivi presenti.
La Corte, sul punto ha precisato che, a norma dell’art. 138 c.p.c., comma 2, il rifiuto di ricevere la copia dell’atto è legalmente equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie soltanto ove sia certa l’identificazione dell’autore del rifiuto con il destinatario dell’atto (Cass. 19/04/2018, n. 9779 , Cass. 03/11/2014, n. 23388). Si è aggiunto che non è consentita un’analoga equiparazione nel caso in cui il rifiuto sia stato opposto da un soggetto del tutto estraneo, oppure ove l’accipiens sia un suo congiunto o addetto alla casa e, a maggior ragione, un vicino o il portiere (Cass. 22/05/2013, n. 12545). Inoltre, qualora la notifica della cartella di pagamento avvenga presso la sede legale della società, e non nel luogo di residenza del legale rappresentante della stessa, l’atto deve essere consegnato solo ai soggetti indicati dall’art. 145 c.p.c., comma 1, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa, (Cass. 06/04/2018, n.
8472).
La mancata identificazione del rappresentante legale della società – ed invero, in ragione di quanto espressamente attestato nella relata, di tutti soggetti presenti nella sede della società che hanno rifiutato l’atto – impedisce, pertanto, di equiparare il rifiuto all’avvenuta notifica ex art. 138 c.p.c., comma 2.
6.4. Non essendo stato possibile procedere ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 1, prima parte, la notifica avrebbe dovuto seguire le modalità di cui all’art. 145 c.p.c., u.c. nella versione, applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportate dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. c) n. 1) e 3) ovvero esclusivamente nei confronti del rappresentante legale.
Sul punto la Corte ha chiarito che la norma novellata, applicabile alla fattispecie per cui è causa, prevede espressamente, con riguardo alla persona giuridica e all’ente non personificato, la notificazione ex art. 140 c.p.c., ma tale forma – operante solo nel caso in cui sia impedita la notificazione
presso la sede della società, o presso il legale rappresentante, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. – non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale. Il vano esperimento delle modalità previste dall’art. 145 c.p.c., comma 1 per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purchè la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale (Cass. 30/01/2017, n. 2232 , Cass. 07/06/2012, n. 9237; Cass. 13/09/2011, n. 18762).
6.5. La C.t.r. non si è attenuta a questi principi.
Infatti, ha ritenuto valida la notifica affermando che è sufficiente che ” il consegnatario” si trovi presso la sede della persona giuridica non occasionalmente e che la persona rivenuta presso la sede è da presumere che sia addetta alla ricezione degli atti. Così motivando, ha equiparato la fattispecie in esame – caratterizzata dal rifiuto di ricevere l’atto da parte di soggetti non identificati, ancorchè presenti nella sede – a quella in cui l’atto sia stato consegnato a persona rinvenuta nella sede che abbia, pertanto, ricevuto il plico.
Inoltre, non ha tenuto conto che successivamente si è provveduto secondo le modalità di cui all’art. 140 c.p.c. – deposito della copia dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso e spedizione della c.d. raccomandata informativa – ma non nei confronti del rappresentante legale della società, bensì della società stessa, con spedizione della raccomandata informativa alla società presso la sua sede.
7. Il terzo motivo è infondato.
7.1. La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la cartella di pagamento anche per gli importi oggetto dell’avviso di accertamento (Omissis) per l’anno di imposta (Omissis), sebbene in entrambi i gradi di merito fosse stato eccepito che quest’ultimo era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
7.2. Deve rilevarsi, tuttavia, che la sentenza di cui all’allegato 5, indicata dalla ricorrente con il motivo in esame, non è stata prodotta in copia attestane il passaggio in giudicato.
La Corte sul punto ha ripetutamente affermato che, affinchè il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass. 02/03/2022, n. 6868, Cass. 23/08/2018, n. 20974).
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate, che pure in controricorso, ha confermato la definitività della sentenza, ha anche precisato, con allegazione che non risulta contestata, di aver provveduto allo sgravio totale del carico di cui alla stessa con provvedimento del 19 dicembre 2013.
8. Il quarto motivo è inammissibile.
8.1. La ricorrente, facendo valere error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, censura testualmente “nullità della sentenza in ordine all’omesso esame dell’illegittimità della notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis))”. Nel corpo del motivo si duole del fatto che sia la C.t.p. che la C.t.r., in odine all’invalidità della notifica degli avvisi di
accertamento, “nulla hanno motivato”.
Infine, dopo aver esposto le ragioni per le quali dette notifiche devono considerarsi invalide, nell’ultimo capoverso del motivo, ha concluso affermando che “entrambe le commissioni tributarie nulla hanno esaminato o deciso”.
8.2. La Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c. che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
8.3. Anche a voler valutare la censura, in conformità all’epigrafe, come denuncia di omessa pronuncia su uno dei motivi di appello, se ne ravvisa ugualmente l’inammissibilità.
La C.t.r. nel secondo paragrafo, destinato alla individuazione dei motivi di appello, ha dato atto che il primo motivo aveva ad oggetto l’irregolarità della notifiche ex art. 140 c.p.c. a favore di una società mentre il secondo ed il terzo motivo avevano ad oggetto l’omessa motivazione in ordine alle notifiche degli avvisi di accertamento riguardanti gli anni (Omissis) e (Omissis). Nel quinto paragrafo, destinato i motivi della decisione, la sentenza affermato testualmente quanto segue: “procedendo per argomenti, che in realtà ripercorrono i motivi di appello, non può sfuggire che tutte le notifiche vanno considerate regolari”.
La C.t.r., pertanto, dopo aver puntualmente individuato i motivi di appello, si è pronunciata con riferimento a tutte le notifiche fatte oggetto di censura – ivi incluse le notifiche degli avvisi di accertamento – affermandone la validità. Resta escluso, pertanto, il denunciato vizio di omessa pronuncia.
9. Il quinto motivo è anch’esso inammissibile.
9.1. Con il motivo in esame la ricorrente censura la sentenza impugnata, assumendo vizio di motivazione, nella parte in cui la C.t.r. si è pronunciata sul merito della pretesa tributaria.
9.2. Per giurisprudenza costante della Corte, la cartella esattoriale avente titolo in un precedente avviso di accertamento notificato a suo tempo e non impugnato, può essere contestata innanzi agli organi del contenzioso tributario ed essere da essi invalidata solo per vizi propri, non già per vizi
suscettibili di rendere nullo o annullabile l’avviso di accertamento presupposto (Cass. 31/10/2017, n. 25995).
All’inammissibilità del precedente motivo di ricorso relativo alla notifica degli avvisi di accertamento consegue la definitività della pronuncia della C.t.r. che ne ha accertato la validità. Da ciò consegue l’inammissibilità del motivo volto a censurare nel merito la pretesa impositiva.
10. In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al primo motivo, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto. Di conseguenza la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado del Lazio in diversa composizione, la quale provvederà al riesame, fornendo congrua motivazione, e al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 aprile 2023.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 04/04/2023) 08/06/2023, n. 16189

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. Spa ZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15215 del 2021, R.G. proposto da:

A.A.; rappresentata e difesa dall’Avvocato Riccardo Lana (riccardo.lana(AT)legalmail.it), in virtù di procura su foglio separato allegato al ricorso;

– ricorrente –

nei confronti di B.B.; rappresentato e difeso dall’Avvocato Sara Veri (avvsaraveri(at)bergamo.pecavvocati.it), in virtù di procura in calce al controricorso;

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza in unico grado n. 1570-2020 del TRIBUNALE di BERGAMO, depositata il 10 novembre 2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2023 dal Consigliere relatore, Paolo Spa ziani.

Svolgimento del processo
Con sentenza 10 novembre 2020, n. 1570, il Tribunale di Bergamo, nella dichiarata contumacia di A.A., ha accolto l’opposizione (espressamente qualificata come opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), proposta nei suoi confronti dal coniuge separato, B.B., e ha dichiarato la nullità del precetto, fondato sul decreto di omologa della separazione personale, con cui la prima aveva intimato al secondo il pagamento dell’importo di Euro 11.569,10, quale somma asseritamente dovuta in ragione del protratto inadempimento dell’obbligo di mantenimento della figlia.

Ha proposto ricorso per cassazione A.A. sulla base di un unico motivo.

Ha risposto con controricorso B.B..

La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1.1. Con l’unico motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per estensione di quella concernente la notificazione a mezzo PEC della citazione introduttiva del giudizio di opposizione.

La ricorrente ha sostenuto che, ai sensi del combinato disposto della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, 9, commi 1 e 1-bis, 11, e 19-bis, comma 5, delle “specifiche tecniche” date con Provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia, la notificazione effettuata a mezzo PEC deve essere provata mediante il deposito telematico dell’atto processuale notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Nel caso di specie, tali prescrizioni non sarebbero state rispettate, in quanto l’opponente, effettuata la notificazione della citazione in opposizione a mezzo PEC, avrebbe indebitamente proceduto ad estrarre copia analogica del messaggio di posta elettronica certificata e degli atti allegati, e, dopo averli scansionati, avrebbe proceduto al loro deposito telematico.

L’inosservanza dei richiamati adempimenti avrebbe comportato la nullità della notificazione, rilevabile anche d’ufficio, in conformità al disposto della citata L. n. 53 del 1994, art. 11.

1.2. Nel resistere alla doglianza, il controricorrente ha dedotto che, a seguito della notifica della citazione a mezzo PEC, la “certificazione di notifica” era stata generata dal PCT, ove risultava inserito un unico file, costituito dall’atto notificato, dalla procura, dalla relata digitale e dall’attestazione della data di notifica effettuata il giorno 11 dicembre 2017, alle ore 13.39, all’indirizzo PEC del difensore domiciliatario di controparte, nonchè dalle ricevute PEC di accettazione e consegna, comprovanti l’avvenuta notificazione e il giorno e l’ora della stessa.

Il deposito telematico non sarebbe dunque avvenuto mediante estrazione di copia su supporto analogico e successiva scansione, bensì mediante deposito nel PCT di documenti originali informatici, sia pure in formato PDF. Il mancato inserimento dei dati identificativi delle ricevute di accettazione e consegna nel file “DatiAtto.xml” avrebbe determinato la mera irregolarità dell’atto, sanabile con il raggiungimento dello scopo (viene citata la pronuncia di questa Corte n. 8815 del 2020).

Inoltre, la circostanza che le suddette ricevute non fossero in formato “.eml” o “.msg” non avrebbe inciso sul perfezionamento del procedimento notificatorio, avvenuto nel momento di generazione delle suddette ricevute a prescindere dal formato informatico assunto al momento del successivo deposito in PCT (viene citata la sentenza n. 12488 del 2020 di questa Corte).

1.3. In sede di memoria illustrativa, la ricorrente – sulla premessa che il deposito delle ricevute in formato “.eml” o “.msg” sarebbe necessario per mantenere i certificati e l’autenticità dei messaggi, mentre, invece, il deposito dei files previamente salvati in formato PDF determinerebbe la perdita delle proprietà dei messaggi originali, come le firme e i metadati -, con riguardo alla dedotta sanatoria dell’irregolarità per raggiungimento dello scopo, ha replicato che, nel caso di specie, non era stata lamentata la mera irregolarità ma l’inesistenza della notificazione; inoltre, ha evidenziato che all’omissione del notificante non era seguita la costituzione in giudizio della destinataria dell’atto, che era rimasta contumace, per modo che non vi sarebbe stata comunque una sanatoria del vizio.

Con riguardo alla deduzione circa la non incidenza dell’irregolarità sul perfezionamento del procedimento notificatorio, la ricorrente ha ribadito che, nella vicenda in esame, mancherebbero proprio i files sorgenti in formato “.eml” delle ricevute di accettazione e consegna, sicchè nessuna prova sarebbe stata data del buon fine della notifica.

2. Il ricorso è fondato.

2.1. Ai sensi della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9 (ed avuto riguardo anche all’art. 19-bis del Provvedimento del Responsabile S.I.A. del 16 aprile 2014), la prova della notifica a mezzo PEC deve essere offerta esclusivamente con modalità telematica, ovverosia mediante deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Solo qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a mezzo PEC, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1, (L. n. 53 del 1994, cit., art. 9, comma 1-bis).

Se, una volta effettuata la notifica dell’atto a mezzo di posta elettronica certificata, la parte non sia in grado di fornirne la prova ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis, la violazione delle forme digitali non determina l’inesistenza della notifica dell’atto medesimo, bensì la sua nullità, vizio che può essere sanato per convalidazione oggettiva (art. 156, comma 3, c.p.c.), ove l’atto abbia raggiunto comunque lo scopo cui è destinato.

La configurazione del vizio in termini di nullità, anzichè di inesistenza, è conforme al disposto di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 11, che prevede appunto la sanzione della nullità, comunque rilevabile d’ufficio, per le notificazioni previste dalla medesima legge in mancanza dei requisiti soggettivi ed oggettivi ivi stabiliti, nonchè in caso di inosservanza dei precedenti articoli della stessa legge, oltre che nell’ipotesi di incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica.

Tale configurazione, inoltre, trova rispondenza nell’orientamento di questa Corte, secondo cui la violazione delle forme digitali non integra una causa di inesistenza della notifica, unico vizio che non ammette la sanatoria per il raggiungimento dello scopo (Cass. 15/07/2021, n. 20214; in precedenza, v. Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665; Cass. 31/08/2017, n. 20625; Cass. Sez. U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. 05/03/2019, n. 6417; Cass. 12/05/2020, n. 8815; in generale, sulla definitiva sistemazione del concetto di inesistenza della notifica, v. Cass. Sez. U. 20/07/2016, n. 14916).

2.2. Nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie in esame – la notifica telematica concerna l’atto introduttivo del giudizio, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto di notificazione, con conseguente sanatoria del vizio per convalidazione oggettiva, non postula necessariamente la costituzione in giudizio del destinatario, il quale potrebbe volontariamente scegliere di non costituirsi, pur avendo ricevuto una notificazione rituale.

Tuttavia, ove si consideri che, a differenza della comunicazione (la quale ha la funzione di portare la semplice notizia dell’atto processuale), la notificazione è deputata alla consegna dell’atto nella sua interezza al destinatario, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale, nella predetta ipotesi, postula pur sempre che esso, oltre ad essere giunto a conoscenza del destinatario – nel senso che questi ne abbia avuto notizia – sia stato portato nella sua disponibilità appunto nella sua interezza.

La prova che l’atto sia stato portato nella disponibilità del notificando – ove non risulti da altre specifiche circostanze verificatesi nel caso concreto (come, ad es., nell’ipotesi in cui il suo difensore, nell’ambito di uno scambio di corrispondenza difensiva con il difensore del notificante, provveda a ritrasmettergli la copia ricevuta dell’atto notificato: Cass. 15/07/2021, n. 20214, cit.) – viene data istituzionalmente solo mediante il deposito telematico delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” e “.msg” e mediante l’inserimento dei relativi dati identificativi nel file “Dati.Atto.xml”, l’accesso al quale consente di verificare la presenza dell’atto nella disponibilità del destinatario.

Viceversa, il solo deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna in formato PDF non consente analoga prova.

2.3. Nel caso di specie, in cui è incontroverso che i files informatici non sono stati depositati in formato “.eml” e “.msg”, la ricorrente ha dedotto di essere venuta a conoscenza della sentenza impugnata solo dopo avere ricevuto la lettera raccomandata contenente l’intimazione a pagare le spese del giudizio.

In mancanza di qualsiasi affidabile elemento da cui evincere che la parte destinataria avesse avuto la tempestiva consegna dell’atto di citazione in opposizione, in funzione della possibilità di costituirsi in giudizio ed esercitare appieno il proprio diritto di difesa, deve allora escludersi la sanatoria del vizio di nullità della notificazione della citazione per violazione delle forme digitali di deposito dell’atto notificato a mezzo PEC. In definitiva, alla fattispecie va applicato il seguente principio di diritto:

“In tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata, la violazione delle forme digitali previste dalla L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9, nonchè dall’art. 19-bis delle “specifiche tecniche” date con provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia – che impongono il deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “datiAtto.xml” -, previste in funzione non solo della prova ma anche della validità dell’atto processuale (arg. ex art. 11 della stessa L. n. 53 del 1994), determina, salvo che sia impossibile procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3-bis legge cit. (nel qual caso l’avvocato fornisce prova della notificazione estraendo copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1: L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter), la nullità della notificazione: atteso, per un verso, che soltanto il rispetto delle predette forme (le quali permettono, attraverso l’apertura del file, di verificare la presenza dell’atto notificato nella disponibilità informatica del destinatario) consente di ritenere provato il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale di notificazione che, a differenza della comunicazione, non ha la funzione di portare la semplice notizia di un altro atto processuale, ma la diversa funzione di realizzarne la tempestiva consegna, nella sua interezza, al destinatario per consentirgli di esercitare appieno il diritto di difesa e al contraddittorio; e considerato, per altro verso, che tale dimostrazione non è invece consentita ove il deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna avvenga in diverso formato (ad es. in formato PDF), salvo che, in tale ipotesi, la prova della tempestiva consegna sia desumibile ed in concreto desunta aliunde, sulla base delle circostanze emerse nella fattispecie concreta, nel qual caso la nullità è sanata per convalidazione oggettiva, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.”.

3. Nel caso di specie, il rilievo della (non sanata) nullità della notificazione telematica dell’atto di citazione in opposizione, propagatasi ai successivi atti processuali sino alla sentenza impugnata, impone, ai sensi degli artt. 383, comma 3, e 354 c.p.c., di rimettere le parti al primo giudice, previa cassazione della sentenza stessa, perchè il giudizio sia rinnovato a contraddittorio integro e correttamente instaurato.

Il giudice della rimessione provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte dichiara la nullità del giudizio di merito di unico grado, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Bergamo, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 4 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2023