Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/12/2019) 24/09/2020, n. 20057

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17026/2014 R.G. proposto da:

M.E. rappresentato e difeso giusta delega in atti dall’avv. prof. Giulio Nicola Nardo (PEC studiolegalenardo.ordineavvocatibo.pec.it) con domicilio eletto in Roma, alla via B. Buozzi n. 99 presso lo studio dell’avv. prof. Fabrizio Criscuolo;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

EQUITALIA SUD s.p.a. in persona del suo legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Calabria n. 440/01/13 depositata il 23/12/2013, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 17/12/2019 dal consigliere Dott. Succio Roberto;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure ha respinto l’appello del contribuente e quindi confermato la sentenza di primo grado che aveva sancito la legittimità degli atti impugnati, avvisi di accertamento per IRPEF, IVA ed IRAP 2000 e 2001;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione il contribuente con atto affidato a due motivi; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria; Equitalia Sud s.p.a. è rimasta intimata;

– con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per violazione ed errata applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per non avere la CTR ritenuto illegittimamente notificati gli atti impugnati, consegnati alla moglie dalla quale egli si stava separando, e con la quale non conviveva di fatto; tali atti erano stati consegnati materialmente a costei presso il domicilio fiscale del contribuente in appartamento contiguo al suo studio professionale;

– il secondo motivo di ricorso si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, articolando sotto tal profilo la medesima censura svolta al primo motivo;

– i motivi risultano, come detto, costituire in sostanza frammentazione di una medesima censura e quindi possono trattarsi congiuntamente;

– gli stessi risultano infondati;

– risulta dalla sentenza gravata che gli atti sono stati notificati presso il domicilio fiscale del contribuente in appartamento contiguo al suo studio professionale ma consegnati personalmente alla moglie che ivi abitava da sola per una temporanea crisi coniugale poi risolta con la separazione personale dei coniugi;

– va premesso che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, “ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato… le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”… Nelle “dichiarazioni che vengono presentate agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell’indirizzo. Le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate”. Con riguardo, poi, alla “notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificate al contribuente”, il successivo art. 60 dispone che essa “è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e s.s., con le seguenti modifiche:… c) salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario; d) è in facoltà del contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti e degli avvisi che lo riguardano. In tal caso l’elezione di domicilio deve risultare espressamente dalla dichiarazione annuale ovvero da altro atto comunicato successivamente al competente ufficio imposte a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento”;

– orbene, i giudici di merito hanno accertato in fatto che la notifica degli atti impugnati fu effettuata nella residenza anagrafica, costituente domicilio fiscale e che tale notifica è stata perfezionata con la consegna a mani della moglie del contribuente;

– in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, eseguita mediante consegna dell’atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno provvisorio, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare (Cass. 2348/1994), con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire (Cass. n. 22607/2009). La CTR della Calabria si è attenuta a tale principio, avendo ritenuto valida la notificazione indicando le ragioni e i fatti in base ai quali ha ritenuto non provata la solo temporanea convivenza del consegnatario con il destinatario della notificazione, restando da aggiungere che, secondo il disposto dall’art. 139 la consegna dell’atto da notificare “a persona di famiglia” non postula necessariamente nè il solo rapporto di parentela – cui è da ritenersi equiparato quello di affinità ma anche quello di “coniugio” nè l’ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell’atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando, all’uopo, sufficiente l’esistenza di un vincolo che giustifichi la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario stesso;

resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo (Cass. 23368/2006);

– pertanto, il ricorso va rigettato;

– le spese seguono la soccombenza;

– sussistono i presupposti processuali per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato.

P.Q.M.
rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 4.100,00 oltre spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 24 settembre 2020


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 16-07-2020) 17-09-2020, n. 19328

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28107/2015 proposto da:

Inps, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Cesare Beccaria 29 presso gli avvocati Gaetano De Ruvo, Elisabetta Lanzetta, Paola Massafra che lo rappresentano e difendono in forza di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.P.L., elettivamente domiciliata in Roma Via Tacito 23 presso lo studio dell’avvocato Cristoforo Parisi e rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Soldera, in forza di procura speciale allegata al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Garante per la Protezione dei Dati Personali, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente incidentale –

e contro

M.P.L., elettivamente domiciliata in Roma Via Tacito 23 presso lo studio dell’avvocato Cristoforo Parisi e rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Soldera, in forza della predetta procura speciale allegata al controricorso – controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1792/2015 del TRIBUNALE di LATINA, depositata il 09/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/07/2020 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152 M.P.L. ha impugnato dinanzi al Tribunale di Latina il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali (di seguito: semplicemente Garante) n. 296 del 18/10/2012 con cui era stato respinto il reclamo da essa proposto per lamentare l’illecito trattamento di propri dati personali e sensibili commesso ai suoi danni dalla Dirigente della sede INPDAP, ora INPS, ex gestione INPDAP, di Latina nel maggio-giugno del 2011.

Secondo la ricorrente, la predetta Dirigente aveva trattato dati personali riservati in modo illecito, disponendo che la comunicazione degli addebiti professionali mossi nei suoi confronti e contenuti nelle note dirigenziali n. 132 del 23/5/2011 e n. 149 del 3/6/2011, preliminari alla revoca della sua posizione di “capo area pensioni”, avvenisse brevi manu e a vista, a mezzo di addetto alla segreteria non preposto al trattamento di dati personali, senza alcuna precauzione o cautela, come l’inserimento in un plico o in una busta, in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 del punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 e delle norme INPDAP, Protocollo relazioni sindacali, punto B.3.

Inoltre la ricorrente aveva lamentato il fatto che la Dirigente, in occasione di un incontro sindacale del 31/5/2011 per la discussione della bozza di un ordine di servizio per la riorganizzazione della sede, aveva dichiarato a verbale che l’ordine di servizio era stato preparato consultando alcuni soggetti coinvolti nella stesura del provvedimento, che erano quindi venuti a conoscenza di suoi dati personali e sensibili e di pesanti addebiti relativi alla sua professionalità.

Tanto premesso, la ricorrente ha dedotto la nullità e l’ingiustizia del provvedimento del Garante, chiedendone l’annullamento, l’accertamento dell’illegittimità del trattamento dei propri dati personali e la condanna dell’INPS e dello stesso Garante per la protezione dei dati personali al risarcimento dei danni.

Si è costituito in giudizio l’INPS, eccependo preliminarmente la tardività del ricorso e l’incompetenza del giudice adito, dovendosi ritenere competente il Tribunale di Roma, in relazione alla sede legale dell’Istituto titolare del trattamento e chiedendo nel merito il rigetto del ricorso.

Si è costituito altresì il Garante per la protezione dei dati personali, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso nei propri confronti.

All’esito di istruttoria documentale e testimoniale, con sentenza del 9/9/2015, previa lettura del dispositivo all’udienza del 30/6/2015, il Tribunale di Latina ha annullato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n. 296 del 18/10/2012, ha accolto parzialmente la domanda risarcitoria, condannando l’INPS a pagare a M.P.L. la somma di Euro 10.000,00, ha respinto la domanda risarcitoria nei confronti del Garante e ha condannato l’INPS a rifondere le spese di lite alla ricorrente, compensando le spese fra di essa e il Garante.

2. Avverso la predetta sentenza, notificata in data 24/9/2015, con atto notificato con affidamento al servizio postale il 20/11/2015 ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, svolgendo quattro motivi.

Con atto notificato il 30/12/2015 ha proposto controricorso M.P.L., chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

Con atto notificato il 30/12/2015 ha proposto controricorso anche il Garante per la protezione dei dati personali, proponendo altresì ricorso incidentale per la cassazione della sentenza impugnata sulla base di cinque motivi.

Con atto notificato il 4/2/2016 la controricorrente M.P.L. ha proposto controricorso anche nei confronti del ricorso incidentale del Garante per la protezione dei dati personali, chiedendone la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto.

Il ricorrente INPS e la controricorrente M. hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 2, l’Istituto ricorrente denuncia violazione delle norme sulla competenza e in particolare del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 nonchè dell’art. 46 c.c. e art. 19 c.p.c., dei principi di cui all’art. 111 Cost. e del suo comma 2, in tema di relazione fra giusto processo e regole sulla competenza, in lettura integrata con l’art. 6 CEDU. 1.1. Il Tribunale di Latina ha ritenuto la propria competenza quale giudice del luogo di sede decentrata provinciale, dotata di direttore munito di poteri rappresentativi ex art. 19 c.p.c., comma 2.

Secondo l’INPS, la competenza attribuita al Tribunale del luogo ove risiede il titolare del trattamento dei dati ha invece natura funzionale e inderogabile e non era possibile invocare il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 16, lett. f), privo di attitudine a modificare il criterio di determinazione dell’organo legittimato a rappresentare legalmente l’amministrazione.

Inoltre la ravvisata esigenza di avvicinare il giudice al luogo del trattamento dei dati si scontrava con il termine “residenza” contenuto nella norma, di carattere soggettivo e utilizzato in senso proprio.

1.2. La censura è infondata e il Tribunale di Latina ha ben giudicato ravvisando la propria competenza territoriale.

Infatti, secondo il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 10, comma 2, richiamato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 per le controversie in materia di applicazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali è competente il tribunale del luogo in cui ha la sua “residenza” il titolare del trattamento dei dati, come definito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4.

Il predetto, art. 4, alla lett. f), nel testo pro tempore applicabile prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, definisce “titolare” la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.

Inoltre il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 28 precisa che quando il trattamento è effettuato da una persona giuridica, da una pubblica amministrazione o da un qualsiasi altro ente, associazione od organismo, titolare del trattamento è l’entità nel suo complesso o l’unità od organismo periferico che esercita un potere decisionale del tutto autonomo sulle finalità e sulle modalità del trattamento, ivi compreso il profilo della sicurezza.

1.3. Come correttamente osservato dal Tribunale latinense, il riferimento della legge al luogo di “residenza” del titolare del trattamento è evidentemente applicabile, in modo diretto e giuridicamente proprio, alla sola persona fisica.

Quando il titolare del trattamento è una persona giuridica o una pubblica amministrazione si rende quindi necessaria l’interpretazione correttiva e integrativa, peraltro agevole, adottata nella sentenza impugnata, avuto riguardo al foro generale delle persone giuridiche, pubbliche e private, previsto dall’art. 19 c.p.c., secondo il quale, salvo che la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha sede, nonchè il giudice del luogo dove essa ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda.

Inoltre, ai sensi dell’art. 46 c.c. quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede e nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’art. 16 c.c. o la sede risultante dal registro sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche questa ultima.

Per sede effettiva la giurisprudenza costante intende il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti, ossia il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente (Sez. L, n. 6021 del 12/03/2009).

1.4. Sulla base di queste complessive considerazioni e nella logica di individuare la regola di competenza in modo rispondente alle esigenze di tutela cui è finalizzato il Codice dei dati personali, deve quindi ritenersi che il luogo ove risiede il titolare del trattamento alluda a una nozione collegata ad una localizzazione “dinamica” e non “statica” del titolare, espressa quindi dal suo agire rilevante secondo il Codice.

Il luogo in cui risiede il titolare del trattamento si identifica pertanto in quello in cui il trattamento ha luogo in modo autonomo e quindi si manifesta in concreto.

Questa Corte, allorchè ha escluso come manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 24 Cost., del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, comma 2, ha ritenuto che la scelta di individuare il luogo di residenza del titolare del trattamento come foro territoriale esclusivo per le controversie in materia di protezione dei dati personali di cui al comma 1 rispondesse alla scelta di privilegiare l’esigenza di vicinanza del giudice al luogo di trattamento e diffusione dei dati, mediante non irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa (Sez. 3, n. 12980 del 31/05/2006, Rv. 589931 – 01).

Inoltre, diversamente opinando, si perverrebbe al singolare risultato che una disciplina complessa come quella del D.Lgs. n. 196 del 2003, dettata in funzione dell’esigenza di tutela del soggetto come tale, sotto il profilo del luogo di svolgimento del processo e, quindi, della tutela giurisdizionale, avrebbe assunto come regola di radicazione della competenza un criterio diretto a tutelare precipuamente l’interesse del titolare del trattamento; infatti, è evidente che costringere il soggetto i cui dati sono trattati a litigare non già nel luogo in cui gli effetti del trattamento si evidenziano e, quindi rivelano la loro capacità lesiva, bensì nel luogo in cui risiede il titolare (magari lontanissimo dal luogo di emersione del trattamento) implicherebbe una grave ed irragionevole contraddizione con la ratio di protezione del soggetto leso.

1.5. Il Tribunale, con diversa e concorrente linea argomentativa, non ha mancato di precisare agli effetti di cui all’art. 19 c.p.c., comma 1, seconda parte, che secondo la giurisprudenza di legittimità l’estensione ad opera della L. 8 marzo 1985, n. 72 ai dirigenti degli uffici centrali e periferici degli enti pubblici economici della normativa di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 sullo stato giuridico dei dirigenti statali comporta l’applicazione ai primi della disposizione di cui al D.P.R. n. 748 del 1972, art. 2, comma 2 circa il potere di rappresentanza giuridica dell’amministrazione nei confronti dei terzi, con la conseguente legittimazione dei dirigenti provinciali degli enti previdenziali a promuovere e resistere alle liti, senza necessità di preventiva delega da parte del Presidente dell’Istituto (Sez. U, n. 11050 del 22/12/1994, Rv. 489357 – 01; Sez. L, n. 12262 del 20/08/2003, Rv. 566085 – 01; Sez. L, n. 12870 del 12/07/2004, Rv. 574471 – 01).

Conclusione questa non scalfita dal nuovo contesto normativo (in seguito all’abrogazione dell’art. 2 e alle disposizioni del Capo 1 del D.P.R. n. 748 cit., e al D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 3 e 16 da parte del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 43 e successive modificazioni), atteso che il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 4, comma 2, ha ribadito che ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno e il successivo art. 16, lett. f), ha confermato il potere dei medesimi dirigenti di promuovere e resistere alle liti, conciliare e transigere (Sez. L, n. 955 del 24/01/2012, Rv. 621250 – 01).

Al riguardo l’Istituto ricorrente si limita a prospettare un diverso indirizzo giurisprudenziale (Sez. lav. 13/04/2012 n. 5885), che non appare pertinente poichè in quell’occasione era stata cassata la sentenza di merito che aveva escluso il potere di rappresentanza generale del rettore di una Università degli studi, attribuendo il potere di rappresentanza in giudizio al dirigente amministrativo dell’Ente.

1.6. E’ infine il caso di ricordare che questa Corte, nel ritenere che in caso di dati personali nella disponibilità di un ufficio giudiziario (nella specie, relativi ad un procedimento disciplinare disposto nei confronti di un dipendente dell’ufficio), giudice territorialmente competente per l’azione di risarcimento per la loro indebita diffusione sia il tribunale del luogo di residenza del capo dell’ufficio giudiziario, che riveste la qualità di titolare del trattamento dei dati, ha avuto cura di precisare che tale luogo deve essere inteso in senso funzionale ed oggettivo, quale luogo di stanzialità e di stabile ubicazione e cioè quale luogo della sede dell’ufficio (Sez. 6 – 3, n. 22526 del 23/10/2014, Rv. 634404 – 01).

Da ultimo e per completezza, anche del Regolamento UE 27/04/2016 n. 679, art. 79, il comma 2 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (regolamento generale sulla protezione dei dati – GDPR) comunque inapplicabile ratione temporis, a differenza della previgente Direttiva 24/10/1995 n. 46 1995/46/CE, prevede espressamente che le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento debbono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente, salvo che il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento sia un’autorità pubblica di uno Stato membro nell’esercizio dei pubblici poteri. Il considerando 22 precisa che lo stabilimento implica l’effettivo e reale svolgimento di attività nel quadro di un’organizzazione stabile. A tale riguardo, non è determinante la forma giuridica assunta, sia essa una succursale o una filiale dotata di personalità giuridica.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, l’Istituto ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11, 18, 28, 30, 35 e 112 nonchè dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. 2.1. L’INPS critica in tal modo la decisione impugnata anche con riferimento alla ritenuta violazione della disciplina del trattamento dei dati personali da parte dell’Ente pubblico datore di lavoro della Dott.ssa M., che sarebbe stata consumata per effetto, da un lato, delle modalità di comunicazione dell’ordine di servizio n. 2 del 2011, riguardante la revoca della sua posizione organizzativa di capo area pensioni, dall’altro, del coinvolgimento di soggetti chiamati alla gestione del documento.

Secondo il ricorrente, la gestione dei dati relativi alla sig.ra M. (con particolare riferimento al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati dall’Ente), era avvenuta nel rispetto del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11 e 18 per scopi determinati e nello svolgimento delle funzioni istituzionali.

L’affermazione che la materiale gestione dei documenti contenenti i dati personali sia stata affidata a soggetti non legittimati e privi di ruolo di responsabile e incaricato del trattamento è stata fondata su di un presupposto errato, ossia che presso la sede di Latina non fosse stata istituita la figura dell’incaricato e che tale carenza non fosse surrogabile dall’ordine di servizio n. 2/2009 che avrebbe semplicemente delineato i compiti amministrativi del personale di segreteria.

Come risultava invece da apposito elenco, trascritto nel ricorso “ai fini di completezza e autosufficienza”, al punto 64 figurava il nome di Stefanile Anna, ossia dell’addetta alla segreteria del dirigente che aveva provveduto materialmente alla consegna della nota come emergeva dalle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina il 7/5/2012 in sede di ispezione della Guardia di Finanza. Inoltre dall’ordine di servizio n. 2 del 2009, depositato con il documento 13 dalla ricorrente, risultava che la predetta S.A. era preposta ad occuparsi della notifica e della conservazione di tutti gli atti della segreteria del personale e del dirigente ed era addetta all’archivio fascicoli del personale.

2.2. E’ opportuno premettere che il motivo, al pari di quelli successivi, dedotti per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, contiene una clausola finale, rivolta a lamentare anche violazione dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. Si tratta peraltro di una sorta di formulazione di stile volta a rafforzare le censure svolte, ma priva di un autonomo contenuto, del resto neppur sviluppato nel ricorso sotto il profilo argomentativo.

2.3. Il ricorrente fonda la propria censura su alcuni documenti ossia l’elenco degli incaricati al trattamento dei dati trasmesso con missiva di posta elettronica dalla Direzione di Latina alla Direzione Centrale Affari Generali e Legislativi, Ufficio 4 dell’INPS del 18/9/2008 (doc. 6 del fascicolo di primo grado INPS), il verbale delle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina in data 7/5/2012 alla Guardia di Finanza (doc. 3 del fascicolo di primo grado prodotto dall’INPS con la memoria di costituzione) e infine l’ordine di servizio n. 2/2009 del 1/6/2009 relativo ai compiti assegnati al personale (allegato sub 13 al ricorso introduttivo).

Il ricorso quindi contiene, come prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la specifica indicazione dei documenti sui quali si fondano le sue censure, documenti del resto depositati ex art. 372 c.p.c..

2.4. Il ricorso contiene non solo la sintesi dei passaggi rilevanti e l’integrale trascrizione dei documenti invocati, ma addirittura la loro incorporazione grafica nel testo: tecnica questa sovrabbondante e non raccomandabile, eppur priva di conseguenze sul piano dell’ammissibilità delle censure svolte.

Secondo questa Corte, qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione (Sez. 5, n. 13625 del 21/05/2019, Rv. 653996 – 01).

Sono infatti inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora: (a) il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso; ovvero (b) li abbia riprodotti ma senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame; ovvero ancora (c) non ne abbia precisato la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità. (Sez. U, n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

Pertanto in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, qualora sia dedotta la omessa o viziata valutazione di documenti, deve procedersi ad un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, nonchè alla specifica indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza sulla base del solo ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso (Sez. 1, n. 5478 del 07/03/2018, Rv. 647747 – 01).

Non appare pertinente il tentativo della controricorrente di rinvenire una ragione di inammissibilità del ricorso dell’INPS nell’utilizzo della predetta tecnica con riferimento alla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 in ordine all’esposizione dei fatti rilevanti di causa mediante tecnica di cosiddetto “assemblaggio” (Sez. U, n. 5698 del 11/04/2012, Rv. 621813 – 01), dal momento che nella fattispecie l’INPS ha impiegato tale metodo di incorporazione grafica solo per produrre i documenti non adeguatamente valutati, dando tuttavia conto delle ragioni per cui ne invocava l’esame e non già per assolvere all’obbligo di sintetica esposizione dei fatti di causa.

2.4. Il predetto secondo motivo del ricorrente INPS è stato dedotto ex art. 360, n. 3 per violazione e/o falsa applicazione di legge.

A rigore, almeno quanto all’elenco dei soggetti abilitati al trattamento dati e forse anche quanto alle mansioni attribuite alla collaboratrice, non si evidenzia un errore nell’applicazione della legge e nemmeno nella sussunzione nella norma della fattispecie concreta, perchè la critica (come si dirà, fondatamente) l’accertamento del fatto a cui sono state applicate le norme: e cioè, diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale, quanto alla sussistenza di un elenco dei soggetti autorizzati al trattamento dati e al fatto che la collaboratrice amministrativa incaricata della consegna della missiva aveva compiti precisi che implicavano la possibilità di conoscenza della contenuto della lettera.

In realtà, a ben vedere, l’Istituto ricorrente lamenta, anche e soprattutto, un vizio di omesso esame di fatti decisivi, indica i documenti che li comprovavano, dice quando sono stati prodotti, ne trascrive integralmente il contenuto: quindi, almeno in parte, il motivo, pur non invocando l’art. 360, n. 5, deduce nella sostanza quel tipo di vizio.

In applicazione del principio jura novit curia secondo cui “narra mihi factum, dabo tibi jus” compete a questa Corte la riqualificazione della la censura con il corretto nomen juris, avuto riguardo al suo contenuto sostanziale, come ritenuto da consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Sez. 6 – 5, n. 26310 del 07/11/2017, Rv. 64419 01; Sez. 6 – 5, n. 25557 del 27/10/2017, Rv. 646414 – 01; Sez. 6 – 3, n. 4036 del 20/02/2014, Rv. 630239 – 01; nonchè Sez. U, n. 17931 del 24/07/2013, Rv. 627268 – 01).

2.5. La censura appare fondata.

Il Tribunale ha dapprima, correttamente, qualificato le informazioni relative alla revoca della sig.ra M. dalla posizione di responsabile dell’Area Pensioni presso la sede di Latina dell’INPS – Gestione ex INPDAP, come “dati personali” D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 4 applicabile ratione temporis, prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 2016/679.

Quindi nel p. 3.2.3. (pag.17-18 della sentenza impugnata) il Tribunale ha ritenuto illegittima la trasmissione della missiva effettuata a mani da una persona addetta alla segreteria mediante consegna del documento privo di busta, in contrasto con quanto previsto dal punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 che, in tema di modalità di comunicazione impone l’adozione di opportune cautele volte a prevenire l’ingiustificata conoscibilità di dati personali da parte di soggetti diversi dal destinatario.

Tanto premesso, secondo il Tribunale, la persona che aveva trasmesso l’atto alla sig.ra M. non rivestiva la posizione di incaricato al trattamento dei dati D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 30 visto che tale figura non era stata istituita presso la Sede INPS di Latina; nè tale carenza poteva essere surrogata dall’ordine di servizio 2/2009, che delineava solamente i compiti amministrativi demandati ai vari addetti alla segreteria e non abilitava gli addetti alla notifica dei provvedimenti del Dirigente anche al trattamento dei dati.

2.6. Tali affermazioni contengono vari errori, puntualmente stigmatizzati dall’Istituto ricorrente.

In primo luogo, dal documento n. 6 del fascicolo di primo grado INPS risulta l’esistenza – negata dal Tribunale – di un elenco di soggetti incaricati al trattamento dei dati, trasmesso con missiva di posta elettronica dalla Direzione di Latina alla Direzione Centrale Affari Generali e Legislativi, Ufficio 4 dell’INPS del 18/9/2008, in cui figura al n. 64 il nome di S.A., addetto di supporto Al.

Dal verbale delle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina in data 7/5/2012 alla Guardia di Finanza (doc. 3 del fascicolo di primo grado prodotto dall’INPS con la memoria di costituzione) risulta che la persona che consegnò la missiva senza busta alla Dott.ssa M. era proprio la predetta S.A..

Infine, l’ordine di servizio n. 2/2009 del 1/6/2009 relativo ai compiti assegnati al personale (allegato sub 13 al ricorso introduttivo) attribuisce alla predetta S.A. non solo il compito di provvedere alla spedizione e curare la notifica della corrispondenza della segreteria del personale e del Dirigente, ma anche le mansioni di provvedere alla conservazione di atti e corrispondenza e di curare l’archivio dei fascicoli del personale, incarichi questi che implicano necessariamente l’accesso cognitivo al contenuto degli atti conservati e archiviati.

2.7. Per ravvisare l’illecito lamentato dalla ricorrente sig.ra M. il Tribunale avrebbe dovuto accertare che la lettera contenente i dati personali in questione fosse stata incautamente resa accessibile ad un soggetto diverso da quello abilitato al trattamento dei dati, alla sua notificazione, conservazione e archiviazione: accertamento doveroso, non compiuto dalla sentenza impugnata.

2.8. Non persuadono poi le obiezioni, invero molto generiche, svolte dalla controricorrente circa il mancato aggiornamento dell’elenco, risalente al 2008, tre anni prima dei fatti di causa, sia perchè la controricorrente non offre riscontro di tale contestazione nel giudizio di merito, sia perchè non risulta che tale elenco sia stato modificato, sia perchè, quand’anche alcuni dipendenti fossero stati trasferiti, non lo era la predetta sig.ra S.A. (unica circostanza rilevante).

Nè, infine, assume rilievo l’obiezione che l’elenco non riguarderebbe il trattamento di dati personali sensibili, non essendo stati ritenuti tali quelli oggetto di controversia, qualificati invece come meri dati personali.

2.9. Solo con la memoria ex art. 380 bis-1 c.p.c. del 30/6/2020 la controricorrente ha articolato ulteriori difese in ordine al contenuto dell’elenco del personale abilitato e dell’ordine di servizio 2/2009, volte a predicarne, sotto diversi profili, la genericità o la non conformità alle prescrizioni normative, che attengono tuttavia evidentemente al merito della valutazione che il Tribunale dovrà rinnovare in sede di rinvio, senza omettere l’esame delle circostanze di fatto oggetto dei documenti sopra citati.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, l’Istituto ricorrente denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dei principi dell’art. 111 Cost. e in particolare del comma 2 e del nucleo di garanzie irrinunciabili e coessenziali a un processo giusto in riferimento ai quali vanno ricondotti gli errori in procedendo, in lettura integrata con l’art. 6 CEDU. 3.1. Secondo l’INPS, il Tribunale era incorso in palese violazione di regole processuali nella valutazione delle prove in ordine alla ravvisata indebita divulgazione di dati personali relativi alla rimozione di M.P.L. dalla sua posizione di capo area pensioni nel corso della riunione sindacale del 31/5/2011 in cui erano state discusse le modifiche organizzative apportate con l’ordine di servizio n. 2 del 2011.

Secondo l’Istituto, non era stata infatti esaminata la prova documentale rappresentata dal verbale della riunione, allegata al ricorso introduttivo (doc. 7 ricorrente), la cui lettura dimostrava in modo lampante che esso non conteneva alcun riferimento ai risultati conseguiti dalla sig.ra M. e alle ragioni della sua revoca dalla posizione organizzativa; di conseguenza, il contenuto della prova era stato travisato in modo incontrovertibile, cosa che smentiva in modo evidente l’assunto del Tribunale secondo cui, come confermato dal teste B. all’udienza del 10/4/2014 la diffusione dei dati personali era avvenuta nell’ambito della predetta riunione sindacale.

3.2. La controricorrente M. ritiene violato l’art. 372 c.p.c. perchè il documento in questione (che non era stato prodotto dall’INPS, ma da lei nel giudizio di merito) richiamato, allegato e riprodotto nel testo del ricorso ha un contenuto parzialmente diverso da quello effettivamente prodotto dalla sig.ra M., allora ricorrente: in particolare il documento in questione manca di due pagine rispetto a quello prodotto e contiene invece diciture relative alla sua trasmissione via fax da Latina a Milano nel 2012, assenti nel documento prodotto.

La Corte può agevolmente superare tali obiezioni, di cui per vero non è ben chiara la rilevanza perchè volte a dimostrare differenze formali nel contenuto dei documenti, prive però di indicazioni circa la loro rilevanza ai fini di causa, in omaggio al principio della “ragion più liquida” ispirato al principio di economia processuale.

3.3. Il motivo deve infatti ritenersi inammissibile in quanto privo di specificità e pertinenza rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

A pag. 17 il Tribunale ha infatti affermato che “In definitiva, la diffusione della notizia della rimozione di M.P.L. dalle funzioni cui era stata preposta, avvenuta, come confermato dal teste B. sentito all’udienza del 10/4/2014, sicuramente nell’ambito della riunione sindacale del 31/5/2011, integra una condotta contraria alle norme precauzionali…”.

In tal modo l’accertamento del fatto lesivo avvenuto nel corso dell’incontro sindacale, ossia la divulgazione indebita della notizia della rimozione della signora M. dal suo incarico nell’ambito di una riunione sindacale è stato fondato dal Giudice di prima cura non già sul verbale della riunione, che, redatto in forma sintetica, ben può non riportare l’integrale contenuto di tutte le comunicazioni verbali intercorse in quell’occasione fra i soggetti coinvolti, ma sulle dichiarazioni del teste B., e quindi sul risultato di una prova testimoniale.

Il motivo pertanto non coglie il segno, trascurando di dar conto e affrontare criticamente la principale ragione sulla base della quale il Tribunale di Latina ha ritenuto che fosse stata realmente effettuata in quella circostanza di tempo e di luogo l’indebita diffusione di dati personali della sig.ra M..

4. Con il quarto motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’art. 2050 c.c. nonchè dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. 4.1. L’INPS sostiene che per potersi apprezzare una lesione ingiustificabile in tema di dati personali, suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 15 non è sufficiente la mera violazione ma occorre una violazione sensibilmente offensiva, in difetto di dimostrazione di un pregiudizio significativo sofferto in conseguenza.

Nella fattispecie mancava in concreto la prova della gravità della lesione e della serietà del danno.

4.2. Il quarto motivo (erroneamente classificato quinto nel controricorso della sig.ra M.) riguarda la risarcibilità del danno non patrimoniale da illecito trattamento dei dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.

L’orientamento giurisprudenziale più recente, condiviso anche dal Tribunale di Latina e conforme agli indirizzi di questa Corte (da ultimo Sez. 1, n. 207 del 8/1/2019), riconduce l’illecito trattamento di dati personali ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, anche alla luce dell’esplicito rinvio compiuto dalla legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 applicabile pro tempore) all’art. 2050 c.c..

Pertanto, il danneggiato che lamenti la lesione dell’interesse non patrimoniale può limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno e del nesso di causalità rispetto al trattamento illecito, mentre spetta al danneggiante titolare del trattamento, eventualmente in solido col responsabile, dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Questo schema è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (art. 82.3 GDPR) che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountability) addossa al titolare del trattamento dei dati – eventualmente in solido con il responsabile il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di onere della prova, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dal regime più favorevole dell’onere della prova, descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonchè dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità (Sez. 1, 08/01/2019, n. 207; Sez. 1, 25/1/2017 n. 1931; Sez. 1, n. 10638 del 23/05/2016).

Per altro verso, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15 pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato) alla stregua dei parametri generali scolpiti dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 26972-26975 dell’11/11/2008; infatti anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui la regola di tolleranza della lesione minima costituisce intrinseco precipitato, sicchè determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva. Il relativo accertamento di fatto è tuttavia rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale (Sez. 3, n. 16133 del 15/07/2014, Rv. 632536 – 01; Sez. 3, n. 20615 del 13/10/2016, Rv. 642913 – 02; Sez.1, 8/1/2019 n. 227).

Il titolare del trattamento, per non incorrere in responsabilità deve dimostrare che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile e non può limitarsi alla prova negativa di non aver violato le norme (e quindi di essersi conformato ai precetti), ma occorre la prova positiva di aver valutato autonomamente il rischio di impresa, purchè tipico, cioè prevedibile, e attuato le misure organizzative e di sicurezza tali da eliminare o ridurre il rischio connesso alla sua attività. In ogni caso, come lo stesso Istituto ricorrente riconosce, l’accertamento del danno non patrimoniale è un accertamento di fatto, “rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (cfr. sent.16133/2014, citata).

4.3. La pronuncia impugnata non si è sottratta alla corretta applicazione dei principi illustrati, richiedendo l’allegazione e la prova da parte della parte danneggiata del danno-conseguenza, e ribadendo che il danno risarcibile non si identificava con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le sue conseguenze causali.

Ciò ha condotto il Tribunale ad escludere un danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica ma a ravvisare un danno non patrimoniale da sofferenza morale, pure dedotto da parte attrice e ritenuto dimostrato sulla base di un ragionamento presuntivo fondato su regole di esperienza.

Se è pur vero che il Tribunale sembra aver ritenuto operante una presunzione di sussistenza della sofferenza morale in caso di indebito trattamento dei dati personali, in apparente contraddizione con i principi generali in tema di riparto dell’onere probatorio dapprima richiamati, il Giudice latinense non si è comunque sottratto a una valutazione in concreto, allorchè, a pagina 34, ha fatto leva sulla massima di esperienza secondo cui dalla diffusione di valutazioni negative relative al proprio operato professionale normalmente scaturisce sofferenza morale dell’interessato, salvo poi circoscriverne l’entità in concreto sotto il profilo quantitativo considerando, da un lato, l’assenza di prova di elementi di personalizzazione specifici del pregiudizio e, dall’altro, il carattere limitato dell’ambito soggettivo di divulgazione ristretto all’ufficio ove la Dott.ssa M. prestava servizio.

Con la stessa valutazione, non sindacabile in sede di legittimità, il Tribunale ha escluso, implicitamente ma inequivocabilmente, con l’apprezzamento di un pregiudizio di media entità, che si fosse in presenza di una lesione minima e bagatellare dei diritti della personalità dell’interessata e di un pregiudizio irrisorio, e pertanto da ritenersi tollerabile alla luce del principio di solidarietà sociale.

4.4. Naturalmente anche l’entità del pregiudizio dovrà essere rivista alla luce dell’accoglimento del secondo motivo e del possibile ridimensionamento oggettivo dell’illecito in sede di giudizio di rinvio.

5. Anche il Garante per la protezione dei dati personali ha proposto ricorso incidentale contro la sentenza del Tribunale di Latina notificatagli in data 5/10/2015, con il controricorso recante ricorso incidentale, notificato il 30/12/2015, fondato su cinque motivi.

5.1. Con il primo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 2, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione delle norme sulla competenza, e in particolare del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 1 e dell’art. 46 c.c. e art. 19 c.p.c..

5.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 30 e del punto 5.3. delle “Linee guida per il trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico del 14/6/2007”.

5.3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione del del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11.

5.4. Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

5.5. Con il quinto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, il Garante lamenta travisamento di prova e omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, con riferimento al contenuto del verbale di incontro sindacale del 31/5/2011.

5.6. L’impugnazione incidentale tardiva, da qualunque parte provenga, deve essere dichiarata inammissibile laddove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale (Sez. 3, n. 27616 del 29/10/2019, Rv. 655641 – 01; Sez. L, n. 6156 del 14/03/2018, Rv. 647499 – 01; Sez. 3, n. 19188 del 19/07/2018, Rv. 649738 – 01; Sez. 3, n. 15220 del 12/06/2018, Rv. 649306 – 01).

Nella specie, anche volendo ravvisare un interesse del Garante all’impugnazione della sentenza del Tribunale di Latina e la sua soccombenza, nonostante il rigetto della domanda risarcitoria nei suoi confronti e il mancato addebito delle spese processuali, in ragione dell’annullamento del provvedimento da lui emesso e comunque dell’accoglimento delle tesi della ricorrente circa l’illecito trattamento dei suoi dati personali, da lui avversata in sede amministrativa e giurisdizionale, appare assorbente il rilievo che tali circostanze preesistevano inequivocabilmente all’impugnazione dispiegata dall’INPS che in nessun modo poteva risultargli pregiudizievole.

La tardività del ricorso rispetto al termine di sessanta giorni imposto dalla notifica ricevuta il 5/10/2015 comporta l’inammissibilità del ricorso del Garante e la considerazione del suo contenuto come mera difesa adesiva a supporto del ricorso principale.

6. In accoglimento quindi del secondo motivo di ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Latina in diversa composizione.

7. La Corte ritiene necessario disporre che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso principale, respinto il primo, inammissibile il terzo, respinto il quarto nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di Latina, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 16 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 08-07-2020) 09-09-2020, n. 18675

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8434-2017 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

S.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 8588/32/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 04/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ENZA LA TORRE.

Svolgimento del processo
che:

L’Agenzia delle entrate ricorre per l’annullamento della sentenza della CTR della Campania, n. 8588/32/2016 dep. 4 ottobre 2016, che in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per Irpef Iva, Irap anno 2008, ha rigettato l’appello dell’Ufficio. La CTR ha ritenuto nulla la sottoscrizione dell’accertamento “rinvenendosi in atti un mero richiamo ad una asserita delega n. 30 del 2013 non prodotta in giudizio a seguito della contestazione del contribuente”.

Il contribuente non ha svolto difese in questa sede.

Questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 28 ottobre 2019, n. 27570 del 2019, ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio per verificare le doglianze della ricorrente.

Motivi della decisione
che:

Col primo motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato dall’esistenza in atti, fin dal primo grado di giudizio, di copia del provvedimento di delega di firma n. 30/2013 e di provvedimento n. 17/2012.

Col secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42. La ricorrente Agenzia censura la sentenza impugnata per avere la CTR ritenuto che la delega conferita al sottoscrittore dell’atto non contenesse l’indicazione nominativa del delegato e la durata di validità della delega, trattandosi di delega di firma e non di funzioni, riservate al delegante.

I motivi, che per la loro stretta connessione meritano un esame congiunto, sono fondati.

Questa Corte (Cass. sez. 5 n. 8814 del 2019, seguito da Cass. sez. 6/5 n. 18383/2019) ha affermato che “La delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente ex al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, è una delega di firma e non di funzioni: ne deriva che il relativo provvedimento non richiede l’indicazione nè del nominativo del soggetto delegato, nè della durata della delega, che pertanto può avvenire mediante ordini di servizio che individuino l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, “ex post”, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto”.

La sentenza impugnata, negando validità alla delega priva del nominativo del soggetto delegato, non risulta conforme alla menzionata pronuncia di questa Corte. Ed infatti, dall’esame del fascicolo di merito è emerso che in esso è versata la delega n. 30 del 2013 – “proroga delle deleghe di firma” – che conferma le deleghe precedentemente conferite con la Disp. di servizio n. 17 del 2012, dal direttore provinciale B.M., al funzionario P.R.M., firmataria dell’avviso di accertamento de qua.

In conclusione, in accoglimento ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale Campania, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 10-07-2020) 02-09-2020, n. 18235

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16505-2019 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati MASSIMO FASANO, GIORGIO PASCA;

– ricorrente –

e contro

PARROCCHIA NATIVITA’ DELLA BEATA VERGINE MARIA, R.C., R.L., R.M., R.F., PROURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI LECCE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 333/2019 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 01/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da R.G. contro sentenza di primo grado del tribunale della stessa città resa nel contraddittorio con la Parrocchia Natività della Beata Vergine Maria, R.C., R.L., R.M., R.F., con la chiamata in causa del pubblico ministero.

In particolare, la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto tardiva l’impugnazione perchè notificata a mezzo posta elettronica alle 23:37 dell’11 aprile 2016, ultimo giorno utile ed essendosi pertanto quella stessa notificazione perfezionata, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16, alle ore 7:00 del giorno successivo, quando il termine per proporre appello era decorso. Nella sentenza si precisa che il termine aveva incominciato a decorrere l’11 marzo 2016 (data di notificazione della sentenza di primo grado), coincidendo quindi il trentesimo giorno con la domenica 10 aprile 2016, prorogato di diritto al successivo 11 aprile 2016.La notificazione, però, era stata eseguita a mezzo pec oltre le ore 23:00 di tale ultimo giorno, con la conseguenza sopra indicata.

R.G. propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, con il quale si denuncia “violazione e falsa applicazione di nome di diritto per sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma applicata, id est D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-septies convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221”.

Il ricorso è stato fissato per la trattazione dinanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore.

In primo luogo, si rileva che la sentenza impugnata è stata depositata il 1 aprile 2019; benchè nel ricorso si assuma che essa è stata notificata nella medesima data del 1 aprile 2019, è stata tuttavia prodotta la copia autentica di essa, senza la relazione di notificazione, come invece prescrive a pena di improcedibilità l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2. La omissione, però, non comporta la sanzione della improcedibilità del ricorso perchè, in disparte l’anomalia di una notificazione avvenuta nella stessa data della pubblicazione, il ricorso è stato notificato il 23 maggio 2019, entro i sessanta giorni dalla pubblicazione. E’ quindi applicabile il principio secondo cui pur in difetto della produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima, prescritta dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poichè il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza indicata nel ricorso e quella della notificazione del ricorso, emergente dalla relata di notificazione dello stesso, assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2″ (Cass. n. 11386/2019; n. 17066/2013).

Il ricorso è fondato.

Con sentenza n. 75/2019, depositata in data 9 aprile 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv. in L. n. 221 del 2012) “nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta”.

Consegue la tempestività dell’appello di R.G., in quanto notificato entro le ore 24:00 dell’ultimo giorno utile.

Per completezza di esame si richiama il principio secondo cui “l’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni consolidate per effetto di intervenute decadenze; tale limite, tuttavia, non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza” (Cass. n. 1644/2019; n. 5240/2000).

La sentenza, pertanto, deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione perchè decida sulla proposta impugnazione. La corte di rinvio liquiderà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie ricorso; cassa la sentenza; rinvia alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 24-06-2020) 02-09-2020, n. 18245

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33460-2018 proposto da:

D.L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO, 32, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLA STURDA’, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO DI DATO;

– ricorrente –

contro

FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES ITALY S.P.A., (già F.M.A. S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio degli avvocati RAFFAELE DE LUCA TAMAJO e GIORGIO FONTANA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2442/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/05/2019 r.g.n. 3659/2016.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 16.5.2018, respingeva il gravame proposto da D.L.V. avverso la decisione del Tribunale di Avellino che aveva rigettato la domanda del predetto, intesa ad ottenere, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 20.11.2011 dalla FIAT Chrysler Automobiles Italy s.p.a., la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno;

2. la Corte partenopea riteneva che, con riguardo ai fatti risultati incontroversi, dell’assenza del D.L. dal lavoro nei giorni 24 novembre ed 1 e 2 dicembre 2011 per motivi di salute consistenti nella “dermatite acuta alle mani” e nello svolgimento, da parte del predetto, di altra attività presso il bar Ciotola nei giorni di assenza, non poteva ritenersi realizzata la dedotta violazione del principio della immutabilità dei fatti contestati, in quanto rispetto alla contestazione originaria non si era verificata alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore attraverso una sostanziale immutazione del fatto addebitato, ravvisabile solo quando il quadro di riferimento fosse totalmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione;

3. nel caso considerato, il Tribunale, secondo il giudice del gravame, aveva correttamente applicato i principi indicati laddove aveva individuato l’oggetto della contestazione nella esecuzione, da parte del lavoratore, assente dal lavoro per malattia, di un’attività lavorativa presso il bar-pasticceria della moglie, con conseguente violazione dei doveri di correttezza e buona fede imposti in costanza di malattia, finalizzati a garantire il sollecito recupero delle energie da porre a disposizione del datore di lavoro;

4. tale accertamento, a dire della Corte, non travalicava il limiti posti dalla contestazione disciplinare, avendo la società posto l’accento sull’avere il dipendente espletato attività presso terzi proprio nei giorni in cui lo stesso era stato assente dal lavoro per malattia non tanto per contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto allo scopo di sanzionare la colpevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale;

5. la Corte rimarcava la differenza tra la contestazione nel procedimento disciplinare ed in quello penale e rilevava che una circostanza in tanto poteva essere considerata nuova, in quanto esulasse dall’originario atto di incolpazione, ciò che non si verificava allorchè il fatto in relazione al quale il licenziamento era intimato potesse essere ricompreso nella contestazione, della quale costituiva specificazione;

6. osservava che l’istruttoria aveva pienamente confermato la sussistenza della giusta causa del licenziamento e che la patologia da cui il D.L. era risultato affetto nel periodo di assenza dal lavoro gli avrebbe imposto una condotta diversa da quella tenuta, quale emersa dalla deposizione dei testi, che avevano confermato anche che il lavoratore aveva provveduto, tra la altre incombenze, al lavaggio di stoviglie ed alla preparazione di caffè – esponendo le mani a fonte di calore – all’interno dell’esercizio commerciale gestito dalla moglie, condotta questa inidonea a garantire il recupero della propria integrità fisica nel periodo di assenza dal lavoro;

7. di tale decisione domanda la cassazione il D.L., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Motivi della decisione
CHE:

1. con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione, sotto più profili, della L. n. 300 del 1970, nonchè dell’art. 2119 c.c., censurando la inadeguata interpretazione, da parte della Corte distrettuale, delle norme richiamate, in relazione al caso concreto, per avere la stessa ritenuto, in maniera errata, che il datore di lavoro potesse risolvere il rapporto con il proprio dipendente in conseguenza della ravvisata lesione, da parte del D.L., del vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro;

1.1. il ricorrente contesta l’erronea applicazione del principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità, alla cui stregua non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante l’assenza, attività lavorativa in favore di terzi, purchè questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero, compromettendone la guarigione, implichi inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro; in particolare, evidenzia, come nella specie gli unici addebiti contenuti nella contestazione erano riferiti alla simulazione della malattia ed alla inattendibilità della certificazione, la cui prova, a dire dello stesso, non era stata fornita, avendo peraltro la sentenza di primo grado asseritamente negato la sussistenza di tali addebiti, per avere trovato la patologia attestata conferma nelle dichiarazioni del medico che l’aveva certificata;

1.2. osserva che quest’ultimo, escusso come teste, aveva paventato la possibilità di peggioramento della patologia dovuto all’utilizzo di solventi ed acqua, senza riferimento al caso specifico, dovendo pertanto ritenersi assente ogni prova che la dedotta attività lavorativa ulteriore prestata dal D.L. durante la malattia avesse determinato il prolungarsi dei tempi di recupero della sua integrità fisica; assume di essersi limitato a prestare un aiuto alla moglie nel bar di proprietà della stessa e che si sia realizzata anche la violazione, la falsa ed erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, dell’art. 2106 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 2 deducendo, altresì, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, laddove la contestazione non era stata sufficientemente specifica; aggiunge che la pronunzia impugnata si è posta anche in violazione del principio di corrispondenza tra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, posto che il primo era ontologicamente diverso dal secondo;

1.3. in particolare, sostiene che il licenziamento dapprima era stato intimato paventandosi la simulazione della malattia attestata dai certificati medici inviati dal lavoratore, per poi essere trasformato, nel corso del processo di primo grado, in un licenziamento motivato dall’impossibilità di guarigione dalla malattia diagnosticata, la dermatite, per avere il D.L. svolto ulteriore attività presso il bar della moglie; nella sostanza chiarisce di addebitare alla decisione la violazione del principio di immodificabilità della contestazione, per avere il giudice del merito ritenuto possibile che al contestato svolgimento di altra attività lavorativa nel periodo di malattia, di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità a giustificazione dell’assenza e l’inattendibilità del certificato medico, potesse far seguito un successivo licenziamento motivato esclusivamente dalla simulazione di detta certificazione;

2. con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., assumendo che il datore di lavoro aveva omesso di fornire adeguata prova circa la incompatibilità tra l’attività extralavorativa svolta e la patologia denunziata, ivi compresa la prova della durata dell’attività extralavorativa, la gravosità dell’impegno fisico ivi profuso, la puntualità della ripresa del lavoro, l’incompatibilità dell’attività extra lavorativa svolta durante la malattia con il recupero delle normali energie psicofisiche ed anche la prova degli effettivi addebiti contestati (inattendibilità della certificazione medica) la cui sussistenza era stata anche esclusa dal giudice di primo grado; la violazione dell’art. 112 c.p.c. è riconnessa alla circostanza che la Corte d’appello si era uniformata alla decisione di primo grado affrontando la problematica relativa alla idoneità o meno del lavoro svolto a ritardare la ripresa del servizio, laddove l’argomento non era stato oggetto nè di domanda, nè di eccezione;

3. il primo motivo presenta profili di inammissibilità connessi al suo confezionamento come motivo composito, simultaneamente volto a denunciare violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini riportati). Ciò a prescindere dalla non corretta deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 secondo il paradigma deduttivo e devolutivo prescritto dal nuovo testo di tale norma secondo le indicazioni fornite da Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439, e, prima ancora, dalla preclusione deduttiva discendente dalla sussistenza di un “doppia conforme”;

3.1. quanto alle deduzioni di violazione in diritto, vero è che la contestazione, quale riportata nel suo contenuto, è riferita principalmente all’essersi il lavoratore sottratto ai suoi obblighi contrattuali ponendo in essere una condotta illecita integrata dall’assenza dal lavoro per malattia, pur svolgendo altra attività lavorativa, e dall’essersi in tal modo sottratto all’obbligo della prestazione lavorativa, dimostrando al contempo la palese inattendibilità ed inidoneità del certificato medico inviato a giustificare le assenze indicate; tuttavia, l’addebito disciplinarmente rilevante era ritenuto nella sostanza diretto, come dal giudice del merito interpretata la contestazione – interpretazione non suscettibile di sindacato nella presente sede di legittimità ove il corrispondente vizio non sia dedotto nei modi appropriati -, non tanto a contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto a sanzionare la sottrazione consapevole del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in genere;

3.2. ciò è, d’altronde, conforme a quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonchè dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sè, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (cfr., tra le altre, Cass. 19.10.2018 n. 26496, Cass. 27.4.2017 n. 1041);

3.3. questa Corte ha ulteriormente precisato che “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”… “ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore” (Cass. 5.8.2014 n. 17625): il principio enunciato, cui si ricollega anche la censura riferita alla violazione del principio di immutabilità della contestazione, è quello posto a presidio del diritto di difesa, sul rispetto del quale la Corte distrettuale ha ampiamente motivato;

3.4. il giudice del gravame ha, invero, interpretato la lettera di contestazione nel senso che la società “ha sempre posto l’accento sul fatto che il dipendente abbia espletato attività presso i terzi proprio nei giorni in cui era assente dal lavoro per malattia non tanto al fine di contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza (sulla quale la parte datoriale ha solo gettato velati dubbi), quanto allo scopo di sanzionare la consapevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale”, e nessuna censura all’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale è prospettata nel motivo di ricorso, in modo idoneo a scalfire la valutazione posta a sostegno del decisum, che, al contrario, si rivela coerente con una corretta applicazione dei principi di diritto su richiamati;

3.5. il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, consente di ritenere realizzata la relativa violazione solo qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implichino una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione (cfr. Cass. 25.3.2019 n. 8293, v. anche Cass. 10.11.2017 n. 26678);

3.6. su altro versante, deve ugualmente ritenersi esente dalle censure prospettate la decisione della Corte territoriale laddove, muovendo da un corretto principio di diritto, ha ritenuto che il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per ciò solo deve astenersi da ogni altra attività, essendo l’unico limite rappresentato dalla necessaria compatibilità di tale attività con lo stato di malattia e dalla sua conformità all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perchè cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro; in proposito questa Corte ha affermato che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (cfr. Cass. 5 agosto 2014 n. 17625, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474);

3.7. l’accertamento peritale richiamato nella sentenza impugnata ha consentito alla Corte territoriale di verificare, attraverso una valutazione rimessa al suo insindacabile giudizio, che i tempi di recupero dalla malattia diagnosticata al dipendente erano stati pregiudicati dal comportamento del D.L., il quale aveva lavato le stoviglie e preparato caffè e ciò, differentemente da quanto assume il ricorrente, con riferimento al caso concreto e non ad un parere espresso in astratto;

4. con riguardo al secondo motivo di ricorso, indipendentemente dall’adesione al principio, affermato dal ricorrente, secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, grava sul datore di lavoro l’onere della prova che lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extralavorativa durante lo stato di malattia ha inciso in termini negativi sulla propria salute ed in termini di ritardata guarigione, contrastando con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro (v. Cass. 1173/2018 cit., e Cass. 21.3.2011 n. 6375), è sufficiente riportarsi all’insegnamento di questa Corte secondo cui il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove… va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. 14.7.2017 n. 17598, Cass. 25.9.2013 n. 21909);

4.1. nella specie, la sentenza ha accertato, sulla base dell’istruttoria espletata, che il D.L. si era dedicato durante l’assenza dal lavoro ad un’attività lavorativa assolutamente sconsigliata, idonea ad aggravare la patologia, senza adottare alcuna misura precauzionale, avuto riguardo al certificato medico rilasciato dal Dott. D.P., che, escusso come teste, ha affermato che sia l’utilizzo di acqua durante il lavaggio di stoviglie, sia l’esposizione a fonti di calore per la preparazione di bevande calde erano inopportune in presenza della dermatite alle mani e che ciò rappresentava, secondo la Corte distrettuale, una condotta inidonea a garantire il recupero, da parte del lavoratore, della propria integrità fisica;

4.2. sulla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., è sufficiente il richiamo a Cass. 21.11.2013 n. 26290, secondo cui non può ritenersi estraneo al giudizio vertente sul corretto adempimento dei doveri di buona fede e correttezza gravanti sul lavoratore un comportamento che, inerente ad attività extralavorativa, denoti l’inosservanza di doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa;

4.3. la censura va pertanto disattesa, dovendo, più in generale, osservarsi che il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti: ne deriva che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (cfr., tra le altre, da ultimo, Cass. 3.7.2019 n. 17897);

5. alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

7. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, citato D.P.R., ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 27-02-2020) 19-08-2020, n. 17373

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 03493/2013 R.G. proposto da Equitalia Sud s.p.a. (C.F. 11210661002), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Ivana Carso, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Antonella Fiorini, in Roma via Costabella 26. – ricorrente –

contro

C.S. (C.F. (OMISSIS)), in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso da se stesso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Paolo Panariti, in Roma via Celimontana 38. – controricorrente –

e contro

Agenzia delle Entrate (C.F. 80224030587), in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi 12. – resistente –

Avverso la sentenza n. 50/08/2012 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, depositata il giorno 15 giugno 2012.

Sentita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27 febbraio 2020 dal Consigliere Giuseppe Fichera.

Svolgimento del processo
C.S. impugnò l’avviso di intimazione e la presupposta cartella di pagamento, notificato da Equitalia E.TR. s.p.a., per IRPEF, IRAP ed IVA, anno d’imposta 2001.

L’impugnazione venne respinta in primo grado; proposto appello da C.S., la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con sentenza resa il giorno 15 giugno 2012, lo accolse.

Avverso la detta sentenza, Equitalia Sud s.p.a., già Equitalia E.TR. s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque mezzi, cui ha risposto con controricorso C.S., mentre l’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione in giudizio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso Equitalia Sud s.p.a. eccepisce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 24 e 57, poichè la commissione tributaria regionale erroneamente non ha dichiarato l’inammissibilità del motivo di appello avanzato dal C., in ordine ai vizi dell’avviso di ricevimento della notifica della cartella impugnata.

2. Con il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che il giudice di appello, invece di dichiarare l’inammissibilità dei motivi di gravame, ha pronunciato sulle doglianze dell’appellante proposte tardivamente.

2.1. I due motivi, bisognosi di esame congiunto, sono entrambi infondati.

E’ noto che nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass. 13/04/2017, n. 9637; Cass. 02/07/2014, n. 15051; Cass. 15/10/2013, n. 23326).

Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 24, esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”.

Ed è altrettanto pacifico che, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale (Cass. 29/12/2017, n. 31224).

2.2. Nella peculiare vicenda all’esame della Corte, tuttavia, dalla lettura degli atti processuali risulta che il concessionario della riscossione depositò la propria memoria di costituzione in giudizio, con i relativi documenti, compresa la relata di notifica della cartella impugnata, addirittura successivamente all’udienza di discussione D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 34, quando la causa era stata già posta in decisione dal collegio in camera di consiglio.

Dunque, è all’evidenza come il contribuente non venne posto in condizione di formulare motivi aggiunti avverso gli atti impugnati, per l’assorbente considerazione che il concessionario della riscossione depositò gli atti rilevanti, ben oltre i termini fissati per la sua costituzione in giudizio e financo per la produzione – entro venti giorni prima dell’udienza di discussione – di nuovi documenti D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, comma 1.

Ne discende che il primo atto difensivo con il quale il contribuente venne posto in condizione di proporre motivi aggiunti avverso l’atto impositivo impugnato, concernenti i vizi della notifica della cartella impugnata, deve individuarsi esattamente nel ricorso in appello innanzi alla commissione tributaria regionale, restando esclusa la lamentata inammissibilità dei motivi articolati nel detto atto.

3. Con il terzo motivo deduce violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 19 e 21, atteso che il giudice di merito non ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso introduttivo, poichè formulato oltre il termine di decadenza fissato dalla legge per l’impugnazione degli atti impositivi.

3.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che una volta accertato il vizio – sia esso di inesistenza o di nullità – della notifica della cartella impugnata, è all’evidenza come non possa decorrere alcun termine decadenziale, avendo il contribuente il diritto di impugnare, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992 cit., art. 19, comma 3, l’atto non notificato unitamente al successivo atto effettivamente notificato.

4. Con il quarto motivo si duole del vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in cui è incorso il giudice d’appello, avendo omesso di motivare in ordine alle ragioni che inducevano a ritenere viziato l’avviso di ricevimento relativo alla notifica della cartella impugnata.

5. Con il quinto mezzo lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, avendo la commissione tributaria regionale ritenuto inesistente la notifica della cartella impugnata, sol perchè nell’avviso di ricevimento non era stato identificata la persona che si era ricevuto l’atto e il medesimo atto risultava altresì privo della sottoscrizione dell’agente postale.

5.1. I due motivi, connessi per il comune oggetto, sono entrambi infondati.

In tema di notificazione per mezzo del servizio postale, questa Corte ha già affermato che l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149 c.p.c., è il solo documento idoneo a provare sia la consegna, sia la data di questa, sia l’identità della persona a mani della quale la consegna è stata eseguita. Consegue che la mancanza di sottoscrizione dell’agente postale sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato rende inesistente e non soltanto nulla la notificazione, rappresentando la sottoscrizione l’unico elemento valido a riferire la paternità dell’atto all’agente postale (Cass. 08/11/2013, n. 25138; Cass. 21/05/1992, n. 6146).

In direzione contraria non vale richiamare l’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa (Cass. S.U. 20/07/2016, n. 14916).

Nella vicenda in discussione, infatti, avendo il giudice di merito accertato che l’avviso di ricevimento non risultava sottoscritto dall’agente postale, non resta consentito attribuire la paternità dell’atto ad un “soggetto qualificato” e, quindi, a ricondurre il vizio della cartella nell’alveo della mera nullità.

In ogni caso, pure a ritenere che la notifica in esame fosse nulla e non invece inesistente, come sostenuto dal giudice di merito, va evidenziato che siffatta invalidità non potrebbe giammai ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c., essendo incontroverso che la cartella non venne impugnata dal contribuente nei termini di rito e, quindi, non potendosi comunque affermare che il plico pervenne effettivamente nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza tra la ricorrente e il controricorrente, mentre nulla va statuito per l’Agenzia delle Entrate, la quale non ha depositato controricorso. Sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della ricorrente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, considerato che la notifica del ricorso si è perfezionata solo in data 31 gennaio 2013 (Cass. 10 luglio 2015, n. 14515).

P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal controricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese generali al 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 05-03-2020) 13-08-2020, n. 17061

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 163/2014 R.G. proposto da:

Equitalia Sud s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ottaviano n. 42, presso lo studio dell’avv. Bruno Lo Giudice, rappresentato e difeso dall’avv. Michele Di Fiore giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.R.A., elettivamente domiciliato in Salerno, via M. Conforti n. 1, presso lo studio dell’avv. Marco Esposito, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 269/07/13, depositata il 20 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2020 dal Consigliere Giacomo Maria Nonno.

Svolgimento del processo
Che:

1. con la sentenza n. 269/07/13 del 20/05/2013, la Commissione tributaria regionale della Campania (di seguito CTR) dichiarava inammissibile l’appello proposto da Equitalia Sud s.p.a. avverso la sentenza n. 10/18/12 della Commissione tributaria provinciale di Napoli (di seguito CTP), che aveva accolto il ricorso di D.R.A. nei confronti di una iscrizione ipotecaria effettuata nei suoi confronti quale socio di Linea In s.r.l.;

1.1. la CTR motivava la declaratoria di inammissibilità dell’appello dell’Agente della riscossione osservando che, tenuto conto della mancata costituzione in giudizio dell’ente creditore e della mancata allegazione agli atti di causa della ricevuta di ritorno della notifica dell’appello da parte di Equitalia Sud s.p.a. all’Agenzia delle entrate, sussisteva “la violazione del contraddittorio”;

2. Equitalia Sud s.p.a. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo;

3. D.R.A. resisteva con controricorso mentre l’Agenzia delle entrate non si costituiva in giudizio e restava, pertanto, intimata.

Motivi della decisione
Che:

1. con l’unico motivo di ricorso Equitalia Sud s.p.a. deduce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 49 e art. 53, comma 2, nonchè dell’art. 331 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, evidenziando che la CTR, preso atto della mancanza di prova della notificazione dell’atto di appello all’Agenzia delle entrate, litisconsorte necessario, avrebbe erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello invece di assegnare un termine per l’integrazione del contraddittorio;

2. il motivo, oltre che ammissibile essendo stato formulato nel contesto di un ricorso che contiene la sufficiente indicazione delle ragioni di fatto e di diritto sul quale lo stesso si fonda, è altresì fondato;

2.1. è pacifico che Equitalia Sud s.p.a. abbia proposto impugnazione sia nei confronti di D.R.A. che nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in qualità di ente impositore, e che entrambi abbiano partecipato al giudizio di primo grado davanti alla CTP;

2.2. la CTR ha ritenuto l’inammissibilità dell’appello in quanto, pur essendosi perfezionata la notifica dell’appello nei confronti del contribuente, Equitalia Sud s.p.a. non ha depositato la ricevuta di ritorno attestante l’intervenuta notifica del ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate;

2.3. peraltro, l’assenza di prova della notifica nei confronti di un litisconsorte necessario qual è l’ente impositore, quanto meno sotto il profilo processuale, è idonea a determinare la nullità della notificazione e, quindi, la mancata impugnazione della sentenza della CTP nei suoi confronti, ma non già l’inammissibilità dell’appello tempestivamente introdotto con la regolare notificazione nei confronti dell’altro litisconsorte;

2.4. la mancata impugnazione nei confronti di un litisconsorte necessario, infatti, non implica l’inammissibilità del gravame: per giurisprudenza assolutamente pacifica, la tempestiva impugnazione nei confronti dell’altro o degli altri litisconsorti conserva l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e impone al giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso (Cass. n. 8065 del 21/03/2019; Cass. n. 27927 del 31/10/2018; Cass. n. 19910 del 27/07/2018; Cass. n. 18364 del 31/07/2013; Cass. n. 11552 del 14/05/2013; Cass. n. 3071 del 08/02/2011);

3. la sentenza di appello va, dunque, cassata e la causa va rimessa alla CTR della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso e provveda anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Agenzia delle entrate e provveda sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 15-10-2019) 03-08-2020, n. 16594

La Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui, nel merito, era stata accolta la domanda avanzata da una lavoratrice per accertare l’intervenuta dequalificazione professionale subita a seguito di illegittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.

Leggi: Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 15-10-2019) 03-08-2020, n. 16594


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-07-2020) 27-07-2020, n. 22500

Per la Cassazione, se la motivazione non è affetta da manifesta illogicità è corretto il mancato riconoscimento delle attenuanti ai furbetti del cartellino

Leggi: Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-07-2020) 27-07-2020, n. 22500 


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 17-09-2019) 20-07-2020, n. 15361

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14031-2017 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.V.F., in proprio, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CUNFIDA 20, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA OLIVETI, rappresentato difeso dall’avvocato FRANCESCO DELLA VENTURA;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SERVIZI RISCOSSIONE SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2466/2017 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di SALERNO, depositata il 17/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIO NAPOLITANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato URBANI NERI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 2466, depositata il 17 marzo 2017, la Commissione tributaria regionale della Campania (di seguito CTR) – sezione staccata di Salerno – accolse l’appello proposto dall’avv. D.V.F. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e dell’allora Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Salerno, che aveva invece rigettato il ricorso del contribuente proposto avverso preavviso di fermo amministrativo su autoveicolo di proprietà del contribuente.

Ai fini di quanto rileva nel presente giudizio occorre dar conto che, in riforma della pronuncia di primo grado, la CTR ritenne fondata la doglianza del contribuente, che si doleva dell’inesistenza della notifica del prodromico avviso di accertamento relativo ad IRPEF per l’anno d’imposta 2011, che aveva rettificato il reddito del contribuente da partecipazione all’associazione professionale “Studio legale D.V. & Associati”; ciò in ragione del fatto che la notifica in data 14 marzo 2014 dell’atto impositivo, avvenuta per mezzo di messo comunale, non poteva dirsi, per effetto dell’irreperibilità relativa del destinatario, perfezionatasi nelle forme dell’art. 140 c.p.c., essendo stata effettuata la spedizione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale tramite licenziatario privato, neppure, in ogni caso, potendo dirsi provata, secondo il giudice tributario d’appello, l’effettiva ricezione dell’atto da parte del destinatario.

Avverso la sentenza della CTR l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Il contribuente resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.

L’agente della riscossione, anch’esso intimato, non ha svolto difese.

La causa è trattata in pubblica udienza a seguito di ordinanza interlocutoria di rimessione resa dalla sesta sezione civile.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente Amministrazione finanziaria denuncia nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1994, art. 16, (recte 1992), dell’art. 140 c.p.c., e del D.Lgs. n. 261 del 1992, art. 4, (recte 1999), come modificato dal D.Lgs. n. 58 del 2011, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Osserva l’Agenzia delle Entrate che la sentenza impugnata, nel ritenere inesistente la notifica completata – peraltro ad iniziativa del messo comunale incaricato, una volta non rinvenuto il destinatario della notifica presso il domicilio indicato perchè temporaneamente assente, in mancanza delle altre persone abilitate a ricevere la consegna dell’atto – con spedizione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale tramite licenziatario privato – non ha tenuto conto degli effetti della liberalizzazione dei servizi postali realizzata, in attuazione delle Dir. dell’Unione Europea n. 97/67/CE, Dir. dell’Unione Europea n. 2002/39/CE, e Dir. dell’Unione Europea n. 2008/6/CE, con il D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 58, entrato in vigore il 30 aprile 2011; risultando altresì errata, in ogni caso, la sentenza impugnata laddove, richiamando impropriamente in materia il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, aveva ritenuto non raggiunta la prova della regolare ricezione della raccomandata informativa, essendo incontroverso che la stessa era stata consegnata a tale C.E. rinvenuta dall’addetto alla consegna presso il domicilio del destinatario, dovendo quindi trovare applicazione in materia la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., non superata dalla prova contraria da parte del contribuente destinatario dell’atto di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, riguardo a tale ultimo profilo, anche omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, proprio con riferimento alla circostanza, comprovata dall’avviso di ricevimento della raccomandata già depositata agli atti del giudizio di merito, inerente la consegna, da parte dell’operatore privato ad essa addetto, a persona rinvenuta presso il domicilio del destinatario medesimo.

3. Il primo motivo è fondato e va accolto.

3.1. Giova in primo luogo porre in evidenza che la fattispecie attiene a notifica tramite posta privata di atto impositivo tributario. Si esula, quindi dalla diversa fattispecie di notifica per mezzo di posta privata di ricorso giurisdizionale, in entrambi i casi, alla Commissione tributaria provinciale, avverso atti dinanzi ad essa impugnabili del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, su cui, con ordinanze interlocutorie del 12 aprile 2019, n. 10276 e del 19 aprile 2019, n. 11016, la sezione tributaria ha demandato alle Sezioni Unite la risoluzione di questione di massima di particolare importanza sugli effetti della notifica, tramite posta privata, di atti giudiziari nell’arco temporale intercorrente tra la data di entrata in vigore del succitato D.Lgs. n. 58 del 2011, e l’entrata in vigore della L. 4 agosto 2017, n. 124, che, all’art. 1, comma 57, lett. b), ha espressamente abrogato il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, con soppressione, pertanto, dell’attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane S.p.A., quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti le notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari ai sensi della L. n. 890 del 1982, nonchè dei servizi inerenti alle notificazioni delle violazioni al codice della strada ai sensi del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 201.

3.1.1. Ritiene pertanto la Corte che la controversia in esame possa essere decisa, nell’ambito di un sufficientemente chiaro quadro normativo e giurisprudenziale, del quale di seguito si cercherà di dare conto nelle sue linee essenziali, senza che vi siano elementi d’interferenza con la specifica questione demandata all’esame delle Sezioni Unite della Corte, in attesa della definizione di quest’ultima.

3.1.2. Va dato atto che, intervenuta nelle more del deposito della presente decisione la decisione delle SU di questa Suprema Corte (Cass. SU 10 gennaio 2020, n. 299), il principio di diritto ivi affermato secondo cui “In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla Dir. del Parlamento e del Consiglio 20 febbraio 2008, n. 2008/6/CE, è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di un atto giudiziario eseguito dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla L. n. 124 del 2017”, non è riferibile, infatti, per quanto già sopra osservato, alla fattispecie oggetto di esame nel presente giudizio che attiene alla notifica di atto sostanziale tributario a mezzo di licenziatario privato nel periodo intercorrente tra la prima, parziale, liberalizzazione operata a mezzo del citato D.Lgs. n. 58 del 2011, e quella infine compiutamente attuata con la summenzionata L. n. 124 del 2017.

3.1.3. Neppure ha quindi ricadute ai fini della decisione del presente giudizio, non già unicamente sotto il solo profilo consequenziale, il secondo principio di diritto affermato dalla succitata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui “La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario, eseguita dall’operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale dalla data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, perchè sprovvisto di titolo abilitativo”, ma anche in relazione al fatto che nella fattispecie in esame l’invio della raccomandata tramite operatore di posta privata è relativo alla sola fase della spedizione della raccomandata informativa in notifica effettuata tramite messo nelle forme dell’art. 140 c.p.c., a seguito d’irreperibilità relativa del destinatario.

3.2. Ciò premesso, va ricordato che il D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 4, entrato in vigore il 6 agosto 1999, nella sua formulazione originaria, stabiliva al comma 5, che “Indipendentemente dai limiti di prezzo e di peso, sono compresi nella riserva di cui al comma 1” al fornitore del servizio universale, Poste Italiane, “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative”, intendendosi per tali “le procedure riguardanti l’attività della pubblica amministrazione e le gare di evidenza pubblica”.

La norma, dopo altre modifiche sulle quali non occorre soffermarsi, in quanto non incidenti sulla tematica in esame, fu quindi ancora modificata, con decorrenza dal 30 aprile 2011, dal D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 58, art. 1, comma 4, per effetto del quale il succitato D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, concernente, come da rubrica, i “Servizi affidati in esclusiva” fu delineato nuovamente nei termini di seguito riportati:

1. Per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in esclusiva al fornitore del servizio universale:

a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni;

b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201.

3.3. La L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 10, entrata in vigore il 21 agosto 1999, aveva a sua volta modificato la L. n. 689 del 1981, art. 18, inserendovi al comma 6, in tema di notifica dell’ordinanza – ingiunzione di sanzione amministrativa, la previsione in virtù della quale “la notificazione dell’ordinanza ingiunzione può essere eseguita dall’ufficio che adotta l’atto secondo le modalità di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890”, riguardante le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari.

3.4. Anteriormente alla riforma del 2011, la giurisprudenza di legittimità si era consolidata nel senso che tra le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. n. 890 del 1982, dovessero essere annoverate le notificazioni a mezzo posta degli atti tributari sostanziali e processuali (cfr., tra le molte, Cass. sez. 6-5, 30 settembre 2016, n. 19467; Cass. sez. 6-5, ord. 19 dicembre 2014, n. 27021; Cass. sez. 6-5, ord. 23 marzo 2014, n. 5873; Cass. sez. 5, 17 febbraio 2011, n. 3932; Cass. sez. 5, 7 maggio 2008, n. 11095), riservate dunque in esclusiva a Poste Italiane S.p.A., osservandosi che “la consegna e la spedizione in raccomandazione che non siano state affidate al fornitore del servizio universale non sono assistite dalla funzione probatoria che il D.Lgs. n. 261 del 1999, ricollega alla nozione degli invii raccomandati” (così, testualmente, la citata Cass. ord. n. 27021/14, in senso conforme si vedano ancora Cass. sez. 1, 19 ottobre 2006, n. 22375, Cass. sez. 1, 21 settembre 2006, n. 20440).

3.4.1. Si riteneva, altresì, secondo la giurisprudenza delle sezioni civili, che l’incaricato di un servizio di posta privata fosse privo della qualità di pubblico ufficiale, a ciò conseguendo che agli atti da esso compiuti non può riconoscersi alcuna efficacia fidefaciente fino a querela di falso. Se ne traeva dunque la conseguenza che, nei casi nei quali la legge consente la notificazione di atti per il tramite del servizio postale con spedizione dell’atto in plico raccomandato con avviso di ricevimento, l’attestazione della data di consegna del plico da parte dell’incaricato di un servizio di posta privata non è idonea a porsi come termine iniziale per la proposizione della relativa impugnazione (cfr. Cass. sez. 6-1, 30 gennaio 2014, n. 2035), donde la ritenuta inesistenza della notifica degli atti tributari sostanziali e processuali spediti per il tramite di licenziatario privato.

3.4.2. Detta statuizione non teneva conto adeguato del fatto che, valorizzando il disposto del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 18, nella sua formulazione applicabile ratione temporis, secondo cui “Le persone addette ai servizi postali, da chiunque gestiti, sono considerate incaricate di pubblico servizio in conformità all’art. 358 c.p.”, la giurisprudenza penale di questa Corte si era già espressa nel senso di ritenere ammissibile la presentazione di atto d’impugnazione a mezzo di raccomandata spedita tramite servizio di recapito privato regolarmente autorizzato (in tal senso Cass. pen. 28 novembre 2013 – dep. 22.1.2014 – n. 2886, in relazione ad atto di appello spedito con raccomandata consegnata a licenziatario privato nel termine di legge, sebbene pervenuto in cancelleria dopo la scadenza del termine previsto ex lege per l’impugnazione; cfr. anche Cass. pen. 3 maggio 2017 – dep. 1.8.2017 – n. 38206).

3.4.3. Soprattutto deve osservarsi come la tesi dell’inesistenza della notifica a mezzo posta privata, riferita, oltre che agli atti processuali, anche a quelli sostanziali, si sia, invero, in maniera tralaticia ripetuta con riferimento ad entrambi anche a seguito dell’intervenuta modifica normativa del 2011.

3.5. In realtà, una più compiuta ricognizione delle relative fattispecie consente di verificare come esse, riguardanti notifiche tra la modifica normativa del 2011 e la definitiva liberalizzazione del 2017, quest’ultima operante solo per l’avvenire ed una volta definito il sistema di attribuzione delle relative licenze (cfr. Cass. sez. 6-5, ord. 11 ottobre 2017, n. 23887), avessero ad oggetto solo notifiche di atti processuali (così anche nella riaffermazione del principio, nel contesto peraltro di differente specifica problematica, da parte delle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze n. 13452 e 13453 del 29 maggio 2017) e non anche di atti tributari sostanziali, per i quali si poneva dunque il problema, non affrontato ex professo dalle relative decisioni (si veda ad esempio, più di recente, Cass. sez. 6-5, ord. 29 gennaio 2018, n. 2173), di verificare la compatibilità di quanto a suo tempo osservato (cfr. la già citata Cass. n. 11095 del 2008, in tema di notifica a mezzo di posta privata di atto impositivo), con riferimento alla dedotta inesistenza di tale forma di notifica nel mutato quadro normativo di riferimento.

3.6. Invero, il tenore letterale del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, quale sopra riportato, conseguente alla modifica operata dal D.Lgs. n. 58 del 2011, consente di affermare che, dalla data del 30 aprile 2011, della sua entrata in vigore, gli invii raccomandati riguardanti atti tributari diversi da quelli stricto sensu giudiziari possono essere stati oggetto di notifica anche tramite operatore postale privato in possesso dello specifico titolo abilitativo costituito dalla “licenza individuale” di cui al D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 5, comma 1.

3.6.1. Nella concreta fattispecie in esame, peraltro, la certezza, da un lato, del rispetto del termine decadenziale per la notifica dell’atto impositivo è assicurata dall’essere stata la notifica dell’atto affidata a messo comunale, valendo quindi, ai fini della verifica della tempestività della notifica dell’atto impositivo, la data di consegna dell’atto a quest’ultimo da parte dell’ente impositore, essendo stata affidata la consegna a licenziatario privato della sola raccomandata informativa ai sensi dell’art. 140 c.p.c., vertendosi in ipotesi di irreperibilità relativa del destinatario; dall’altro potendo assumere rilievo la data di ricezione della notifica della raccomandata informativa ai fini della verifica della tempestività del ricorso, solo se la consegna sia anteriore al decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione, decorso il quale la notifica s’intende perfezionata ove il destinatario non ne abbia curato il ritiro.

3.7. La conclusione di cui sopra in tema di validità della notifica dell’atto impositivo, la cui notifica sia stata compiuta nel periodo intercorrente tra la parziale liberalizzazione attuata con il D.Lgs. n. 58 del 2011, e quella portata a pieno compimento dalla L. n. 124 del 2017, mediante licenziatario di posta privata appare, in primo luogo, in linea con l’evoluzione interpretativa che ha ormai ritenuto configurabile l’ipotesi di inesistenza della notificazione in casi assolutamente residuali, come confermato, da ultimo, in subiecta materia, proprio dalla citata Cass. SU n. 299/2020; ma, soprattutto, essa appare consonante con il recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte, Cass. SU 26 marzo 2019, n. 8416.

3.7.1. La citata pronuncia, riferita a notifica di ordinanza ingiunzione amministrativa, evidenzia come la succitata L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 6, nel riferirsi alla notifica dell’atto secondo le modalità di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, preveda solo una possibilità ulteriore rispetto alla notifica direttamente da parte dell’ente con invio raccomandato; non diversamente da quanto la stessa L. n. 890 del 1982, art. 14, nel testo modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, consente per la notifica degli avvisi che devono essere notificati al contribuente.

3.7.2. Ne consegue che il primo motivo di ricorso debba essere accolto, dovendo ritenersi l’atto tributario – nella fattispecie in esame l’avviso di accertamento prodromico che il contribuente assume non essergli stato notificato per inesistenza della relativa notifica tramite posta privata – come species del più ampio genus dell’atto amministrativo.

A solo titolo esemplificativo può al riguardo essere in questa sede ricordata la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di obbligo di motivazione dell’atto tributario nell’ambito del più generale obbligo di motivazione dell’atto amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 3, con le relative conseguenze in tema di autosufficienza del ricorso per cassazione (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, 17 ottobre 2014, n. 22003; Cass. sez. 5, 19 aprile 2013, n. 9536), non rilevando invece, nella fattispecie in esame quale sopra descritta, la differenza peculiare dell’atto tributario in punto di rilievo della nullità, che non può avvenire se non attraverso l’impugnazione da parte del contribuente nel termine perentorio stabilito: cfr. Cass. sez. 5, 18 settembre 2015, n. 18448).

4. La sentenza impugnata, infatti, è illegittima, alla stregua delle considerazioni che precedono, sia nella parte in cui ha affermato l’inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento, sia laddove, in subordine, ne ha affermato la nullità, non avendo tenuto conto del fatto che la raccomandata informativa è stata in effetti consegnata al domicilio del contribuente a persona ivi rinvenuta, donde la fondatezza anche del secondo motivo di ricorso, avendo omesso la CTR di valutare se l’avere il contribuente dichiarato che la persona ivi rinvenuta sia a lui non conosciuta, nè con lui convivente, integrasse prova del non averne potuto acquisire notizia, senza sua colpa, ex art. 1335 c.c..

5. La sentenza impugnata va per l’effetto cassata e la causa rinviata, per nuovo esame, alla Commissione tributaria regionale della Campania – sezione staccata di Salerno – che provvederà anche in ordine alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania – sezione staccata di Salerno, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 05-12-2019) 17-07-2020, n. 15349

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29124-2014 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. (già SERIT SICILIA S.P.A.), Agente della Riscossione per la Provincia di Palermo, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. P. DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA DI STEFANI, rappresentata e difesa dall’avvocato ACCURSIO GALLO;

– ricorrente –

nonché contro

P.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 415/2014 del TRIBUNALE di TERMINI IMERESE, depositata il 28/04/2014, R.G.N. 50595/2011.

Svolgimento del processo

CHE:

  1. Il Tribunale di Termini Imerese ha confermato la sentenza del Giudice di Pace di Polizzi Generosa che, su ricorso di P.S. notificato nel settembre 2010, ha annullato con effetto dalla data di pubblicazione della sentenza il preavviso di fermo amministrativo notificatogli nel luglio 2007, ritenendo che dal D.L. n 203 del 2005, art. 2 (rectius 3), comma 41, e il D.M. n. 503 del 1998, artt. 3 e 5, dall’obbligo di condursi secondo buona fede e dall’art. 24 Cost., si possa ricavare il principio per cui, dopo avere disposto il fermo, l’autorità ha l’obbligo di dar corso al pignoramento nei termini di legge;
  2. il P.G. ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
  3. con l’unico motivo di ricorso, ulteriormente illustrato con memoria, Riscossione Sicilia s.p.a. censura la sentenza del Tribunale di Termini Imerese per violazione del D.L. n. 203 del 2005, art. 2 (rectius 3), comma 41, D.M. n. 503 del 1998, art. 35, art. 12 disp. prel., cui non ha resistito P.S..

Motivi della decisione

CHE:

  1. il ricorso è da accogliere;
  2. D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, dispone, nella versione vigente ratione temporis: “I. Decorso inutilmente il termine di cui all’art. 50, comma 1, il concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla direzione regionale delle entrate ed alla regione di residenza. 2. Il fermo si esegue mediante iscrizione del provvedimento che lo dispone nei registri mobiliari a cura del concessionario, che ne dà altresì comunicazione al soggetto nei confronti del quale si procede. 3. Chiunque circola con veicoli, autoscafi o aeromobili sottoposti al fermo è soggetto alla sanzione prevista dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 214, comma 8.
  3. Con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, sono stabiliti le modalità, i termini e le procedure per l’attuazione di quanto previsto nel presente articolo”;
  4. D.L. n. 203 del 2005, art. 3, ha disposto, poi, che “D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86, si interpreta nel senso che, fino all’emanazione del decreto previsto dal comma 4 dello stesso articolo, il fermo può essere eseguito dal concessionario sui veicoli a motore nel rispetto delle disposizioni, relative alle modalità di iscrizione e di cancellazione ed agli effetti dello stesso, contenute nel decreto del Ministro delle finanze 7 settembre 1998, n. 503”;
  5. tale ultimo decreto non prevede, in generale, termini entro i quali procedere all’esecuzione;
  6. non esistono, dunque, disposizioni di legge o di decreto ministeriale che impongano di procedere all’esecuzione forzata entro termini perentori dal fermo;
  7. il fermo, d’altro canto, è comunemente ritenuto una misura afflittiva, volta proprio a indurre il debitore all’adempimento sottraendogli la disponibilità del bene (v., fra le altre, Cass. n. 15354 del 2015);

10.nè possono rilevare, in contrario, il principio di buona fede e l’art. 24 Cost., richiamati in sentenza;

  1. da un canto, “l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo, sia se volta a contestare il diritto a procedere all’iscrizione del fermo, sia che riguardi la regolarità formale dell’atto, è un’azione di accertamento negativo a cui si applicano le regole del processo di cognizione ordinario, e come tale non assoggettata al termine decadenziale di cui all’art. 617 c.p.c.” (v., fra le altre, Cass. n. 18041 del 2019), così che il contribuente che si ritenga leso nei suoi diritti può sempre agire per sentir dichiarare illegittimo il fermo e toglierlo di mezzo, senza essere tenuto a sopportarne, sine die, gli effetti;
  2. dall’altro, il fermo ammnistrativo ha proprio la funzione di “spingere il cittadino all’adempimento”, ferma la possibilità di esperire i rimedi di legge per farne valere l’illegittimità;
  3. in conclusione la sentenza va cassata e, per non essere necessari ulteriori accertamenti in fatto, decidendo nel merito, l’opposizione avverso il fermo amministrativo va rigettata;
  4. Le spese del giudizio di merito e di legittimità si liquidano come in dispositivo e seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione a fermo amministrativo; condanna la parte intimata al pagamento delle spese liquidate, per compensi professionali, in Euro 600,00 per il giudizio di primo grado, Euro 800,00 per il giudizio di secondo grado, Euro 1.500,00 per il giudizio di legittimità, oltre Euro 200,00 per esborsi e quindici per cento spese generali e altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2020


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 27-02-2020) 14-07-2020, n. 14941

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11111-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (OMISSIS). in persona dei rispettivi Direttori pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che le rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

Z.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1526/7/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del PIEMONTE, depositata il 27/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO FRANCESCO ESPOSITO.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 27 settembre 2018 la Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva parzialmente l’appello proposto da Z.C. avverso la decisione della Commissione tributaria provinciale di Torino che aveva respinto il ricorso proposto dal contribuente contro avviso di intimazione emesso a seguito del mancato pagamento di alcune cartelle esattoriali.

Osservava la CTR, in riferimento a due cartelle di pagamento, “che non vi è alcun documento che provi il collegamento tra la fotocopia della spedizione e ricevuta della raccomandata e le cartelle apparentemente notificate, motivo che di per sè porterebbe alla nullità della notifica. Non vi è poi regolare attestazione di notifica da parte dell’ufficiale postale notificante perchè non vi è indicazione della qualifica del firmatario della ricevuta o dell’ufficiale postale notificante. Ne consegue che tali notifiche irregolari sono nulle”.

Avverso la suddetta sentenza, con atto del 27 marzo 2019, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia delle entrate-Riscossione hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.

Il contribuente non ha svolto difese.

Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.

Motivi della decisione
che:

Con unico mezzo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1335 e 2697 c.c., nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26.

Censurano la sentenza impugnata per avere la CTR erroneamente ritenuto necessaria, per la validità della notifica, la produzione delle cartelle di pagamento nella loro integralità, nonchè l’indicazione sull’avviso di ricevimento della qualifica del firmatario.

Il ricorso è fondato.

Va osservato che, dopo talune oscillazioni, si è ormai consolidato l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, in base al quale “In tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova” (Cass. n. 16528 del 2018 e giurisprudenza ivi richiamata). Questa Corte ha inoltre precisato che “Nell’ipotesi in cui il destinatario della cartella esattoriale ne contesti la notifica, l’agente della riscossione può dimostrarla producendo copia della stessa, senza che abbia l’onere di depositarne nè l’originale (e ciò anche in caso di disconoscimento, in quanto lo stesso non produce gli effetti di cui all’art. 215 c.p.c., comma 2, e potendo quindi il giudice avvalersi di altri mezzi di prova, comprese le presunzioni), nè la copia integrale, non essendovi alcuna norma che lo imponga o che ne sanzioni l’omissione con la nullità della stessa o della sua notifica” (Cass. n. 25292 del 2018).

Con riguardo alla ritenuta nullità della notifica per la mancata indicazione della qualifica del soggetto che ha sottoscritto l’avviso di ricevimento, va richiamato il principio di diritto secondo cui “La cartella esattoriale può essere notificata, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, anche direttamente da parte del concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso, secondo la disciplina del D.M. 9 aprile 2001, art. 32 e 39, è sufficiente, per il relativo perfezionamento, che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente; ne consegue che se, come nella specie, manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur tuttavia valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c. ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata”(Cass. n. 11708 del 2011).

La sentenza impugnata non si è uniformata ai richiamati arresti giurisprudenziali e pertanto, in accoglimento del ricorso, deve essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2020


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 27-02-2020) 14-07-2020, n. 14935

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4307-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

R.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6120/22/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 22/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO FRANCESCO ESPOSITO.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 22 giugno 2018 la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate-Riscossione avverso la decisione della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva accolto il ricorso proposto da R.L. avverso cartella di pagamento, inviata a mezzo del servizio postale con plico raccomandato, relativa ad imposta comunale sulla pubblicità per l’anno d’imposta 2009. Osservava la CTR che l’agente della riscossione, nonostante la contestazione mossa dal contribuente, non aveva assolto all’onere – che gravava sul mittente – di provare il contenuto del plico raccomandato.

Avverso la suddetta sentenza, con atto del 22 gennaio 2019, l’Agenzia delle entrate-Riscossione ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.

Il contribuente non ha svolto difese.

Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.

Motivi della decisione
che:

Con unico mezzo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1335 e 2697 c.c., nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per avere erroneamente la CTR ritenuto che gravasse sul mittente l’onere di provare l’esatto contenuto del plico raccomandato.

Il ricorso è fondato.

Va osservato che, dopo talune oscillazioni, si è ormai consolidato l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, in base al quale “In tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova” (Cass. n. 16528 del 2018 e giurisprudenza ivi richiamata).

Orbene, la decisione della CTR, nel ritenere che la prova del contenuto del plico raccomandato spettasse al mittente e non già al destinatario, non si è conformata al principio di diritto sopra richiamato.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 16-01-2020) 02-07-2020, n. 13625

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23179-2018 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 12, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO GARRONI, rappresentato e difeso dall’avvocato ALBERTO CASELLI LAPESCHI;

– ricorrente –

contro

JUNGHEINRICH ITALIANA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO 17, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO RUFINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO MACCONE;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 1596/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 30/01/2018, R.G.N. 1564/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FILIPPO GARRONI per delega verbale avvocato ALBERTO CASELLI LAPESCHI;

udito l’Avvocato ALESSANDRO RUFINI.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 28 luglio 2018, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Pavia, ha dichiarato la legittimità del licenziamento, per giustificato motivo soggettivo, a P.S. dalla Jungheinrich Italiana s.r.l. con comunicazione del 14/10/2009, e, per l’effetto, ha condannato l’appellante società a corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura contrattualmente dovuta oltre rivalutazione monetaria e interessi legali statuendo, altresì, che il P. provvedesse alla restituzione della somma versatagli in esecuzione della sentenza di primo grado.

In particolare, il giudice di secondo grado ha posto in risalto le plurime inadempienze e trascuratezze circa le modalità di redazione del piano finanziario, da redigersi presso il servizio di tesoreria, che la Corte ha ritenuto costituire una delle competenze attribuite al P. già a decorrere dal momento della sua assunzione presso la società pur essendo la stessa, sulla base di una formazione professionale progressiva, diventata mansione centrale solo in occasione della redazione del piano valevole per l’anno 2010.

1.1. Valutando le risultanze probatorie acquisite il Collegio ha, quindi, ritenuto che la base giustificativa del licenziamento non andasse rinvenuta nella giusta causa, bensì nel giustificato motivo soggettivo, non vertendosi nell’ambito di trasgressioni tali da incidere sul vincolo fiduciario in modo da imporre il licenziamento per giusta causa, bensì di fattispecie di inadempimento e neghittosità rilevanti sotto il profilo di una affidabile resa lavorativa, in quanto determinate da mancanza di diligenza e impegno professionale.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.S. affidandolo a quattro motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, la Jungheinrich Italiana S.r.l.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione ed errata applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 220, commi 1 e 2 e art. 225 del CCNL Terziario Commercio del 18 luglio 2008 e della L. n. 300 del 1970 per aver posto a fondamento del licenziamento disciplinare il mancato o erroneo espletamento di una mansione che non era stata attribuita al lavoratore.

1.1. Sostiene, al riguardo, parte ricorrente che la redazione e revisione del piano finanziario aziendale ha costituito per il lavoratore, a decorrere dal mese di marzo 2009, una mansione nuova, la cui corretta esecuzione non può essere posta a base del licenziamento disciplinare.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Va premesso, al riguardo, che, secondo l’insegnamento di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019 nonchè, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).

Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perchè, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.

Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).

Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonchè la giurisprudenza ivi citata).

2.1. Tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018).

E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

3. Nel caso di specie appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.

Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realtà alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla sussistenza della lamentata negligenza mentre le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione di merito, inerente il contenuto dell’accertamento compiuto circa l’attività svolta e il conferimento ab origine dell’incarico di redazione del piano finanziario.

3.1. In particolare, deve ritenersi che la Corte d’appello abbia accertato, sulla base degli elementi probatori precedentemente raccolti, che la mansione di redazione del piano finanziario era stata affidata al P. sin dalla data di ingresso nel “servizio per il quale era stato selezionato” e ciò risultava confermato, secondo il Collegio, da diversi indici rivelatori ed in particolare: dalla circostanza che tale attività era stata descritta e individuata sin dalla ricerca per l’assunzione; dal fatto che tale attività era stata in precedenza di competenza di altro addetto alla tesoreria, il S., e solo temporaneamente affidata alla B., poi sostituita dal P.; dal periodo di diversi mesi in cui il P. stesso era stato affiancato dai colleghi per essere addestrato alla redazione del piano.

L’insieme di tali circostanze ha condotto il giudice di secondo grado a ritenere che la redazione del piano finanziario fosse stata affidata in via esclusiva al P. sin dal suo ingresso in Jungheinrich, accertamento, questo, eminentemente fattuale su cui nessuna diversa valutazione può essere effettuata in sede di legittimità non vertendosi nell’ambito della violazione di legge descritta nel motivo bensì, esclusivamente, in una diversa considerazione del materiale probatorio raccolto non ammessa in sede di ricorso per cassazione.

Nè può giungersi a diverse conclusioni in base al contenuto del mansionario richiamato da parte ricorrente atteso che trattasi esclusivamente di uno degli elementi da cui può arguirsi il conferimento dell’incarico, elemento che la Corte ha valutato unitamente agli altri non rivestendo lo stesso carattere assorbente ed anzi essendo reputato dalla Corte il riferimento ad esso come formalistico e non esauriente.

Va, quindi, rilevato che ci si trova di fronte ad una ricostruzione della vicenda storica effettuata dai giudici del merito cui esclusivamente compete e che è invece criticata da parte ricorrente ma il cui esito, non sconfinando in un risultato irragionevole, per i principi innanzi richiamati, si sottrae al sindacato di legittimità ed inoltre, non identificando quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, manca dell’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, così traducendosi in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito che ha ritenuto che la mancata adeguata redazione del piano finanziario si sia tradotta in un giustificato motivo soggettivo rilevante da legittimare il licenziamento del P. (sul punto si veda Cass. n. 13534/2019 cit.).

4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e l’omessa motivazione circa la mancanza di diligenza e di impegno professionale del lavoratore alla luce della comunicazione del datore di lavoro del 07/09/2009 che individua la redazione del piano finanziario quale obiettivo rilevante ai fini della retribuzione variabile.

4.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

Giova sottolineare al riguardo, che, come ribadito anche di recente da questa Corte (cfr., sul punto, Cass. n. 28887 del 2019) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

D’altro canto, la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta a suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione delle fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 1997, n. 13045 e, fra le tante: Cass. 18 marzo 2013, n. 6710) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (dall’art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

In particolare, nel caso di specie, la piana lettura del motivo di ricorso così come formulato, con il continuo richiamo alle dichiarazioni rese dai testi escussi, induce a vedere come prospettata una inammissibile diversa lettura delle risultanze istruttorie mentre la Corte, proprio sulla base di quelle risultanze, ha sì escluso la sussistenza di una giusta causa di licenziamento non rilevando trasgressioni incidenti sulla sfera di interessi integrante il vincolo fiduciario in modo tranchant, ma ha ritenuto la sussistenza del giustificato motivo soggettivo, avendo riscontrato un difetto di diligenza ed una incapacità rilevanti sotto il profilo di un’affidabile resa lavorativa, ritenendo provata, come già reputato in primo grado, la presenza di errori e gravi imperfezioni nel documento redatto dal ricorrente.

Va anzi rilevato che il Collegio si sofferma a lungo non solo sul rilievo dei sette mesi di affiancamento di cui il dipendente aveva goduto, ma, anche, sulle singole inesattezze riscontrate, afferenti l’incidenza degli interessi passivi con le banche, l’andamento dei rapporti di leasing, che avevano evidenziato gravi errori e connotati irrealistici nelle previsioni fondate sui dati trasmessi dagli uffici.

5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 220, comma 1 e art. 225 CCNL Terziario commercio per sproporzionalità ed inadeguatezza della sanzione comminata.

Va riaffermato al riguardo che, secondo questa Corte, spettano al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, nonchè la giurisprudenza ivi citata).

Nell’ambito delle clausole generali come la giusta causa, quindi, innanzitutto è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito (tra le più recenti: Cass. n. 13534 del 2019 cit. e Cass. n. 6035 del 2018), altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici; dal momento, poi, che gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono stati commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell’ambito della clausola generale.

Poichè si tratta di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715/2016 cit.) o, per il caso che qui interessa, ai giustificato motivo soggettivo.

D’altra parte secondo quanto affermato dalle Sezioni unite, “il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto” (in termini, Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010; Cass. SS.UU. n. 1414 del 2004, n. 20024 del 2004, n. 19075 del 2012; per i notai: Cass. SS.UU. n. 4720 del 2012, n. 6967 del 2017) e, pertanto, va ribadito che la Corte non può, “sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati… se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza” e “il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione” (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010);

Orbene, nel caso di specie, la Corte, escludendo la sussistenza di una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario ai fini del licenziamento per giusta causa, ha, tuttavia, riscontrato una significativa incapacità e negligenza nello espletamento dell’attività lavorativa rilevante, così concludendo per la legittimità della sanzione espulsiva e tale valutazione, immune da vizi logici, non può essere censurata in sede di legittimità.

D’altro canto, non appare dirimente il riferimento all’inclusione della retribuzione corrisposta per la redazione del piano finanziario nell’ambito della retribuzione variabile poichè non può ritenersi discendere tout court da tale circostanza un rilievo relativo della mansione considerata tale da escludere la possibilità di licenziamento in caso di erroneo ed inadeguato svolgimento di essa.

In sostanza, parte ricorrente ribadisce che secondo il suo giudizio – che è solo quello personale della parte che vi ha interesse – il fatto addebitato non sarebbe idoneo a costituire giustificato motivo soggettivo, criticando l’apprezzamento diverso dei giudici d’appello in ordine alla proporzionalità della sanzione, il che tuttavia esula dal controllo di questa Corte (ex pluribus: Cass. n. 2289 del 2019; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003), la quale in queste valutazioni “non può sostituirsi al giudice del merito”, come ammoniscono le sentenze delle Sezioni unite civili citate.

6. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e degli artt. 2049 e 2087 c.c. nel non aver configurato la Corte l’esistenza di un danno biologico subito dal lavoratore per effetto di condotte vessatorie operate da un superiore e tollerate dall’azienda pur circoscritte ad un periodo di tempo limitato.

6.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello muove, infatti, dalla stessa formulazione dei capitoli di prova proposti in sede di appello incidentale per escludere “in radice” il fenomeno del mobbing per assenza di condotte vessatorie sistematicamente orientate a causare offese di ordine professionale e/o rilevati sul piano psichico e morale.

Anche con riguardo a tale aspetto, il ricorrente invoca una diversa valutazione fattuale dell’accaduto ed in particolare critica le conclusioni circa l’assenza di sistematici comportamenti vessatori raggiunta dalla Corte che invece da congruamente conto del proprio iter motivazionale nell’affermare che pur potendo ravvisarsi “qualche aspra invettiva e offesa esternata dal F.” ha escluso la configurabilità di qualsivoglia ipotesi di mobbing trattandosi, al più, di “isolato e circoscritto dissidio sorto solo durante uno stato avanzato del rapporto di lavoro e, in ragione dei pochi elementi a disposizione, privo di apprezzabile continuità”.

Il dato di partenza da cui muove il ricorrente e, cioè, le “condotte vessatorie operate da un superiore” risulta escluso in punto di fatto dalla Corte e, pertanto, non ne può essere riesaminata la conclusione da questa Corte senza illegittimamente invadere il campo delle indagini fattuali precluso al giudice di legittimità.

7. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto.

7.1. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 26/02/2020) 08/07/2020, n. 14402

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36370-2018 proposto da:

ADER AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

FINANZIARIA INDUSTRIALE SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIRSO 26, presso lo studio dell’avvocato PIETRO BORIA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7441/9/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA SEZIONE DISTACCATA di SALERNO, depositata il 04/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. CAPOZZI RAFFAELE.

Svolgimento del processo
che l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza della CTR della Campania, sezione staccata di Salerno, di rigetto dell’appello da essa proposto avverso una decisione della CTP di Avellino, che aveva accolto il ricorso della contribuente s.r.l. “FINANZIARIA INDUSTRIALE” avverso una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria del 2015.

Motivi della decisione
che il ricorso è affidato ad un unico motivo, con il quale l’Agenzia delle entrate lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, e art. 26, comma 2; dell’art. 27 del reg. comunitario n. 910 del 2014; della decisione della commissione CEE n. 1506 del 2015, del D.M. n. 44 del 2011, art. 18, comma 5, nonchè del D.P.R. n. 68 del 2005, recante il regolamento per l’utilizzo della pec., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto non era controverso che le cartelle sottese al preavviso impugnato fossero state notificate alla società contribuente via pec; secondo la CTR la notifica di dette cartelle sarebbe stata nulla in quanto il file contenente la cartella aveva un’estensione “pdf” anzicchè “p7m”, ritenendo che solo quest’ultima fosse in grado di garantire l’integrità del documento trasmesso, l’identificabilità del suo autore e la paternità dell’atto; al contrario, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento cartacea non comportava l’invalidità dell’atto, non essendo stata detta nullità espressamente sancita dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, ed essendo solo necessario che l’atto fosse inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo; e detti principi, elaborati con riferimento alle cartelle in formato cartaceo, valevano altresì per le cartelle in versione informatica; era poi errato ritenere che la cartella formato “pdf” (c.d. formato pades) non fosse equipollente al formato “p7m” (c.d. formato cades), avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito che le firme digitali del tipo cades e del tipo pades fossero equivalenti, si da essere entrambe ammissibili;

che la contribuente si è costituita con controricorso ed ha altresì presentato memoria;

che l’unico motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate è fondato;

che invero la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. SS.UU. n. 10266 del 2018) ha escluso la sussistenza di un obbligo esclusivo di usare la firma digitale in formato CADES, in cui il file generato si presenta con l’estensione finale “p7m”, rispetto alla firma digitale in formato PADES, nel quale il file sottoscritto mantiene il comune aspetto “nomefile.pdf”, atteso che anche la busta crittografica generata con la firma PADES contiene pur sempre il documento, le evidenze informatiche ed i prescritti certificati, si che anche tale ultimo formato offre tutte le garanzie e consente di effettuare le opportune verifiche, anche con riferimento al diritto comunitario, non essendo ravvisabili elementi obiettivi, nella dottrina e nella prassi, tali da far ritenere che solo la firma in formato CADES offra garanzie di autenticità, laddove il diritto dell’UE e la normativa vigente nel nostro paese certificano l’equivalenza delle due firme digitali, egualmente ammesse dall’ordinamento, sia pure con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”;

che è pertanto da ritenere che le 11 cartelle di pagamento, costituenti il presupposto della comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria impugnata dalla società contribuente, siano state ad essa regolarmente notificate a mezzo pec;

che, pertanto, il ricorso in esame va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla CTR della Campania, sezione staccato di Salerno in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Campania, sezione staccata di Salerno, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020