Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 21/12/2023) 21/02/2024, n. 4597

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta da

Dott. NAPOLITANO LUCIO – Presidente

Dott. CRIVELLI ALBERTO – Consigliere

Dott. FRACANZANI MARCELLO M. – Consigliere Rel.

Dott. LUME FEDERICO – Consigliere

Dott. ANGARANO ROSANNA – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28980/2018 R.G. proposto da

A.A., con gli avv.ti Ilaria Foletto e Paolo Fiorilli e con domicilio eletto in Roma, Via Cola di Rienzo n. 180 presso lo studio del secondo

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Veneto n. 283/03/18, pronunciata il 23 febbraio 2018 e depositata il primo marzo 2018, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 dicembre 2023 dal Co: Marcello M. Fracanzani;

Svolgimento del processo
1. Il sig. Romagnolo era attinto da ripresa a tassazione in conseguenza dei maggiori utili accertati in capo alla società “La nostra isola Srl”, poi fallita, e di cui risultava socio con partecipazione al 95% per l’anno d’imposta 2009. Esperita infruttuosamente l’istanza di accertamento con adesione, il contribuente impugnava l’atto impositivo notificatogli svolgendo plurime censure.

2. In particolare, deduceva l’illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di notifica, l’ammissibilità del ricorso ex art. 60, co. 4, d.P.R. n. 600/1973, la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, co. 2, c.p.c., la carenza di motivazione dell’atto impositivo notificato alla società e di quello emesso nei suoi confronti nonché la violazione al divieto di doppia imposizione.

3. I due gradi di merito esitavano in senso sfavorevole al ricorrente, stante la declaratoria di inammissibilità del gravame per tardività.

4. Il contribuente ricorre pertanto per la cassazione della sentenza, affidandosi a cinque motivi di ricorso, cui resiste l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente avanza censura ex art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 140 e dell’art. 8, co. 2, L n. 890/1992.

1.1 In sostanza afferma che la notifica dell’atto impositivo non si sarebbe perfezionata per mancato rispetto della sequenza procedimentale descritta dall’art. 140 c.p.c. sia per mancata affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione, non essendo bastevole la sua sola immissione nella cassetta, sia per mancata ricezione effettiva della comunicazione informativa (CAD).

2. Con il terzo motivo il contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, co. 2, L n. 890/1992 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.

2.1 In sostanza afferma che la procedura notificatoria di cui all’art. 8, co. 2, L n. 890/1992, ove è previsto il rilascio dell’avviso al destinatario mediante “affissione alla porta d’ingresso oppure mediante immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione” debba essere letta come un “ordine di modalità di esecuzione della notifica”, nel senso che la modalità di affissione deve essere eseguita in via principale mentre l’immissione dell’avviso in cassetta dovrebbe avvenire solo successivamente

3. Il primo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, stante la parziale comunanza di censure.

3.1 I due motivi sono entrambi inammissibili e, in ogni caso, infondati.

3.2 Essi sono inammissibili nella parte in cui lamentano sia la violazione dell’art. 140 c.p.c. sia il paventato ordine di modalità di esecuzione della notifica di cui all’art. 8, co. 2, L. n. 890/1992 perché motivi nuovi. Invero, non risulta dal testo del ricorso, ove vengono sinteticamente riportati i motivi di impugnazione, né da quello delle due decisioni di merito ivi trascritte, che sia stata dedotta la violazione delle due norme in commento e nei termini riassunti nel ricorso introduttivo. Con specifico riferimento all’ordine di esecuzione della notifica, e dalla lettura della sentenza, risulta invero proposto in grado di appello un motivo di ricorso avente ad oggetto la corretta modalità di notifica, da eseguirsi solo con l’affissione e non con l’immissione dell’avviso, mentre non risulta formulata la censura in relazione “all’ordine” di esecuzione.

3.3. Le questioni sollevate risultano quindi essere state poste “per la prima volta davanti questa Corte, non facendone menzione la sentenza impugnata (nella esposizione delle censure svolte dai ricorrenti ovvero nella trattazione dei medesimi) e non specificando d’altro canto i ricorrenti nel ricorso di averle fatte valere nei precedenti gradi di giudizio” (Cfr. Cass., V, n. 26147/2021).

4. Il primo motivo è poi infondato nella parte in cui pretende che il procedimento notificatorio si perfezioni con la ricezione effettiva della CAD.

4.1 In materia questa Corte è intervenuta con la pronuncia a Sezioni Unite n. 10012/2021 in cui ha sì affermato il principio per cui in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatola può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD). Ma a tale conclusione è giunta sull’assunto per cui “viene inevitabilmente in considerazione un’altra successiva pronuncia di illegittimità costituzionale (C. Cost., sent. n. 3/2010) appunto dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede(va) il perfezionamento della notifica non effettuata a causa di “irreperibilità o rifiuto di ricevere” del destinatario (e delle persone addette alla casa) sul presupposto della sola spedizione della “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito dell’atto notificando (presso la Casa comunale), invece che con il ricevimento della stessa ovvero con il decorso di 10 giorni dalla sua spedizione (cfr. Cass., Sez. Un. n. 10012/2021).

4.2 Nella fattispecie in commento è circostanza incontroversa tra le parti, oltre che accertata in fatto dal Collegio di merito, che l’avviso di ricevimento sia stato prodotto in giudizio previa sua restituzione per mancato ritiro nel termine di dieci giorni.

4.3 Né a miglior sorte conduce l’ulteriore profilo dedotto sia con il primo motivo sia con il terzo, ed afferente la mancata affissione dell’avviso alla porta di abitazione ovvero le modalità di esecuzione della notificazione, tenuto conto che si tratta certamente di due procedure alternative tra loro, senza ordine di preferenza (cfr. Cass., V, n. 22348/2020).

5. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, co. 2, L n. 890/1992 in parametro all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.

5.1 In sintesi critica la sentenza per non essersi avveduta la CTR della natura eccezionale della notifica ad un soggetto irreperibile che, come tale, avrebbe dovuto trovare adeguata giustificazione nella relazione di notifica, nella quale deve darsi atto delle ricerche compiute dall’organo notificante e di cui non vi sarebbe traccia alcuna nella relata oggetto di giudizio, non trascritta in ricorso.

6. Il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo.

6.1 È inammissibile perché nuovo, non risultando dal ricorso che la censura in esame sia stata svolta nei precedenti gradi di giudizio.

6.2 Esso è altresì inammissibile per difetto di autosufficienza e specificità. Infatti “è principio consolidato della giurisprudenza di questa corte quello secondo il quale “in tema di ricorso per cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale di quest’ultima, che, se omessa, determina l’inammissibilità del motivo” (Cass. n.1150/2019; Cass. n. 31038 del 2018; n. 5185/2017; v. anche Cass. n. 17424/2005)” (cfr. Cass., V, n. 21112/2022).

7. Con il quarto motivo la parte ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 60, co. 4, d.P.R. n. 600/1973 ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.

7.1 In sintesi afferma che l’art. 60 cit. avrebbe natura speciale riguardando i soli avvisi di accertamento: come tale esso prevarrebbe sulla regola generale di cui all’art. 8 L. n. 890/1992. Pertanto, e tenuto conto che a termini dello stesso art. 60 “qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”, il computo dei termini deve intendersi decorrere dalla “concreta conoscibilità”, intesa come effettiva conoscenza del provvedimento impugnato, in adesione anche all’orientamento sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n 3/2010.

8. Il motivo è infondato.

8.1 Occorre premettere che la conoscibilità di un atto notificato va intesa come possibilità di conoscenza effettiva dell’atto notificando stesso e non come sua conoscenza certa (cfr. Cass., Sez. Un. n. 10012/2021) e che la sentenza della Corte costituzionale n. 3/2010 aveva ad oggetto l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

8.2 Orbene, proprio la Corte costituzionale con la citata pronuncia n. 3/2010, poi condivisa da parte questa Corte con la già richiamata sentenza SS.UU. n. 10012/2012, ha affermato che “le esigenze di certezza nella individuazione della data di perfezionamento del procedimento notificatorio, di celerità nel completamento del relativo iter e di effettività delle garanzie di difesa e di contraddittorio sono assicurate dalla previsione che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata informativa ovvero dalla data di ritiro del piego, se anteriore”.

8.3 Né può affermarsi che l’art. 60 d.P.R. n. 600/1973 deroghi all’applicazione della legge n. 890/2012. Vero è il contrario giacché “la “notifica diretta” a mezzo posta da parte delle agenzie fiscali è, univocamente ed espressamente, consentita dalla legge, il che del resto è riscontrato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex pluribus, Cass., 34007/2019, 1207/2014, 15284/2008), essendo peraltro evidente che trattasi di una disposizione legislativa speciale rispetto a quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e del c.p.c. da esso richiamate, sicché prevale su quest’ultime in base al canone interpretativo lex specialis derogat generali” (Cfr. Cass., Sez. Un. n. 10012/2021).

9. Con l’ultimo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art 153 c.p.c. in rapporto all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. per non aver la CTR tenuto conto della circostanza che l’assenza del contribuente dalla casa di abitazione era dovuta a ragioni di salute, avendo locato un appartamento in una località termale dall’1.04.2014 al 31.03.2015. Trattandosi da causa a lui non imputabile e comunque scusabile, la CTR avrebbe violato l’art. 153 c.p.c. negandogli la remissione in termini.

10. Il motivo è infondato.

10.1 È stato invero affermato che “il presupposto della rimessione in termini è che la parte richiedente dimostri di non aver potuto esercitare tempestivamente il potere processuale per una causa a lei non imputabile o per caso fortuito o forza maggiore. Occorre, in sostanza, che vi sia un impedimento non evitabile con un comportamento diligente (Cass. n. 21794/2015)” (cfr. Cass., V, n. 10162/2023).

10.2 Nella fattispecie in esame la CTR ha rigettato la richiesta di remissione in termini per non aver il ricorrente dimostrato una impossibilità assoluta ed oggettiva a rientrare presso la propria residenza, quanto e solo una difficoltà relativa, facendo buon governo dei principi illustrati da questa Corte.

11. E ciò in disparte l’inammissibilità della doglianza che mira sostanzialmente a mira a ottenere un riesame delle risultanze istruttorie, inammissibile in sede di legittimità.

12. Conclusivamente, vanno dichiarati inammissibili i primi tre motivi di ricorso, mentre vanno rigettati gli altri, con conseguente rigetto del ricorso.

13. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in Euro cinquemilaseicento,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 115/2002 la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 21/12/2023) 02/02/2024, n. 3157

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente

Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere Rel.

Dott. M. FRANCANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. LUME Federico – Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentata e difesa dall’avv. Tommaso Maglione per procura in calce al ricorso, con il quale è elettivamente domiciliata in Roma alla Via Ovidio n. 20, presso lo studio Liccardo, Landolfi & Associati;

– ricorrente –

Contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato;

– resistente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 1194/48/15, depositata il 9 febbraio 2015.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 dicembre 2023 dal consigliere Alberto Crivelli.

Svolgimento del processo
RILEVATO CHE

1. L’Agenzia rettificava la dichiarazione dalla ricorrente, parrucchiera, in relazione a maggiori redditi presunti dal possesso di un immobile e di un cavallo da equitazione. La contribuente proponeva così ricorso che la CTP respingeva. Adìta la CTR in sede d’appello, la stessa dichiarava l’inammissibilità dell’appello per tardività dello stesso. Ricorre quindi in cassazione quest’ultimo con un motivo in cui sono cumulati due ordini di censure.

L’Agenzia resiste a mezzo di un mero atto di costituzione, tardivamente depositato.

Motivi della decisione
2. Con il solo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 37, 38 e 51, d.lgs. n. 546/1992; 327, cod. proc. civ. in relazione all’art. 24, Cost., nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 112, cod. proc. civ. e omessa e/o contraddittoria motivazione su punto rilevante della controversia (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 1 e 3, cod. proc. civ. Osserva in particolare la ricorrente come, non avendo il primo giudice depositato nei termini la sentenza, la stessa non ha potuto proporre ricorso nel termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza. In particolare, la CTR avrebbe disatteso la tempestiva istanza di rimessione in termini di cui all’art. 153, cod. proc. civ. La decisione non avrebbe pronunciato su una questione sollevata dalla ricorrente, cioè la disciplina anteriore all’introduzione del nuovo testo dell’art. 153, cod. proc. civ., e sarebbe altresì contraddittoria in quanto configura un obbligo di diligenza a carico della parte a fronte della violazione degli obblighi di diligenza della commissione e di comunicazione della segreteria nella comunicazione.

3. Il ricorso è infondato. La ricorrente sovrappone in modo indistinto diversi profili di censura, di cui all’art. 360, cod. proc. civ., che invece, per l’osservanza dell’obbligo di specificità degli stessi, avrebbe dovuto trattare in modo autonomo. In ogni caso la CTR ha fatto corretta applicazione delle norme denunciate come violate, poiché la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che il termine “lungo” per impugnare, di cui all’art. 327, cod. proc. civ., come richiamato dall’art. 38, d.lgs. n. 546/1992, decorre dalla data di pubblicazione della sentenza che coincide con il relativo deposito, risultando irrilevante la data della relativa comunicazione (Cass. 03/02/22, n. 3372). D’altronde l’istituto della rimessione in termini presuppone sempre una situazione di impedimento, non imputabile alla parte che invoca la stessa, come accade ove la parte stessa non abbia ricevuto comunicazione dell’udienza di discussione, mentre la semplice tardività del deposito della sentenza rispetto ai termini stabiliti, e dunque della sua pubblicazione, configura una situazione che rappresenta un ostacolo superabile con un comportamento diligente della parte, come osservato dalla CTR, la cui decisione anche sotto tal profilo non si mostra affatto contraddittoria.

La stessa poi men che mai è priva di motivazione, dal momento che rende invece ragione del mancato accoglimento dell’istanza di rimessione sulla base delle osservazioni che precedono e della condizione di parte costituita della ricorrente.

4. Sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.

Nulla per le spese, non avendo l’Agenzia ritualmente resistito a mezzo di tempestivo controricorso.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.

Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per dichiarare l’obbligo della ricorrente di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 02 febbraio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 25/01/2024) 01/02/2024, n. 3017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere

Dott. DE ROSA Maria Luisa– Consigliere

Dott. CHIECA Danilo – Consigliere – Relatore

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20251/2016 R.G. proposto da EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE Spa, incorporante Equitalia Sud Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma al viale Africa n. 40 presso lo studio dell’avv. Federica Sordini, rappresentata e difesa dall’avv. Gianfranco Chiarelli

-ricorrente-

contro

A.A., domiciliato ex lege in Roma alla piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo Conforti

-controricorrente-

nonché contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis

-resistente-

avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA PUGLIA, SEZIONE STACCATA DI TARANTO, n. 1160/2016 depositata il 10 maggio 2016

Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 13 dicembre 2023 dal Consigliere Danilo CHIECA

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1160/16 depositata il 10 maggio 2016, in riforma della decisione di primo grado assunta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Taranto il 7 maggio 2013, la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto, dichiarava nulla, «limitatamente alla parte relativa ai tributi ed accessori ivi indicati», la cartella di pagamento notificata il 7 maggio 2012 da Equitalia Sud Spa a A.A., a sèguito di controllo formale della dichiarazione dei redditi da questi presentata per l’anno d’imposta 2008.

A sostegno della pronuncia adottata il giudice regionale rilevava: -che la notifica della cartella era avvenuta dopo il decorso del termine stabilito a pena di decadenza dall’art. 25, comma 1, lettera a), D.P.R. n. 602 del 1973, nel caso di specie spirato il 31 dicembre 2011; – che tanto determinava la nullità dell’atto impugnato; – che non poteva ritenersi valida la notificazione precedentemente eseguita da Equitalia nel giugno 2011, non essendo state in detta occasione osservati dall’agente della riscossione gli adempimenti richiesti dall’art. 140 c.p.c. o in alternativa dalla L. n. 890 del 1982 per il caso di mancata consegna del piego al destinatario o ad altra persona abilitata a riceverlo.

Avverso tale sentenza, notificata il 6 giugno 2016, Equitalia Servizi di Riscossione Spa, incorporante Equitalia Sud Spa, ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo. Il De Crescenzio ha resistito con controricorso all’avverso gravame. L’Agenzia delle Entrate si è invece limitata a depositare un mero atto di costituzione, ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, a norma dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di gravame, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., la ricorrente Equitalia Servizi di Riscossione Spa lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., degli artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10 L. n. 890 del 1982, dell’art. 60, lettera e), D.P.R. n. 600 del 1973, degli artt. 25, comma 1, lettera a), e 26 D.P.R. n. 602 del 1973, degli artt. 32, 40 e 49 D.M. n. 13700 del 2001, nonché dell’art. 21 D. Lgs. n. 546 del 1992.

Sostiene che avrebbe errato la C.T.R. nel dichiarare la nullità della precedente notificazione della cartella di pagamento effettuata nei confronti del De Crescenzio nel giugno 2011, anteriormente alla scadenza del termine di cui all’art. 25, comma 1, lettera a), D.P.R. n. 602 del 1973.

Al giudice regionale sarebbe, infatti, sfuggito: – che tale notificazione era stata eseguita ai sensi dell’art. 26 D.P.R. n. 602 del 1973; – che detta norma consente all’agente della riscossione di notificare direttamente la cartella di pagamento mediante raccomandata con avviso di ricevimento, senza imporgli di osservare gli adempimenti prescritti dalla L. n. 890 del 1982 per la notificazione degli atti giudiziari a mezzo posta; – che, non essendo avvenuto il ritiro del piego presso l’ufficio postale di distribuzione, la notificazione doveva ritenersi perfezionata per compiuta giacenza; – che, trattandosi di notificazione effettuata senza il tramite dell’ufficiale giudiziario, non poteva trovare applicazione, nel caso di specie, la disciplina dettata dall’art. 140 c.p.c.. Il ricorso è fondato.

Dalla ricostruzione fattuale della vicenda operata dalla C.T.R. si evince che nel giugno 2011 l’allora Equitalia Sud Spa aveva già notificato al De Crescenzio la cartella di pagamento impugnata nel presente giudizio, inviandola a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.

Inequivoco appare, in tal senso, il passaggio motivazionale in cui si afferma che, «una volta constatata la relativa irreperibilità del destinatario», l’agente della riscossione avrebbe dovuto procedere alla notificazione «ex articoli 138 e seguenti c.p.c., ponendo in essere quanto previsto (se del caso) dall’articolo 140, ovvero anche a mezzo posta, ma, questa volta, non ai sensi dell’articolo 26 d.p.r. 602/1973 (posta tout court), ma ai (sensi della) legge 890/1982 (in tema di notificazione a mezzo posta di atti giudiziari)». Da esso, per l’appunto, si ricava che la notificazione in parola, in base a quanto constatato ex actis dal giudice regionale, era stata eseguita mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento («posta tout court»), giusta il disposto dell’art. 26, comma 1, 2° periodo, D.P.R. n. 602 del 1973.

A fronte di un simile accertamento in fatto, risulta errata l’esegesi che della citata disposizione normativa è stata offerta dalla sentenza gravata.

Invero, la speciale disciplina ivi contemplata si pone in termini di alternatività rispetto a quelle dettate dal codice di rito e dalla L. n. 890 del 1982 ed è sottoposta a un regime differenziato, come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di chiarire (cfr., ex ceteris, Cass. n. 33236/2023, Cass. n. 27275/2017, Cass. n. 23511/2016).

Essa, peraltro, è stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Consulta, dapprima con sentenza n. 175/2018 e poi con ordinanze nn. 104/2019 e 2/2020, sulla scorta di questi fondamentali rilievi: a)la facoltà di notificazione “diretta” della cartella di pagamento trova giustificazione nella natura sostanzialmente pubblicistica della posizione e dell’attività dell’agente della riscossione, il quale, in forza dell’espressa previsione dell’art. 24 D.P.R. n. 602 del 1973, è depositario del ruolo formato dall’Amministrazione Finanziaria e procede per conto di quest’ultima alla riscossione coattiva, operando come organo indiretto della stessa Amministrazione; b)i previsti scostamenti rispetto al regime ordinario della notificazione a mezzo del servizio postale, costituenti il proprium della semplificazione insita nella notificazione “diretta”, pur segnando un arretramento del diritto di difesa del destinatario dell’atto, non superano il limite di compatibilità con i parametri costituzionali di cui agli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, e 111, commi 1 e 2, della Carta fondamentale, in quanto risulta comunque assicurato un sufficiente livello di conoscibilità -cioè di possibilità di effettiva conoscenza- dell’atto da parte del destinatario; c)la mancanza di effettiva conoscenza dell’atto dovuta a causa a lui non imputabile consente al destinatario di richiedere la rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c., tanto più in ragione del fatto che l’art. 6 L. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente) legittima un’applicazione estensiva dell’anzidetto istituto. Ciò posto, deve a questo punto rammentarsi che, nel caso in cui il plico notificato ai sensi dell’art. 26, comma 1, 2° periodo, D.P.R. n. 602 del 1973 non sia stato consegnato per temporanea assenza del destinatario e di altre persone abilitate a riceverlo, trovano applicazione le norme del regolamento sul servizio postale, le quali, in presenza di una siffatta ipotesi, non prescrivono l’invio di una comunicazione di avvenuto deposito, ma si limitano a prevedere il rilascio di un avviso di giacenza (cd. <modello 26>) e a stabilire che la raccomandata sia trattenuta presso l’ufficio di distribuzione per un periodo di trenta giorni (artt. 40, commi 3 e 4, D.P.R. n. 655 del 1982 e 25, comma 1, D.M. 1° ottobre 2008). È stato, al riguardo, precisato che, nella descritta evenienza, la notificazione deve intendersi perfezionata -in applicazione non diretta ma analogica dei commi 4 e 5 dell’art. 8 L. n. 890 del 1982, relativi alle notifiche compiute dall’ufficiale giudiziario a mezzo posta- decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza o da quella di spedizione della raccomandata mediante la quale l’agente postale, pur non essendovi tenuto, abbia trasmesso il suddetto avviso, oppure, se anteriore, dalla data di ritorno del plico (cfr. Cass. n. 6857/2019, Cass. n. 4049/2018, Cass. n. 2047/2016).

Alla stregua delle esposte considerazioni, deve allora escludersi che, a fronte del mancato recapito del plico al destinatario, l’agente della riscossione fosse tenuto a procedere a una nuova notificazione per il tramite dell’ufficiale giudiziario -se del caso con il cd. rito degli irreperibili di cui all’art. 140 c.p.c.- o in base alla L. n. 890 del 1982, come invece erroneamente affermato dalla C.T.R.. Non può indurre a diversa conclusione il seguente principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 10012/2021, risolutiva di un contrasto interno di giurisprudenza: «In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale, secondo le previsioni della legge n. 890/1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso, ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (cd. CAD), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima».

Occorre, in proposito, tener presente che la regula iuris appena trascritta è stata enunciata con riferimento a una fattispecie in cui si discuteva del momento perfezionativo della notificazione di atti tributari (in particolare, degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella di pagamento impugnata) eseguita secondo le disposizioni della L. n. 890 del 1982: tanto inequivocabilmente si ricava dalla lettura dell’ordinanza interlocutoria n. 21714/2020, con la quale fu

disposta la rimessione del fascicolo al Primo Presidente per la valutazione circa l’opportunità di assegnare il ricorso alle sezioni Unite (sull’argomento vedasi anche Cass. n. 24492/2023). Nel caso che ci occupa, invece, si disputa intorno alla validità della notificazione di una cartella di pagamento effettuata dall’agente della riscossione ex art. 26, comma 1, 2° periodo, D.P.R. n. 600 del 1973, in osservanza di una procedura speciale e semplificata che non contempla l’inoltro di alcuna comunicazione di avvenuto deposito al destinatario.

Orbene, in corretta applicazione della normativa di riferimento, il collegio d’appello avrebbe dovuto verificare se fosse stato rilasciato dall’ufficiale postale l’avviso di giacenza di cui agli artt. 40, comma 3, D.P.R. n. 655 del 1982 e 25, comma 1, D.M. 1° ottobre 2008 (nella presente sede può solo rilevarsi che, stando a quanto riportato in ricorso, sulla busta del plico figurerebbe l’annotazione <modello 26>) e, nell’ipotesi affermativa, se la notifica si fosse perfezionata per compiuta giacenza; a tanto, però, esso non ha provveduto.

Poiché trattasi di accertamento che questa Corte non può compiere mediante l’esame diretto degli atti, non essendosi al cospetto di un error in procedendo ex art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. (cfr. Cass. n. 35014/2022, Cass. n. 18472/2016, Cass. n. 2047/2016, Cass. n. 5930/2015, Cass. n. 11674/2013), va disposta, a norma dell’art. 384, comma 2, prima parte, del medesimo codice, la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, sezione staccata di Taranto, in diversa composizione, perché rivaluti la questione oggetto del presente ricorso alla luce del principio di diritto sopra espresso.

Al giudice del rinvio viene rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità, a mente dell’art. 385, comma 3, seconda parte, c.p.c.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, sezione staccata di Taranto, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza in camera di consiglio tenuta in data 13 dicembre 2023 dalla Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, riconvocatasi nella medesima composizione di cui sopra il 25 gennaio 2024.

Depositata in Cancelleria il 1 febbraio 2024


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/11/2023) 16/01/2024, n. 1707

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta da

Dott. LUCIOTTI Lucio – Presidente

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere Rel.

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giulia – Consigliere

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23682/2016 R.G. proposto da:

A.A. (C.F. Omissis), rappresentato e difeso dall’Avv. SABRINA VARRICCHIO (C.F. Omissis) e dall’Avv. DOMENICO PARRELLA (C.F. Omissis) in virtù di procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliato presso gli indirizzi digitali sabrinavarricchio@avvocatinapoli.legalmail.it e domenicoparrella2@avvocatinapoli.legalmail.it

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. Omissis), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, n. 3406/12/16 depositata in data 12 aprile 2016

nonché

sul ricorso iscritto al n. 9640/2018 R.G. proposto da:

A.A. (C.F. Omissis), rappresentato e difeso dall’Avv. SABRINA VARRICCHIO (C.F. Omissis) in virtù di procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo digitale sabrinavarricchio@avvocatinapoli.legalmail.it

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. Omissis), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, n. 7186/02/17 depositata in data 25 agosto 2017

Udita la relazione svolta dal Consigliere Filippo D’Aquino nella camera di consiglio del 24 novembre 2024.

Svolgimento del processo
1. Il contribuente A.A., esercente l’attività di ristorazione, ha separatamente impugnato tre avvisi di accertamento relativi ai periodi di imposta (Omissis), (Omissis) e (Omissis) con i quali, a seguito di accesso e conseguente PVC, venivano accertati maggiori ricavi e le conseguenti imposte dirette e IVA.

2. La CTP di Salerno ha accolto i ricorsi riuniti.

3. La CTR della Campania, con sentenza in data 12 aprile 2016, ha accolto parzialmente l’appello dell’Ufficio. Ha ritenuto il giudice di appello che dalla contabilità aziendale emergevano diverse irregolarità, quali la mancata esibizione del dettaglio delle rimanenze finali e iniziali, la movimentazione del conto cassa in contanti, l’incongruenza degli acquisti con i risultati di esercizio, con particolare riferimento all’acquisto dei prodotti primari utilizzati dal ristorante (pesce e alici di menaica), il numero di portate rispetto al volume di affari dichiarato e i dati inseriti negli studi di settore, ritenendo sussistere sufficienti elementi indiziari tali da indurre la presunzione di inattendibilità della contabilità ai fini della metodologia analitico-induttiva applicata. Ha, poi, osservato che gli elementi contabili sulla base dei quali si è proceduto all’accertamento con la modalità analitico-induttiva (in particolare, periodo di apertura, numero coperti, prezzo medio e tipologia di pagamenti), sono stati rideterminati in contraddittorio con il contribuente. E’, stato, poi, valorizzato l’elemento indiziario del consumo di tovaglioli, nella specie di carta, utilizzati (cd. tovagliometro). Sotto questo profilo, il giudice di appello ha rilevato che l’Ufficio non aveva tenuto conto dello sfrido e aveva fatto applicazione del prezzo dei pasti determinato al momento dell’accesso e non alla data dei precedenti periodi di imposta, per cui ha ridotto gli importi accertati del 25%.

4. Propone ricorso per cassazione il contribuente, iscritto al n. 23682/2016 R.G., affidato a sei motivi, alcuni dei quali articolati in ulteriori diversi profili, ulteriormente subarticolati; l’ente impositore si è costituito ai fini della partecipazione all’udienza di discussione. Il ricorrente ha depositato memoria.

5. Dagli atti del fascicolo n. 9640/2018 R.G. emerge che il medesimo contribuente A.A. ha impugnato per revocazione la menzionata sentenza della CTR Campania n. 3406/12/16, oggetto del superiore giudizio, ritenendo che l’avere la sentenza impugnata applicato il tovagliometro in relazione ai tovaglioli di carta accertati rispetto a quelli acquistati nel periodo di imposta per la somministrazione dei pasti, fosse a monte viziato da un errore revocatorio del giudice di appello.

6. La CTR della Campania, Sezione staccata di Salerno, con sentenza in data 25 agosto 2017, ha rigettato l’impugnazione per revocazione, ritenendo che l’utilizzo del tovagliometro ha costituito punto controverso sul quale il giudice si è pronunciato.

7. Propone ricorso per cassazione il contribuente, affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso l’Ufficio. Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
CONSIDERATO CHE

1. Con il primo motivo del ricorso n. 23682/2016 R.G. si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 111 Cost., degli artt. 61 e 36 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e dell’art. 132 cod. proc. civ., deducendo nullità della sentenza per mancanza nella motivazione del minimo costituzionale. Osserva parte ricorrente come la sentenza sarebbe priva di percorso logico intellegibile, non avrebbe effettuato “alcuna attività di giudizio” e non avrebbe indicato il contenuto degli atti processuali esaminati.

2. Con il secondo motivo del medesimo ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per non avere rilevato l’inammissibilità dell’atto di appello in violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. e dell’art. 52 d.lgs. n. 546/1992. Osserva il ricorrente che l’appello dell’Ufficio sarebbe stato inammissibile per omessa esposizione dei fatti e per assenza di specifici motivi di impugnazione e mera riproduzione delle argomentazioni già sostenute dall’Ufficio in primo grado, senza che nell’appello fossero state confutate le ragioni del giudice di primo grado.

3. Con il terzo motivo del medesimo ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza “per acquiescenza sulla accertata inesistenza dei presupposti legittimanti l’accertamento induttivo” in violazione degli artt. 329 e 112 cod. proc. civ. Parte ricorrente riprende l’argomentazione secondo cui l’atto di appello non avrebbe censurato specificamente gli accertamenti contenuti nella sentenza impugnata, con conseguente acquiescenza “parziale” alla sentenza impugnata, con riferimento alla asserita insussistenza delle condizioni legittimanti l’accertamento “induttivo”.

4. Con il quarto motivo del medesimo ricorso si deducono plurimi profili di censura. Secondo un primo ordine di censure si deduce nullità della sentenza per “mancato o difettoso controllo di legittimità dell’accertamento impugnato dichiaratamente effettuato ai sensi dell’art. 39 c. 1 lett. d) del d.p.r. 600/73”. Con riferimento a tale aspetto si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per non avere la sentenza impugnata tenuto conto di tutte le domande ed eccezioni proposte dal contribuente, deducendo che non ricorrerebbe nella specie un rigetto implicito.

4.1. Sotto un secondo profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché (ulteriormente) in relazione all’art. 115 e 116 cod. proc. civ. e all’art. 2097 (rectius art. 2697) cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che gli elementi contabili sono stati rideterminati in contraddittorio con il contribuente. Il ricorrente deduce che tale accertamento non corrisponda al vero e che sarebbero state omesse le censure esposte dal ricorrente in relazione alle irregolarità compiute dagli accertatori.

4.2. Sotto un terzo profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 39, primo comma, lett. d), D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non sussistendo (nella sostanza) irregolarità gravi per ritenere complessivamente inattendibile la contabilità ai fini dell’accertamento emesso, tenuto conto della regolare tenuta del libro inventari, del libro dei corrispettivi e delle scritture contabili nel loro complesso e della compilazione degli studi di settore, per cui non sussisterebbero in fatto le irregolarità accertate dal giudice di appello.

4.3. Sotto un quarto profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 39, primo comma, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, dell’art. 2697 cod. civ. e (ulteriormente) dell’art. 116 cod. proc. civ., “nullità della sentenza per mancato o difettoso controllo di legittimità della operata rideterminazione dei ricavi”, nella parte in cui la sentenza impugnata ha fatto ricorso allo strumento presuntivo del tovagliometro per rideterminare il numero e il costo dei pasti. Il ricorrente deduce come il ragionamento deduttivo del giudice di appello poggi su presunzioni prive di pregnanza indiziaria e non tenga conto delle deduzioni di parte contribuente, né della valutazione globale di tutte le risultanze istruttorie, anche in relazione alla presunzione del prezzo di vendita.

5. Con il quinto motivo del medesimo ricorso si deducono, ulteriormente, plurime censure. Con un primo profilo si deduce nullità della sentenza “per mancato o difettoso controllo di legittimità dell’accertamento operato in riferimento al non dichiarato art. 39 c. 2 lett. d) del d.p.r. 600/73”, violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. e (ulteriormente) in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., sotto il profilo della falsa applicazione dell’art. 39, secondo comma, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, per avere il giudice di appello

considerato complessivamente inattendibile la contabilità del contribuente a dispetto della metodologia analitico-induttiva adottata dall’Ufficio; contesta, in ogni caso, l’esistenza dei presupposti per la metodologia induttiva pura in assenza di una inattendibilità complessiva della contabilità, sulla base dei rilievi già espressi in relazione ai profili precedentemente esposti.

5.1. Con un secondo profilo si deduce nullità della sentenza “per mancato o difettoso controllo di legittimità della operata rideterminazione del reddito”, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., ancora violazione dell’art. 39, secondo comma, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, dell’art. 97 Cost.; si censura, inoltre, la violazione dell’art. 7 l. 27 luglio 2000, n. 212 e degli artt. 1 e 3 l. 7 agosto 1990, n. 241, per avere il giudice di appello ritenuto legittima la metodologia induttiva pura.

6. Con il sesto motivo del medesimo ricorso si deduce nullità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto di rideterminare una riduzione degli importi accertati nella misura del 25% sia in relazione allo sfrido dei tovaglioli, sia in relazione al prezzo medio dei pasti non dichiarati. Sotto un primo profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 42 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e (ulteriormente), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto il giudice di appello, preso atto dell’illegittimità dell’accertamento, avrebbe dovuto annullare l’avviso nel suo complesso anziché rideterminarle nel merito.

6.1. Sotto un secondo profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma n. 4, cod. proc. civ., violazione del principio di diritto vivente circa la natura di impugnazione di merito del processo tributario ai sensi degli artt. 1, 2, 7 e 36 d. Lgs. n. 546/1992, in quanto in questo caso non ricorrerebbe ai fini della pronuncia di merito un profilo di infondatezza dell’accertamento, bensì un vizio formale, per essere il dato dello sfrido e del valore dei pasti assente o, comunque, erroneamente applicato nell’avviso impugnato. Contesta, in ogni caso, il ricorso all’equità.

6.2. Sotto un terzo profilo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 113 cod. proc. civ. Il ricorrente riprende la censura di cui al punto precedente e ritiene che l’equità non possa costituire un parametro alternativo al giudizio secondo diritto.

7. Con il primo motivo del ricorso per revocazione n. 9640/2018 R.G. si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per non essersi il giudice della revocazione pronunciato sulla domanda proposta dal ricorrente, secondo cui il giudice di appello avrebbe errato a ritenere che i tovaglioli non rinvenuti nelle rimanenze fossero stati utilizzati per la somministrazione di pasti. Parte ricorrente ripropone la questione sottoposta al giudice della revocazione, ove evidenziava che per uno dei periodi di imposta il libro degli inventari era stato depositato e che per gli altri periodi di imposta le rimanenze non sarebbero state evidenziate in contabilità perché “tutte le giacenze di fine anno sono state assoggettate ad autoconsumo” e che sarebbe stata emessa al riguardo autofattura per le giacenze non rinvenute.

8. Con il secondo motivo del ricorso per revocazione si deduce, in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., omesso od erroneo esame delle domande e delle circostanze dedotte dal ricorrente. Il ricorrente premette che i verificatori avevano a disposizione il libro degli inventari e le autofatture evidenziate nel superiore profilo, osservando che il giudice di appello sarebbe incorso in errore di fatto, consistente nella erronea supposizione che tutti i tovaglioli acquistati sarebbero stati somministrati per i pasti, non avendo esaminato la deduzione di parte ricorrente, ove osservava che i tovaglioli non potevano rinvenirsi nella contabilità per le ragioni esposte al superiore profilo, né la relativa documentazione.

9. Con il terzo motivo del ricorso per revocazione si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 395, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nonché violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nelle parti in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’errore revocatorio non sarebbe escluso dalle risultanze documentali e nella parte in cui ha ritenuto che la circostanza dedotta dal ricorrente abbia costituito punto controverso sul quale il giudice si sarebbe pronunciato.

10. Deve preliminarmente procedersi alla riunione dei due procedimenti – riunendosi il proc. n. 9640/2018 R.G. al proc. n. 23682/2016 R.G., come peraltro già sollecitato dal ricorrente nelle memorie – in conformità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza degli stessi in sede di legittimità; nonostante, difatti, si tratti di due gravami aventi ad oggetto distinti provvedimenti impugnati, la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l’applicazione estensiva dell’art. 335 cod. proc. civ., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l’esito di quello riguardante la sentenza di revocazione (Cass., Sez. Lav., 6 luglio 2022, n. 21315; Cass., Sez. V, 27 dicembre 2018, n. 33415; Cass., Sez. V, 9 febbraio 2018, n. 3177; Cass, Sez. V, 5 agosto 2016, n. 16435), benché i due procedimenti mantengano reciproca autonomia (Cass., Sez. V, 27 giugno 2019, n. 17236).

11. L’esame del ricorso n. 9640/2018 R.G. risulta, pertanto, pregiudiziale al ricorso n. 23682/2016 R.G. Il ricorso è inammissibile, conformemente all’eccezione articolata dal controricorrente, in quanto tardivo. La sentenza impugnata è stata depositata in data 25 agosto 2017, laddove il ricorso è stato notificato a mezzo PEC in data 19 marzo 2018, oltre il termine di decadenza dall’impugnazione (art. 327 cod. proc. civ.).

12. Le argomentazioni di parte ricorrente indicate in memoria sono destituite di fondamento, posto che la riduzione del termine cd. lungo di impugnazione (termine di decadenza dall’impugnazione) da un anno a sei mesi, disposta con riferimento all’ordinario rito civile, si applica anche ai giudizi tributari – in ragione del rinvio mobile all’art. 327, primo comma, cod. proc. civ. operato dall’art. 38, comma 3, d.lgs. n. 546/1992 nel caso in cui nessuna delle parti provveda alla notificazione della sentenza (Cass., Sez. V, 16 febbraio 2023, n. 4824).

13. Né può procedersi a rimessione in termini nella proposizione dell’impugnazione (come tardivamente chiesto dal ricorrente solo in memoria), posto che l’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., pur operando anche con riguardo al termine per proporre impugnazione, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà che presenti i caratteri dell’assolutezza e non della mera difficoltà (Cass., Sez. III, 7 luglio 2023, n. 19384). Il ricorrente non ha addotto alcuna ragione in tal senso, salvo a dichiarare (in memoria) che la parte “ha dedicato alla questione della specialità della normativa sulla pubblicazione delle sentenze Tributarie e sui riflessi in relazione ai termini per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c., una indagine che appare necessaria ed è stata adeguatamente illustrata”, la quale non costituisce fattore estraneo all’operato di un difensore, considerato che l’avvocato difensore è tenuto ad adempiere all’obbligazione inerente all’esercizio del mandato con la diligenza necessaria in relazione alla natura e all’importanza dell’attività professionale esercitata in concreto ex art. 1176, secondo comma, cod. civ. (Cass., Sez. U., 12 febbraio 2019, n. 4135).

14. Passandosi all’esame del primo ricorso, il primo motivo è infondato, in conformità al consolidato orientamento per cui la nullità della sentenza può essere predicata solo in caso di totale assenza del percorso logico che ha condotto il giudice di appello alla decisione, ovvero in caso di incomprensibilità dello stesso per apparenza della motivazione (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053). Nella specie, il giudice di appello, con percorso argomentativo compiuto, ha ritenuto sussistenti i presupposti perché l’Ufficio procedesse ad accertamento analitico-induttivo, stanti la sussistenza di presunzioni dotate di gravità indiziaria e ha ritenuto corretto l’utilizzo del tovagliometro, riducendo nel merito gli importi in relazione alla mancata applicazione dello sfrido e della corretta determinazione del valore di transazione dei pasti in relazione ai periodi di imposta accertati.

15. Il secondo e il terzo motivo, i quali possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario l’appello ha carattere devolutivo pieno, quale mezzo di gravame non limitato al controllo di vizi specifici, ma volto ad ottenere il riesame della causa nel merito (Cass., Sez. VI, 23 novembre 2018, n. 30525). Ne consegue che è ammissibile a termini dell’art. 53 d. lgs. n. 546/1992 un atto di appello in cui l’amministrazione si limiti a ribadire ed a riproporre le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato già dedotte in primo grado (Cass., Sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 24641; Cass., Sez. VI, 22 marzo 2017, n. 7369). Né l’enunciazione dei motivi di appello deve consistere in una formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, potendo i motivi essere ricavati, anche per implicito, dall’atto di impugnazione nel suo complesso (Cass., Sez. V, 21 novembre 2019, n. 30341), comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (Cass., Sez. VI, 24 agosto 2017, n. 20379). Inammissibile è, poi, la censura contenuta nel secondo motivo, secondo cui l’appello non avrebbe riprodotto l’esposizione dei fatti essenziali ai fini della decisione, per assenza di specificità.

16. Per l’effetto, l’intervenuta censura della sentenza nella sua totalità esclude l’acquiescenza (censura, peraltro, riguardo alla quale vi è difetto di specificità nella parte in cui si deduce che la censura sarebbe parziale). Né può ritenersi verificata una acquiescenza in ordine alle prove acquisite al processo e ritenute inammissibili dal giudice di primo grado, e ciò anche in assenza di una espressa impugnazione sul punto, in quanto sia il principio dell’acquiescenza (art. 329 cod. proc. civ.), sia quello della decadenza dalle domande non riproposte (art. 346 cod. proc. civ.) non trovano applicazione con riferimento alla valutazione dei mezzi istruttori operata dal giudice di prima istanza (Cass., Sez. V, 16 aprile 2008, n. 9917).

17. Il primo profilo del quarto motivo è infondato, posto che il giudice non è tenuto a indicare, sotto pena di nullità della sentenza analiticamente tutti gli atti processuali presi in esame, né a esaminare e confutare tutte le allegazioni delle parti (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 30 gennaio 2020, n. 2153), essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente le ragioni della decisione così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., Sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 25509; Cass., Sez. III, 20 novembre 2009, n. 24542). Le allegazioni non esaminate dal giudice di appello devono, pertanto, ritenersi implicitamente rigettate senza violazione del principio di cui all’art. 112 cod. proc. civ.

18. Inammissibile è il secondo profilo del quarto motivo, in quanto contrario a un accertamento in fatto compiuto dal giudice di appello (accertamento in contraddittorio tra le parti degli elementi di fatto in relazione ai quali è stata condotta la verifica), censurabile in sede di legittimità con il vizio di omesso esame di fatto storico (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.).

19. Infondato è, inoltre, il terzo profilo del quarto motivo. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il discrimine tra l’accertamento con metodo analitico induttivo e quello con metodo induttivo puro sta, rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l’Ufficio accertatore deve limitarsi a completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ.; nel secondo caso, invece, le omissioni o le false o inesatte indicazioni devono essere così gravi, numerose e ripetute da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari); sicché l’amministrazione finanziaria può prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva (Cass., Sez. V, 29 dicembre 2022, n. 38112; Cass., 4 ottobre 2022, n. 28747; Cass., Sez. V, 9 maggio 2022, n. 14676; Cass., Sez. V, 18 dicembre 2019, n. 33604; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6861).

20. Parimenti, l’accertamento analitico-induttivo si differenzia dall’accertamento analitico in quanto l’Agenzia delle Entrate ricostruisce le maggiori imposte con un ragionamento deduttivo fondato su presunzioni semplici, che non hanno ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singole poste, delle quali viene provata aliunde l’inesattezza (Cass., Sez. V, 21 marzo 2018, n. 7025). L’accertatore prende atto della incompletezza degli elementi indicati dal contribuente, completando le lacune riscontrate utilizzando – ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati – presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ. (Cass., Sez. V, 18 dicembre 2019, n. 33604) e che possono essere fondate anche su un unico elemento indiziario, purché preciso e grave (Cass., Sez. V, 14 ottobre 2020, n. 22184) e incentrati anche sulla sola antieconomicità. Nella specie, il giudice di appello ha ritenuto che la contabilità, pur formalmente tenuta, fosse complessivamente inattendibile per effetto di diverse irregolarità (indicate in narrativa), quali mancata esibizione del dettaglio delle rimanenze, movimentazione del conto cassa in contanti, incongruenze tra acquisti e utilizzo di materie prime, incongruenza dei ricavi dichiarati con quelli degli studi di settore (ciò a denotare l’antieconomicità), circostanze assunte a presupposto del corretto utilizzo della metodologia accertativa applicata.

21. Inammissibile è, invece, l’ultimo profilo del quarto motivo, in quanto diretto a confutare l’apprezzamento delle prove e, in particolare, degli elementi indiziari da parte del giudice di appello (sostanzialmente incentrati sull’utilizzo del tovagliometro), non consentito in sede di legittimità.

22. Il quinto motivo è inammissibile in relazione ad entrambi i profili denunciati, in quanto non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, incentrata – come si è visto supra – sull’utilizzo della metodologia analitico-induttiva e non su quella induttiva pura.

23. I primi due profili del sesto motivo sono infondati in quanto, come del resto riconosce lo stesso ricorrente, il processo tributario è annoverabile tra quelli di impugnazione-merito, in quanto volto a una decisione sostitutiva dell’accertamento dell’Ufficio, sicché il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento ma deve esaminare nel merito la pretesa impositiva e ricondurla alla corretta misura (Cass., Sez. V, 23 dicembre 2020, n. 29364; Cass., Sez. V, 10 settembre 2020, n. 18777; Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25629; Cass., Sez. V, 20 marzo 2013, n. 6918).

24. Né può sostenersi che l’accoglimento parziale dell’appello (e il conseguente annullamento parziale dell’accertamento) consegua nella specie al riscontro di vizi di legittimità o metodologici dell’atto, in quanto il giudice ha accertato nel merito l’infondatezza parziale della pretesa impositiva, per non avere l’atto impugnato affrontato il tema dello sfrido e affrontato erroneamente il tema del valore di transazione del pasto, in relazione ai quali è stata applicata una riduzione forfetaria degli importi accertati.

25. L’ultimo profilo del sesto motivo è infondato. Ciò che è precluso al giudice tributario è il fare uso di poteri di equità sostitutiva, dovendo fondare la propria decisione su giudizi estimativi, di cui deve dar conto in motivazione in rapporto al materiale istruttorio (Cass., Sez. V, 18 maggio 2023, n. 13726; Cass., Sez. V, 25 giugno 2019, n. 16960), dovendo il giudice dare conto delle risultanze del materiale istruttorio (Cass., Sez. V, 5 aprile 2022, n. 10875; Cass., Sez. VI, 23 marzo 2018, n. 7354). Non ricorre, pertanto, l’equità sostitutiva ove il giudice di appello ha effettuato un giudizio estimativo, riducendo le pretese dell’Amministrazione finanziaria (Cass., Sez. VI, 21 dicembre 2015, n. 25707; Cass., Sez. V, 24 febbraio 2020, n. 4442), vuoi perché ha ritenuto parzialmente sfornita di prova la pretesa impositiva, vuoi perché ha accolto in parte le prove offerte dal contribuente. Nella specie, il giudice di appello ha effettuato un giudizio estimativo, ritenendo che l’avviso impugnato fosse carente nella parte in cui non aveva considerato l’utilizzo dei tovaglioli di carta per altri scopi, come in caso di sfrido e fosse erroneo nell’avere considerato il prezzo unitario dei pasti alla data dell’accesso, laddove si sarebbe dovuto fare riferimento ai menu dei tre esercizi oggetto di accertamento. In relazione a tali carenze istruttorie, il giudice ha compiuto un giudizio estimativo, riducendo forfetariamente gli importi accertati del 25%. La sentenza impugnata ha, pertanto, fatto corretta applicazione dei suindicati principi. Il primo ricorso va, pertanto, rigettato.

26. Le spese di entrambi i giudizi, i quali come evidenziatosi supra, mantengono la reciproca autonomia, seguono la soccombenza in relazione al secondo giudizio e si liquidano come da dispositivo, mentre per il primo giudizio non vi è luogo a provvedere sulle spese, in assenza di difese scritte del resistente. Sussistono in relazione a entrambi i giudizi i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte dispone la riunione del ricorso n. 9640/2018 R.G. al ricorso n. 23682/2016 R.G.; dichiara inammissibile il ricorso n. 9640/2018 e rigetta il ricorso n. 23682/2016; condanna il ricorrente del giudizio n. 9640/2018 R.G. al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico di parte ricorrente per entrambi i ricorsi, ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. 24 dicembre 2012, n. 228L. 24/12/2012, n. 228, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i suddetti ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, in data 24 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2024.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/11/2023) 13/12/2023, n. 34824

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALSAMO Milena – Presidente –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36347-2018 proposto da:

AZZURRA COSTRUZIONI Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato LUIGI CINQUEMANI, giusta procura speciale estesa a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che le rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1799/12/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della SICILIA, depositata il 24/4/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata dell’8/11/2023 dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Svolgimento del processo
CHE:

Azzurra Costruzioni Srl propone ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia aveva respinto l’appello avverso la sentenza n. 5077/07/2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Palermo, in rigetto del ricorso avverso cartella esattoriale, avente ad oggetto iscrizione a ruolo per mancato pagamento di imposta di registro, oltre interessi e sanzioni, in conseguenza di avviso di rettifica e liquidazione emesso nell’anno (Omissis);

l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia delle entrate riscossione resistono con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 139 c.p.c., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. c),) e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente ritenuto valida la notifica dell’avviso di liquidazione effettuata a mani di familiare convivente del destinatario (legale rappresentante della società ricorrente), pur in mancanza di prova circa la “riconducibilità del luogo di… consegna” con il domicilio fiscale della parte;

1.2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 115 c.p.c.) ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentando che la Commissione tributaria regionale abbia omesso di rilevare che alla data della notifica il destinatario (legale rappresentante della società contribuente) era detenuto in carcere, circostanza non contestata dall’Agenzia delle entrate, con conseguente violazione anche del principio di non contestazione;

1.3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia “omesso esame di fatto storico, principale o secondario in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5… (per)… violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 602, art. 25 in relazione al termine per la notifica della cartella” impugnata, lamentando la carente motivazione da parte della Commissione tributaria regionale circa la violazione dei termini decadenziali di cui all’art. 25 cit.;

1.4. le doglianze, da esaminare congiuntamente, vanno disattese;

1.5. in primo luogo, risultano inammissibili le censure formulate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poichè si verte in ipotesi di doppia conforme ex art. 348-ter c.p.c., comma 5, rispetto alla quale la ricorrente non ha indicato profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. nn. 26774/2016, 5528/2014);

1.6. a seguire, posto che la Commissione tributaria regionale ha accertato in fatto che la notifica della cartella è avvenuta presso l’abitazione del legale rappresentante della società, nelle mani della moglie dichiaratasi capace e convivente, va osservato che ove la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani di un familiare convivente con il destinatario, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7 deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante (anche) ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c., in quanto il problema della identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con la conseguente irrilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire (cfr. Cass. nn. 583/2019 in motiv., 8472/2018, 6345/2013, 22607/2009, 24852/2006);

1.7. in altri termini, nel caso in cui la notificazione venga eseguita a mezzo posta e l’agente postale l’esegua, secondo le forme indicate dall’art. 7, primo (“L’agente postale consegna il piego nelle mani proprie del destinatario…”) e comma 2 (“Se la consegna non può essere fatta personalmente al destinatario, il piego è consegnato… a persona di famiglia che conviva anche 5 temporaneamente con lui…”) della L. n. 890 del 1982, “nel luogo indicato sulla busta che contiene l’atto da notificare”, è da presumere che in quel luogo si trovino la residenza effettiva o la dimora o il domicilio del destinatario, laddove, qualora quest’ultimo intenda contestare in giudizio tale circostanza al fine di far dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne idonea prova contraria, la quale, però, non può essere costituita dalla produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notificazione (cfr. Cass. 9 maggio 2014 n. 10107; Cass. 19 luglio 2005, n. 15200; Cass. 23 settembre 2004, n. 19132; Cass. 26 luglio 2002, n. 11077; Cass. 14 giugno 1999, n. 5884), dal momento che siffatte risultanze, di valore semplicemente dichiarativo, offrono, a loro volta, una mera presunzione, superabile alla stregua di altri elementi capaci di evidenziare, in concreto, la diversa ubicazione della residenza effettiva del destinatario dell’atto, presso la quale la notificazione, anche ai fini di cui alla già citata L. n. 890 del 1982, art. 3, comma 2, è validamente eseguita ed il cui accertamento, come compiuto dal giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità se non per vizi della relativa motivazione (cfr. Cass. 30 marzo 2012 n. 5201; Cass. 20 marzo 2006, n. 6101; Cass. 5 agosto 2005, n. 16525; Cass. 26 maggio 1999, n. 5076);

1.8. la Commissione tributaria regionale ha dunque ritenuto che, nel caso di specie, l’avviso di rettifica e liquidazione, sotteso alla cartella esattoriale impugnata, risultava validamente notificato al legale rappresentante della società contribuente a mani di familiare convivente, avendo la ricorrente omesso di dedurre e documentare che ” – contrariamente a quanto certificato dal Messo Speciale dell’Agenzia delle Entrate di Palermo… nella relazione di notifica trascritta in calce all’avviso di rettifica e liquidazione prodotto in giudizio dall’Agenzia delle Entrate – l’atto impositivo in oggetto non sia stato consegnato il 03/04/2008 in (Omissis), a A.A., moglie convivente del suo legale rappresentante, B.B.”;

1.9. a fronte della mancata prova, dunque, da parte del destinatario della notifica, circa il diverso luogo di residenza, dimora o domicilio, la Commissione tributaria regionale ha correttamente affermato la legittimità della notifica eseguita a persona diversa dal legale rappresentante presso la sua abitazione;

1.10. in merito, inoltre, a quanto dedotto dalla ricorrente circa la detenzione in carcere del legale rappresentante alla data della notifica dell’atto impositivo, è assorbente, rispetto ad ogni altra questione, evidenziare che in tema di notificazioni, l’art. 139 c.p.c. pone obbligatoriamente un criterio di successione preferenziale in ordine ai luoghi nei quali la notificazione deve avvenire, al che consegue che, giacchè la residenza non si perde per effetto di un allontanamento più o meno protratto nel tempo salvo che la persona non abbia fissato altrove una nuova dimora abituale e quindi una nuova residenza, risulta conforme a diritto la notifica a persona detenuta effettuata, nelle mani di persona di famiglia, nel luogo di residenza (cfr. Cass. n. 9279 del 17 settembre 1998) come nel caso in esame;

2.1. con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 2700 c.c., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. b-bis) e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente respinto la doglianza relativa alla mancata prova, da parte del notificante, circa la ricezione della raccomandata informativa, inviata a seguito della consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario;

2.2. la doglianza va parimenti disattesa;

2.3. la notificazione degli atti impositivi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. a, (in tema di imposte dirette, ma richiamato dalle norme attinenti alla notificazione degli atti impositivi relative agli altri tributi) è eseguita dai messi comunali o dai messi autorizzati dall’ufficio finanziario secondo le norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss., ivi comprese, quindi, in mancanza di espressa esclusione, le modalità di cui all’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo del servizio postale;

2.4. trovano applicazione, in questo caso, le norme specifiche dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, artt. 7 e 8 con piena equiparazione del messo comunale o del messo autorizzato dall’ufficio finanziario all’ufficiale giudiziario (per tale equivalenza, tra le tante: Cass. 13 luglio 2016, n. 14273; Cass. 26 settembre 2018, n. 22854; Cass. 16 marzo 2018, nn. 6497 e 6498; Cass. 11 marzo 2020, n. 6855; Cass. 17 giugno 2021, n. 17368);

2.5. la notificazione a cura dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’ufficio D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 60, comma 1, lett. a, deve essere eseguita nel rispetto delle norme stabilite dagli artt. 137 c.p.c. e ss., ma secondo le modifiche indicate nel medesimo art. 60 che, per quanto ci occupa, dispone, alla lett. b -bis, aggiunta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 27, lett. a, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 quanto segue: “Se il consegnatario non è il destinatario dell’atto o dell’avviso, il messo consegna o deposita la copia dell’atto da notificare in busta che provvede a sigillare e su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso. Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata”;

2.6. il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, pur rinviando alla disciplina del codice di procedura civile, richiede, dunque, a differenza di quanto disposto dall’art. 139 c.p.c., comma 2, anche ove l’atto sia consegnato nelle mani di persona di famiglia, l’invio della raccomandata informativa quale adempimento essenziale della notifica che sia eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte (cfr. Cass. n. 2868 del 03/02/2017);

2.7. tuttavia, come già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 2377 del 27/1/2022), il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. b-bis, prevede esclusivamente la spedizione di una “lettera raccomandata”, non, quindi, di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento (cfr. Cass. 6 settembre 2017, n. 20863; Cass. 3 aprile 2019, n. 9239; Cass. 15 dicembre 2019, n. 29768), che viene a costituire un adempimento superfluo ed ultroneo ai fini del perfezionamento del procedimento notificatorio, ed il Collegio condivide tale orientamento, rispetto al quale costituisce precedente del tutto isolato l’ordinanza di questa Corte n. 17235 del 2 luglio 2018, superato anche dal successivo pronunciamento delle Sezioni Unite di questa Corte, come di seguito illustrato);

2.8. invero, nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni, e ciò sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, commi 3 e 6, nel testo novellato dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 2-quater, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31);

2.9. questa Corte ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 c.p.c., comma 4) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, commi 3 e 6), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata (cfr. Cass. 22 maggio 2015, n. 10554; Cass. 16 giugno 2016, n. 12438; Cass. 10 ottobre 2017, n. 23765; Cass. 7 giugno 2018, n. 14722; Cass. 12 luglio 2018, n. 18504; Cass. 30 gennaio 2019, n. 2747; Cass. 20 luglio 2021, n. 20736);

2.10. con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. 20 novembre 198,2 n. 890, le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8 e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi degli artt. 139 c.p.c., comma 4, e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (C.A.D.), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (cfr. Cass., Sez. Un, 15 aprile 2021, n. 10012), e non anche nel secondo;

2.11 la scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con l’avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c. e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (familiari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (cfr. Cass., Sez. Un, 15 aprile 2021, n. 10012 – nello stesso senso, tra le tante: Cass. 20 luglio 2021, n. 20736; Cass. 30 novembre 2021, nn. 37391 e 37392; Cass. 5 gennaio 2022, n. 201);

2.12. è opportuno evidenziare, peraltro, anche che è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7 in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata c.d. informativa, come, invece, previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex artt. 140 c.p.c. e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli 14 interventi additivi richiesti dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., 14 gennaio 2010, n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui agli art. 140 c.p.c. e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (cfr. Cass. 7 giugno 2018, n. 14722; Cass. 20 luglio 2021, n. 20736);

2.13. ciò comporta che, essendo stata eseguita, nella specie, la consegna del plico a mani di persone di famiglia, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto, ed attestato nella sentenza impugnata, laddove si dà atto dell’invio, al destinatario della notifica, in data 7/4/2008, della suddetta raccomandata;

2.14. nel caso in esame, la previsione normativa è stata, invero, rispettata dall’agente notificatore e l’omessa produzione dell’avviso di ricevimento non ha pregiudicato in alcun modo il diritto del contribuente all’effettività della tutela giurisdizionale;

3.1. con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2 e art. 17, comma 3) per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente respinto le censure della contribuente circa l’illegittima applicazione delle sanzioni amministrative mediante iscrizione a ruolo ex art. 17 cit. e in mancanza di motivazione “dei fatti attribuiti al trasgressore, degli elementi probatori, delle norme applicate, dei criteri… per la determinazione delle sanzioni e della loro entità”;

3.2. con il quinto motivo la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in quanto emessa ultra petita, avendo la Commissione tributaria regionale respinto l’impugnazione dell’appellante, rilevando, sulla scorta delle deduzioni effettuate in appello dall’Agenzia delle entrate, che le sanzioni non erano state irrogate mediante la diretta iscrizione a ruolo, ma erano state applicate con l’originario avviso di rettifica e liquidazione, pur avendo l’Agenzia delle entrate del tutto genericamente contestato, in primo grado, la relativa eccezione della contribuente;

3.3. i motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto strettamente connessi, vanno disattesi;

3.4. in via preliminare va evidenziato che la Commissione tributaria regionale ha disatteso l’eccezione della contribuente rilevando che la cartella di pagamento, “nella descrizione degli addebiti afferenti al presupposto avviso di accertamento”, individuava, tra le varie “voci di credito”, anche quella relativa alle sanzioni;

3.5. la censura della ricorrente non coglie, quindi, nel segno la ratio decidendi della sentenza impugnata, che non ha in alcun modo affermato la legittimità dell’applicazione delle sanzioni mediante iscrizione a ruolo;

3.6. le ulteriori doglianze, relative al preteso omesso esame di circostanze riportate nella documentazione prodotta in giudizio relativamente alla questione in oggetto, risultano inammissibili, in quanto prospettano un vizio di motivazione o l’omessa valutazione di un punto decisivo della controversia, secondo il disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non può essere invocato nell’ipotesi, ricorrente nel caso di specie, di cd doppia conforme, fondata sui medesimi elementi fattuali, atteso il divieto previsto dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5 come dianzi illustrato;

3.7. non si configura, inoltre, nel caso in esame alcuna pronuncia ultra petita, posto che la materia del contendere era l’impugnazione della cartella esattoriale anche sulla base della dedotta illegittima applicazione delle sanzioni mediante iscrizione a ruolo, al che consegue che il contenuto dell’atto di appello consente comunque di escludere il denunciato vizio di ultrapetizione o extrapetizione, che ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (cfr. Cass., 11 aprile 2018, n. 9002; Cass., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8048);

3.8. occorre inoltre rilevare, quanto alla dedotta violazione del “principio di non contestazione”, che è pienamente ammissibile che l’ente impositore si limiti alla generica difesa dell’atto impositivo del quale chiede la conferma, spettando al contribuente di dimostrarne gli eventuali vizi (a conferma vedi ad es. Cass. n. 12651 del 2018 la quale afferma che “nel processo tributario, la parte resistente la quale, in primo grado, si sia limitata ad una contestazione generica del ricorso può rendere specifica la stessa in sede di gravame poichè il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine”);

4. sulla scorta di quanto sin qui illustrato, il ricorso deve essere respinto;

5. le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in misura pari ad Euro 4.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi in modalità da remoto della Corte di Cassazione Sezione Tributaria, il 8 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2023


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 21/11/2023) 12/12/2023, n. 34755

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 758/2022 proposto da:

A.A., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della 1^ SEZIONE DELLA CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato A.A. ((Omissis));

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (Omissis) DI B.B. & C. S.A.S., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della 1^ SEZIONE DELLA CORTE di CASSAZIONE, difeso dall’avvocato FADDA PASQUALE ((Omissis)) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CONGIATU UMBERTO ((Omissis));

– controricorrente –

avverso il DECRETO del TRIBUNALE SASSARI n. 37/2019 depositato il 24/11/2021;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21/11/2023 dal Consigliere Dott. FIDANZIA ANDREA.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Sassari, con decreto depositato il 22.11.2021, ha rigettato l’opposizione proposta L. Fall., ex art. 98 dall’avv. A.A. avverso il decreto con cui il G.D. del fallimento (Omissis) di B.B. & C. Sas ne aveva ammesso allo passivo il credito nella minor somma di Euro 52.000,00 anzichè in quella richiesta di Euro 168.000,00, a titolo di corrispettivo per l’attività professionale svolta dalla legale e consistita nella redazione e presentazione della domanda di concordato preventivo e nell’assistenza della società fino all’omologa.

Aveva dedotto l’avv. A.A. che, con contratto di mandato professionale del 12.10.2016, era stato originariamente pattuito con il sig. C.C., allora legale rappresentante della società poi fallita, per l’espletamento dell’incarico professionale, congiuntamente all’avv. D.D., il compenso di Euro 560.000,00 (e quindi Euro 280.000,00 ciascuno) – poi ridotto ad Euro 420.000,00, a seguito della modifica del piano, intervenuta nel corso della procedura concordataria, che aveva previsto una riduzione dell’attivo – e che aveva percepito un acconto di Euro 42.000,00, oltre accessori.

Il contratto di mandato professionale era stato allegato all’istanza di insinuazione (ma, nonostante le richieste rivolte alla cancelleria, il documento non era stato reperito) e da esso risultava che i compensi dei legali erano stati regolarmente esposti nel piano quali passività da regolare in prededuzione, mentre la professionista, anche nel ricorso L. Fall., ex art. 98, aveva evidenziato che il compenso pattuito per l’attività professionale espletata era stato riportato in detto piano e nella relazione dell’attestatore.

Il Tribunale di Sassari, nel rigettare l’opposizione allo stato passivo, ha dato atto che l’opponente aveva dedotto che gli accordi economici erano stati espressamente indicati nel piano e nella relazione attestativa, ma ha ritenuto che non era stata fornita dal legale la prova del deposito del contratto di conferimento dell’incarico professionale (asseritamente perfezionato in data anteriore alla procedura) contestualmente al deposito del ricorso L. Fall., ex art. 161. Nè la dimostrazione dell’esistenza dell’accordo era stata fornita attraverso le deduzioni di prova testimoniale, non ammesse. Ne conseguiva che se, da un lato, era incontestato che l’avv. A.A. avesse prestato la propria opera professionale nell’interesse della fallita, dall’altro, l’insinuazione non poteva essere riconosciuta nella misura richiesta poichè non vi era prova dell’intervenuto accordo (opponibile al fallimento). Doveva dunque trovare applicazione la norma generale di cui all’art. 2233 c.c. con la conseguenza che il compenso doveva determinarsi nella somma di Euro 52.000 (comprensivi di spese, Iva e CPA), già corrisposta dal fallito, tenuto conto che il concordato era stato poi revocato, per essere stati rilevati atti di frode connessi proprio alla stima dell’attivo, e le prestazioni dell’avv. A.A. erano state eseguite anche in favore della ditta individuale di C.C. (anch’essa fallita).

Avverso il decreto ha proposto ricorso per cassazione A.A., affidandolo a quattro motivi. Il fallimento (Omissis) di B.B. & C. Sas ha resistito in giudizio con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis. 1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per la decisione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta la ricorrente che nel proprio ricorso L. Fall., ex art. 98 aveva ampiamente trattato la questione dell’anteriorità dell’incarico professionale rispetto alla domanda di concordato preventivo, rilevando che i termini della relativa lettera (ammontare dei compensi e natura delle prestazioni) erano stati incorporati nel piano di concordato, trascrivendo testualmente i passi del piano e della relazione di attestazione.

Il Tribunale di Sassari aveva omesso di valutare tale stralcio del concordato, non considerando che doveva presumersi che l’incarico fosse certamente anteriore al piano, posto che il secondo ne aveva incorporato il contenuto, tenuto conto anche del fatto che proprio il piano aveva espressamente menzionato il patto scritto preesistente, avendo utilizzato la locuzione “come da mandato”, ciò quindi a conferma degli accordi che quella intesa conteneva.

In conclusione, ad avviso della ricorrente, se il piano di concordato depositato il 22.2.2017 menzionava espressamente “il mandato professionale” e ne incorporava il contenuto, tale mandato professionale era ad esso preesistente.

2. Il motivo è inammissibile.

Ritiene questo Collegio che il Tribunale di Sassari – come evidenziato nella parte narrativa – nel dare atto nel decreto impugnato che l’opponente aveva dedotto che gli accordi economici tra il legale e la fallita erano stati espressamente indicati nel piano e nella relazione attestativa, non ha omesso la valutazione di tali circostanze, ma le ha ritenute (implicitamente) irrilevanti, reputando imprescindibile, affinchè fosse fornita la prova di un accordo sul compenso opponibile al fallimento, il deposito del contratto di conferimento dell’incarico professionale contestualmente al deposito del ricorso L. Fall., ex art. 161, o comunque una prova testimoniale, nel caso di specie, non ammessa.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2704 c.c.. Espone la ricorrente che il Tribunale, nell’affermare che la prova dell’anteriorità della data di perfezionamento dell’accordo professionale rispetto al deposito della domanda di concordato può essere fornita unicamente con il deposito del contratto di conferimento dell’incarico contestualmente al ricorso L. Fall., ex art. 161, o mediante testimoni, ha violato l’art. 2704 c.c., secondo cui la data di una scrittura è certa anche “dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento”. Infatti, il Tribunale di Sassari non avrebbe considerato che, nel caso di specie, la prova della anteriorità del mandato rispetto alla data di deposito della domanda di concordato risultava dal rilievo che il contenuto della pattuizione contrattuale era stato riportato nello stesso piano.

4. Il motivo è inammissibile. Va osservato che la mera menzione di un mandato professionale supposto quale preesistente rispetto ad un atto, depositato in giudizio e da quel momento avente natura di data certa, non conferisce alcuna data certa anche al contratto cui il mandato citato ineriva, se non ne sia contestualmente depositato il relativo documento: atteso che l’istituto della data certa, ai fini della opponibilità, riguarda un atto che, con un giudizio di certezza, viene in rilievo nella sua precisa, conoscibile, dunque completa, esistenza, non è certo sufficiente, a tal fine, la mera menzione del suo contenuto in altro atto. Nel caso di specie, non vi sono i presupposti per il riconoscimento della data certa, cioè della violazione da parte del giudice di merito dei criteri codicistici enunciati, in quanto con la domanda di concordato preventivo quel mandato non risultava depositato, ma solo menzionato nel corpo del ricorso e peraltro neanche nella sua integralità.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 115, 116, 177, 187, 188, 189 e 244 c.c. e art. 2704 c.c.. Si duole la ricorrente che il Tribunale erroneamente non ha ammesso la prova testimoniale articolata per dimostrare che il contratto scritto di mandato professionale era anteriore al deposito della domanda di concordato preventivo. Con il quarto motivo è stigmatizzata la mancata ammissione della prova testimoniale, sotto altro profilo, segnatamente come omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare unitariamente, vertendo entrambi sulla mancata ammissione della prova testimoniale, sono inammissibili. A prescindere dalle motivazioni con cui il Tribunale ha ritenuto la prova per testi del legale non ammissibile perchè irrilevante, è giurisprudenza consolidata di legittimità quella per cui il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui la prova verta su un punto decisivo della controversia, ovvero quando la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 5654/2017; conf. Cass. n. 16214/2019).

Nel caso di specie, la prova non ammessa – “vero che una copia del contratto sottoscritto in data 12 ottobre 2016, che si esibisce, Le è stata consegnata prima del deposito della domanda di concordato preventivo dell’Impresa individuale C.C. avvenuto in data 22.2.2017 per consentirLe di verificare il dato contenuto nel piano di concordato preventivo relativo al compenso attribuito agli Avvocati A.A. e D.D.” – non era idonea nei termini richiesti dalla citata giurisprudenza. Si fa espresso riferimento, infatti, non al deposito della domanda di concordato preventivo della odierna fallita, ovvero la (Omissis) di B.B. & C. Sas ma al deposito della domanda di altra impresa, ovvero la ditta individuale di C.C., a nulla rilevando che costui fosse il legale rappresentante della fallita.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 9.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 15/11/2023) 21/11/2023, n. 32287

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 3733/2022 R.G. proposto da:

A.A., e B.B., elettivamente domiciliata in Roma, Via Lungotevere Prati n. 21, presso lo studio dell’avv. Luca Tedeschi, che li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

VARUGA IMMOBILIARE Sas di C.C. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Mariolino Conte, come da procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7091/2021, depositata il 28.10.2021;

udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 13.9.2023 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija;

udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto rimettersi la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine la declaratoria della sua inammissibilità;

udito l’avv. Luca Tedeschi per i ricorrenti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto del 27.1.2015, A.A. – in forza di sentenza n. 2639/08 emessa dal Tribunale di Cosenza, confermata in appello, con cui la Varuga Immobiliare Sas era stata condannata al pagamento a titolo risarcitorio, in favore del predetto e della propria moglie, B.B., della somma di Euro 20.000,00 oltre accessori – intimò precetto alla debitrice per il pagamento della residua somma di Euro 15.032,15, dopo aver detratto la somma di Euro 8.000,00 frattanto pagata dalla stessa debitrice in favore di entrambi i creditori. La società propose quindi opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 1, deducendo di aver versato ulteriori Euro 3.500,00, non decurtati dall’intimante, e negando la legittimazione attiva di questi in relazione al credito spettante alla predetta B.B., non sussistendo la solidarietà attiva, con conseguente errato calcolo degli interessi. In corso di causa, il A.A. rinunciò provvisoriamente (in attesa dei necessari accertamenti richiesti in sede penale) alla somma di Euro 3.500,00, dichiarando di accettare a titolo di acconto l’importo di Euro 4.886,67, offerto dall’intimata banco iudicis. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10.9.2018, nel contraddittorio col A.A. e con la B.B. (costituitasi con autonoma comparsa d’intervento volontario) accolse parzialmente l’opposizione, ritenendo l’illegittimità del precetto sia in relazione alla quota parte di interessi riferibili al credito provvisoriamente rinunciato, sia in relazione alla carente legittimazione attiva del A.A. circa il credito di pertinenza della propria moglie (non essendovi solidarietà attiva). Il Tribunale ritenne inoltre la portata estintiva del pagamento banco iudicis, occorrendo solo ricalcolare le spese intimate col precetto, sulla base del credito accertato. La sentenza venne gravata d’appello da A.A. e da B.B.; la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 28.10.2021, dichiarò la carenza di legittimazione ad impugnare di quest’ultima, confermando nel resto la prima decisione.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione A.A. e B.B., affidandosi a formali tre motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la Caruga Immobiliare s.a.s.; il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, ribadite nel corso dell’udienza pubblica, chiedendo la rimessione della trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, o in subordine dichiararsi l’inammissibilità del ricorso per tardività.

1.1 – Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la Corte d’appello tenuto conto del riconoscimento implicito della solidarietà attiva tra concreditori: la società debitrice, infatti, a parziale estinzione del debito complessivo cui era tenuta, aveva già corrisposto titoli di credito cointestati ad entrambi i creditori, così dimostrando di ritenere sussistente la solidarietà attiva tra gli stessi. Di conseguenza, ne discende la piena legittimazione attiva del A.A. e quella alla proposizione dell’appello da parte della B.B..

1.2 – Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ossia l’intervento volontario della creditrice B.B. nel giudizio, da ciò derivando, in tesi, la dimostrazione del potere del A.A. di agire anche per il recupero del credito della propria moglie.

1.3 – Con il terzo motivo, infine, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine al calcolo degli interessi e alla decorrenza degli stessi.

2.1 – Il ricorso è stato notificato in data 24.1.2022, sul presupposto di operatività del termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1 (la sentenza essendo stata pubblicata il 28.10.2021) e quindi ampiamente entro il semestre.

Senonchè, la società controricorrente ha eccepito di aver notificato la sentenza d’appello, ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c., con messaggio PEC del 31.10.2021, restituito dal sistema con la dicitura “… è stato rilevato un errore 5.2.2 – InfoCert Spa – casella piena. Il messaggio è stato rifiutato dal sistema”. Da tanto, la controricorrente fa dunque discendere che – poichè la mancata consegna è imputabile a negligenza del destinatario, titolare della casella PEC – la notifica della sentenza deve intendersi perfezionata alla data del 31.10.2021, detta comunicazione equivalendo al messaggio di avvenuta consegna (si richiama, tra l’altro, l’insegnamento di Cass. n. 3164/2020 e di Cass. n. 11559/2021). Quale ulteriore conseguenza, nella prospettazione della controricorrente discende dunque che il ricorso sarebbe stato notificato allorquando il termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2, era già spirato.

3.1 – Ora, sul tema della notifica a mezzo PEC, restituita dal sistema con messaggio di mancata consegna per “casella piena”, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano, in effetti, orientamenti non proprio univoci.

Un primo – invocato dalla controricorrente – può ben essere rappresentato dal principio specificamente affermato, per la prima volta (ma v. infra), da Cass., Sez. 3, ord., n. 3164/2020, secondo cui “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”.

Nella motivazione della citata ordinanza, la Corte ha in proposito precisato che è possibile desumere una sostanziale equivalenza – ai fini che interessano – tra il disposto del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv. in L. n. 221 del 2012 (come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, conv. in L. n. 114 del 2014), dettato in tema di comunicazioni di cancelleria, e l’art. 149-bis c.p.c., comma 3, dettato in tema di notificazioni eseguite telematicamente dall’ufficiale giudiziario, laddove essa disposizione così recita: “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”.

In proposito, richiamando anche la regola dettata dal D.M. n. 40 del 2011, art. 20 (secondo cui “Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione”) ed evidenziando, dunque, che “costituisce onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di PEC”, la Corte conclude il ragionamento valorizzando l’espressione “rendere disponibile”, riportata nell’art. 149-bis cit.: essa, infatti, “individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario, (sicchè) si giustifica la conclusione che, qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato”.

3.2 – Detta impostazione è stata nella sua perentorietà ribadita, nella sostanza, da Cass., Sez. 3, ord., n. 24110/2021, ma a ben vedere era stata già anticipata – seppure su meno approfondite argomentazioni – dal pronunciamento di Cass., Sez. L, n. 12451/2018, con cui s’era ritenuta corretta la decisione di merito, che aveva rilevato l’inammissibilità dell’opposizione allo stato passivo, L. Fall., ex art. 98, in quanto tardivamente proposta rispetto alla data di comunicazione di cancelleria, effettuata a mezzo PEC ma rifiutata dal sistema causa “casella piena” del destinatario.

Va qui aggiunto, per completezza, che la pronuncia di Cass., Sez. L, n. 11559/2021, invocata dalla controricorrente, non è pertinente, mentre ulteriori decisioni di questa Corte (quali, ad esempio, Cass., Sez. 3, ord., n. 26810/2022 e Cass., Sez. 1, ord., n. 25586/2023) si sono limitate a condividere, in linea di massima, l’impostazione della citata Cass. n. 3164/2020, seppur senza farne diretta applicazione nel caso rispettivamente al vaglio, in quanto non necessaria ai fini della decisione.

4.1 – Sul tema si registra, però, un altro orientamento, inaugurato da Cass., Sez. 3, n. 40758/2021, così massimata: “In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorchè per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”.

Detta pronuncia muove dal presupposto per cui, anche in assenza di indicazione di “domicilio digitale” (ossia, ove manchi l’indicazione dell’indirizzo PEC cui si intendono ricevere notifiche e comunicazioni), è valida la notifica comunque effettuata all’indirizzo PEC del difensore risultante dal Reginde, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, conv. in L. n. 221 del 2012, e modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, convertito a sua volta in L. n. 114 del 2014. Ove però tanto non sia possibile per fatto imputabile al destinatario (come, appunto, nel caso di mancata consegna per saturazione della casella PEC), viene in rilievo il generale principio dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio, occorrendo dunque che – in un tempo ragionevolmente contenuto (di regola, la metà del termine concretamente applicabile – v. Cass., Sez. Un., n. 14594/2016) – il notificante proceda ad ulteriore notifica, nelle forme tradizionali, presso il domicilio fisico eventualmente eletto (e sempre che tanto sia avvenuto): ciò perchè deve escludersi “che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati” (così la citata pronuncia, in motivazione).

Più in dettaglio, la citata sentenza n. 40758/2021 ha anche richiamato, in motivazione, l’insegnamento di Cass. n. 29851/2019, secondo cui, in linea generale, il mancato perfezionamento della notifica per fatto imputabile al destinatario “impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 c.p.c. e segg., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, u.p. (…)”, in quanto detta ultima norma è riferibile alle sole notificazioni e comunicazioni effettuate dalla cancelleria.

In ogni caso, seguendo detta impostazione, assume carattere dirimente la circostanza che il destinatario abbia o meno eletto (anche) il domicilio fisico: ove tanto non sia avvenuto, non può “sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante” (così ancora l’arresto più volte citato). Nè può ritenersi condivisibile – conclude la Corte – l’insegnamento della già citata Cass. n. 3164/2020: anzitutto, per il carattere neutro della formulazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, con riguardo all’espressione “rendere disponibile” il documento informatico nella casella del destinatario; in secondo luogo, perchè il perfezionamento della notifica già al primo invio della PEC (non andato a buon fine per “casella piena” dello stesso destinatario), qualora quest’ultimo abbia eletto il domicilio fisico, presupporrebbe che la previsione legale del domicilio digitale abbia soppresso la correlativa facoltà processuale, in assenza di una specifica norma in questo senso; si aggiunge, ancora, che il disposto del D.M. n. 44 del 2011, art. 20, data la natura secondaria della fonte, non può giustificare la conclusione che in presenza di casella di PEC satura la notificazione si abbia per perfezionata; infine, conclude la Corte, neppure appare decisivo il disposto dell’art. 138 c.p.c., comma 2, che considera perfezionata la notifica, che sia stata tentata “a mani proprie”, in caso di rifiuto di riceverla da parte del destinatario: “la responsabilità, in ipotesi anche colposa, di lasciare la casella di p.e.c. satura, non può equivalere a un intenzionale rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa, tanto più attesa l’alternativa elezione di domicilio fisico utilizzabile”.

4.2 – Si inscrive in questo secondo solco la più recente Cass., Sez. T, ord., n. 2193/2023, anch’essa relativa ad un caso di rifiuto della notificazione per “casella piena” del destinatario; in detta pronuncia, peraltro, si richiama un risalente insegnamento (Cass. n. 4502/1996), secondo cui, in caso di invalida elezione di domicilio (fisico) da parte dell’appellato, il ricorso per cassazione può essere notificato presso la cancelleria del giudice a quo.

5.1 – Ciò posto, ritiene il Collegio come, in effetti, la ricognizione della giurisprudenza sopra succintamente richiamata – per quanto non sempre riferibile al medesimo ambito applicativo – riveli una non conciliabile diversità di vedute sul tema controverso; per di più senza che nè l’una nè l’altra impostazione paiano del tutto convincenti, sia sul piano del metodo, che del risultato ermeneutico.

5.2 – Infatti, seppur le esigenze sottese all’indirizzo più rigoroso (Cass. n. 3164/2020) meritino apprezzamento, perchè il rischio di escludere ogni valenza alla notifica PEC non consegnata al destinatario per “casella piena” può effettivamente disincentivare gli operatori dalla necessaria cura del proprio indirizzo PEC e degli specifici adempimenti connessi alla peculiarità del mezzo telematico ormai in via generalizzata imposto come modalità di interazione tra i soggetti tenuti a dotarsene, al contrario promuovendo comportamenti strumentali e improntati, in senso lato, almeno a grave negligenza e con sostanziale neutralizzazione o vanificazione dell’operatività dell’innovazione tecnologica introdotta, dall’altro occorre pure evidenziare che l’opposta opzione ermeneutica (Cass. n. 40758/2021) si fonda su una specifica caratteristica della fattispecie: ossia, quella della necessaria compresenza di un domicilio digitale della parte (sostanzialmente immanente, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-sexies) e di un domicilio elettivo fisico, o tradizionale.

Tuttavia, se in tale evenienza (ricorrente pure nel caso che occupa, come emerge dall’intestazione della sentenza qui impugnata) la configurabilità dell’onere di ripresa del procedimento notificatorio può comunque giustificarsi, in forza della perdurante rilevanza da attribuire ad una simile facoltà processuale del difensore della parte destinataria della notifica (non elisa dalla disciplina sulla indefettibilità del domicilio digitale), tale opzione rivela però una non risolvibile aporia, sul piano logico, ove elezione di domicilio fisico non vi sia stata: in tal caso, infatti, si è affermato che nessuna altra condotta sia esigibile da parte del notificante (v. supra, par. 4.1).

5.3 – E’ opinione del Collegio che tanto, però, non risolva il problema di fondo, ossia se e quando la notifica telematica del messaggio PEC, non consegnato per “casella piena”, si perfezioni.

Infatti, a seguire fino in fondo la tesi di Cass. n. 40758/2021, dovrebbe allora inferirsene che una simile notifica debba ritenersi perfezionata o meno a seconda, rispettivamente, che non sia stato eletto domicilio fisico, o al contrario, che esso sia stato eletto dalla parte: soluzione che, all’evidenza, non si confronta con la necessità di rinvenire, nell’ordito normativo, una regola generale che risolva le suddette questioni già all’interno della fattispecie “minima” (ossia, messaggio PEC non consegnato per “casella piena” del destinatario), a prescindere dall’elezione di domicilio fisico.

Del resto, è evidente che, nel caso di “casella piena”, non avrebbe alcun senso logico, prim’ancora che giuridico, rinnovare la notifica presso il domicilio fisico (ove questo sia stato eletto), qualora si ritenesse la notifica comunque già perfezionata.

5.4 – Come già anticipato, neppure pare al Collegio pienamente convincente quell’orientamento che prima s’è definito più rigoroso.

Esso, infatti, si fonda su un’interpretazione dell’art. 149-bis c.p.c., comma 3, relativo alle notifiche telematiche dell’ufficiale giudiziario (supra riportata, par. 3.1), valorizzando una lettura restrittiva dell’espressione “rendere disponibile”, ossia negandone la sua valenza finalistica, e sostanzialmente ricorrendo all’applicazione analogica alla fattispecie della notifica ex lege n. 53 del 1994, senza però adeguatamente considerare che l’art. 3-bis, comma 3 di detta stessa Legge (nel testo applicabile ratione temporis), così recita: “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dal d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 2”.

Insomma, se presupposto dell’applicazione analogica è la sussistenza di una lacuna normativa, sì da dover ricorrere alla regola dettata per casi analoghi, pare al Collegio che detta lacuna non possa configurarsi, almeno con riferimento al caso della notifica diretta da parte dell’avvocato, perchè risulta evidente non solo che una specifica regola è espressamente dettata dalla legge (che prevede appunto come la notifica si perfezioni con la generazione della ricevuta di consegna), ma pure che essa non pare ammettere equipollenti.

La specifica regola suddetta, comunque, non risulta oggetto di approfondimento, nè di confronto, con quella dettata dall’art. 149-bis c.p.c., comma 3, da parte di quelle pronunce del c.d. orientamento rigoroso, che come s’è visto ritengono comunque perfezionata una notifica come quella qui in discorso, che prescinde dalla specifica conoscenza da parte del destinatario sia del contenuto, che anche dalla sua mera conoscibilità (non apparendo neppure applicabile la disciplina di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, relativa alle sole comunicazioni dell’ufficio). E varrà ricordare che, ancora di recente, si è ribadito che, ferma la scissione degli effetti tra i soggetti della notifica per posta elettronica, imprescindibile presupposto per la produzione di quelli sia per il notificante che per il destinatario è che la notifica si sia perfezionata pure nei confronti di quest’ultimo (Cass., ord., n. 28403/2023).

Insomma, l’orientamento in parola – in assenza di una chiara indicazione normativa in tal senso – giunge al risultato di ritenere perfezionata la notifica non fondata nè sulla conoscenza, nè sulla stessa conoscibilità della notifica da parte del destinatario, giacchè, come pure esattamente osservato dalla citata Cass. n. 40758/2021, la situazione di chi non riceve la notifica a mezzo PEC per “casella piena” non è necessariamente equiparabile a quella del rifiuto di ricevere la consegna dell’atto ai sensi dell’art. 138 c.p.c., comma 2. Il che, ad avviso del Collegio, lascia più di un dubbio sulla stessa compatibilità con l’art. 24 Cost., di un simile risultato interpretativo.

5.5.1 – Osserva tuttavia il Collegio che, al medesimo risultato ermeneutico di Cass. n. 3164/2020 potrebbe giungersi anche per altra via, attraverso un ragionamento diverso e di più ampio respiro, fondato sui principi di autoresponsabilità e di affidamento.

Invero, quanto al primo, non può negarsi che – in materia di osservanza di termini processuali – l’art. 153 c.p.c., comma 2, fissi un chiaro principio, ovvero che la parte “incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”. Ed è noto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, proprio in nome del principio di autoresponsabilità, opta per un concetto assai rigoroso di causa “non imputabile”, identificata in “un evento che presenti il carattere della assolutezza – e non già una impossibilità relativa, nè tantomeno una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione” (così, tra le altre, Cass., Sez. Un., n. 27773/2020, che richiama Cass., Sez. 1, n. 30512/2018, Rv. 651875-01, e Cass., Sez. L, n. 3482/2019).

Deve, dunque, trattarsi di “un fatto ostativo che risulti oggettivamente estraneo alla volontà della parte (che l’applicazione della rimessione chiede) e che dalla stessa non risulti governabile, neppure con “difficoltà”” (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 6-1, ord., n. 22342/2021, Rv. 661991-01).

5.5.2 – D’altra parte, l’introduzione generalizzata del mezzo telematico per l’esecuzione delle notifiche tra soggetti obbligati per legge a dotarsene, tutti definibili a vario titolo professionisti, potrebbe implicare un onere di diligente organizzazione, tale da consentirne il regolare funzionamento; senza tralasciare l’esigenza, a tale introduzione sottesa, di un generalizzato affidamento sulla diligenza professionale dei singoli operatori (con obblighi di comportamento in capo al professionista, quali quelli affermati per gli operatori sanitari da Cass. n. 589/1999 e, per gli avvocati ed a fini disciplinari per la rilevanza deontologica di tali obblighi, da Cass. Sez. Un. 6216/2005).

5.5.3 – Solo in tal modo potrebbe giungersi alla conclusione che, qualora la consegna del messaggio PEC non possa avere buon esito per “casella piena” del destinatario – in un’epoca di telematizzazione talmente spinta delle relazioni interindividuali, che c’è persino chi teorizza l’esistenza di “soggetti giuridici digitali” – questi dovrebbe imputare a se stesso la conseguenza dell’impossibilità della notificazione, salvo a dimostrare che l’evento sia dipeso da cause a lui non imputabili, quali ad es. le disfunzioni del sistema informatico, et similia: e ciò proprio in forza del principio di autoresponsabilità, se non pure dell’affidamento ingenerato nel soggetto notificante, specie se – come nel caso – esercente una professione protetta, così come il destinatario.

6.1 – Pur così “vestita” la soluzione dell’avvenuto perfezionamento di una notifica come quella che occupa, non può tuttavia tralasciarsi un elemento essenziale: anche una simile soluzione deve necessariamente confrontarsi col dato normativo vigente, e dunque con il già visto della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, che specificamente cristallizza il momento di perfezionamento della notifica effettuata dall’avvocato in quello della generazione del messaggio di “avvenuta” consegna. L’utilizzo del participio passato del verbo “avvenire”, ad avviso del Collegio, non autorizza altra interpretazione, già sul piano letterale, diversa da quella per cui, in caso di mancata generazione di un simile messaggio, non possa in realtà discutersi di effettivo perfezionamento della notifica.

6.2 – Del resto, va qui rilevato che, nel sistema vigente, non mancano elementi a sostegno della ulteriore tesi che – discostandosi sia da Cass. n. 3164/2020, sia da Cass. n. 40758/2021 – parrebbe più aderente al dato normativo.

Ci si riferisce, in particolare, alla L. Fall., art. 15, comma 3, come modificato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 17, lett. a), conv. in L. n. 221 del 2012. Con detta disposizione – con cui, se non si erra, s’è stabilita per la prima volta l’obbligatorietà della notifica di un atto introduttivo di un procedimento giudiziario a mezzo PEC, benchè a cura della cancelleria, per i procedimenti iniziati dopo il 31.12.2013 – è espressamente stabilito, al secondo, quarto e quinto periodo, che “Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti…. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso”.

Sulla stessa scia si pone la normativa oggi dettata, per lo stesso ambito, dal D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 40, commi 6, 7 ed 8, (CCII), in vigore dal 15.7.2022, ove si stabilisce ancor più esplicitamente che: “6. In caso di domanda proposta da un creditore, da coloro che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa o dal pubblico ministero, il ricorso e il decreto di convocazione devono essere notificati, a cura dell’ufficio, all’indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti. L’esito della comunicazione è trasmesso con modalità telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente.

7. Quando la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata di cui al comma 6, non risulta possibile o non ha esito positivo per causa imputabile al destinatario, il ricorso e il decreto sono notificati senza indugio, a cura della cancelleria, mediante il loro inserimento nell’area web riservata ai sensi dell’art. 359. La notificazione si ha per eseguita nel terzo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento.

8. Quando la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, per cause non imputabili al destinatario, la notifica, a cura del ricorrente, si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese o, per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, presso la residenza. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese ovvero presso la residenza per i soggetti non iscritti nel registro delle imprese, e si perfeziona nel momento del deposito stesso. Per le persone fisiche non obbligate a munirsi del domicilio digitale, del deposito è data notizia anche mediante affissione dell’avviso in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio e per raccomandata con avviso di ricevimento”. Insomma, in un ambito (quello concorsuale) in cui l’esigenza della conoscenza o dell’effettiva conoscibilità delle iniziative poste in essere dai propri creditori (o dal pubblico ministero) è intuitivamente assai rilevante, sia che la mancata consegna del messaggio PEC derivi da causa imputabile al destinatario, sia che derivi da causa a lui non imputabile, ciò non comporta mai il perfezionamento della notifica, sempre occorrendo una ulteriore iniziativa del notificante, quale che sia.

Ovviamente, non v’è alcuna ragione per relegare una simile impostazione al solo ambito concorsuale, perchè il tema investe direttamente il diritto di difesa e al contraddittorio, costituzionalmente rilevanti per tutti i consociati ex artt. 24 e 101 Cost..

6.3 – Di ciò può scorgersi conferma anche nella legislazione ancor più recente, specie a seguito del D.Lgs. n. 149 del 2022, che vede la notifica telematica degli atti processuali come ormai sostanzialmente obbligatoria, salvi casi residuali. Non è affatto casuale che la citata riforma, introducendo della L. n. 53 del 1994, art. 3-ter (da ultimo modificato dalla L. n. 87 del 2023), ha stabilito, al comma 2, che: “quando per causa imputabile al destinatario la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato non è possibile o non ha esito positivo:

a) se il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, l’avvocato esegue la notificazione mediante inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’art. 359 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dichiarando la sussistenza di uno dei presupposti per l’inserimento; la notificazione si ha per eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento;

b) se il destinatario è una persona fisica o un ente di diritto privato non tenuto all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese e ha eletto il domicilio digitale di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-quater, l’avvocato esegue la notificazione con le modalità ordinarie”.

Insomma, per quanto la disposizione non sia applicabile nel caso in esame ratione temporis, essa non fa che confermare quanto già prima prospettato, ossia che l’ordinamento positivo – come già in passato – non considera mai perfezionata una notifica di messaggio a mezzo PEC, effettuata da un avvocato ai sensi della L. n. 53 del 1994, qualora essa non sia andata a buon fine, benchè per causa imputabile al destinatario.

7.1 – Stima, pertanto, il Collegio che tutto quanto precede renda dunque evidente che, sul tema, nell’attualità, sia pure in esito al crescente approfondimento della materia indotto dall’evoluzione del sistema normativo, la giurisprudenza della Corte non possa dirsi univoca e che, comunque, la tematica delle condizioni di validità e delle conseguenze della notifica telematica non completata per “casella piena” del destinatario integra una questione di massima di particolare importanza, involgendo i presupposti stessi del funzionamento delle modalità di notificazione coi nuovi e generalizzati strumenti tecnologici in ogni ambito processuale: ciò che ne individua quale sede naturale per la disamina le Sezioni Unite di questa Corte, come del resto pure ritenuto dal Procuratore Generale.

8.1 – In definitiva, il Collegio reputa opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite.

P.Q.M.
la Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione il 13.9.2023 e a seguito di riconvocazione telematica, il 15 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 28/09/2023) 20/11/2023, n. 32165

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. AMBROSI Irene – Consigliere –

Dott. TASSONE Stefania – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28818/2020 R.G. proposto da:

MISTRAL GROUP Srl , elettivamente domiciliato in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA, 29, presso lo studio dell’avvocato FEDELI BARBANTINI LUIGI ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato MASCHERA GIORGIA ((Omissis));

– ricorrente –

contro

HUB SERVICE Srl , elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI, 265, presso lo studio dell’avvocato SARACENO ALBERTO ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato MARAGNA NICOLA ((Omissis));

– controricorrente –

avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 2315/2020 depositata il 11/09/2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/09/2023 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI.

Svolgimento del processo
Che:

1.-La società HUB Service Srl , già Bertrans Srl , ha ottenuto un decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, per il pagamento di prestazioni di trasporto (circa 137.000 Euro di credito), sulla base di fatture già emesse nei confronti della società MISTRAL Group Srl .

2.-Quest’ultima ha proposto opposizione, eccependo innanzitutto che il credito vantato dalla HUB Service Srl , ed oggetto del decreto ingiuntivo, già prima che l’ingiunzione venisse richiesta, era stato in realtà ceduto dalla stessa HUB ad altra società, la MCS Srl , con la quale poi è intervenuta compensazione, ossia quel credito è stato compensato con diverso ed opposto credito vantato dalla Mistral. Inoltre, ha eccepito la Mistral di essere a sua volta creditrice della HUB per crediti diversi.

3.-L’opposizione della Mistral è stata rigettata dal Tribunale di Padova, il quale, da un lato, ha osservato che l’atto di cessione del credito, comunicato a Mistral da HUB attraverso una Pec, era stato però da HUB disconosciuto e, a fronte di tale disconoscimento, non v’era stata istanza di verificazione da parte di Mistral, e dunque quel documento non poteva provare alcuna cessione. In secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che Mistral non aveva affatto fornito la prova della esistenza di suoi crediti da portare in compensazione. 3.1.- Questa decisione è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Venezia.

4.-Mistral Srl propone ricorso con sei motivi di censura, mentre HUB Service Srl si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione
che:

5.- Il primo motivo di ricorso prospetta una violazione dell’art. 214 c.p.c..

La questione è la seguente. Mistral, per contestare il credito della HUB, aveva depositato una pec, cui era allegata una cessione di quel credito, che in precedenza HUB aveva fatto ad altra società, la MSC Srl .

Ciò al fine di dimostrare che HUB faceva valere un credito che non aveva più in quanto ceduto ad altra società.

Tuttavia HUB ha disconosciuto il documento, allegato alla pec, contenente la cessione del credito, e, a fronte di tale disconoscimento, Mistral non ha chiesto la verificazione, con la conseguenza che il Tribunale non ha tenuto conto di quell’atto.

Secondo Mistral invece, quel documento, allegato alla pec, e privo di firma digitale, non andava disconosciuto, non poteva cioè essere oggetto di disconoscimento, ma soltanto di contestazione della sua conformità all’originale (art. 2712 c.c.). Ma, soprattutto, poichè quel documento era allegato ad una posta elettronica certificata (che dunque fa fede) è attratto al regime di quest’ultima, ossia è atto opponibile a terzi e vincibile solo con consulenza tecnica, volta a dimostrare che l’atto, dal punto di vista informatico, non proviene da chi ne certifica l’invio.

In sostanza, i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere valido il disconoscimento di quell’atto – la cessione del credito – e dunque avrebbero errato nel ritenere che, valido il disconoscimento, andasse richiesta la verificazione, che non v’è stata.

Il motivo è infondato.

Innanzitutto, la certificazione della pec, non comporta certificazione (rectius, paternità) del documento e dunque ammissione che quel documento è proprio.

I due atti hanno funzioni diverse: certificare una pec significa attestare che essa proviene dal mittente, che contiene quanto allegato e che è stata inviata a quell’ora; ma non significa attestare altresì la veridicità di ciò che è allegato. Del resto, la firma digitale è un mezzo per sottoscrivere un documento informatico, e farlo proprio, mentre la certificazione della posta elettronica è mezzo di attestare la provenienza di quel documento: la posta elettronica certificata dimostra l’invio e la ricezione del messaggio, ma non garantisce il contenuto del documento allegato.

Non si può, in altri termini, dalla circostanza che la posta elettronica è certificata, dedurre che anche il documento allegato lo è, o meglio, che quel documento è riferibile al suo autore, e che ha effettivamente quel contenuto. Si supponga il caso in cui con posta certificata si invia un documento dal falso contenuto, o proveniente da un terzo: si dovrebbe dire che, avendo il mittente certificato la posta (ossia attestato che proviene da lui e che è stata spedita a quell’ora) ha altresì attestato che il documento allegato è vero o che è riferibile ad un terzo.

Del resto, se come assume il ricorrente, la certificazione della posta elettronica si estende al documento allegato, non si vede perchè debba potersi contestare quest’ultimo solo per la mancata corrispondenza all’originale (2712 c.c.): la certificazione stessa vale a renderlo originale. La norma citata serve solo a far sì che le copie vengano verificate, ossia che, depositata in atti una copia, si dimostri che essa è conforme all’originale. Nel caso presente, non solo non risulta che il documento allegato alla PEC fosse una copia (altra cosa è il duplicato informatico), ma soprattutto, non può dirsi che fosse una copia per il fatto di non essere firmato digitalmente, non essendo la firma digitale (che può non esserci anche su un originale) a caratterizzare la copia o la riproduzione fotografica.

6.- Con il secondo motivo si prospetta un omesso esame di un fatto decisivo.

Sostiene la ricorrente che la decisione impugnata non ha dato alcun conto della prova in atti dell’invio della pec da parte della HUB Srl , che era documentata dal log, ossia dalla certificazione del gestore di posta.

Il motivo è inammissibile.

Che la pec fosse stata inviata da HUB Srl e ricevuta dalla Mistral, qui ricorrente, è circostanza pacifica, non messa in dubbio: piuttosto, i giudici di merito, correttamente, come si è detto prima, hanno escluso che dalla certificazione della pec potesse derivare un regime particolare agli allegati, escludendo la possibilità di un loro disconoscimento ad opera della controparte. Che è questione diversa.

7.- Il terzo motivo prospetta una insufficiente motivazione.

Secondo la ricorrente, anche a prescindere dal documento, allegato alla PEC, ed idoneo a dimostrare l’avvenuta cessione del credito, di tale cessione c’era prova diversa, e consisteva nella stessa dichiarazione contenuta nella PEC con cui HUB, mittente, dichiarava di voler trattenere la somma relativa al credito vantato e ceduto alla MCS, ed in particolare dalla esistenza di altre cessioni, nonchè di altri documenti, versati in atti, dai quali era agevole ricostruire non solo l’avvenuta cessione del credito, ma altresì l’esistenza di crediti Mistral da opporre in compensazione.

Il motivo, inteso come censura della motivazione, è infondato.

La Corte precisa che la decisione di primo grado è corretta “sol che si consideri che l’appellante non ha benchè minimamente indicato a quali altre evidenze di prova abbia inteso riferirsi” (p. 7). E dunque ha ritenuto non specifica la difesa del ricorrente in primo grado, ed altrettanto in appello.

8.- Il quarto motivo prospetta violazione dell’art. 115 c.p.c. La ricorrente ritiene errata la tesi dei giudici di appello circa la non contestazione, da parte sua, del credito vantato da HUB: ritiene invece Mistral di avere diffusamente contestato il credito opposto e che dunque è errata la decisione impugnata nel punto in cui si fonda sulla non contestazione.

Il motivo è inammissibile.

Infatti i giudici di appello non assumono che Mistral non ha contestato i fatti e che dunque tale comportamento assume valore probatorio, piuttosto ritengono che la difesa è stata generica, ossia fatta “senza offrire alcun elemento da cui desumere l’insussistenza della obbligazione ovvero un fatto estintivo”, che è giudizio sul difetto di allegazione e prova, non sulla non contestazione.

Aggiungono poi i giudici di merito che, anche a voler intendere la decisione di primo grado come basata sulla regola della non contestazione, ed anche dunque a volerla ritenere, perciò stesso errata, tuttavia “le evidenze documentali consentono di ritenere provate prestazioni di trasporto rese dalla Bertrans (vecchio nome della Hub, ndr) in favore dell’appellante”.

Quindi la ratio non è il rigetto dell’appello per non avere l’appellante contestato i fatti, ossia il credito (115 c.p.c.), ma è il rigetto dell’appello per non aver provato l’insussistenza di quel credito.

9.-Il quinto motivo prospetta un vizio di motivazione.

Sostiene la ricorrente di avere adeguatamente documentato l’esistenza di un suo credito da compensare con quello vantato da HUB, e ritiene che di tale documentazione i giudici di merito non hanno tenuto alcun conto: la documentazione era stata depositata nei termini dell’art. 183 c.p.c..

Il motivo è inammissibile.

Si chiede di censurare l’apprezzamento di prove documentali che è riservato al giudice di merito, e di cui peraltro non si conosce il contenuto.

10.- Il sesto motivo denuncia omessa motivazione sul rigetto delle istanze istruttorie.

Ritiene la ricorrente di avere chiesto dei mezzi di prova con le note di cui all’art. 183 c.p.c. e che, a fronte di tale richiesta, non v’è stata alcuna decisione da parte del giudice di merito. Ribadisce che, per contro, si trattava di prove ammissibili e rilevanti, su cui avrebbe dovuto esserci motivazione.

Il motivo è inammissibile.

Si censura qui una decisione di primo grado, che invece andava censurata in quella fase, e non si chiarisce se la questione del rigetto delle prove in primo grado sia stato oggetto di specifico appello, ed in che termini.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2023


Cass. civ. Sez. Lavoro, Sent., (Ud. 14/9/2023) n. 30082

REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ROBERTO BELLÈ Presidente
ANDREA ZULIANI Consigliere-Rel.
NICOLA DE MARINIS Consigliere
MARIA LAVINIA BUCONI Consigliere
ANTONELLA F. SARRACINO Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27781/2018 R.G. proposto da Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege
– ricorrente –
contro
e rappresentati e difesi dall’Avv. e domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti –
– intimati –
avverso la sentenza n. 209/2018 della Corte d’Appello di Palermo, depositata il 20/3/2018;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/9/2023 dal Consigliere Andrea Zuliani.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Palermo ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca contro la sentenza con cui il Tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, aveva accolto le domande di cinque impiegati amministrativi (personale volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato a seguito dell’utile collocazione nella graduatoria di prima fascia, con il riconoscimento dei relativi diritti economici. La Corte territoriale non ha affrontato il merito della controversia, ritenendo fondata l’eccezione pregiudiziale di inesistenza della notificazione dell’atto d’appello sollevata da tre degli appellati (gli altri due essendo rimasti contumaci in appello).
Contro tale decisione in rito, il Ministero ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
e si sono difesi con controricorso, mentre gli altri lavoratori sono rimasti intimati. I controricorrenti hanno altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con i primi due motivi di ricorso il Ministero denuncia:
1.1. «violazione e falsa applicazione del d. P. R. 11.2.2015 n. 68, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.»;
1.2. «violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
1.3. Il ricorrente contesta alla Corte territoriale di non avere considerato il dovere del destinatario della notificazione di segnalare al notificante eventuali anomalie nell’invio degli atti mediante posta elettronica certificata (PEC) e di avere trattato come inesistenza un’ipotesi «di mera irregolarità o, al più, di nullità della notificazione».
2. Tali motivi sono parzialmente fondati, nei termini di seguito esposti.
2.1. È opportuno premettere una precisa descrizione della fattispecie, per quanto di interesse ai fini della decisione. Il ricorso in appello venne depositato in cancelleria e, quindi, integrato con il decreto di fissazione dell’udienza, come previsto dal rito del lavoro. L’Avvocatura dello Stato provvide a trasmettere a mezzo PEC al difensore comune dei cinque ricorrenti in primo grado un messaggio contenente la menzione degli atti notificati («appello depositato», «decreto fissazione udienza», «relata») e apparentemente allegati al messaggio.
Tuttavia, dalla indicata dimensione degli atti («1 bytes»), la Corte d’Appello ha ritenuto provata l’allegazione dei difensori dei lavoratori (costituitisi in appello per tre soltanto di loro, stando a quanto afferma la sentenza impugnata) che si trattasse di file del tutto vuoti. Sulla base di tale accertamento di fatto, il giudice ha ritenuto inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, «per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare».
2.2. La qualificazione del vizio della notificazione come inesistenza è stata decisiva per la dichiarazione della improcedibilità dell’appello, perché sono state di conseguenza rifiutate sia l’ipotesi della sanatoria della nullità per effetto della costituzione degli appellati (con riguardo a quelli di loro che si erano costituiti), sia l’ipotesi di concedere all’appellante un termine per rinnovare la notificazione, eventualmente previa rimessione in termini, che era stata infatti richiesta, sia pure in via subordinata. Anche nel rito del lavoro, infatti, è stato da tempo superato l’orientamento che consentiva al giudice di concedere, ai sensi dell’art. 421, comma 1, c.p.c., un termine per procedere alla notificazione non effettuata del ricorso tempestivamente depositato in cancelleria. La concessione del termine è ora consentita solo in caso di notificazione nulla, non anche nel caso di notificazione omessa o inesistente (v. Cass. S.U. n. 20604/2008 e molte altre successive conformi).
2.3. Ciò posto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il nonatto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (Cass. S.U. n. 14916/2016 ed altre conformi). Nel caso di specie, il procedimento di trasmissione degli atti risulta perfettamente conforme al diritto. Il mittente e il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti. Viene invece in rilievo l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.
2.4. Con riferimento alle anomalie che rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio di notificazione a mezzo PEC, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il destinatario ha il dovere di «informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente» (Cass. n. 25819/2017; conf. Cass. nn. 21560/2019; 4624/2020).
La Corte d’Appello, così come la difesa dei controricorrenti, ha sottolineato che il mittente avrebbe potuto facilmente accorgersi dell’anomalia, proprio perché il sistema indicava le dimensioni inverosimili degli allegati («1 bytes»), il che escluderebbe quella incolpevolezza del notificante che, secondo la giurisprudenza di legittimità, sembrerebbe un presupposto implicito del dovere di collaborazione del destinatario.
Ma non è il tema della colpevolezza o meno a governare l’accaduto, in quanto ciò che conta è se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello.
2.5. In proposito assume decisiva rilevanza il fatto che il messaggio PEC trasmesso al difensore degli appellati (e riportato per esteso nel ricorso per cassazione) indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»). Ne deriva che la consegna del messaggio, seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione.
Ciò esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.
Del resto, le S.U. hanno ritenuto – nel caso assimilabile dell’atto notificato solo nelle pagine dispari, con conseguente impossibilità per il destinatario di comprenderne il contenuto – che, a fronte di un originale ritualmente depositato e completo, il vizio è della notificazione, e non dell’atto notificato, integrando una nullità come tale «sanabile con efficacia ex tunc mediante la nuova notifica di una copia integrale del ricorso, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di Cassazione (qui, Corte d’Appello, n.d.r.) ovvero per effetto della costituzione dell’intimato (qui, appellati, n.d.r.), salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese» (Cass. S.U. n. 18121/2016).
Principio che, una volta adattato al caso della notifica a mezzo Pec contenente un allegato inconsistente e dunque tale da impedire la comprensione alla controparte, porta inevitabilmente alle medesime conclusioni.
2.6. Esclusa l’inesistenza della notificazione, la mera nullità della stessa avrebbe dunque imposto al giudice d’appello di fissare un termine perentorio per la rinnovazione che «impedisce ogni decadenza», perlomeno nei confronti degli appellati contumaci, secondo la regola generale contenuta nell’art. 291 c.p.c., che – a differenza della rimessione in termini (art. 153, comma 2, c.p.c.) – prescinde da qualsiasi valutazione sulla incolpevolezza del notificante (per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c. anche al rito di lavoro e, in particolare, all’appello proposto secondo il rito di lavoro, v., per tutte, Cass, n. 8125/2013).
2.7. Ma anche con riguardo agli appellati costituiti, rimane la valutazione essenziale che l’appello non avrebbe dovuto essere dichiarato improcedibile, dovendo, a tutto concedere, la Corte d’Appello dare le opportune disposizioni (ad es., rinvio in favore degli appellati che si assumessero lesi anche nei termini a difesa) per la prosecuzione del processo nel rispetto del principio del contraddittorio.
2.8. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Palermo, perché proceda alla trattazione del processo – è infatti evidente che con la regolare riassunzione in sede di rinvio ogni vizio verso gli appellati già costituiti in secondo grado sarà sanato – e decida anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. La Corte territoriale dovrà attenersi al seguente principio di diritto:
«Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».
3. È appena il caso di aggiungere che non sono d’ostacolo all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso le eccezioni preliminari in rito sollevate nel controricorso. Quanto alla prima («inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.»), essa non coglie l’oggetto e il significato dell’impugnazione, che non è volta a contestare il consolidato orientamento secondo cui non si può dare luogo alla rinnovazione della notificazione inesistente, ma contesta il presupposto dell’inesistenza, sostenendo (con buon fondamento, per come si è visto) che la notificazione era soltanto nulla.
Anche la seconda eccezione («inammissibilità ed improcedibilità – violazione degli artt. 358 c.p.c., 387 c.p.c. e 324 c.p.c.; violazione dell’art. 360 c.p.c. carenza di interesse») ha il vizio di dare per acquisito il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado per la (definitiva) improcedibilità dell’appello, mentre è proprio quest’ultima a essere contestata con il ricorso per cassazione.
Infine, la terza eccezione («inammissibilità del ricorso; violazione dell’art. 360 e 360-bis c.p.c.») non considera che quello richiesto dal ricorrente non è un riesame di fatti sostanziali, il cui accertamento è riservato al giudice del merito, ma un riesame di fatti processuali, debitamente veicolati dai motivi di ricorso e come tali da verificare anche in sede di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).
4. Il terzo motivo di ricorso denuncia «violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo del raggiungimento dello scopo, dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
4.1. Premesso che è a questo punto irrilevante l’assunto del Ministero secondo cui tutti gli appellati si sarebbero costituiti in secondo grado (assunto che desume solo dal deposito di una memoria in corso di causa asseritamente depositata «per conto di tutti gli appellati»), il motivo può essere assorbito, in quanto anche una costituzione in ipotesi finalizzata a far rilevare un difetto notificatorio non potrebbe mai considerarsi in sé sanante, dovendosi – nel caso di nullità della notificazione – concedere i debiti termini a difesa, sicché quanto detto sui primi due motivi già esaurisce in ogni caso il tema processuale.
5. Anche il quarto motivo, che denuncia «omessa pronuncia sull’istanza di rimessione in termini e di assegnazione di termine per la rinotificazione in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c.», può essere assorbito, in quanto la necessità di attivazione dei meccanismi di sanatoria che consegue all’accoglimento dei primi due motivi rende superfluo ragionare su una remissione in termini.
6. Infine, il quinto motivo di ricorso denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, in relazione all’art. 436 c.p.c.».
6.1. Il motivo, che lamenta il mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della produzione documentale con cui gli appellati costituiti hanno provato l’anomalia della trasmissione a mezzo PEC, deve intendersi parimenti assorbito, per mancanza di interesse alla decisione della parte ricorrente, una volta accolti i primi due motivi di ricorso, nei termini sopra esposti.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14.9.2023.
Il Presidente
Roberto BELLÈ


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 03/10/2023) 24/10/2023, n. 29438

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. CAPONI Remo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2287/2020 proposto da:

Garante per la protezione dei dati personali, difeso dall’Avvocatura generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

Comune di Tarvisio, difeso dall’avvocato David D’Agostini;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza del Tribunale di Udine n. 586/2019 del 24/10/2019;

Ascoltata la relazione del consigliere Dott. Remo Caponi nella camera di consiglio del 3/10/2023.

Svolgimento del processo
Nel dicembre 2017 l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali emanava nei confronti del Comune di Tarvisio due ordinanze ingiunzione di Euro 20.000 ciascuna, come sanzioni pecuniarie per la violazione ex art. 162, comma 2bis in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 19, comma 3 vigente al tempo. Infatti, una persona aveva segnalato (più volte) il permanere pubblicati di dati personali sul sito internet dell’albo pretorio comunale oltre il periodo di quindici giorni previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124.

Il Comune proponeva dinanzi al Tribunale di Udine nei confronti dell’Autorità Garante opposizione avverso i due provvedimenti sanzionatori, facendo valere: (a) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2 per notifica tardiva, cioè oltre il termine di novanta giorni dall’accertamento delle violazioni (quanto al primo provvedimento, n. (Omissis), la contestazione era avvenuta il (Omissis), dopo che il (Omissis) era stato comunicato al segnalante che non sarebbero stati adottati provvedimenti prescrittivi o inibitori; quanto al secondo provvedimento, n. (Omissis), la contestazione era avvenuta il (Omissis), dopo che il (Omissis) era stato comunicato al segnalante che non sarebbero stati adottati provvedimenti prescrittivi o inibitori); (b) la violazione del principio del ne bis in idem, poichè l’infrazione è unica; (c) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2 poichè si tratta di una sola azione/omissione (la configurazione del software di pubblicazione on line dei provvedimenti del Comune); (d) la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 poichè il sito internet oggetto di segnalazione non era, nè era mai stato, di titolarità del Comune, nè gestito dal medesimo; (e) l’insussistenza della violazione contestata, posto che il termine di quindici giorni per la pubblicazione nell’Albo pretorio di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 non è perentorio.

Il Tribunale ha accolto l’opposizione e annullato le ordinanze-ingiunzione poichè la violazione non sussiste, con compensazione delle spese legali.

Ricorre l’Autorità Garante con due motivi di ricorso. Resiste il Comune di Tarvisio con controricorso e ricorso incidentale con sette motivi, illustrati da memoria.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo censura D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, comma 1bis e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 che il Tribunale non abbia rilevato l’inammissibilità dei motivi di ricorso per omessa impugnazione dei provvedimenti dirigenziali di chiusura dell’istruttoria preliminare, che costituiscono ex art. 7 Regolamento 1/2007 provvedimenti amministrativi.

Il secondo motivo denuncia che la sentenza impugnata abbia violato le disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui la diffusione di dati personali da parte di un soggetto pubblico è ammessa unicamente quando è prevista da una norma di legge o di regolamento, nel rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza. Si deduce la violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 19, comma 3, art. 11, comma 1, lett. d) (nella versione anteriore alla riforma ex D.Lgs. n. 101 del 2018 di adeguamento alla nuova disciplina Europea), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 e D.P.R. n. 118 del 2000, art. 1.

2. – Il primo motivo è rigettato.

Gli atti di cui si lamenta la mancata impugnazione tempestiva (cioè, i provvedimenti dirigenziali di chiusura dell’istruttoria preliminare) rivestono carattere preliminare, non lesivo della sfera dell’ente che sarà solo in seguito destinatario delle sanzioni amministrative. Pertanto, non vi è interesse ad impugnare.

3. – Quanto al secondo motivo, esso si rivela parimenti infondato.

Censurata è la seguente parte della sentenza impugnata. Il Tribunale ha rilevato che si tratta di dati personali, ha osservato che la pubblicazione sull’albo pretorio è avvenuta sul fondamento del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124, comma 1 (pubblicazione delle delibere per quindici giorni) e della L. n. 69 del 2009, art. 32, comma 1 (sostituzione della pubblicazione cartacea con quella sui siti telematici), ha considerato che le finalità di trasparenza, conoscibilità e controllo dell’attività amministrativa sono da bilanciare con la tutela della riservatezza, che implica la necessità, la pertinenza e la non eccedenza del riferimento alla persona D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 11, comma 1, lett. d) e lett. e). Quanto all’asserita violazione del termine di quindici giorni, il Tribunale ha invocato a sostegno Cass. 20615/2016, che ha accertato il carattere non perentorio di tale termine.

La censura è argomentata essenzialmente in questi termini. Il Garante ha richiamato indicazioni di carattere generale sul trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici per finalità di pubblicazione e diffusione sul web (cfr. le linee guida del 15/05/2014). Ha considerato che, quanto ai dati personali, in tali elenchi possono essere riportati solo quelli necessari ad individuare i soggetti interessati (nominativi e data di nascita). Il Garante osserva che non è giustificato diffondere ulteriori dati non pertinenti. Ne deduce che la sentenza è incorsa in errore nel ritenere che al caso di specie fossero estensibili i principi espressi da Cass. 20615/2016. Il punto decisivo – rimarca infine il Garante – è la sproporzionata esposizione della sfera personale dell’interessato, che deriva dalla pluriennale pubblicazione dei dati personali, a fronte di un termine di legge di due settimane.

4. – L’argomentazione della sentenza impugnata resiste bene alle critiche del Garante.

Nel rifarsi alle linee guida, la prima censura non coglie il bersaglio. E’ irrilevante sottolineare che i soggetti pubblici abilitati a pubblicare e diffondere sul web i dati devono riportare solo i dati necessari ad individuare i soggetti interessati, se non si allega specificamente che nel caso di specie il novero dei dati pubblicati abbia ecceduto quelli necessari al perseguimento del fine istituzionale.

In secondo luogo, il Tribunale ha correttamente richiamato a sostegno della propria decisione il precedente di Cass. 20615/2016. Nel caso sotteso a tale pronuncia, alcune persone avevano convenuto in un precedente giudizio un’amministrazione comunale, la quale si era costituita in giudizio sulla base di due delibere di giunta pubblicate sul sito internet istituzionale. Ad avviso degli attori il contenuto delle delibere violava il loro diritto alla riservatezza e pertanto convenivano di nuovo in giudizio il Comune con una correlativa domanda risarcitoria, accolta dal giudice di merito. Nell’annullare la sentenza, Cass. 20615/2016 ha osservato che la pubblicazione e la divulgazione di atti che determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi lecita qualora prevista da una norma di legge o di regolamento, quindi per le finalità istituzionali dell’ente – mentre non ha carattere perentorio il termine previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124 (“Tutte le deliberazioni del comune e della provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio, nella sede dell’ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”). Ad abundantiam, a sostegno del carattere non perentorio del termine, Cass. 20615/2016 richiama il termine di cinque anni di durata della pubblicazione, previsto dal D.Lgs. n. 33 del 2013, art. 8 di riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.

Il Garante mostra di ritenere che Cass. 20615/2016 non si attaglia, ma per dimostrarlo seleziona esattamente la parte della motivazione che è misurata sul caso sotteso a quel precedente e che è qui irrilevante. Viceversa, gli elementi rilevanti sono il fondamento legislativo del potere di pubblicazione, la necessità della pubblicazione per perseguire il fine istituzionale dell’ente, il carattere non perentorio del termine D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 124. Non si attaglia piuttosto Cass. 30981/2017 richiamata dal Garante. Tale pronuncia riguarda i dati sensibili, ma il Garante non argomenta se i dati della cui pubblicazione si tratta nel caso di specie siano sensibili.

Quanto alla doglianza relativa alla violazione del principio di non eccedenza sotto il profilo della protrazione temporale della esposizione al pubblico dei dati personali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, lett. d vigente al tempo) il Garante non si confronta con il punto a tal riguardo centrale della motivazione: il Tribunale ha concluso il proprio ragionamento facendo proprio il dato emerso dalla relazione tecnica resa dal gestore del software che ha spiegato che la visibilità residua dei dati riguardanti la persona, anche dopo le segnalazioni del Garante e gli interventi eseguiti sulla piattaforma informatica (interventi sollecitati dal Comune, che attestano un atteggiamento collaborativo), fosse riferibile all’utilizzo di un meccanismo informatico, cioè la memorizzazione e l’utilizzo reiterato dell’indirizzo web (URL) della pagina pubblicata, utilizzato non da chiunque ma dal diretto interessato motivato a controllare il persistere della pubblicazione.

Nè infine aiuta il Garante il finale richiamo dottrinario al fatto che “l’identità più che come dato preesistente viene vista come processo, costantemente in atto, aperto ad una pluralità di esiti e continuamente esposto all’interferenza capillare e pervasiva, delle varie forme di potere sociale”. E’ superfluo ricordare che in tale dialettica tra la sfera della libertà e dell’autonomia del sè e l’incidenza del potere altrui – tratto di fondo dell’evo moderno – quest’ultimo può esercitare a seconda dei casi non solo un ruolo oppressivo o limitativo, ma anche cooperativo e proattivo. Tale è il profilo che entra specificamente in gioco nel caso di specie, in cui – ferma la necessità della pubblicazione per il fine istituzionale – il Comune ha dimostrato, nell’arco del procedimento amministrativo sollecitato dalla segnalazione al Garante, un atteggiamento cooperativo nell’adottare rimedi diretti a venire incontro al bisogno di tutela mostrato dal segnalante.

Il secondo motivo è rigettato e con ciò è rigettato il ricorso principale nel suo complesso.

5. – Quanto al ricorso incidentale, il primo motivo denuncia la mancata dichiarazione di decadenza dalle domande e dalle eccezioni ex art. 416 c.p.c. per tardività della costituzione in giudizio. Il secondo motivo denuncia, sotto il profilo dell’omesso esame circa un fatto decisivo, la determinazione del momento di accertamento della violazione quale dies a quo per il computo del termine L. n. 689 del 1981, ex art. 14, comma 2. In particolare, si censura che, pur essendo da tempo a conoscenza di tutti gli elementi necessari e utili alla valutazione, l’autorità abbia tardato notificare i provvedimenti di contestazione (si invoca Cass. 7681/2014 ove si soppesa anche l’interesse dell’autore della condotta a vedere concluso l’accertamento in tempi brevi). Il terzo motivo denuncia l’inosservanza del termine L. n. 689 del 1981, ex art. 14, comma 2. Il quarto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione all’inosservanza del ne bis in idem nella contestazione di tante violazioni quanti sono stati i documenti pubblicati ovvero in numero pari alle segnalazioni ricevute. Il quinto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 8, comma 1 (“(…) chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni (…) o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione (…) per la violazione più grave, aumentata sino al triplo”). In particolare, si fa valere che a monte vi è un’unica azione: la configurazione del software di pubblicazione on line dei provvedimenti del Comune. Il sesto motivo denuncia l’omesso esame circa fatto decisivo in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 3 (“(…) ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”), poichè il sito internet oggetto di segnalazione non era, nè era mai stato, di titolarità del Comune, nè gestito dal medesimo. Il settimo motivo censura ex art. 92 la compensazione delle spese disposta per la complessità della questione.

Il ricorso incidentale riveste carattere sostanzialmente condizionato all’accoglimento del ricorso principale e rimane pertanto assorbito.

6. – E’ rigettato il ricorso principale, è assorbito il ricorso incidentale. Le spese secondo la soccombenza sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale e condanna la parte ricorrente in via principale al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della parte controricorrente, che liquida in Euro 4.500, oltre a Euro 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi e agli accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 11/10/2023) 19/10/2023, n. 29119

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. DE ROSA Maria L. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. CORTESI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7485/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata ope legis in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.

– ricorrente –

contro

D.M. C. Costruzioni Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, A.A., e B.B., rappresentati e difesi dall’avv. Cesare Glendi, elettivamente domiciliati in Roma alla via Alberico II n. 33, presso l’avv. Andrea Manzi.

– controricorrenti – avverso la sentenza n. 859 della Commissione tributaria regionale della Liguria, pronunciata in data 3 aprile 2014, depositata in data 29 luglio 2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2023 dal consigliere Dott. Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
CHE:

L’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo contro D.M. C. Costruzioni Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, A.A. e B.B., che resistono con controricorso, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria indicata in epigrafe, che ha rigettato gli appelli riuniti dell’ufficio contro le decisioni della Commissione tributaria provinciale di Genova, che avevano accolto i ricorsi dei contribuenti, ritenendo che gli avvisi di accertamento fossero stati erroneamente emessi e notificati nei confronti della D.M. C. Costruzioni Srl e dei soci, pur avendo ad oggetto il controllo della posizione fiscale per gli anni (Omissis) della D.M. C. Costruzioni Sas e dei soci di quest’ultima.

Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio dell’11 ottobre 2023, ai sensi degli art. 375, u.c., e art. 380 – bis. 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Il P.G. Francesco Salzano ha fatto pervenire conclusioni scritte con cui ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1.1. Con l’unico motivo, l’Agenzia delle entrate denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2498 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente deduce che la società nata dalla trasformazione conserva tutti i diritti e gli obblighi anteriori alla trasformazione stessa, che fa semplicemente mutare l’organizzazione già esistente (Cass. 851/2000), la quale prosegue i rapporti processuali e sostanziali che ad essa fanno capo (Cass. 5963/2001) senza che si determini alcuna interruzione della vita sociale nè l’estinzione della società. La trasformazione, dunque, non comporta l’estinzione della società preesistente e la nascita di una nuova società: è la stessa società che continua a vivere in una veste giuridica rinnovata e che conserva i diritti e gli obblighi anteriori a tale operazione.

Ne consegue che l’avviso di accertamento afferente a un periodo di imposta anteriore alla trasformazione è correttamente notificato al legale rappresentante della società risultante dalla trasformazione stessa, non implicando, questa, alcun mutamento del soggetto passivo del rapporto tributario.

1.2. Il motivo è fondato e va accolto.

La presente controversia concerne una serie di avvisi di accertamento, emessi per gli anni di imposta (Omissis) nei confronti della società, allora avente ragione sociale di società in accomandita semplice, nonchè, ex art. 5 T.u.i.r, nei confronti dei singoli soci, A.A. e B.B..

Gli atti impositivi sono il risultato di una verifica fiscale conclusasi con p.v.c. del 25.5.2010, che ha riguardato, in particolare, la documentazione bancaria e i rapporti commerciali della società DMC Costruzioni Sas di B.B. & C. con la ditta individuale MM Edilizia di C.C.. Successivamente all’emissione del p.v.c., in data 28.1.2010 la società D.M. C. Costruzioni Sas di B.B. & C., il cui socio accomandante era la Sig.ra A.A., si è trasformata in D.M. C. Costruzioni Srl , con legale rappresentante la stessa Sig.ra A.A.. In considerazione di tale trasformazione societaria, l’avviso di accertamento relativo alla società in accomandita semplice è stato notificato alla signora A.A. in qualità di legale rappresentante della D.M. C. Costruzioni Srl Con distinti ricorsi davanti alla C.t.p. di Genova la società e i soci impugnavano gli atti impositivi lamentando, in primo luogo, il proprio difetto di legittimazione passiva, posto che l’avviso di accertamento era stato emesso e notificato nei confronti di DMC Costruzioni Srl in persona del legale rappresentante pro tempore A.A. e dei due soci, mentre la verifica fiscale riguardava la preesistente società DMC Costruzioni Sas di B.B. & C. Inoltre, i ricorrenti eccepivano ulteriori profili di illegittimità degli accertamenti, sia di carattere formale che di carattere sostanziale.

La C.t.r., con la sentenza impugnata, ha rigettato gli appelli riuniti dell’ufficio contro le decisioni della Commissione tributaria provinciale di Genova, che aveva accolto i ricorsi dei contribuenti, ritenendo il difetto di legittimazione passiva degli appellati, con il conseguente assorbimento di ogni altra questione.

Sul punto deve rilevarsi che l’art. 2498 c.c. dispone che “con la trasformazione, l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione”.

Dunque, poichè a seguito del processo di trasformazione, si ha un trasferimento integrale dei rapporti giuridici preesistenti, la notificazione di un avviso che contesti fatti gestionali verificatisi ante trasformazione deve necessariamente e correttamente essere intestato e notificato al soggetto risultante dalla trasformazione, in quanto soggetto subentrato in tutti i diritti e obblighi anteriori alla trasformazione.

In termini è la sentenza di questa Corte n. 4510/1981 che, con principio non più sottoposto a rivisitazione, ha affermato che “in ipotesi di trasformazione di una società in accomandita semplice in società di capitali, l’avviso di accertamento, per imposta di ricchezza mobile afferente un periodo anteriore a detta trasformazione, va notificato al legale rappresentante della società risultante dalla trasformazione stessa, tenuto conto che questa determina un semplice mutamento organizzativo dell’ente, senza incidere sui rapporti giuridici in atto”.

Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio secondo cui “la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorchè connotato di personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione societaria” (ex multis, Cass. n. 7258/1990; n. 9569/2007; n. 21961/2010; n. 18373/2016; vedi anche Cass. n. 25846/2014, richiamata nella conclusioni scritte del P.G. e relativa proprio alle pendenze fiscali di una S.a.s.).

Ancora, con la sentenza n. 3269/2009, questa Corte ha ribadito che “la trasformazione di una società di persone in società di capitali non comporta l’estinzione di un soggetto e la creazione di un altro soggetto, ma la semplice modificazione della struttura e dell’organizzazione societaria, che lascia immutata l’identità soggettiva dell’ente ed immutati i rapporti giuridici ad essa facenti capo”, ritenendo la validità della notifica di una cartella di pagamento indirizzata alla società con la denominazione anteriore alla trasformazione, purchè non implicante una situazione d’incertezza sull’identificazione della parte stessa; tale considerazione presuppone l’assunto che, in caso di trasformazione, la notifica vada fatta, di regola, al soggetto risultante dalla trasformazione.

Va ulteriormente precisato che, nel caso in esame, gli avvisi di accertamento nei confronti dei soci dipendono dalla imputazione per trasparenza dei redditi della società di persone, ex art. 5 T.u.i.r., applicabile anche alle società in accomandita semplice, forma che la società rivestiva negli anni oggetto di verifica fiscale.

In conclusione, la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 11/07/2023) 18/10/2023, n. 28852

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2596/2021 R.G. proposto da:

A.A. TOURS Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Bernardo Barbiellini Amidei n. 45, presso lo studio dell’Avv. Chiara Iovine, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Aniello Pullano e Rosa-Anna Paloscia;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE;

– intimato –

Avverso la sentenza n. 409/2020 del TRIBUNALE DI FROSINONE, pubblicata il 17 giugno 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio tenuta il giorno 11 luglio 2023 dal Consigliere RAFFAELE ROSSI.

Svolgimento del processo
1. La A.A. tours Srl impugnò una comunicazione preventiva di iscrizione di fermo amministrativo su veicolo di sua proprietà notificata dall’Agenzia delle Entrate Riscossione, emessa, tra l’altro, per la soddisfazione di un credito causalmente ascritto a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada.

2. Svolto il giudizio in contraddittorio con l’agente della riscossione, la domanda attorea è stata disattesa in ambedue i gradi di merito.

3. Ricorre per cassazione la A.A. Tours Srl , affidandosi a sei motivi; non svolge difese in grado di legittimità l’intimata.

4. All’esito dell’adunanza camerale sopra indicata, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di cui al comma 2 dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c., si assume che il giudice territoriale abbia “erroneamente riferito il denunciato vizio della inesistenza della notifica dell’atto impugnato alla cartella di pagamento sottesa al preavviso di fermo e non al preavviso, come invece denunciato dalla A.A. tours”.

La doglianza è inammissibile e, comunque, infondata.

1.1. Inammissibile per carente esposizione del fatto processuale, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, num. 3, c.p.c..

L’impugnante lamenta, in sostanza, l’errata comprensione, ad opera del giudice di appello, dell’oggetto della domanda: ma di essa omette di riferire – per il tramite della trascrizione, nelle parti di interesse o comunque nei tratti essenziali, dei propri scritti difensivi nel ricorso di adizione di questa Corte – il contenuto in maniera compiuta ed idonea, mancando, in particolare, di precisare se la irregolarità della notificazione fosse stata lamentata con riferimento al preavviso di fermo oppure alla prodromica cartella.

Specificazione tanto più necessaria poichè la gravata sentenza, nella narrazione del fatto processuale, dà conto di vizi notificatori denunciati con riguardo tanto alla cartella quanto al preavviso.

1.2. Ad ogni buon conto, la censura è destituita di fondamento.

La pronuncia in parola ha infatti vagliato nel merito i vizi di regolarità formale di tutti gli atti della riscossione dedotti in lite; ha poi argomentato la irrilevanza delle nullità notificatorie per intervenuta sanatoria facendo richiamo alla conoscenza del destinatario evinta dalla impugnativa proposta contro l’atto, circostanza univocamente riferibile soltanto alla comunicazione preventiva di fermo.

2. Con il secondo motivo, per violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c., si prospetta la giuridica inesistenza della notificazione, avvenuta a mezzo pec, per allegazione alla mail dell’atto in formato.pdf (copia per immagine su supporto informatico) e non già come documento informatico provvisto di firma digitale (.pdf nativo digitale).

2.1. Il motivo – sviluppato in maniera confusa ed aspecifica, dacchè a tratti riferito alla notificazione della cartella, a tratti alla notificazione del preavviso di fermo – è inammissibile.

Sul punto, il giudice territoriale ha ritenuto irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file “pdf nativo” sul rilievo che si trattava di “atto già notificato nell’anno 2017, e quindi ben noto all’opponente, che, per di più, non contesta affatto la sua difformità rispetto all’originale”.

L’argomentare del ricorrente non attinge criticamente la trascritta ratio decidendi: e tanto giustifica l’inammissibilità della doglianza.

2.2. Sol per dovere nomofilattico e nei limiti in cui il suo contenuto è dato evincere dalle modalità di formulazione della censura già rilevate ai fini della sua inammissibilità, si evidenzia la sua infondatezza.

Valorizzando le disposizioni dettate dal D.P.R. n. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 1, comma 1, lett. c), f) ed i-ter), e del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 20, questa Corte ha ripetutamente affermato che “la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”)”, ossia, appunto, un file in formato PDF (portable document format), con l’ulteriore precisazione, che “nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale” (testualmente Cass. 27/11/2019, n. 30948; conf., ex multis, Cass. 05/10/2020, n. 21328; Cass. 08/07/2020, n. 14402).

Donde vizio della notifica per tale ragione non è dato riscontrare.

3. Il terzo mezzo rileva nullità della sentenza per motivazione inesistente ed apparente ex art. 360, comma 1, num. 4, c.p.c., in relazione all’eccepito vizio della notifica per assenza della relata.

3.1. Il motivo è infondato.

Ricorre “motivazione apparente”, causa di nullità della sentenza, quando il giudice ometta di esporre i motivi, in fatto ed in diritto, della decisione, di rendere intellegibile l’iter logico seguito per pervenire al dictum reso, così impedendo la praticabilità di un controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (sulla nozione di “motivazione apparente” cfr., tra le tantissime, Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. U., 22/09/2014, n. 19881; Cass., Sez. U., 21/06/2016, n. 16599; Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. 22232; Cass. 25/09/2018, n. 22598; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Nella vicenda in parola, il giudice territoriale ha compiutamente risposto al rilievo della parte attrice: “quanto alla relata di notifica” ha considerato “il vizio sanato con la proposizione dell’opposizione, avendo l’atto raggiunto il suo scopo, specie qualora non sia contestata la provenienza dell’atto”.

Motivazione sintetica, ma adeguatamente sufficiente, poichè senza dubbio idonea a dare conto delle ragioni fondanti il dictum.

4. Con il quarto motivo, replicando in sostanza le deduzioni già poste a suffragio del secondo, il ricorrente assume violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c.: nuovamente sostiene la giuridica inesistenza della notificazione, dacchè concretata nel caso dalla trasmissione di una mera scansione dell’atto, oltremodo priva della sottoscrizione digitale.

4.2. La doglianza è destituita di fondamento: valgano, a suffragio della conclusione, le argomentazioni già svolte sopra, sub p. 2.2., da intendersi qui integralmente riportate e trascritte, in uno agli operati richiami ai precedenti arresti nomofilattici.

5. Il quinto motivo censura l’operata liquidazione delle spese legali, per violazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c..

Sull’assunto che il valore della controversia era pari ad Euro 1.066,20 (per essere l’impugnativa del fermo limitata alla sola cartella di pagamento per siffatto importo), l’impugnante rileva che i compensi liquidabili secondo i valori medi di tariffa (cui il giudicante aveva fatto richiamo) ammontano ad Euro 640, sicchè erronea risulta la quantificazione degli stessi in Euro 2.025 operata in sentenza.

5.1. La doglianza è inammissibile, ancora una volta per carente esposizione del fatto processuale, in trasgressione del disposto dell’art. 366, comma 1, num. 3, c.p.c..

La narrazione dello svolgimento della vicenda contenziosa compiuta nel libello introduttivo non consente a questa Corte – cui è precluso, per la natura del giudizio di legittimità ed altresì in considerazione del tipo di vizio dedotto, l’accesso ad altre fonti ed atti del processo – una chiara e sicura comprensione dell’esatto thema decidendum devoluto al giudice del merito e sul quale la gravata pronuncia ha statuito.

Più in particolare, la rappresentazione dei motivi dedotti a supporto dell’azione nel merito proposta genera non superabili incertezze circa la direzione della domanda di annullamento, cioè a dire se essa avesse ad oggetto la comunicazione di preavviso di fermo nella sua interezza (come sembrerebbe inferirsi da alcuni vizi denunciati, attinenti alla regolarità formale di tale atto nel suo complesso e, quindi, miranti ad una caducazione integrale dello stesso), oppure soltanto una cartella ad esso sottesa (cartella del valore di Euro 1.066,20, ovvero parte del credito totale azionato con il fermo, pari ad Euro 2.999,08).

Sul punto, non traendosi elementi dalla gravata sentenza, la mancata riproduzione, nel ricorso di adizione di questa Corte, delle conclusioni rassegnate nel giudizio di merito impedisce di poter apprezzare il valore della causa, parametro di determinazione della contestata liquidazione, e, quindi, in ultima analisi, di vagliare la fondatezza nel merito del motivo de quo.

6. Il sesto motivo lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, c.p.c..

Ad avviso dell’impugnante, è errata la “condanna al pagamento” del raddoppio del contributo unificato per difetto dei presupposti, in specie poichè l’appello non è stato dichiarato nè inammissibile, nè improcedibile nè rigettato integralmente.

6.1. La doglianza è inammissibile.

Basti, sul tema, ribadire il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in ragione della inammissibilità o improcedibilità o dell’integrale rigetto della impugnazione, non ha natura di condanna – non riguardando l’oggetto del contendere tra le parti in causa – bensì la funzione di agevolare l’accertamento amministrativo sulla correlata obbligazione tributaria: la attestazione resa dalla sentenza non può pertanto formare oggetto di impugnazione, restando riservata alla competente sede del giudizio tributaria ogni contestazione ad opera delle parti circa i presupposti della debenza del c.d. doppio contributo (in tal senso, ex multis, Cass. 27/11/2020, n. 27131; Cass. 13/11/2019, n. 29424; Cass. 11/06/2018, n. 15166; Cass. 09/11/2016, n. 22867).

7. Rigettato il ricorso, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado, in ragione della indefensio della parte intimata.

9. Atteso il rigetto del ricorso, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 11 luglio 2023.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 13/09/2023) 11/10/2023, n. 28425

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 13276 del ruolo generale dell’anno 2019, proposto da:

A.A. (C.F.: (Omissis)) rappresentato e difeso, giusta procura allegata al ricorso, dall’avvocato Antonio Feroleto (C.F.: (Omissis));

– ricorrente –

nei confronti di B.B. (C.F.: (Omissis));

C.C. (C.F.: (Omissis));

rappresentati e difesi, giusta procura allegata al controricorso, dall’avvocato Alessandro Manno (C.F.: (Omissis));

-controricorrenti-

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1271/2019, pubblicata in data 20 febbraio 2019;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza del 13 settembre 2023 dal consigliere Augusto Tatangelo;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. Giovanni Battista Nardecchia, che ha concluso per il rigetto del ricorso, come da requisitoria scritta in atti;

l’avvocato Antonio Feroleto, per il ricorrente; l’avvocato Alessandro Manno, per i controricorrenti.

Svolgimento del processo
B.B. e C.C. hanno agito in giudizio nei confronti di A.A. per ottenere la dichiarazione di inadempimento di quest’ultimo ad un contratto preliminare di vendita immobiliare (stipulato con il loro dante causa D.D.), l’accertamento della legittimità del recesso da detto contratto, nonchè la condanna del A.A. al pagamento del doppio della caparra confirmatoria versata, per Euro 160.000,00.

Le domande sono state accolte dal Tribunale di Tivoli, con sentenza n. 1990/2014 in data 19 settembre 2014.

La Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile l’appello del A.A. avverso tale sentenza, proposto nel settembre del 2018, ritenendolo tardivo.

Ricorre il A.A., sulla base di quattro motivi.

Resistono con controricorso gli B.B..

E’ stata inizialmente disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

La Corte, all’esito dell’adunanza camerale del 3 maggio 2023, ha disposto la trattazione in pubblica udienza, in vista della quale parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Si premette che l’oggetto del presente giudizio è l’accertamento della legittimità del recesso da un contratto preliminare di vendita immobiliare (contratto dichiarato risolto per inadempimento del promittente venditore, con condanna al pagamento del doppio della caparra, all’sito del giudizio di merito): non si tratta dunque di un ricorso in materia di esecuzione forzata che, sebbene in astratto rientrante nella competenza tabellare di altra Sezione della Corte, viene comunque trattato da questa Sezione in quanto espressamente assegnato alla stessa sulla base di provvedimenti dirigenziali interni non più contestabili.

2. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 143, 156, 157, 160, 325, 326 e 327 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4) c.p.c.”. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 143, 156, 157, 160, 325, 326 e 327 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4) c.p.c.”.

I primi due motivi del ricorso hanno ad oggetto la statuizione della sentenza impugnata in cui si rileva la tardività del gravame del ricorrente avverso la sentenza di primo grado, in quanto proposto oltre il termine di trenta giorni dalla notificazione della predetta sentenza, in violazione del termine breve di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c..

Essi sono fondati.

La sentenza di primo grado risulta pubblicata in data 19 settembre 2014 e notificata al ricorrente A.A. (unitamente all’atto di precetto), ai sensi dell’art. 143 c.p.c., in data 16 dicembre 2014; successivamente, in data 27 gennaio 2015 risulta notificato al A.A., sempre ai sensi dell’art. 143 c.p.c., un atto di pignoramento immobiliare.

Il A.A. sostiene di avere avuto conoscenza del processo di cognizione, della sentenza che lo aveva definito e del processo esecutivo solo in data 20 febbraio 2018, a seguito di una istanza di accesso agli atti dello stesso processo esecutivo: risulta infatti che egli abbia anche proposto una opposizione esecutiva il 12 marzo 2018, opposizione che, peraltro, non è oggetto del presente ricorso e della quale non viene in realtà neanche specificato l’esito.

L’atto di appello avverso la sentenza di merito di primo grado è stato notificato in data 3/6 settembre 2018, entro sei mesi, quindi, dalla dedotta conoscenza della sentenza stessa, maggiorati della sospensione feriale dei termini processuali, che nella fattispecie è certamente applicabile, in quanto, come chiarito nel precedente paragrafo, non si tratta di controversia in materia di esecuzione forzata.

La corte d’appello ha affermato che “non si rinviene nell’atto di appello una precisa eccezione di nullità della notificazione della sentenza appellata, concentrandosi l’attenzione dell’appellante sulla notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado”: sarebbe quindi decorso, dal momento di detta notificazione (che risulterebbe eseguita, come già visto, il 16 dicembre 2014, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., unitamente al precetto), il termine breve per l’appello.

Il ricorrente censura tale statuizione deducendo, in primo luogo, che il principio di diritto applicato dalla corte d’appello (la quale richiama a sostegno della propria statuizione il remoto precedente di cui a Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1766 del 17/06/1974, Rv. 369948 01), secondo cui non sarebbe rilevabile di ufficio la nullità della notificazione della sentenza impugnata oltre il termine breve, sarebbe stato superato da più recenti pronunzie di questa stessa Corte nelle quali si afferma, invece, che è sempre rilevabile di ufficio l’eventuale nullità della notificazione della sentenza, vizio il quale impedisce la decorrenza del termine breve.

Sostiene, altresì, che la nullità della notificazione della sentenza era stata in realtà dedotta, unitamente a quella della nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di cognizione e degli atti in base ai quali era stata minacciata e poi attuata l’esecuzione forzata, in quanto con l’appello era stato esplicitamente allegato che tali atti erano stati tutti notificati ai sensi dell’art. 143 c.p.c., ma in mancanza dei relativi presupposti, quindi in modo non valido.

Entrambi i profili delle censure in esame risultano fondati.

Il A.A. ha proposto l’appello nel 2018, dopo tre anni dalla pretesa notifica della sentenza di primo grado (avvenuta unitamente all’atto di precetto, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., nel dicembre 2014): con il suo gravame ha sostenuto di avere avuto conoscenza del processo di cognizione e della sentenza che lo aveva definito solo nel corso del processo esecutivo, in quanto tutte le notificazioni degli atti precedenti (atto di citazione, sentenza di merito di primo grado con allegato precetto, nonchè atto di pignoramento) erano nulle, anzi, a suo dire addirittura giuridicamente inesistenti.

La nullità della notificazione della sentenza di primo grado deve pertanto ritenersi esplicitamente allegata dall’appellante.

Per quanto poi riguarda l’eventuale decorrenza del termine breve, egli non aveva altro onere che dimostrare la indicata nullità (che ne impedisce l’operatività) e sulla quale, invece, la corte d’appello non si è pronunciata affatto.

D’altra parte, effettivamente, secondo il più recente indirizzo di questa stessa Corte, cui intende darsi continuità, il giudice di appello, prima di dichiarare la tardività del gravame per violazione del termine breve di impugnazione, deve normalmente verificare, anche di ufficio, la regolarità della notificazione della sentenza impugnata (salvo il caso in cui la nullità riguardi la persona alla quale debba essere consegnato l’atto, o se vi sia incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta la consegna o sulla data, ipotesi non ricorrenti nella specie), in mancanza della quale il suddetto termine breve non decorre (cfr. Cass., Sez. L, Sentenza n. 3091 del 19/05/1982, Rv. 421023 – 01: “il giudice dell’appello ha il dovere di accertare di ufficio la regolarità del procedimento e, quindi, anche l’ammissibilità del gravame proposto entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza ma dopo trenta giorni dalla sua notificazione con riferimento alla persona – parte o difensore – cui era stata diretta, mentre la parte destinataria della notificazione, nel proporre appello oltre il termine breve, ha l’onere di dedurre la nullità – non, quindi, la inidoneità ai fini in questione – della notificazione medesima, sicchè il giudice non può rilevarla d’ufficio soltanto ove la nullità riguardi la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi sia incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, a norma dell’art. 160 c.p.c. “).

In definitiva, deve concludersi che il A.A. aveva proposto l’appello tardivo sostenendo espressamente di non avere avuto conoscenza del processo e della sentenza di primo grado (e neanche del precetto e del pignoramento), quale conseguenza della nullità delle relative notificazioni, effettuate a suo dire illegittimamente ai sensi dell’art. 143 c.p.c., cioè mediante deposito presso la casa comunale sulla base dell’assunto che egli avesse dimora, domicilio e residenza sconosciuti, mentre così, a suo avviso, non era.

Di conseguenza, la corte d’appello ha errato nel sostenere che l’appellante non avesse specificamente dedotto l’invalidità della notificazione della sentenza impugnata.

Essa avrebbe dovuto, invece, esaminare e valutare nel merito il dedotto vizio della notificazione della sentenza (nonchè, ancor prima, quello dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di cognizione, come meglio si chiarirà anche in prosieguo).

3. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116, 143, 327 c. 2 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4) c.p.c.”.

Con il quarto motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2729, 2697 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3) c.p.c.”.

Il terzo e il quarto motivo del ricorso hanno ad oggetto la statuizione della decisione impugnata in cui si afferma che l’appello sarebbe inammissibile, in quanto proposto oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., senza che l’appellante abbia allegato o provato la non conoscenza del processo a causa della nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado.

Secondo la corte d’appello, non sarebbe stata fornita la suddetta dimostrazione, perchè l’appellante si sarebbe limitato a dedurre che solo il 20 febbraio 2018 era venuto a conoscenza del processo esecutivo, promosso con atto di pignoramento del 27 gennaio 2015, nonchè della stessa esistenza del titolo esecutivo rappresentato dalla sentenza di cui si controverte nel presente giudizio e dell’atto di precetto, affermando testualmente, con riguardo a tali ultimi atti, “anch’essi asseritamente e unitamente notificati ai sensi dell’art. 143 c.p.c. in data 16 dicembre 2014. A.A. non ha mai avuto conoscenza della notificazione di nessun atto presupposto alla procedura esecutiva sopra indicata”.

Da questa sintetica (se non ermetica) motivazione, in realtà, non emerge se la corte d’appello abbia inteso imputare al A.A. un difetto di allegazione della sua mancata conoscenza del processo o abbia invece inteso semplicemente affermare che, ferma l’allegazione, sarebbe insufficiente la relativa prova.

In ordine alla valutazione di tale prova, peraltro, non vi è alcuna ulteriore considerazione nella sentenza che consenta di comprendere su che basi sia stata effettuata la verifica delle eventuali emergenze istruttorie, anche presuntive, fornite dall’appellante in ordine alla mancata conoscenza del processo di cognizione per il dedotto vizio della notificazione del relativo atto introduttivo.

3.1 Il ricorrente sostiene che non era suo onere dimostrare la mancata conoscenza del processo in conseguenza del vizio della notificazione del relativo atto di citazione, avendo egli dedotto l’inesistenza giuridica della notificazione di detto atto introduttivo e non la sua mera nullità, e ciò in conformità al tradizionale (e tralaticio, come meglio si vedrà in seguito) orientamento di questa Corte secondo il quale “per stabilire se sia ammissibile una impugnazione tardivamente proposta, sul presupposto che l’impugnante non abbia avuto conoscenza del processo a causa di un vizio della notificazione dell’atto introduttivo, occorre distinguere due ipotesi: se la notificazione è inesistente, la mancata conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario si presume “iuris tantum”, ed è onere dell’altra parte dimostrare che l’impugnante ha avuto comunque contezza del processo; se invece la notificazione è nulla, si presume “iuris tantum” la conoscenza della pendenza del processo da parte dell’impugnante, e dovrà essere quest’ultimo a provare che la nullità gli ha impedito la materiale conoscenza dell’atto” (cfr., per tutte: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 18243 del 03/07/2008, Rv. 605008 – 01).

3.2 In proposito, va peraltro precisato che è ormai definitivamente insostenibile l’assunto per cui, nel caso della notificazione eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c. in mancanza dei necessari presupposti (dimora, residenza e domicilio del destinatario della notificazione sconosciuti nonostante le necessarie specifiche ricerche all’uopo effettuate), si sia di fronte ad una ipotesi di inesistenza giuridica della notificazione e non di mera nullità della stessa: le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603 – 01) hanno infatti definitivamente chiarito che “l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità; tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa”.

D’altra parte, in caso di notificazione ai sensi dell’art. 143 c.p.c. effettuata in mancanza dei relativi presupposti e, in particolare, senza l’effettuazione delle ricerche della nuova residenza di fatto, già in passato si era attribuita al vizio la qualificazione di nullità, sebbene tale qualificazione fosse discussa (e discutibile), in base ai pregressi indirizzi (cfr. ad es. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16527 del 05/08/2016, Rv. 641326 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17307 del 31/08/2015, Rv. 636431 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2909 del 07/02/2008, Rv. 601331 – 01).

In ogni caso, attualmente, dopo l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte sopra richiamato, l’assunto in diritto che si tratti di una notificazione giuridicamente inesistente e non meramente nulla è certamente da ritenersi infondato.

3.3 Al di là della corretta qualificazione del vizio afferente le notificazioni contestate, tuttavia, va comunque tenuto presente che il ricorrente ha certamente e specificamente dedotto, già con il suo atto di appello, di non avere mai ricevuto la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, in quanto la stessa sarebbe stata effettuata con il mero deposito dell’atto presso la casa comunale, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., senza alcun altro avviso a lui diretto, sebbene in mancanza dei necessari presupposti, cioè senza che (a suo dire) fossero effettivamente sconosciuti la sua residenza, il suo domicilio e la sua dimora.

Va, quindi, stabilito se una siffatta allegazione possa ritenersi di per sè sufficiente a dar conto della mancata conoscenza del processo, fondando quanto meno una mera presunzione, comunque suscettibile di prova contraria, ai fini della fattispecie di cui all’art. 327, comma 2, c.p.c..

In proposito, si deve tener conto dello sviluppo diacronico degli indirizzi di questa Corte sull’inquadramento e la qualificazione dei vizi delle notificazioni.

3.3.1 In primo luogo, si rileva che, come già chiarito, il A.A., nel proporre l’appello (dopo tre anni dalla pubblicazione della sentenza di primo grado), in occasione della sopravvenuta conoscenza del processo di esecuzione fondato sulla stessa, aveva certamente e specificamente dedotto di non aver mai ricevuto alcuna notificazione degli atti del processo di cognizione e della sentenza che lo aveva definito in primo grado, perchè tali atti erano stati tutti notificati mediante mero deposito presso la casa comunale, sebbene la sua residenza (almeno a suo dire) non fosse affatto sconosciuta: la corte di appello non ha però affrontato in alcun modo la questione della validità o meno di queste notificazioni, omettendo di chiarire se le stesse si fossero in realtà validamente perfezionate o meno.

3.3.2 Esaminando i precedenti di questa Corte in tema di impugnazione tardiva del contumace involontario, emerge che l’effettivo principio di diritto applicato nelle decisioni pubblicate risulta espresso, soprattutto nella sintesi verbale delle relative massime, con una semplificazione che, oggi, in base all’evoluzione successiva della giurisprudenza di questa Corte in tema di vizi delle notificazioni, può ritenersi inattuale, se non addirittura fuorviante.

Occorre premettere che, almeno fino al 2008, era ancora esistente un indirizzo di legittimità secondo il quale “il comma 1 dell’art. 327 c.p.c……. non trova applicazione quando il contumace dimostri di non avere avuto conoscenza del processo, per nullità della citazione o della notificazione di essa e per nullità degli atti di cui all’art. 292 c.p.c., sicchè il contumace è onerato tanto della prova della nullità della citazione o della relativa notificazione, quanto di quella della non conoscenza del processo a causa di dette nullità; tuttavia la prova relativa a quest’ultima circostanza non è necessaria allorchè vi sia nullità della notificazione della citazione, essendo detto vizio, salvo prova contraria, tale da impedire alla parte di acquisire la notizia dell’esistenza stessa del giudizio, con la conseguenza che in tal caso, dal momento che è la rituale notificazione dell’atto introduttivo a determinare la conoscenza legale del giudizio, la nullità di tale notificazione dà luogo alla presunzione di non conoscenza del processo, incombendo, quindi, a chi eccepisce la tardività l’onere di provare che la controparte abbia avuto detta conoscenza di fatto nonostante quella nullità” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17014 del 26/08/2004, Rv. 576267 01; Sez. L, Sentenza n. 9989 del 16/04/2008, Rv. 602853 01).

A partire dal 2008 (in particolare, a partire dall’arresto di cui a Cass., Sez. 3, Sentenza n. 18243 del 03/07/2008, Rv. 605008 – 01), si è però consolidato un diverso e più rigoroso indirizzo, che viene formulato e argomentato nei seguenti termini nella motivazione dell’arresto appena richiamato (che pare opportuno trascrivere integralmente, in parte qua, per chiarezza):

“In una recente decisione della Corte – la sentenza 16 aprile 2008 n. 9989 – è stato affermato che il convenuto non deve dare altra prova di non avere avuto conoscenza del processo, perchè ne è prova sufficiente la circostanza che la notificazione dell’atto introduttivo della lite sia avvenuta con modalità che ne provocano la nullità, sicchè spetta a chi ha assunto l’iniziativa della notificazione dare dimostrazione del contrario.

Questo orientamento appare però contrario alla prevalente giurisprudenza della Corte. La Corte segue tale indirizzo nei soli casi in cui la notificazione è stata eseguita con modalità che ne determinano l’inesistenza, quando cioè la notificazione è eseguita in luogo o con consegna a persona, che non hanno alcun collegamento col destinatario della notifica, sicchè v’è una presunzione che la parte non abbia potuto avere conoscenza dell’atto a lei indirizzato (in tema di distinzione tra notificazione nulla e notificazione inesistente, da ultimo: Sez. Un. 29 aprile 2008 n. 10817; sullo stesso tema, in rapporto alla prova della conoscenza del processo in sede di applicazione dell’art. 327 c.p.c., comma 2: Cass. 22 maggio 2006 n. 11991; e, in rapporto alla 14570). Quanto ai casi in cui la notificazione è nulla, perchè è stata eseguita con modalità difformi da quelle prescritte, ma in luogo o con consegna a persona che hanno con la parte un collegamento che fa presumere che la stessa parte possa avere in concreto conosciuto l’atto, perchè è questo che di solito avviene, l’onere di dimostrare il contrario è invece accollato al convenuto, del resto in conformità del dettato letterale della norma (Sez. Un. 12 maggio 2005 n. 9938; Cass. 8 giugno 2007 n. 13506; 14 settembre 2007 n. 19225). Il collegio condivide gli argomenti che sono a base di questo indirizzo, appunto per la ragione che vale a distinguere la notificazione nulla da quella inesistente”.

In effetti, l’indirizzo che si è consolidato (e che trova conferma in svariati altre successive decisioni: cfr. ad es. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 1308 del 19/01/2018, Rv. 646916 – 01; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19574 del 30/09/2015, Rv. 637215 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 2817 del 05/02/2009, Rv. 606613 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 36181 del 12/12/2022, Rv. 666540 – 01) opera, al di là dell’inquadramento qualificatorio dei vizi delle notificazioni, una distinzione tra due fattispecie concrete: 1) la “notificazione eseguita con modalità difformi da quelle prescritte, ma in luogo o con consegna a persona, che hanno con la parte un collegamento che fa presumere che la stessa parte possa avere in concreto conosciuto l’atto, perchè è questo che di solito avviene”, nel qual caso l’onere di allegare e dimostrare il contrario è accollato al convenuto, che si afferma contumace involontario; 2) la “notificazione eseguita in luogo o con consegna a persona che non hanno alcun collegamento col destinatario della notifica”, nel qual caso si afferma esservi una presunzione che la parte non abbia potuto avere conoscenza dell’atto a lei indirizzato e, di conseguenza, spetta all’attore notificante l’onere di dimostrare l’eventuale avvenuta conoscenza di fatto del processo da parte del preteso contumace involontario, nonostante l’assenza di una valida notificazione dell’atto introduttivo dello stesso.

Il principio risulta dunque chiaro, nella sua effettiva sostanza, e può ritenersi condivisibile.

In altri termini, in base a tale indirizzo, se la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio avviene, sia pure invalidamente, con consegna dell’atto a persona e/o in luogo che hanno comunque un collegamento con il destinatario, si può quanto meno presumere che il destinatario possa comunque avere avuto conoscenza di fatto del processo e, quindi, questi dovrà puntualmente allegare e dimostrare che tale conoscenza non vi fu, ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c..

Se, invece, la notificazione avviene senza la consegna dell’atto a una persona o in un luogo che abbia un qualche collegamento con il destinatario, è logico presumere, quale conseguenza normale, che questi non ne possa in alcun modo avere avuto conoscenza e, così, egli non avrà l’onere di ulteriormente e più specificamente allegare e dimostrare tale mancata conoscenza in caso di impugnazione tardiva; più precisamente, l’allega-zione della mancata conoscenza dell’atto da notificare è da considerarsi implicita nella stessa allegazione delle specifiche circostanze di fatto che stanno alla base della dedotta radicale invalidità della notificazione, avvenuta senza consegna dell’atto o con consegna in luogo o a persona privi di collegamenti con il destinatario.

La “semplificazione” dell’espressione sintetica di tali principi di diritto – che si riscontra soprattutto nelle massime, ma anche in qualche motivazione dei precedenti richiamati – sta nell’ulteriore affermazione, per cui alla prima delle due ipotesi sopra descritte corrisponderebbe, sul piano tecnico, il vizio di mera “nullità” della notificazione, mentre alla seconda corrisponderebbe il vizio qualificabile come radicale “inesistenza giuridica” della stessa: di conseguenza si è per anni affermato, del tutto tralaticiamente e sulla base di una semplificazione da ritenersi oggi eccessiva, che solo in caso di inesistenza giuridica della notificazione dell’atto introduttivo non è necessario per il preteso contumace involontario allegare e provare specificamente la mancata conoscenza del processo derivata dalla invalidità di detta notificazione.

Tale “semplificazione” del principio di diritto può probabilmente comprendersi, in verità, in base al prevalente orientamento interpretativo anteriore al 2016, secondo il quale la notificazione eseguita con consegna dell’atto a persona o in luogo senza alcun collegamento con il destinatario era da ritenere sempre affetta dal vizio di “giuridica inesistenza” e non da quello di “mera nullità”; ma in realtà si tratta di una “semplificazione” imprecisa sul piano giuridico, perchè minata alla base dalla non correttezza proprio di tale ultima distinzione nell’ambito delle categorie dei vizi delle notificazioni, come poi definitivamente chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la già richiamata Cass., SSUU n. 14916/2016.

E’ opportuno sottolineare che, dai precedenti di questa Corte che si sono occupati della fattispecie in esame, non emerge un effettivo contrasto nell’applicazione concreta del principio di diritto (che resta quello sopra esposto, cioè quello che fa leva sull’esistenza di un collegamento o meno tra destinatario e luogo/persona di consegna dell’atto da notificare), ma solo, al più, una mera disarmonia nell’espressione verbale sintetica del principio stesso. Lo dimostra il fatto che, anche prima del 2016, proprio nel caso di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio eseguita mediante mero deposito dell’atto presso la casa comunale, senza alcun avviso al destinatario, come avviene nell’ipotesi di cui all’art. 143 c.p.c., in mancanza dei presupposti di legge, è stato affermato che non vi era alcuna necessità di ulteriore specifica allegazione e di prova della mancata conoscenza del processo da parte del contumace involontario, dovendo la stessa logicamente presumersi.

In un precedente specifico che ha affrontato la questione della nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio effettuata col “rito degli irreperibili” (ai sensi del D.P.R. n. 603 del 1972, art. 60, che prevede modalità del tutto analoghe a quelle di cui all’art. 143 c.p.c., esaurendosi in sostanza nel deposito dell’atto presso la casa comunale, senza alcun avviso diretto al destinatario) in mancanza dei necessari presupposti, in relazione all’onere della prova della mancata conoscenza del processo da parte del contumace involontario, ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., si è in effetti affermato che la mancata conoscenza del processo si deve presumere, perchè la notificazione è avvenuta “senza consegna ad alcuno ed in luogo privo di collegamento con il destinatario” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 2817 del 05/02/2009, Rv. 606613 – 01), e ciò – pare opportuno sottolineare – non in contrasto, ma sulla espressa premessa della esplicita e integrale adesione all’indirizzo tradizionale sull’onere probatorio che si atteggia in ragione della distinzione tra nullità e inesistenza della notificazione.

In motivazione, nella decisione appena richiamata si afferma molto chiaramente quanto segue (anche in questo caso pare opportuno trascrivere integralmente i passaggi motivazionali rilevanti):

“…… per stabilire se sia ammissibile una impugnazione tardivamente proposta, sul presupposto che l’impugnante non abbia avuto conoscenza del processo a causa di un vizio della notificazione dell’atto introduttivo, occorre distinguere due ipotesi: se la notificazione è inesistente (cioè è stata eseguita in luogo o con consegna a persona che non hanno alcun collegamento col destinatario), la mancata conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario si presume iuris tantum, ed è onere dell’altra parte dimostrare che l’impugnante ha avuto comunque contezza del processo; se invece la notificazione è nulla (perchè è stata eseguita con modalità difformi da quelle prescritte, ma in luogo o con consegna a persona che hanno con la parte un collegamento che fa presumere che la parte stessa possa avere in concreto conosciuto l’atto), si presume iuris tantum la conoscenza della pendenza del processo da parte dell’impugnante, e dovrà essere quest’ul-timo a provare che la nullità gli ha impedito la materiale conoscenza dell’atto (così, da ult., Cass. n. 18243 del 2008; cfr., già, Cass., Sez. un., n. 9938 del 2005 e, in tema di decorrenza del termine di cui all’art. 325 c.p.c., n. 14570 del 2007, nonchè, in materia di contenzioso tributario, Cass. n. 11991 del 2006); che, ciò posto, nella fattispecie, come risulta dall’esame diretto degli atti, il messo comunale, una volta rilevata la “momentanea irreperibilità” del destinatario, ha provveduto a depositare copia dell’atto presso la casa comunale e ad affiggere l’avviso di tale deposito per otto giorni nell’albo pretorio: trattasi di modalità di notificazione tale da far presumere, in ossequio al principio di diritto sopra richiamato, la mancata conoscenza della pendenza del processo da parte del destinatario, in quanto eseguita senza consegna ad alcuno ed in luogo privo di collegamento con il destinatario medesimo (nè può rilevare, in contrario, che una siffatta modalità è prevista peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non nella ipotesi di momentanea irreperibilità del destinatario per la notificazione degli avvisi tributari, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e – norma, infatti, richiamata nella relata -, essendo sufficiente rilevare che trattasi di disciplina attinente ad atti di natura sostanziale e non processuale e, quindi, a materia alla quale non sono, in linea di principio, applicabili le più rigorose garanzie specificamente connesse al regime degli atti processuali: v. Cass. n. 7773 del 2006);

che, in conclusione, il ricorso deve ritenersi ammissibile, pur se tardivamente proposto;

che il ricorso stesso, con il quale si denuncia la “nullità inesistenza” della notificazione dell’atto di appello, con conseguente inammissibilità del medesimo, è, poi, manifestamente fondato per le medesime ragioni già esposte, in quanto la notificazione, come s’è detto, è stata eseguita con modalità difformi da quelle prescritte dalla legge (processuale), senza consegna ad alcuno e in luogo (casa comunale) privo di collegamento col destinatario (ed ovviamente senza invio di alcuna raccomandata con funzione informativa ex art. 140 c.p.c.)”.

3.3.3 Fatte queste premesse, ai fini della decisione del presente ricorso pare assorbente il rilievo per cui, oggi, si può certamente prescindere dall’analisi delle implicazioni di carattere “qualificatorio” degli orientamenti ormai superati in tema di vizi delle notificazioni, in quanto:

a) le disarmonie qualificatorie sui vizi delle notificazioni non hanno dato luogo ad un vero e proprio contrasto “effettivo” nell’applicazione dei principi di diritto relativi all’ipotesi di cui all’art. 327, comma 2, c.p.c., in particolare nella individuazione delle ipotesi in cui la specifica allegazione delle caratteristiche del vizio della notificazione dell’atto introduttivo del processo era da considerare sufficiente ai fini della presunzione “iuris tantum” della mancata conoscenza del processo stesso; segnatamente, non è ravvisabile un contrasto sulla sussistenza di tale presunzione in caso di notificazione eseguita mediante deposito dell’atto presso la casa comunale senza avviso al destinatario, in mancanza del presupposto della mancata conoscenza della residenza o del domicilio del destinatario; in tali ipotesi si è, infatti, concordemente sempre ritenuto che operasse la presunzione di mancata conoscenza del processo, anche indipendentemente dalla corretta qualificazione del vizio;

b) in ogni caso, tali disarmonie non possono più ritenersi attuali, dopo che, come sancito da Cass., SSUU n. 14916/2016, deve escludersi la stessa configurabilità della categoria generale di un vizio della notificazione qualificabile come “inesistenza giuridica”, a fianco del vizio qualificabile come “nullità”, in quanto il vizio della notificazione che venga eseguita e dunque si perfezioni secondo una qualunque delle forme previste dalla legge, anche “virtuali” (quindi: non solo con la consegna dell’atto, ma anche con il deposito dello stesso nelle forme per legge equiparate alla consegna), sia pure invalidamente, è sempre quello, evidentemente omnicomprensivo, della “nullità”, a prescindere dall’esistenza di un collegamento con il destinatario del luogo e/o della persona dove e/o alla quale avvenga la consegna dell’atto, mentre nel caso in cui (non solo) non vi sia nessuna consegna dell’atto ma non vi sia neanche alcun deposito equipollente nelle forme di legge, la notificazione non è viziata, ma semplicemente non ha avuto affatto luogo (trattandosi sostanzialmente una ipotesi di omessa notifica, non di notifica viziata). Dunque, non può che concludersi che, dopo Cass., SSUU n. 14916/2016, non possono più avere seguito, in generale, i precedenti indirizzi che distinguevano, per determinati effetti giuridici, tra il vizio di “nullità” e il vizio di “inesistenza giuridica” della notificazione; in particolare, con riguardo all’indirizzo relativo agli oneri di allegazione e prova della mancata conoscenza del processo ai fini dell’impugnazione tardiva di cui all’art., 327, comma 2, c.p.c., certamente non può più farsi riferimento alla “semplificazione” che attribuiva rilievo proprio a tale distinzione tra le due diverse forme di invalidità della notificazione (inesistenza e nullità), trattandosi di distinzione della quale è stata ormai sancita l’inconfigurabilità sul piano teorico e, che, comunque (anche a volerla “traslare” sull’attuale distinzione tra notifica nulla e omessa notifica), avrebbe un significato del tutto diverso da quello che aveva in passato, implicando oggi una diversa qualificazione dei medesimi vizi.

L’area dell’attuale vizio di “nullità della notificazione” rispetto a quella dell’omessa notifica (secondo l’attuale indirizzo sancito dalle SSUU nel 2016), infatti, non corrisponde affatto alla precedente area della “nullità” rispetto a quella della “inesistenza giuridica” della notificazione, secondo i vecchi indirizzi ormai superati.

Di conseguenza, non si possono continuare ad applicare indirizzi interpretativi anteriori all’arresto di cui alle Sezioni Unite di questa Corte del 2016 che richiamavano tale distinzione, come nel caso qui in esame dell’art. 327, comma 2, c.p.c..

Ne deriva, ancora, che la tralaticia affermazione per cui, in caso di impugnazione tardiva del contumace involontario ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., bisogna distinguere tra “inesistenza giuridica” e mera “nullità” della notificazione dell’atto introduttivo del processo e solo nella prima ipotesi vi è una presunzione di fatto di mancata conoscenza del processo stesso, tale da imporre alla controparte (cioè all’attore vittorioso) di dimostrare che detta conoscenza di fatto in realtà vi fu, non è oggi più predicabile in tali medesimi termini e va certamente (quanto meno) aggiornata in base ai nuovi principi espressi da Cass. SSUU n. 14916/2016.

3.3.4 A tale ultimo fine, se si analizza e si individua l’effettivo principio di diritto che è stato costantemente affermato nei precedenti in tema di impugnazione tardiva del contumace involontario ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., al di là delle formule giuridico-linguistiche con cui esso era espresso, soprattutto nelle massime tralaticie, la soluzione attualmente applicabile emerge con chiarezza.

Come ampiamente esposto, il principio di diritto effettivamente e costantemente applicato in tutti i precedenti sull’art. 327, comma 2, c.p.c., ai fini della sussistenza di una presunzione di fatto (peraltro sempre superabile con prova contraria) distingue, infatti, tra notificazione dell’atto introduttivo eseguita in luogo o a persona con un collegamento con il destinatario (che fa presumere quanto meno la normale possibilità di una conoscenza di fatto del processo) e notificazione eseguita in luogo o a persona privi di tale collegamento (in cui tale presunzione è da escludere).

L’ipotesi del deposito dell’atto presso la casa comunale senza alcun avviso al destinatario, non vi è dubbio che sia stato sempre fatto rientrare, e che rientri effettivamente, in questa seconda fattispecie, non essendovi consegna dell’atto a chicchessia e non essendovi alcun collegamento tra la casa comunale e il destinatario, che possa lasciare immaginare almeno la possibilità che tale notificazione venga a determinare una conoscenza di fatto della pendenza del processo.

In conclusione, proprio al fine di dare continuità ai principi di diritto fino ad oggi seguiti da questa Corte in tema di impugnazione del contumace involontario, semplicemente adeguandoli alla nuova sistematica qualificatoria dei vizi delle notificazioni imposta da Cass., SSUU n. 14916/2016, deve ritenersi che, non potendosi più seguire la distinzione, ormai definitivamente esclusa dalle Sezioni Unite, tra vizio di nullità e vizio di inesistenza giuridica della notificazione, si debba nondimeno attribuire la giusta rilevanza, a tutela dell’effettività del diritto di difesa, alle concrete peculiarità dell’invalidità ricorrenti nella fattispecie e, in tal modo modulandone la rilevanza ai fini della loro allegazione e prova, affermare il seguente principio di diritto (da intendersi non già quale principio realmente innovativo, ma in piena continuità con i precedenti, sebbene “aggiornato” alla corretta qualificazione dei vizi delle notificazioni sancita dalle Sezioni Unite):

“ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione tardiva del cd. contumace involontario, ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., grava su quest’ultimo l’onere di allegare e dimostrare non solo la causa della eventuale nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ma anche di non aver avuto conoscenza del processo in conseguenza di quel vizio; peraltro, nell’ipotesi in cui la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio sia stata invalidamente eseguita in luogo o con consegna a persona che non hanno alcun collegamento col destinatario della notifica, la relativa allegazione deve considerarsi implicita nella specifica allegazione dello stesso vizio della notificazione e, in tal caso, non può affermarsi alcuna presunzione “iuris tantum” di conoscenza del processo da parte dell’impugnante, onde grava sulla controparte l’onere di dimostrare che tale conoscenza vi sia eventualmente stata ugualmente”.

In applicazione di tale principio, poichè in caso di notificazione (che si alleghi essere stata) eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c. con il mero deposito dell’atto presso la casa comunale pur in mancanza del presupposto di legge dell’effettiva oggettiva mancata conoscenza della residenza, della dimora e del domicilio del destinatario della notificazione, questa avviene certamente senza alcuna consegna a persona o in luogo avente un collegamento col destinatario, di conseguenza (e in continuità con quanto già sancito dalla richiamata Cass. n. 2817/2009), laddove il preteso contumace involontario alleghi specificamente un siffatto vizio della notificazione (e benchè si tratti senza alcun dubbio di vizio oggi da qualificarsi in termini di nullità), egli sta allegando altresì, quanto meno implicitamente, una situazione di fatto che implica di per sè e fa presumere, sia pure solo iuris tantum, la mancata conoscenza del processo e, dunque, spetterà alla controparte di dimostrare eventualmente il contrario; ciò a meno che ovviamente non si accerti che la notificazione “virtuale” ai sensi dell’art. 143 c.p.c. sia valida, nel qual caso è ovviamente escluso in radice ogni vizio che possa giustificare una impugnazione tardiva.

3.3.5 Per quanto riguarda la fattispecie in esame, sulla base di quanto sin qui esposto, deve osservarsi che, nonostante la inesatta qualificazione giuridica del vizio della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio (in termini di inesistenza giuridica anzichè di nullità) operata dal ricorrente, l’allegazione da parte sua della circostanza di fatto che la notificazione di tale atto era stata eseguita, sebbene la propria residenza fosse a suo dire conosciuta (o, quanto meno, conoscibile con l’ordinaria diligenza), con il mero deposito di esso presso la casa comunale, cioè senza consegna dell’atto a persona o in luogo che presentavano un qualunque collegamento con la sua sfera personale, costituisce una sufficiente allegazione (quanto meno implicita) in fatto idonea a determinare, in diritto, una presunzione semplice di fatto di mancata conoscenza del processo.

Di fronte a tale implicita allegazione, i giudici del merito avrebbero dovuto verificare, in primo luogo, l’effettiva validità della notificazione dell’atto introduttivo del processo eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c. (in quanto la eventuale validità di tale notifica sarebbe assorbente ai fini di escludere l’ammissibilità dell’impugnazione tardiva ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c.) e, benchè solo in esito al positivo riscontro della sua invalidità, la sussistenza di una prova (il cui onere è a carico dell’appellato) della eventuale conoscenza di fatto del processo da parte del convenuto, nonostante detta invalidità.

Per non essersi determinato a tanto il giudice dell’appello, ne consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della decisione impugnata, affinchè in sede di rinvio sia valutata in concreto la validità o meno della notificazione, effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dell’atto introduttivo del giudizio di merito e della sentenza impugnata, anche ai fini dell’ammissibilità del gravame tardivo, sulla base dei principi di diritto più sopra enunciati.

4. Il ricorso è accolto, per quanto di ragione, nei limiti di cui in motivazione.

La sentenza impugnata è cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

– accoglie il ricorso per quanto di ragione e cassa in relazione alle censure accolte la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 13 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 21/06/2023) 06/10/2023, n. 28215

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino L. – Presidente –

Dott. LA ROCCA Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. HMELJAK Tania – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 35508/2019 R.G. proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA RIDOLFI VENUTI 42, presso lo studio dell’avvocato DI SARNO ALESSANDRA, (D Srl SN68D57H501L) rappresentato e difeso dall’avvocato CURRO’ ANTONELLO, (CRRNNL72M19F158G);

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, (ADS80224030587) che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonchè contro

RISCOSSIONE SICILIA Spa domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CIMINO MAURIZIO, (CMNMRZ73R16F158Z);

– controricorrente –

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. MESSINA n. 2500/2019 depositata il 24/04/2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/06/2023 dal Consigliere Dott. GIOVANNI LA ROCCA.

Svolgimento del processo
CHE:

1. A.A., quale erede di B.B., ha impugnato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Messina la cartella di pagamento n. (Omissis) della complessiva somma di Euro 868.623,81, dovuta a titolo di IRPEF e IVA ed accessori per gli anni (Omissis), iscritta a ruolo sulla base di tre avvisi di accertamento oggetto di impugnazione non ancora definita.

2. La CTP di Messina ha rigettato il ricorso, rilevando la ritualità della notifica effettuata impersonalmente agli eredi e, comunque, la sanatoria di ogni vizio di notifica a seguito della impugnazione in termini, l’inammissibilità delle questioni relative agli altri chiamati che avevano rinunziato all’eredità, la regolare formazione della cartella.

3. Il A.A. ha proposto appello che la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia ha rigettato, con la resistenza in giudizio sia dell’Agenzia delle entrate sia di riscossione Sicilia Spa affermando il difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate, posto che l’impugnazione riguardava una cartella di pagamento, il raggiungimento dello scopo della notifica dell’atto, la ritualità della cartella redatta secondo modello ministeriale, la genericità e pretestuosità del rilievo relativo agli interessi con riguardo ai quali non venivano specificamente indicati gli errori di calcolo.

4. Avverso questa pronunzia propone ricorso per cassazione A.A., quale erede di B.B., affidandosi a quattro motivi.

5. Resistono con controricorso l’Agenzia delle entrate e la Riscossioni Sicilia spa.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. ed omessa motivazione circa punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in merito al computo del dovuto, in quanto incombe sull’Amministrazione l’onere di provare la debenza delle somme pretese, tanto per capitale quanto per interessi e altri accessori, “frutto di un complesso calcolo”, in ragione dell’istituto della riscossione frazionata in pendenza di giudizio; in particolare, il ricorrente segnala che con le sentenze della CTP nn. 405/10/2008, 406/10/2008 e 407/10/2008 si era notevolmente ridotta la pretesa erariale e dubita della correttezza dei calcoli (“La cartella in esame tiene conto di tale rideterminazione della pretesa? Si tiene conti delle cartelle già emesse e poi rettificate? Gli interessi sono stati computati nel passaggio dai vari giudizi di merito?”), ritenendo altresì che non sia “dato comprendere come sia possibile un’iscrizione a ruolo di ulteriori 868.623,81 Euro a fronte di una prima cartella di pagamento emessa in pendenza di ricorso portante una pretesa di ben 3.086.392,49 Euro, una seconda cartella di 4.081.461,70 Euro, al cospetto di un accertato pari a complessive 10.265.8982,21 (sic) Euro (somma degli importi totali dei tre accertamenti come emessi) tenuto conto, inoltre di tre sentenze di primo grado che hanno rideterminato la pretesa in modo significativo e che in corso di causa è venuto a mancare il debitore accertato, con rideterminazione della pretesa in termini di sanzioni e interessi su queste calcolati”.

2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2 e della L. n. 212 del 2000, art. 7 e della L. n. 241 del 1990, art. 3 in quanto erroneamente la CTR non aveva rilevato il vizio di motivazione della cartella impugnata, priva di elementi sufficienti a comprendere il calcolo degli importi pretesi sia per tributo che per interessi, tanto che “il Concessionario della riscossione potrebbe aver calcolato (il condizionale è d’obbligo perchè nulla è dato sapere) i predetti interessi di mora su tutte le somme iscritte a ruolo, ovvero sull’importo costituito dal tributo, dagli interessi da ritardata iscrizione a ruolo e delle sanzioni irrogate in origine al de cuius, di fatto realizzando due gravi violazioni di legge” (calcolo di interessi sulle sanzioni e di anatocismo).

3. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono inammissibili; da un lato, come si desume dalla superiore espositiva e come già rilevato dalla CTR, le doglianze sono formulate in termini generici, oltre che dubitativi e ipotetici; d’altro lato, l’articolazione delle censure difetta non solo di specificità ma anche di autosufficienza in quanto non viene riportato, neppure in parte, il contenuto della cartella impugnata che dovrebbe rivelare il vizio motivazionale e, comunque, andrebbe valutato, con riguardo agli interessi calcolati in cartella, alla luce dei principi espressi da questa Corte secondo cui “La cartella di pagamento, allorchè segua l’adozione di un atto fiscale che abbia già determinato il “quantum” del debito di imposta e gli interessi relativi al tributo, è congruamente motivata – con riguardo al calcolo degli interessi nel frattempo maturati – attraverso il semplice richiamo dell’atto precedente e la quantificazione dell’importo per gli ulteriori accessori, indicazione che soddisfa l’obbligo di motivazione prescritto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dalla L. n. 241 del 1990, art. 3″ (Cass. sez. un. 22281 del 2022).

5. Con il terzo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione sul difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate.

5.1. Il motivo è inammissibile perchè, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purchè il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. sez. un. 8053 del 2014); la modifica, inoltre, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo (Cass. n. 13024 del 2022), senza che possano considerarsi tali nè le singole questioni decise dal giudice di merito, nè i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, nè le mere ipotesi alternative, nè le singole risultanze istruttorie (Cass. n. 10525 del 2022; Cass. n. 5795 del 2017). In questo caso manca la precisa individuazione del fatto storico decisivo il cui esame sarebbe stato omesso, risolvendosi la doglianza nel rilievo che la deduzione degli errori di calcolo doveva avere come legittimo contraddittore l’Ente impositore; si propone, in realtà, una questione giuridica che, peraltro, contrasta con la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il concessionario del servizio di riscossione è parte, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10 quando oggetto della controversia è l’impugnazione di atti viziati da errori ad esso direttamente imputabili, cioè per vizi propri della cartella o dell’avviso di mora, e non è configurabile un litisconsorzio necessario con l’Amministrazione finanziaria (Cass. n. 8370 del 2015; Cass. n. 22729 del 2016; Cass. n. 22729 del 2016).

6. Con il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, comma 2 laddove si è ritenuta corretta la notifica della cartella di pagamento effettuata presso l’ultima residenza del de cuius impersonalmente a tutti gli eredi, in quanto in più occasioni A.A. aveva inoltrato all’Agenzia delle entrate comunicazioni nelle quali rappresentava la sua qualità di erede universale e indicava il suo domicilio fiscale; si trattava di un caso di inesistenza della notificazione che impediva la sanatoria per raggiungimento dello scopo.

6.1. Il motivo è inammissibile e comunque è infondato.

6.2. Ai sensi dell’art. 65 cit., “Gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa” (comma 1); “Gli eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. La comunicazione può essere presentata direttamente all’ufficio o trasmessa mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si intende fatta nel giorno di spedizione” (comma 2); ” La notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima non abbiano effettuato la comunicazione di cui al comma 2″ (comma 4).

6.3. Risulta un difetto di specificità e autosufficienza in quanto non si precisano gli estremi delle comunicazioni che sarebbero state effettuate almeno trenta giorni prima della notifica della cartella di pagamento. Il motivo, in ogni caso, è infondato perchè la notifica dell’atto tributario nei confronti di un contribuente deceduto, notificato agli eredi collettivamente e impersonalmente presso il domicilio del de cuius, è nulla, ma non inesistente, ove gli eredi abbiano effettuato la comunicazione di cui all’art. 65 cit. prima della notificazione; quindi, atteso che la natura sostanziale dell’atto tributario non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, detta nullità deve ritenersi sanata, per raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 c.p.c., comma 3, qualora l’erede proponga tempestivo ricorso avverso il ruolo, purchè ciò avvenga prima della scadenza del termine di decadenza, previsto dalle singole leggi d’imposta, per l’esercizio del potere di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria (Cass. n. 1156 del 2019).

7. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato e le spese vanno liquidate secondo soccombenza.

P.Q.M.
rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento, in favore a ciascuno dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per l’Agenzia delle entrate, in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito, e, per Riscossione Sicilia Spa in Euro 5.600,00 oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2023


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 19/12/2022) 05/10/2023, n. 28093

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo – Consigliere –

Dott. POLETTI Dianora – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al R.G.N. 2274/2018 proposto da:

AVV. A.A., in proprio, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIULIA, 66, presso il proprio studio;

– ricorrente –

contro

MARCHIO COSTRUZIONI GENERALI Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6594/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/10/2017; udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/12/2022 dal Consigliere Dott. DIANORA POLETTI.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6594/2017, la Corte di Appello di Roma dichiarava inammissibile il gravame proposto dall’avvocato A.A. contro la sentenza emessa dal Tribunale di Roma n. 5561/2013 per nullità della notifica dell’atto di appello, siccome effettuata in violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, non sanata dalla successiva rinnovazione.

Affermava la Corte che dall’esame di quanto depositato, unitamente all’atto di appello in rinnovazione, si evinceva che l’avvocato notificante, abilitato ai sensi della L. n. 53 del 1994, aveva compilato “”l’avviso di ricevimento della comunicazione di avvenuto deposito della raccomandata” (CAD)”, e non già l’avviso di ricevimento della raccomandata (intendi, quella integrante la notifica a mezzo del servizio postale: n.d.r.); e che, comunque, in tale avviso non risultava indicata la qualità del soggetto che aveva ricevuto l’atto, ma esclusivamente il nominativo di questo, privo di qualunque specificazione in ordine al suo rapporto con il destinatario.

Avverso tale decisione l’avv. A.A. ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.

Marchio Costruzioni Generali Srl è rimasta intimata.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 160 c.p.c., e del principio della tassatività delle nullità.

Sostiene che la prima notificazione dell’atto di appello, effettuata al difensore domiciliatario, notificazione in forza della quale era stata dichiarata la contumacia della società in allora appellata, era pienamente legittima, non rinvenendosi nella L. 53 del 1994, art. 3, alcuna prescrizione di riscontrare nella ricevuta di ritorno l’indicazione della qualifica del destinatario, stante la tassatività delle nullità e l’operatività di questo rimedio solo quando vi è incertezza sulla persona a cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data di notifica.

Inoltre, l’atto che dispone la rinnovazione della notifica, quando una rituale notifica vi sia già stata, deve ritenersi nullo ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

2. – Con il secondo motivo il ricorrente espone la violazione di legge con riferimento agli artt. 156, 160, 162, 164, 183, 291 e 359 c.p.c..

Deduce che la ritenuta nullità della notifica, successiva alla declaratoria di contumacia, deve condurre alla rinnovazione della medesima, con termine da concedere all’appellante. La decisione è dunque illegittima per violazione dell’art. 156 c.p.c., che detta il principio di tassatività delle nullità e dell’art. 160 c.p.c., secondo cui la nullità opera solo in caso di incertezza assoluta sulla persona del destinatario. Nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, qualora l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento nello spazio appositamente riservato e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario stesso fino a querela di falso.

3. – I successivi tre motivi ripropongono le questioni di merito non esaminate dalla Corte di appello, che il ricorrente richiama per evidenziare l’interesse specifico all’annullamento della sentenza.

4. – Entrambi i suddetti motivi – da esaminare congiuntamente per la loro interconnessione – sono infondati, a stregua della documentazione così come depositata agli atti (che questa Corte è chiamata ad esaminare, essendo stato dedotto un error in procedendo), sebbene debba correggersi, ai sensi dell’art. 384, u.c., la motivazione della pronuncia impugnata.

4.1. – La Corte d’appello, sciogliendo la riserva espressa all’udienza dell’11.2.2014 (v. pag. 10 del ricorso), dichiarò la nullità della notificazione dell’atto introduttivo, effettuata a mezzo del servizio postale dall’avv. A.A., per violazione della L. n. 53 del 1994, artt. 3 e 11, ne dispose per la rinnovazione e, all’esito, all’udienza del 28.10.2014 (v. pag. 11 del ricorso) dichiarò la contumacia della parte appellata. Salvo, poi, re melius perpensa revocare tale dichiarazione e decidere l’appello dichiarandone l’inammissibilità per le ragioni indicate supra in narrativa.

Due, pertanto, le questioni poste dal ricorso: a) se sia legittima la declaratoria di nullità della notifica dell’atto d’appello; e solo in caso affermativo, b) se sia stata, a sua volta, validamente rinnovata tale notificazione, in ottemperanza dell’ordine della Corte territoriale.

4.1.1. – Riguardo alla prima questione, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di notifica a mezzo del servizio postale la L. n. 890 del 1982, consente (non diversamente da quanto dispone l’art. 139 c.p.c., per la notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario), la ricezione dell’atto da parte di un soggetto diverso dal destinatario attraverso la previsione di una successione preferenziale tassativa e vincolante delle categorie di persone alle quali la copia deve essere consegnata, successione che presuppone la necessità, ai fini della validità della notifica, dell’assenza di coloro che si trovino in posizione di precedenza per giustificare la consegna a soggetti appartenenti alla categoria successiva. E di tale assenza o rifiuto l’ufficiale postale (o l’ufficiale giudiziario) deve dare atto nell’avviso di ricevimento (o nella relata). Ne consegue che è nulla la notifica effettuata a mani del portiere dello stabile, allorquando la relazione dell’ufficiale postale non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o dell’assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale (persona di famiglia, addetta alla casa o al servizio) (così Cass. n. 6021/07).

Nè tale assenza può desumersi o ritenersi altrimenti implicata dalla consegna stessa del piego al portiere. Un siffatto ragionamento equivarrebbe a eludere l’attestazione di cui sopra e, con essa, la necessità di osservare l’anzidetto ordine di preferenza nella consegna, che resterebbe di fatto vanificato.

A sua volta, tale nullità può essere sanata (oltre che dalla costituzione della parte convenuta, anche) qualora sia provata la ricezione della raccomandata semplice, c.d. informativa, contenente la notizia dell’avvenuta notificazione. Quest’ultima, infatti, non è soggetta alle disposizioni in materia di notificazioni a mezzo posta, ma solo al regolamento postale, sicchè, ai fini della sua validità, è sufficiente che il plico sia consegnato al domicilio del destinatario e che il relativo avviso di ricevimento sia sottoscritto dalla persona rinvenuta dall’ufficiale postale, non essendo necessario che da esso risulti anche la qualità del consegnatario o la sua relazione con il destinatario (v. Cass. nn. 24899/22 e 19795/17).

Nella specie, parte ricorrente ha depositato il duplicato dell’avviso di ricevimento della notificazione dell’atto d’appello, che risulta effettuata a mezzo del servizio postale con raccomandata a.r. n. (Omissis), sub n. reg. cronologico 144. Tale duplicato, rilasciato dall’ufficio postale il 6.2.2014, attesta che la ridetta raccomandata (indirizzata all’avv. Matteo Serva, difensore in primo grado della società convenuta in appello) è stata consegnata il (Omissis) “a firma: portiere dello stabile” (così, testualmente). Nella parte centrale di tale duplicato si rileva, inoltre, un timbro rettangolare ove si legge “Emessa racc.ta n. (Omissis) del (Omissis)”, nonchè, a lato, una stampigliatura verticale dicente “regolarizzato d’ufficio”.

In tale duplicato manca, per contro, qualsiasi attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o dell’assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale rispetto a quella del portiere.

E’ probabile che la raccomandata emessa sotto il n. (Omissis) in data (Omissis) altro non sia che la raccomandata semplice prevista in funzione informativa, non essendovi stata consegna diretta al destinatario. Ma non risulta affatto che essa sia stata ricevuta, per cui la nullità della notificazione, per le superiori ragioni indicate, permane e non può ritenersi sanata.

Nè ha pregio alcuno l’assunto del ricorrente secondo cui la notificazione è nulla, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., solo se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta: la norma invocata, infatti, prevede quale causa di nullità anche l’inosservanza delle disposizioni circa la persona cui deve essere consegnata la copia dell’atto.

4.1.2. – Quanto alla seconda questione, va premesso che è nulla la notifica dell’atto d’appello a mezzo del servizio postale ove nella relazione di notificazione sia indicato solo il nome del consegnatario ma non il suo rapporto con il destinatario, a meno che l’appellante non deduca e dimostri la sussistenza, tra consegnatario e destinatario, di uno dei rapporti richiesti dalla legge per la validità della notificazione (cfr. Cass. nn. 4400/08, 4942/94, 304/73 e 2475/72).

Nella specie, si rileva che la ricevuta di ritorno della raccomandata a.r. n. (Omissis), contenente l’atto di citazione in rinnovazione, oltre ad essere stata redatta sul diverso modulo previsto per la “comunicazione di avvenuto deposito” di atto giudiziario, reca la sottoscrizione del ricevente (B.B., persona diversa dal destinatario), ma non anche la specificazione della qualità rivestita.

Nè vale il richiamo, operato da parte ricorrente, a S.U. n. 9962/10, che concerne una fattispecie del tutto diversa. Infatti, detto precedente afferma che nel caso di notifica a mezzo del servizio postale, ove l’atto sia consegnato all’indirizzo del destinatario a persona che abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, con grafia illeggibile, nello spazio relativo alla “firma del destinatario o di persona delegata”, e non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2 (corsivo di questo estensore), la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso, a nulla rilevando che nell’avviso non sia stata sbarrata la relativa casella e non sia altrimenti indicata la qualità del consegnatario, non essendo integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 c.p.c..

Nel caso di specie, invece, è indiscusso e indiscutibile che la consegna sia avvenuta a mani non del destinatario (avv. Matteo Serva), ma di un altro soggetto, di cui, però, l’avviso di ricevimento non indica la qualità.

5. – Il rigetto dei primi due motivi assorbe l’esame dei restanti, peraltro di per sè inammissibili, in quanto aventi ad oggetto questioni rimaste assorbite nel grado d’appello.

6. – Il ricorso è, dunque, respinto.

7. – Nulla per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

8. – Segue il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2023