Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 10-12-2015) 03-02-2016, n. 2133

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 5499/2014 proposto da:

C.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 23, presso lo studio dell’avvocato GIUSTINIANI GIOVANNI, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.F. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27 presso lo studio dell’Avvocato GIOFFRE’ MARIA ANTONIA che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3527/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/12/2015 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato Giovanni Giustiniani difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Giuseppe Fadda (delega avvocato Giuffrè) difensore del controricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“con la sentenza impugnata la Corte di Appello ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dal Sig. G.P., perchè la notifica dell’atto di citazione in appello risultava essere tardiva, in quanto effettuata il 15/02/2013, ossia oltre il termine c.d. breve, di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c., posto che la sentenza di primo grado era stata notificata, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, presso la cancelleria del Tribunale di Monza (non avendo in primo grado l’avvocato dell’odierno ricorrente eletto domicilio nel circondario del Tribunale) in data 07/12/2012;

per la cassazione della sentenza ricorre il Sig. C.P., affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi di ricorso;

l’intimato resiste con controricorso;

preliminarmente occorre verificare la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata da parte resistente nel controricorso, ritualmente notificato e depositato, con la quale il resistente deduce che la notifica del ricorso, effettuata in data 20/02/2014, sarebbe tardiva, poichè avvenuta oltre i termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c., posto che in data 28/10/2013 sarebbe stata ritualmente notificata la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano all’odierno ricorrente, presso il suo procuratore costituito Avv. Marco Parolari, domiciliato ex lege presso la cancelleria della Corte di Appello (non avendo egli eletto domicilio nel circondario dell’Autorità procedente);

l’eccezione appare fondata e si propone che venga accolta, per le ragioni di cui appresso.

Il resistente ha depositato, unitamente al controricorso, una copia conforme all’originale della sentenza impugnata, la quale contiene una relazione di notificazione del seguente tenore a richiesta come in atti, io sottoscritto Ufficiale Giudiziario addetto all’Ufficio Unico della Corte d’Appello di Milano, ho notificato copia autentica della sentenza n. 3527/13 emessa dalla Corte d’Appello di Milano a C.P., rappresentato e difeso dall’avv. Marco Parolari ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Cernusco Lombardone (LC) Via del Lago di Como e dello Spluga n. 4 ed entrambi domiciliati ex lege presso la cancelleria della Corte d’Appello di Milano;

fatto salvo il principio per cui la legge riconnette l’effetto particolare della decorrenza del termine breve per l’impugnazione ai sensi degli artt. 325 e 326 c.p.c., solo quando la notificazione della sentenza sia eseguita al procuratore costituito ai sensi dell’art. 170 c.p.c., comma 1, e art. 285 c.p.c., non essendo idonea quella effettuata alla parte personalmente (cfr. Cass., 1 giugno 2010, n. 13428), nel caso di specie tale principio deve essere coordinato con l’altro orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la notifica della sentenza alla parte presso il procuratore costituito è equivalente a quella eseguita al procuratore stesso ed è, pertanto, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, oltre che per il notificante (cfr. Cass. S.U., 13 giugno 2011, n. 12898), certamente per il notificato (Cfr. Cass., 2 aprile 2009, n. 8071 ed altre successive).

In particolare, con riferimento alla questione posta dal resistente va richiamato e ribadito il principio di diritto per il quale “ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione la notifica della sentenza alla parte presso il procuratore costituito – ancorchè eseguita nel luogo ove questi deve considerarsi elettivamente domiciliato a norma del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, – deve considerarsi equivalente alla notifica al procuratore stesso ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., soddisfacendo, l’una e l’altra forma di notificazione, l’esigenza di assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della persona professionalmente qualificata ad esprimere un parere tecnico sulla convenienza e l’opportunità della proposizione del gravame”. (così Cass., 28 aprile 2000, n. 5449), con la precisazione per la quale il procuratore va indicato per nome e cognome e come destinatario, in tale qualità, della notificazione presso la cancelleria del giudice a quo, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, onde potere ritenere che permanga, in forza di queste specificazioni, un collegamento tra la parte, il suo procuratore e il domicilio reale di quest’ultimo, in modo che il procuratore possa avere conoscenza dell’atto a lui destinato (arg. ex Cass. 19 marzo 2004, n. 5563, nonchè, di recente, Cass. 27 febbraio 2014, n.2698). Poichè nel caso di specie la relazione di notificazione della sentenza impugnata contiene il riferimento a …

a C.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Parolari …, in applicazione dei principi di diritto appena richiamati, non può farsi distinzione tra notificazione al procuratore domiciliatario per la parte e notificazione alla parte presso il procuratore domiciliatario (cfr. anche Cass. 15 giugno 2004, n. 11257; 24 novembre 2005, n. 24795; 18 aprile 2014, n. 9051).

Pertanto, essendo stata la sentenza notificata come sopra in data 28 ottobre 2013, risulta tardiva la notificazione del ricorso in data 20 febbraio 2014″.

La relazione è stata notificata come per legge.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il Collegio ha condiviso i motivi in fatto ed in diritto esposti nella relazione. Giova precisare che la documentazione prodotta dal ricorrente ai sensi dell’art. 372 c.p.c., consistente nella nota rilasciata dal funzionario presso la Corte d’Appello di Milano – cancelleria centrale civile del 6 maggio 2015 – con la quale si comunica la mancata ricezione della notificazione della sentenza della stessa Corte d’Appello n. 3527/13 -, è superata, oltre che dalla relazione di notificazione a firma dell’Ufficiale giudiziario indicata nella relazione, da altra nota dello stesso funzionario di cancelleria del 6 novembre 2015, depositata dal resistente – con la quale “facendo seguito ed a rettifica della precedente comunicazione resa in data 6/5/14 …” si conferma l’avvenuta notificazione presso la cancelleria della sentenza anzidetta, in data 28 ottobre 2013.

Resta così confermata tale ultima data come quella dell’avvenuta notificazione presso la cancelleria ai sensi e per gli effetti del R.D. n. 37 del 1934, art. 82.

Occorre allora verificare se, come sostenuto dal ricorrente nella memoria in atti, il resistente, già appellato, avrebbe dovuto effettuare la notificazione, ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione della sentenza d’appello, all’avvocato dell’appellante, all’epoca l’avv. Marco Parolari, presso l’indirizzo PEC del medesimo, che, a detta del ricorrente, sarebbe stato indicato in atti e comunicato al suo ordine di appartenenza.

La norma di riferimento è costituita dall’art. 125 c.p.c., comma 1, come modificata dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, (prima della sostituzione attuata dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45 bis, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 114), ai sensi della quale, nell’atto di parte “il difensore deve, altresì, indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata la proprio ordine e il proprio numero di fax”. Soltanto se tale adempimento risulta eseguito, è possibile la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata. Orbene, nell’atto di citazione in appello – la cui lettura è possibile a questa Corte perchè necessaria per delibare l’ammissibilità del ricorso – si legge che l’appellante è “giudizialmente assistito e rappresentato dall’avv. Marco Parolari, c.f. …, con studio in Cernusco Lombardone (LC) – via Spluga n. 4, ivi elettivamente domiciliato (fax …, email marco.parolari(at)lecco.pecavvocati.it, per le comunicazioni di Cancelleria ex art. 134 c.p.c., comma 3, e art. 136 c.p.c., comma 3)…”. Testuale è pertanto la mancata indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata utilizzabile per le notificazioni ad istanza di parte e testuale è l’elezione di domicilio in luogo diverso dalla sede della Corte d’Appello.

Nè vi è luogo a dibattere dell’ambito applicativo della norma del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, convertito nella L. n. 221 del 2012, che prevede la domiciliazione digitale, poichè questa è stata inserita dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, comma 1, lett. b), convertito nella L. n. 114 del 2014, non applicabile nel caso di specie.

Ne consegue la validità della notificazione della sentenza effettuata presso la Cancelleria della stessa Corte d’Appello, anche ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, secondo quanto già esposto nella relazione.

Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore del resistente, nell’importo complessivo di Euro 5.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si da atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 3 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2016


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 10-12-2015) 02-02-2016, n. 2047

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente – Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere – Dott. CIGNA Mario – Consigliere – Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere – Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente: ordinanza sul ricorso 22318-2013 proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis; – ricorrente – e contro L.C.; – intimato – avverso la sentenza n. 31/02/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO del 14/11/2012, depositata il 18/02/2013; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/12/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in Cancelleria la relazione di seguito integralmente trascritta;

L’Agenzia delle Entrate ricorre contro il sig. L.C. per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, riformando la decisione di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva rettificato i redditi del contribuente per l’anno 2005. In particolare, per quanto qui interessa la Commissione Tributaria Regionale ha disatteso l’eccezione dell’Ufficio di tardività del ricorso introduttivo del contribuente. In proposito il giudice territoriale ha accertato in fatto che il plico postale contenente l’atto impostavo era stato ritirato dal contribuente presso l’ufficio postale in data 4.1.2011 e quindi ha affermato che questa (e non la data – anteriore – in cui era spirato il termine di dieci giorni dall’invio della raccomandata contenente l’avviso di giacenza) era la data a cui ancorare il dies a quo del termine per l’impugnazione.

Il ricorso dell’Agenzia si fonda su un solo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con il quale si denuncia la violazione della L. n. 890 del 1982, artt. 8 e 14, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, nonché la falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6 in cui sarebbe incorso il giudice territoriale. Secondo la difesa erariale la decisione gravata violerebbe la disposizione, contenuta nella L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, alla cui stregua “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”. La doglianza appare fondata, con le seguenti precisazioni.

Va premesso che, secondo quanto riferisce la stessa ricorrente a pag. 9 del ricorso, per la notifica dell’atto impugnato l’Ufficio si avvalse della possibilità di procedere alla notifica diretta per posta L. n. 890 del 2002, ex art. 14. Nella specie non è quindi direttamente applicabile il disposto della L. n. 890 del 2002, art. 8, giacché, come questa Corte ha chiarito nella sentenza n. 17598/10, nel caso di notifica per posta effettuata direttamente dall’Ufficio, “il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata, alle quali, pertanto, non si applicano le disposizioni della L. n. 890 del 1982, concernenti le sole notificazioni effettuate a mezzo posta tramite gli ufficiali giudiziali (o, eventualmente, i messi comunali e i messi speciali autorizzati), bensì le norme concernenti il servizio postale ordinario”.

Peraltro il regolamento del servizio di recapito adottato con D.M. 1 ottobre 2008, contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere che gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate) che non sia stato possibile recapitare per assenza del destinatario o di altra persona abilitata al ritiro vengano consegnati presso l’ufficio postale di distribuzione (art. 24), ove i medesimi rimangono in giacenza per trenta giorni a decorrere dal giorno successivo al rilascio dell’avviso di giacenza (art. 25); nessuna disposizione di detto regolamento contiene – né, in considerazione dell’oggetto del regolamento, avrebbe ragione di contenere – una regola (analoga a quella dettata in materia di notifiche effettuate a mezzo posta dalla L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4) sul momento in cui si debba ritenere pervenuto al destinatario un atto che l’agente postale abbia depositato in giacenza presso l’ufficio postale a causa della impossibilità di recapitarlo per l’assenza del medesimo destinatario o di altra persona abilitata. Sotto altro aspetto, non pare possibile evocare, nella specie, il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che la data a cui si ritiene pervenuta al destinatario una comunicazione trasmessa per posta raccomandata ordinaria va individuata in quella del rilascio dell’avviso di giacenza, con conseguente irrilevanza del periodo legale del compimento della giacenza e di quello intercorso tra l’avviso di giacenza e l’eventuale ritiro da parte del destinatario (Cass. 6527/03, in tema di comunicazione di licenziamento, Cass. 27526/13, in tema di disdetta del contratto di locazione).

Tale principio, fondato sul disposto degli artt. 1334 e 1335 c.c., concerne l’efficacia da attribuire alla comunicazione degli atti negoziali unilaterali e non si attaglia alla ipotesi di notificazione L. n. 890 del 1982, ex art. 14. Ciò non solo per il rilievo che altro è una comunicazione e altro è una notificazione (quale comunque deve ritenersi, pur in assenza dell’intervento di un agente notificatore, quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 14, il testo del quale letteralmente esordisce con le parole “La notificazione”); ma anche perché il menzionato art. 14 fa riferimento ad atti notificati “al contribuente” e, pertanto, la disciplina del procedimento notificatorio ivi previsto non può essere ricostruita senza considerare la portata del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 1 (Statuto del contribuente), alla cui stregua “l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati.

Ora, se è vero che lo stesso comma fa salve “le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”, è innegabile che, quando una disposizione espressa manchi, il principio di effettiva conoscenza deve orientare l’interprete e, nel caso che ci occupa, non consente di ancorare il momento di perfezionamento della notifica (dal quale decorrono termini, brevi e tassativi, per l’impugnazione degli atti impositivi) al compimento di un adempimento – il rilascio dell’avviso di giacenza – nel qual è certo che il destinatario dell’atto non ne ha conoscenza (non essendo stato reperito dall’agente postale) incolpevolmente (non avendo ancora avuto la possibilità di recarsi a ritirare l’atto presso l’ufficio postale).

Una ricostruzione del sistema che trasponga alla notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14 i principi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla presunzione di conoscenza degli atti ricettizi risulterebbe dunque irrimediabilmente in contrasto con l’art. 24 Cost. (cfr. C. cost. n. 346/98: “la funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddicono e l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza dalla abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazioni…..non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli.”).

Per converso non appare convincente la soluzione, adottata nella sentenza gravata, di ancorare il momento del perfezionamento della notifica al ritiro dell’atto presso l’Ufficio postale; ciò non solo perché in tal modo si rimetterebbe al destinatario la scelta del momento da cui far decorrere il termine di impugnazione dell’atto notificato, ma soprattutto perché il “bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario” a cui fa riferimento lo stralcio sopra trascritto della sentenza della Corte costituzionale n. 346/98 non consente di comprimere l’interesse del notificatore al punto da consentire al destinatario dell’atto di impedire gli affetti della notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14, omettendo di recarsi a ritirare l’atto presso l’ufficio postale. Si ritiene quindi, in definitiva, che il suddetto bilanciamento debba rinvenirsi facendo applicazione – non diretta ma analogica – della regola dettata nella L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; peraltro, poiché il citato regolamento del servizio di recapito adottato non prevede la spedizione di una raccomandata contenete l’avviso di giacenza, ma soltanto, all’art. 25, il “rilascio dell’avviso di giacenza”, la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della notifica L. n. 890 del 1982, ex art. 14, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, è quella che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza (o, nel caso o in cui l’agente postale abbia, ancorché non tenuto, trasmesso l’avviso di giacenza tramite raccomandata, dalla data di spedizione di quest’ultima), ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore. Poiché la sentenza gravata ha fatto applicazione della diversa regola secondo cui la notificazione si avrebbe per eseguita dalla data del ritiro del piego, anche se posteriore al decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata contenete l’avviso di giacenza, la stessa va cassata con rinvio (non è possibile procedere in sede di legittimità al diretto esame degli atti, di carattere extraprocessuale, relativi alla notifica dell’atto impositivo). Si propone la cassazione con rinvio della sentenza gravata. Che il contribuente non si è costituito in questa sede; che la relazione è stata notificata alla ricorrente; che non sono state depositate memorie difensive; che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide gli argomenti esposti nella relazione; che, pertanto, il ricorso va accolto e la sentenza gravata va cassata con rinvio al giudice territoriale, che si atterrà al principio di diritto enunciato nella relazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza gravata e rinvia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che regolerà anche le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2016


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 11/11/2015) 26/01/2016, n. 1351

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5556/2013 proposto da:

P.S. c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CONCA D’ORO 184/190, presso lo studio dell’avvocato DISCEPOLO Maurizio, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contor AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA “OSPEDALI RIUNITI UMBERTO I, G.M. LANCISI, G. SALESI” di ANCONA, p.i. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORVIETO 1, presso lo studio dell’avvocato VENTURA Francesco, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1260/2012 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 10/12/2012 R.G.N. 637/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2015 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato VENTURA FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Ancona, P.S. deduceva di aver prestato servizio presso l’Azienda Ospedaliera Umberto I, quale ausiliario specializzato area socio assistenziale, dapprima con contratto a tempo determinato dal 10.9.1998 al 30.4.1999, e quindi, presso l’Azienda Ospedaliera G.M. Lancisi di Ancona con contratto a tempo indeterminato dall’8.8.2002 al 31.12.2003, mentre a decorrere da 1.1.2004 era passata alle dipendenze dell’Azienda Opedaliero Universitaria Ospedali Riuniti “Umberto I – G. Lancisi – G. Salesi” di Ancona, conservando la qualifica di ausiliario specializzato.

Deduceva la ricorrente che in data 15 aprile 2011 aveva ricevuto una lettera di contestazione degli addebiti nella quale la si metteva a conoscenza del fatto che il Dirigente Professioni Sanitarie Area Infermieristica ed Ostetrica, a seguito del certificato medico presentato il 26.3.2011, redatto dal Dott. Pe.Al., aveva “provveduto a richiedere conferma al medico estensore circa l’avvenuta correzione manuale della prognosi da due a tre giorni”.

Le si comunicava che il Dott. Pe., con nota del 11.4.2011 aveva dichiarato che il certificato recava correzioni non apportate dal medico personalmente al momento della compilazione. Nella nota si aggiungeva che “il comportamento da lei tenuto non è osservante delle disposizioni vigenti in materia di corretta giustificazione dell’assenza dal servizio, in quanto è stata prodotta una certificazione che attesta falsamente lo stato di malattia”.

La sig.ra P. chiedeva quindi di essere ascoltata personalmente e dichiarava di non aver in passato mai corretto un certificato medico; aggiungeva di trovarsi in un momento di particolare difficoltà personale, di aver agito impulsivamente apponendo una correzione senza riflettere sulle conseguenze del gesto e sulla gravità del fatto, anche considerato lo stato ansioso depressivo da cui era affetta e che documentava con certificazione medica.

L’azienda ospedaliera, in data 1.6.11, infliggeva alla ricorrente la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso “visto il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 55 quater, comma 1, lett. A) e comma 3; visto altresì l’art. 14, comma 2, lett. H) del vigente regolamento di disciplina, approvato con determina n. 290/G del 23.7.2010, che prevede in particolare l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altra modalità fraudolenta, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.

Il licenziamento veniva impugnato dalla ricorrente con ricorso al Tribunale di Ancona, con cui lamentava la violazione del divieto degli automatismi espulsivi e del principio della gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla infrazione commessa sotto i profili soggettivo e oggettivo (in via subordinata con richiesta di rimessione alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater); violazione del predetto art. 55 quater; della L. n. 604 del 1966, art. 1, per mancanza di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

Resisteva l’azienda ospedaliera. Il Tribunale respingeva la domanda con sentenza del 2.7.12, che veniva appellata dalla P., riproponendo le medesime censure; resisteva la datrice di lavoro.

Con sentenza depositata il 10 dicembre 2012, la Corte d’appello di Ancona rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la lavoratrice, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste l’azienda ospedaliera con controricorso.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo della causa, oltre ad illogica motivazione della sentenza impugnata.

Lamenta che la sentenza impugnata aveva omesso di esaminare la natura dolosa o meno del comportamento, il cui onere probatorio gravava sulla datrice di lavoro. Evidenzia che al fine di valutare la legittimità del licenziamento è necessario accertare, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta: 1) se la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone ne proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore (Cass. n. 4060/2011; Cass. 23 aprile 2004 n. 7724; Cass. 23 aprile 2002 n. 5943); 2) che l’irrogazione della massima sanzione disciplinare è giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 24 luglio 2006 n 16864; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994); 3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo); 4) che sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova dei dolo;

e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente.

Lamenta che la valutazione dei fatti, pur rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, non si sottrae al controllo di legittimità ove non adeguatamente motivata e non sia frutto di un bilanciamento tra le esigenze imprenditoriali di cui all’art. 41 Cost. e della proporzionalità della sanzione.

2.- Con il secondo motivo la lavoratrice denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè la piena capacità di intendere e volere della P. al momento della commissione del fatto, anche alla luce della documentazione sanitaria inerente il suo stato depressivo.

3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, in relazione agli artt. 4 e 41 Cost., per prevedere la norma in questione un automatismo della più grave delle sanzioni, senza alcun intervento valutativo dell’amministrazione nei profili soggettivi della responsabilità, in contrasto con i principi desumibili da Corte Cost. 9.7.1999 n. 286, e dall’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs n. 165 del 2001, art. 55, comma 2.

4.- I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Ed invero, come esattamente rilevato dalla Corte territoriale, sebbene debba condividersi la tesi dell’illegittimità, in via astratta (come del resto in più occasioni affermato dal Giudice delle leggi, cfr. C. Cost. n. 971/88, n. 239/96 e n. 286/99), di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari (specie laddove queste consistano nella massima sanzione) in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, così come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (giusta il perdurante richiamo all’art. 2106 c.c., da parte dell’art. 55, comma 2), e pur dovendosi qui rimarcare che la proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative L. n. 689 del 1981, ex art. 11, etc.), trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo in definitiva possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente consequenziali ad illeciti disciplinari, deve rilevarsi che nella specie la Corte di merito ha adeguatamente motivato circa la sussistenza nel caso esaminato di tale proporzionalità, ritenendo sussistente il dolo nella volontaria falsificazione del certificato da consegnare al datore di lavoro, con aumento della prognosi di malattia da due a tre giorni al fine di aumentare l’assenza per malattia, e dunque la proporzionalità della sanzione a fronte di un comportamento gravemente fraudolento, tale da minare la fiducia del datore di lavoro sui futuri adempimenti.

Deve peraltro rimarcarsi che anche in tema di giusta causa di licenziamento, invocata dalla ricorrente nel primo motivo, questa Corte ha affermato che l’art. 2119 c.c., configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa tuttavia la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.

Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria (Cass. 12.8.09 n. 18247).

Se è poi pur vero che nel caso in esame la massima sanzione è tipizzata dalla legge (art. 55 quater) e che, per le ragioni viste, ciò non di meno anche tale previsione è sindacabile alla luce del principio di civiltà giuridica del canone di proporzionalità della sanzione, resta che anche in tal caso l’accertamento in concreto della giustificatezza del licenziamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto, come nella specie, da motivazione congrua e immune da vizi (e plurimis, Cass. 17 maggio 2012 n. 7751, Cass. 26 gennaio 2011 n. 1788; Cass. 8 gennaio 2008 n. 144; Cass. n. 11674/2005).

In tal senso, ed in analoga fattispecie, si è già pronunciata questa Corte con sentenza 6.6.14 n. 12806, ove, evidenziata la coincidenza (come nel caso in esame) della condotta contestata rispetto alla previsione di legge (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater), è stato considerato che, anche dal punto di vista soggettivo, il comportamento risultava grave in base alla congrua motivazione dalla sentenza impugnata.

Nel caso oggi in esame la Corte territoriale ha logicamente valutato la gravita del fatto e la sua idoneità a minare la fiducia del datore di lavoro in ordine ai futuri adempimenti della dipendente, escludendo inoltre, con adeguata motivazione, che la presenza di uno stato ansioso depressivo, di cui la ricorrente soffriva da molti anni e specie in assenza di qualsivoglia prova circa la commissione del falso in un momento di acuzie della malattia, potesse escludere l’incapacità di intendere e di volere al momento della commissione dell’illecito.

Il vizio motivo, di cui alla seconda censura, risulta dunque insussistente, specie alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti da testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di altri elementi istruttori non integra invece di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (Cass. sez. un. 22 settembre 2014 n. 19881), così come avvenuto nella specie.

4.1- Non può infine essere accolta la censura contenuta in ricorso circa l’illegittimità del Regolamento di disciplina dell’azienda ospedaliera datrice di lavoro, ovvero la sua possibile interpretazione come preclusiva della regola dell’automatismo della sanzione disciplinare alla luce del più volte citato art. 55 quater di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009.

Sotto il primo profilo la censura è inammissibile, posto che il Regolamento non risulta prodotto, in contrasto con l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nè ne viene riprodotto il testo ritenuto rilevante in ricorso, in contrasto col principio di autosufficienza; sotto il secondo profilo la censura risulta infondata alla luce delle precedenti considerazioni in tema di automatismo delle sanzioni e del perdurante principio di proporzionalità delle sanzioni, il cui giudizio è tuttavia rimesso al giudice del merito che, se logicamente motivato, risulta insindacabile in sede di legittimità.

5.- Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2016


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 01/12/2015) 30/12/2015, n. 26088

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4678-2009 proposto da:

G.N., G.F. in proprio difeso da se medesimo, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BALDO DEGLI UBALDI 66, presso lo studio dell’avvocato RINALDI GALLICANI SIMONA, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO GHIRALDI giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SIRMIONE;

– intimato –

nonchè da:

COMUNE DI SIRMIONE in persona del Sindaco in carica, elettivamente domiciliato in ROMA VIA M. PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato RAMADORI PAOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato LOVISETTI MAURIZIO giusta delega in calce;

– controricorrente incidentale –

contro

G.N., G.F. in proprio difeso da se medesimo, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BALDO DEGLI UBALDI 66, presso lo studio dell’avvocato RINALDI GALLICANI SIMONA, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO GHIRALDI giusta delega a margine;

– controricorrenti all’incidentale –

avverso la sentenza n. 12/2009 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di BRESCIA, depositata il 19/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/2015 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. di Brescia, ha respinto l’appello proposto da G.F., in proprio e in rappresentanza del figlio N., avverso la sentenza della locale commissione tributaria provinciale che, previa riunione, aveva dichiarato inammissibili cinque ricorsi contro altrettanti avvisi di accertamento in materia di lei, notificati dal comune di Sirmione.

La commissione tributaria regionale ha confermato la statuizione di inammissibilità osservando che i ricorsi erano in effetti da considerare tardivi, essendo stati gli accertamenti notificati per compiuta giacenza il 7 gennaio 2007 e i ricorsi a loro volta notificati nel successivo mese di giugno.

Il contribuente, in proprio e nella riferita qualità, ha proposto ricorso per cassazione basato su due motivi. Il comune di Sirmione ha resistito con controricorso e proposto, a sua volta, ricorso incidentale condizionato affidato a un motivo.

Il ricorrente principale ha depositato controricorso in replica al ricorso incidentale e, successivamente, una memoria.

Motivi della decisione
1. – Col primo motivo del ricorso principale è dedotta la violazione dell’art. 149 cod. proc. civ., L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, e L. n. 556 del 1996, art. 21, in quanto, atteso il principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e il destinatario, sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 477 del 2002, occorreva nella specie considerare che l’esito della notifica degli avvisi di accertamento si era avuto col ritiro del piego raccomandato il 12-4-2007; sicchè i ricorsi, essendo stati notificati l’8-6-2007, avrebbero dovuto esser considerati tempestivi.

2. – Il motivo, ove non inammissibile in relazione al prospettato quesito, che invero non si rinviene a conclusione della disamina, essendo stato il motivo concluso dalla enunciazione mera di un ipotizzabile principio di diritto, è comunque manifestamente infondato.

Contrariamente a quanto dal ricorrente sostenuto, la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 477 del 2002, per quanto introducendo nel sistema il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione a seconda che l’effetto rilevi per il notificante o per il destinatario, si è limitata a stabilire l’incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

La declaratoria non rileva affatto nel caso di specie, posto che viene qui in considerazione il problema esattamente opposto, vale a dire il problema del momento perfezionativo della notificazione dell’atto per il destinatario onde computare il termine di decadenza dell’impugnazione.

3. – Per ciò che attiene al destinatario, occorre far riferimento, nella notificazione a mezzo posta, alla L. n. 890 del 1982, art. 8, che detta la disciplina specifica per i casi in cui l’agente postale non possa recapitare il plico per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone legittimate a riceverlo.

Appare opportuno rammentarne i passaggi procedimentali, al fine di evidenziare in cosa consista l’errore interpretativo del ricorrente.

La norma citata prevede che nelle evenienze suddette il piego sia depositato lo stesso giorno presso l’ufficio postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza e che del tentativo di notifica del piego e del suo deposito sia data notizia al destinatario, a cura dell’agente postale preposto alla consegna, mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

L’avviso deve contenere l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell’ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell’indirizzo dell’ufficio postale o della sua dipendenza presso cui il deposito è stato effettuato, nonchè l’espresso invito al destinatario a provvedere al ricevimento del piego a lui destinato mediante ritiro dello stesso entro il termine massimo di sei mesi, “con l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l’atto sarà restituito al mittente”.

Trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma della norma appena detta, senza che il destinatario o un suo incaricato ne abbia curato il ritiro, l’avviso di ricevimento è poi restituito al mittente in raccomandazione con annotazione in calce, sottoscritta dall’agente postale, della data dell’avvenuto deposito e dei motivi che l’hanno determinato, dell’indicazione “atto non ritirato entro il termine di dieci giorni” e della data di restituzione.

E trascorsi sei mesi dalla data in cui il piego è stato depositato nell’ufficio postale o in una sua dipendenza senza che il destinatario o un suo incaricato ne abbia curato il ritiro, il piego stesso è restituito al mittente in raccomandazione con annotazione in calce, sottoscritta dall’agente postale, della data dell’avvenuto deposito e dei motivi che l’hanno determinato, dell’indicazione “non ritirato entro il termine di centottanta giorni” e della data di restituzione.

4. – In base alla disposizione introdotta, nel testo della norma, dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, “la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”.

Ne consegue che è inesatto sostenere che, in esito al principio di scissione soggettiva, il momento di perfezionamento della notificazione eseguita per posta sia sempre correlato, quanto al destinatario, alla materiale consegna dell’atto. Ciò accade nei casi in cui la materiale consegna (id est, propriamente, il ritiro) sia anteriore ai dieci giorni. Non anche invece nei casi in cui l’atto sia notificato per compiuta giacenza e il ritiro sia avvenuto dopo il decorso del termine detto dalla spedizione della raccomandata informativa, giacchè la notifica si ha giustappunto per eseguita “in ogni caso”, quanto al destinatario, decorsi dieci giorni dalla data di spedizione di quella raccomandata.

Onde rigettare il motivo di ricorso è allora sufficiente considerare che il ricorrente non ha mosso rilievo all’affermazione dell’impugnata sentenza circa il fatto che gli avvisi erano stati notificati “per compiuta giacenza, il 7 gennaio 2007”. In particolare non ha mosso rilievo alla circostanza che la notificazione per compiuta giacenza fosse valida in ragione dell’avvenuta successiva spedizione della raccomandata informativa. Egli ha insistito nel sostenere semplicemente che, essendo stato il plico in effetti ritirato il 12-4-2007 (nei sei mesi dalla data di deposito), la notifica dovevasi ritenere perfezionata, nei propri confronti, al momento del ritiro.

Ma questo è infondato giacchè, appunto, nei casi dianzi indicati, la notifica si perfeziona “in ogni caso” al decorso dei dieci giorni dal data di spedizione della raccomandata informativa.

5. – Col secondo motivo del ricorso principale è dedotta un’omessa motivazione su fatto controverso; fatto che sarebbe identificabile in quanto dedotto a suo tempo col secondo motivo del proposto appello.

Il motivo è inammissibile perchè non concluso dalla prescritta sintesi contenente la specificazione del fatto controverso, decisivo, in rapporto al quale andrebbe ritenuto il vizio di omessa motivazione.

6. – Consegue l’assorbimento del ricorso incidentale.

Spese alla soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale, e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella misura di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 1 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 10/12/2014) 30/12/2015, n. 26053

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.P., + ALTRI OMESSI rappresentati e difesi dall’avv. Lucisano Claudio, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma in via Crescenzio n. 91;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Rema alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente in rgn. 2597 del 2012 e resistente in rgn. 26357 del 2012 –

e EQUITALIA NORD (già Equitalia Esatri) spa, rappresentata e difesa dall’avv. Giuseppe Fiertler ed elettivamente domiciliata in Roma presso l’avv. Salvatore Torrisi alla via Federico Cesi n. 31;

– controricorrente in rgn. 2597 del 2012 –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 180/7/10, depositata il 30 novembre 2010;

ed avverso il diniego di definizione della lite pendente prot.

2012/101654 del 6 agosto 2012, notificato il 10 agosto 2012;

Udita la relazione delle cause svolta nella pubblica udienza del 10 dicembre 2014 dal Relatore Cons. Antonio Greco;

udita l’avvocato dello Stato Maria Camassa, rispettivamente, per la contro ricorrente e per la resistente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
C.P., + ALTRI OMESSI propongono ricorso per cassazione (rgn. 2597/12), sulla base di nove motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha confermato la fondatezza della pretesa manifestata con la cartella di pagamento, notificata il 30 luglio 2007, relativa all’avviso di liquidazione, notificato nel settembre 2002, emesso a seguito della sentenza della CTP di Milano del 21 aprile 1998, divenuta definitiva, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento ai fini dell’INVIM in relazione all’acquisto di un terreno edificabile sito nel Comune di Varese.

L’Agenzia delle entrate e la spa Equitalia Nord resistono con distinti controricorsi.

I contribuenti, successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione di cui si è detto, presentavano domanda di definizione della lite pendente ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, come convertito, domanda che veniva respinta dall’ufficio perchè “non valida”, atteso che la controversia “riguarda una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di liquidazione non impugnato e, pertanto, non è definibile. Inoltre la controversia ha un valore superiore ad Euro 20.000 e, quindi, non rientrerebbe, comunque, tra quelle per le quali non è prevista la definizione della lite”.

Avverso tale diniego i signori C. hanno presentato a questa Corte, dinanzi alla quale la lite era appunto pendente, ricorso (rgn. 26357/12) ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, comma 8.

L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione al fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
I ricorsi, siccome relativi al medesimo giudizio, vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia.

L’esame dell’impugnazione del diniego di definizione della lite pendente per ragioni logiche deve precedere.

I primi quattro motivi di tale ricorso sono infondati, in quanto correttamente il provvedimento rileva come la controversia “riguarda (l’impugnazione di) una cartella di pagamento…”, e non come dedotto dai contribuenti – che il ricorrente “non ha definito la cartella esattoriale”; quanto alla comunicazione e notificazione del diniego, è incontroverso che esse siano intervenute tempestivamente, vale a dire entro il 30 settembre 2012, come previsto dalla legge; il quinto motivo è inammissibile, in quanto concernente ipotesi, non ricorrenti nella specie, di liquidazione del tributo in base alla dichiarazione; il sesto motivo è inammissibile, in quanto l’indicazione del valore della lite è nel provvedimento ultronea (“inoltre …”), rispetto alla precedente ragione di esclusione (“la controversia riguarda una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di liquidazione non impugnato e, pertanto, non è definibile”); sono infondati il settimo e l’ottavo motivo, con i quali si assume che il solo Direttore centrale dell’Agenzia delle entrate avrebbe il potere di sottoscrivere il provvedimento in ordine all’istanza di condono, ovvero un soggetto con qualifica dirigenziale: lo stesso D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 39, comma 12, lettera d), infatti, fa in proposito riferimento solo a “gli uffici competenti” e a “la comunicazione degli uffici”, laddove alla successiva lett. f), in relazione alla determinazione delle modalità di versamento, il legislatore ha inteso prescrivere esplicitamente “provvedimenti del direttore dell’agenzia delle entrate”. Quanto infine al dedotto vizio della notifica del diniego, i contribuenti con l’impugnazione dell’atto e con le difese spiegate hanno dimostrato di averne piena conoscenza, con conseguente sanatoria di un eventuale vizio, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., applicabile nella materia tributaria anche agli atti non processuali.

Il ricorso è pertanto complessivamente infondato, sicchè occorre passare all’esame delle censure rivolte con il ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR della Lombardia.

Il primo motivo, con il quale si chiede pronuncia di estinzione per intervenuto condono, si rivela privo di pregio, essendo stata respinta, come si è visto sopra, la domanda di definizione formulata ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12.

Con il secondo motivo i contribuenti si dolgono che l’Agenzia delle entrate non abbia proposto l’appello anche nei confronti dell’agente per la riscossine, presente in primo grado, il quale pure aveva poi autonomamente proposto appello.

Il motivo è infondato, ove si consideri che il concessionario per la riscossione, infatti, “a parte l’esercizio dei poteri propri, volti alla riscossione delle imposte iscritte nel ruolo, nell’operazione di portare a conoscenza del contribuente il ruolo, dispiega una mera funzione di notifica, ovverosia di trasmissione al destinatario del titolo esecutivo così come, salva l’ipotesi di errore materiale, formato dall’ente e, pertanto, non è passivamente legittimato a rispondere di vizi propri del ruolo, come trasfuso nella cartella” (Cass. n. 933 del 2009).

Col terzo motivo i contribuenti censurano la decisione, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per aver ritenuto legittimo, da parte dell’ufficio, l’impiego del messo speciale per la notificazione dell’appello.

Il motivo è infondato, alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale nel processo tributario “il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16 ha natura di norma generale e regola le modalità delle notificazioni degli atti del processo tributario, dettando una disciplina speciale sia per il contribuente sia per gli organi dell’Amministrazione tributaria; il comma 4 della cit.

disposizione ha per oggetto solo atti dell’Amministrazione tributaria, prevedendo un’ulteriore modalità di notificazione a disposizione degli uffici pubblici, che consiste nella possibilità di avvalersi di messi comunali o di messi autorizzati. Tale regola, per ragioni, non tanto letterali, quanto logiche e sistematiche, si applica anche alla notificazione del ricorso in appello: applicando detto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della commissione tributaria regionale che aveva invece dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate perchè curato non dall’ufficiale giudiziario bensì dal messo speciale” (tra le altre, Cass. n. 23618 del 2011).

Con il quarto motivo assumono che l’avviso di liquidazione alla base della cartella di pagamento impugnata sarebbe stato emesso oltre il termine di decadenza fissato.

Il rilievo è inammissibile in quanto, posto che è incontroversa la regolare notificazione dell’avviso di liquidazione, in sede di impugnazione della successiva cartella di pagamento è possibile dedurre solo vizi propri della cartella stessa.

Con il quinto motivo, assumono che dovrebbe distinguersi fra vizi della cartella di pagamento e vizi dell’iscrizione a ruolo.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito dell’autosufficienza, in quanto, posto che l’iscrizione a ruolo non ha un rilievo esterno autonomo, acquistandolo solo con la notificazione della cartella di pagamento, i contribuenti non indicano il vizio dell’iscrizione a ruolo che sarebbe deducibile impugnando il prodromico avviso di liquidazione, atto che, all’evidenza, svolge nel procedimento una diversa funzione.

Con il sesto motivo assumono che il ruolo non sarebbe motivato, perchè, in luogo di richiamare “il primo atto ad esso presupposto, vale a dire l’avviso di liquidazione, richiami l’atto a quest’ultimo presupposto, vale a dire l’avviso di rettifica.

Il motivo è infondato, in quanto, come si legge nella sentenza impugnata, “la cartella contiene esplicito riferimento all’atto cui si riferisce la richiesta, nonchè alla sentenza emessa dalla CT che ha reso definitivo l’accertamento in quanto non impugnato. Sulla base di questi dati i contribuenti erano in grado di conoscere perfettamente la pretesa erariale”.

Con il settimo motivo assumono che vi sarebbe una duplicazione delle somme richieste, sulla base, da una parte dell’avviso di rettifica, e dall’altra parte, dell’avviso di liquidazione.

Il motivo è infondato, in quanto, come chiarito dal giudice d’appello, “il ruolo e la conseguente cartella sono stati formati a seguito dell’avvenuta definitività dell’accertamento e del mancato pagamento dell’imposta complementare portata dall’avviso di liquidazione, atto non impugnato.

L’ottavo motivo, con il quale ci si duole della mancata i sottoscrizione del ruolo da parte del capo dell’ufficio, incorre nello stesso errore commesso con il quinto motivo, perchè non considera che l’iscrizione a ruolo non ha un autonomo rilievo esterno, essendo “portata” dalla cartella di pagamento, la quale deve essere notificata al contribuente, e per la quale non è prescritta la sottoscrizione del titolare dell’ufficio. Questa Corte ha in proposito chiarito che “in tema di riscossione delle imposte sul reddito, la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacchè l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge” (tra le altre, Cass. n. 13461 del 2012). A norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25 poi, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice.

Per le ragioni esposte con riguardo al settimo ed all’ottavo motivo, è inammissibile il nono motivo del ricorso, con il quale si lamenti il mancato esame del dedotto “vizio relativo alla sottoscrizione del ruolo da parte di un soggetto privo di qualifica dirigenziale”.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte, riunito al presente il ricorso rgn. 26357 del 2012, rigetta i ricorsi.

Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, liquidate in Euro 6.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito in favore dell’Agenzia delle entrate, ed in Euro 4.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, in favore di Equitalia Nord spa.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2015


Cass.Civ. Sez. Unite, Sent., 09-12-2015, n. 24822

I diversi momenti in cui si considera avvenuta la notificazione di un atto per il notificante e per il notificando.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24822 del 9 dicembre 2015, hanno risolto una questione molto dibattuta relativa al termine di prescrizione di un diritto che può essere esercitato solo attraverso l’adozione di un atto processuale.

La questione sottostante riguarda i diversi momenti in cui si considera avvenuta la notificazione di un atto per il notificante e per il notificando, c.d. principio di “scissione”.

Tale principio, derivante dalla nota sentenza della Corte Cost. n. 477/2002, considera avvenuta la notifica per il primo al momento della consegna dell’atto all’ufficio notificante, e per il secondo al momento della ricezione dell’atto, salvaguardando entrambe le ragioni di tempestività dell’esercizio del diritto e di conoscenza dell’atto.

Ma tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali diretti a una persona determinata, per i quali vi è lo sbarramento dell’art. 1334 che ne ricollega l’efficacia alla conoscenza del destinatario (o conoscibilità).

Ma proprio questo è il punctum dolens: quando un diritto, per evitarne la prescrizione, può essere esercitato solo attraverso il compimento di un atto processuale (nel caso notificazione della citazione per revocatoria), tale atto è, e resta, di natura processuale, pur producendo un effetto sostanziale (costituzione in mora), quello cioè di interrompere il termine di prescrizione per l’esercizio del diritto.

Quindi le Sezioni Unite criticano l’interpretazione prevalente che vede nell’atto di esercizio dell’azione revocatoria un atto sostanziale al quale non può estendersi il principio della scissione degli effetti della notifica per il notificante e per il notificando.

Di conseguenza, se la prescrizione può essere evitata solo attraverso l’esercizio del diritto, deve considerarsi esercizio del diritto anche quello di notifica della citazione contenente domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. quando questo costituisce l’unico mezzo di esercizio del relativo diritto e gli effetti della notifica si compiranno per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficio notificante entro il termine assegnatogli dalla legge, e per il notificando al momento della ricezione dell’atto, senza alcun sacrificio delle ragioni di quest’ultimo perché saranno assicurati sia la certezza dei rapporti giuridici sia il diritto di difesa, entrambi sotto il più ampio principio di ragionevolezza che deve permeare ogni regola diretta a dirimere contrapposti interessi.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 09-12-2015, n. 24822

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. – Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione – Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere – Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere – Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere – Dott. DI IASI Camilla – Consigliere – Dott. PETITTI Stefano – Consigliere – Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere – Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

– ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 3973/2012 proposto da: A.P. (OMISSIS), A.V. (OMISSIS), L.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SILLA 28, presso lo studio dell’avvocato CARMINE COSENTINO, rappresentati e difesi dall’avvocato VERGA ANGELO, per delega a margine del ricorso; – ricorrenti

– contro COMUNE DI CASSANO MAGNAGO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, rappresentato e difeso dall’avvocato DE NORA LUCA, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente – e contro LATERE S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, EDIL ADELIA S.A.S DI BALDAN FLORIANO & C., P.A. in proprio e nella qualità di titolare della Immobiliare Romina, M.D., MA.LU., S. A.;

– intimati

– avverso la sentenza n. 2098/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 12/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/07/2015 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

uditi gli avvocati Angelo VERGA, Giovanni CORBYONS per delega dell’avvocato Luca De Nora;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso.

Svolgimento del processo

A.P. e V. ed L.A. convennero, davanti al tribunale di Busto Arsizio, le società Latere s.r.l. in liquidazione ed Edil Adelia s.a.s. di Floriano Baldan & e, il Comune di Cassano Magnago, P.A., in proprio e nella qualità di legale rappresentante dell’impresa individuale immobiliare Romani di P.A., M.D., Ma.Lu. ed S. A., chiedendo, in qualità di confideiussori della Latere s.r.l., già intimati in regresso da altro fideiussore, che la società fosse dichiarata tenuta, ex artt. 1950 e 1953 c.c., a procurare la loro liberazione, ovvero ad apprestare le garanzie necessarie al soddisfacimento del loro diritto di ulteriore regresso.

Gli attori chiesero, inoltre, che fosse pronunciata, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’inefficacia, nei loro confronti, dell’atto del 17 novembre 1999 con il quale la Latere s.r.l. aveva venduto alla Edil Adelia s.a.s. alcuni terreni edificabili siti nel Comune di Cassano Magnago e della convenzione edilizia conclusa tra la società acquirente e l’Amministrazione comunale per la realizzazione di un programma edificatorio, nonché il risarcimento dei danni. Il Tribunale rigettò la domanda ex artt. 1950 e 1953 c.c., proposta nei confronti della società Latere s.r.l.; dichiarò prescritta l’azione revocatoria relativa alla compravendita immobiliare del 17 novembre 1999 tra la Latere s.r.l. e la Edil Adelia s.a.s.; dichiarò la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in ordine all’azione revocatoria relativa alla convenzione edilizia; rigettò la richiesta di risarcimento danni.

Queste statuizioni furono confermate dalla Corte di Appello di Milano che, con sentenza del 12.7.2011, rigettò l’appello proposto dagli originari attori. Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria A.P. e V. ed L.A.. Resiste con controricorso il Comune di Cassano Magnago. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

La Terza Sezione Civile della Corte di cassazione, con ordinanza del 26.1.2015, emessa all’esito dell’udienza del 6.11.2014, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Il Primo Presidente ha provveduto in tal senso.

Il ricorso è stato chiamato alla presente udienza davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Motivi della decisione

1. La questione posta dall’ordinanza di rimessione. La questione riguarda i limiti di estensione del principio della diversa decorrenza degli effetti della notificazione nelle sfere giuridiche, rispettivamente, del notificante e del destinatario.

E’ chiesto un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sui limiti di operatività del principio: se debba, cioè, essere riferita ai soli atti processuali, o possa essere ampliata alla notificazione di atti sostanziali od, eventualmente, di atti processuali che producano effetti anche sostanziali.

Il quesito è relativo alla notificazione dell’atto di citazione in revocatoria ed, in particolare, quel che si tratta di individuare è il momento di interruzione della prescrizione ex art. 2903 c.c..

Il problema, quindi, riguarda l’estensione del principio della differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario.

La portata della regola – che è stata introdotta nell’ordinamento dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 e che, successivamente, è stata recepita dal legislatore nell’art. 149 c.p.c., – è stata circoscritta da numerose decisioni della Corte di Cassazione.

Per Cass. n. 9303 del 2012, la regola della differente decorrenza degli effetti della notificazione non trova applicazione in tema di esercizio del diritto di riscatto dell’immobile locato da parte del conduttore ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 39.

Nella decisione è stato sottolineato il carattere ricettizio della dichiarazione di riscatto, affermando che “affinché possa operare la presunzione di conoscenza della dichiarazione diretta a persona determinata stabilita dall’art. 1335 cod. civ., occorre la prova, il cui onere incombe al dichiarante, che la stessa sia stata recapitata all’indirizzo del destinatario, e cioè, nel caso di corrispondenza, che questa sia stata consegnata presso tale indirizzo”.

Ai fini dell’operatività della presunzione è stato quindi ritenuto insufficiente un tentativo di recapito ad opera dell’agente postale, tutte le volte in cui questo, ritenuto – sia pure a torto – il destinatario sconosciuto all’indirizzo indicato nella raccomandata, ne abbia disposto il rinvio al mittente, stante la mancanza, in casi siffatti, di ogni concreta possibilità per il soggetto al quale la lettera è diretta, di venirne a conoscenza. Si è segnatamente esclusa la possibilità di richiamare, in senso contrario, la disciplina del recapito delle raccomandate con deposito delle stesse presso l’ufficio postale e rilascio dell’avviso di giacenza, evidenziandosi come, in tal caso, sussista comunque la possibilità di conoscenza del contenuto della dichiarazione, tanto più che questa si ritiene pervenuta all’indirizzo indicato solo dal momento del rilascio dell’avviso di giacenza del plico”.

L’atto con il quale è esercitato il diritto potestativo di riscatto, quindi, si esercita attraverso una dichiarazione unilaterale ricettizia di carattere negoziale, idonea a determinare ex lege l’acquisto dell’immobile a favore del retraente.

Una tale dichiarazione produce i propri effetti solo una volta che sia pervenuta a conoscenza della controparte o, comunque, in base alla presunzione di cui all’art. 1335 c.c., nella sfera di normale conoscibilità della persona interessata.

Secondo la decisione, il principio della scissione soggettiva della notificazione, trovando la sua giustificazione nella tutela dell’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità, è stato implicitamente circoscritto dalla stessa Corte Costituzionale ai soli atti processuali.

L’estensione della regola fuori da tale ambito sarebbe in contrasto con il principio generale di certezza dei rapporti giuridici che, ai fini dell’efficacia degli atti unilaterali ricettizi, richiede la conoscenza o conoscibilità dell’atto da parte della persona interessata.

Eguale regola è affermata da Cass. n. 15671 del 2011 secondo la quale la mera consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto di accettazione della proposta di alienazione del fondo rustico non è idonea a interrompere il decorso del termine prescrizionale per l’esercizio del diritto di riscatto spettante all’affittuario, essendo a questo fine necessario che l’atto sia giunto a conoscenza, ancorché legale e non necessariamente effettiva, del soggetto al quale è diretto.

Altro profilo di intuitiva delicatezza è quello dell’interruzione della prescrizione che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., consegue alla notificazione dell’atto di citazione.

Cass. n. 13588 del 2009, seguendo l’indirizzo prevalente, ha affermato che la consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare non è idonea ad interrompere il decorso del termine prescrizionale del diritto fatto valere.

Ciò perché “il principio generale – affermato dalla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale – secondo cui, quale sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell’affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario, non si estenda all’ipotesi di estinzione del diritto per prescrizione in quanto, perché l’atto, giudiziale o stragiudiziale, produca l’effetto interruttivo del termine, è necessario che lo stesso sia giunto alla conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) del destinatario”.

Negli stessi termini Cass. n. 18759 del 2013.

Secondo l’indirizzo prevalente (pur essendovi decisioni di senso contrario cui si accennerà in seguito; ma sul punto v. anche Cass. n. 18399 del 2009; S.U. n.8830 del 2010) la scissione degli effetti per il mittente e per il destinatario si applica solo alla notifica degli atti processuali e non a quella degli atti sostanziali, né agli effetti sostanziali degli atti processuali.

Questi ultimi, pertanto, producono i loro effetti soltanto dal momento in cui pervengono all’indirizzo del destinatario, a nulla rilevando il momento in cui siano stati consegnati dal notificante all’ufficiale giudiziario od all’ufficio postale.

L’ordinanza, sul presupposto che i valori costituzionali perseguiti con il principio della “scissione” sarebbero insensibili alla natura – processuale o sostanziale – degli effetti dell’atto notificato, propone una serie di argomenti a sostegno della necessità di rimeditare l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, ampliando lo spazio di azione della regola della diversa decorrenza.

Il principio trova la sua giustificazione nella necessità di coordinare la garanzia di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso.

L’ordinanza, poi, si sofferma sulla principale obiezione mossa all’estensione del principio di scissione degli effetti alla notificazione degli atti sostanziali. Nessuna lesione alla certezza del diritto, infatti, potrebbe provocare l’applicazione di una regola che presuppone per la sua piena operatività che il procedimento di notificazione sia portato a regolare compimento, con la piena garanzia di conoscenza (o, quanto meno, di conoscibilità legale) dell’atto da parte del destinatario.

Tale esigenza di certezza, peraltro, si pone in termini analoghi anche in relazione ai soli effetti processuali dell’atto notificato, in ordine ai quali la regola della scissione degli effetti costituisce ormai un punto fermo nel panorama dell’ordinamento positivo.

La posizione giuridica del destinatario, infatti, non risente di maggior incertezza solo perché la diversa decorrenza degli effetti venga fatta operare ai fini sostanziali anziché nell’ambito processuale.

L’orientamento contrario all’estensione della regola agli atti sostanziali – secondo l’ordinanza di rimessione – sarebbe poi immotivato proprio nei casi in cui un effetto sostanziale sia conseguibile soltanto con la notificazione di un atto processuale.

Il riferimento, in particolare, è al termine di prescrizione dell’azione revocatoria, che non potrebbe essere interrotto se non mediante la notificazione dell’atto di citazione.

In queste fattispecie, la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione non è solo un incombente materiale di per sé significativo della cessazione dello stato di protratta inerzia che giustificherebbe altrimenti l’estinzione del diritto, ma rappresenta l’esercizio di un vero e proprio diritto potestativo del creditore al quale corrisponde, in capo al debitore, non già un obbligo di prestazione, ma uno stato di mera attesa e soggezione all’altrui iniziativa giudiziale. In tali evenienze, il creditore deve essere ammesso ad esercitare il suo diritto, usufruendo del termine prescrizionale per intero e non al “netto” dei giorni di ritardo ipoteticamente ascrivibili all’agente notificatore.

Il richiamo al normale carattere recettizio dell’atto unilaterale ex artt. 1334 e 1335 c.c., pertanto, dovrebbe cedere se messo in relazione, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2943 c.c., alla notificazione di un atto che soggiace ad un principio generale la cui ratio è quella di tenere indenne il notificante delle cause di perenzione non ascrivibili alla sua responsabilità.

2. La portata della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002.

Originariamente la notifica si perfezionava al momento della conoscenza o conoscibilità legale del destinatario: e questa conclusione era coerente, sia con la natura del procedimento di notificazione (attività che si perfeziona al momento in cui l’atto notificato è conosciuto o conoscibile dal destinatario), sia con la natura di atto recettizio dell’atto da notificare (ovviamente questa considerazione vale solo per gli atti recettizi).

L’incostituzionalità viene affermata sia sotto il profilo del diritto di difesa (e qui il riferimento è circoscritto agli atti giudiziari e amministrativi), sia sotto il profilo della ragionevolezza (un effetto di decadenza che discende dal ritardo di un’attività non imputabile al notificante in quanto del tutto estranea alla sua sfera di disponibilità).

Va rilevato che nella impostazione della Corte costituzionale il parametro del diritto di difesa appare svolgere una funzione logica complementare e aggiuntiva: il vero parametro di costituzionalità è il principio di ragionevolezza.

3. Capacità espansiva dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale.

Se non ci fosse stata la sentenza della Corte costituzionale la norma del 2943 c.c. sarebbe stata risolutiva per dirimere la questione, ma la sentenza della Corte cost. incide proprio sulla interpretazione del termine notificazione di cui all’art. 2943 c.c..

In altri termini, dobbiamo dare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dell’art. 2943 c.c..

Diversamente, dovremmo affermare che la sentenza costituzionale, mentre ha inciso su tutte le altre disposizioni normative in cui ricorre il termine notificazione di un atto processuale non ha inciso proprio sull’interpretazione dello stesso termine ricorrente nell’art. 2943 c.c.: disparità interpretativa difficilmente razionalizzabile.

Si tratta ora di valutare la portata espansiva della pronuncia della Corte nell’interpretazione delle norme vigenti.

Il richiamo al diritto di difesa suggerirebbe una limitazione delle potenzialità interpretative del principio costituzionale ai soli atti in cui viene effettivamente in rilievo il diritto di difesa: atti giudiziari e amministrativi. Ma si è appena visto che la ratio decidendi della pronuncia costituzionale è – prima ancora che il diritto di difesa – il principio di ragionevolezza. E tale principio ha una potenzialità espansiva – sul piano interpretativo – notevolmente superiore rispetto al principio di difesa.

3.1. Il principio di ragionevolezza implica un bilanciamento dei beni in conflitto.

All’esito del bilanciamento un bene viene sacrificato a vantaggio di un altro bene.

La tecnica del bilanciamento avviene attraverso vari steps:

a) primo step: il sacrificio di un bene deve essere necessario per garantire la tutela di un bene di preminente valore costituzionale (per esempio, certezza e stabilità delle relazioni giuridiche);

b) secondo step: a parità di effetti, si deve optare per il sacrificio minore;

c) terzo step: deve essere tutelata la parte che non versa in colpa;

d) quarto step: se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere.

4. Non esiste una soluzione generalizzata per tutte le norme e per tutti i casi.

Con la tecnica del bilanciamento la Corte costituzionale (ma lo stesso procedimento logico lo adotta la Corte Edu) costruisce una norma traendola dalla disposizione di legge.

Il giudice ordinario per compiere una interpretazione costituzionalmente orientata deve procedere allo stesso modo:

– esaminare una singola disposizione;

– individuare i beni in conflitto;

– compiere un giudizio di bilanciamento secondo i passaggi logici sopra indicati;

– infine, estrarre la norma dalla disposizione.

E’ proprio nella natura della tecnica del bilanciamento che una soluzione normativa valida per una disposizione non sia valida per un’altra: proprio perché nel giudizio di bilanciamento è ben possibile che in un caso normativo si dia preminente tutela al notificante e in altro caso normativo (cioè in riferimento ad un’altra disposizione: parliamo – inutile dirlo – di norme e non di casi pratici specifici) si dia tutela al notificato.

5. La scissione soggettiva degli effetti della notificazione: non è un principio valido per tutte le ipotesi normative.

La giurisprudenza solitamente vede con disfavore questa scissione.

Le obiezioni ricorrenti sono due:

a) la teoria dell’atto ricettizio: nel caso degli atti ricettizi, la fattispecie si perfeziona con la consegna. Pertanto, prima della consegna la fattispecie è incompleta e una fattispecie incompleta non può produrre effetti;

b) la teoria della notificazione: la notificazione è una fattispecie a formazione progressiva, prima che sia perfezionata (con la conoscenza o conoscibilità legale da parte del destinatario), siamo in presenza di una fattispecie imperfetta e la fattispecie imperfetta non produce effetti. Al fondo, le remore giurisprudenziali e dottrinali verso il principio di scissione sancito dalla Corte costituzionale si riassumono in un timore: il pregiudizio per il superiore principio della certezza delle situazioni giuridiche. Tale timore può essere dominato se si considera che, in realtà, il principio di scissione comporta una distinzione tra l’an e il quando degli effetti della notifica.

Invero:

a) se la notifica non si perfeziona, la notifica non produce effetto alcuno e decadono anche gli effetti provvisoriamente prodotti: se non si realizza l’an, è inutile pure discutere del quando.

b) se la notifica si perfeziona, gli effetti di essa retroagiscono per il notificante al momento in cui ha consegnato all’ufficiale giudiziario (ma lo stesso discorso vale per le notifiche a mezzo posta) l’atto da notificare. In altri termini, tale consegna produce per il notificante effetti immediati e provvisori, che si stabilizzano e diventano definitivi se e solo se la notifica viene validamente perfezionata.

Come si vede, la scissione soggettiva della notifica non pregiudica minimamente il valore della certezza delle situazioni giuridiche perché:

– se la notifica non si perfeziona, nessun effetto si produce e gli effetti provvisori eventualmente prodotti si annullano;

– se la notifica si perfeziona, le situazioni giuridiche sono certe perché vengono individuati con certezza i due momenti in cui gli effetti differenziati si producono: per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il notificato al momento della ricezione legale dell’atto.

5.1. Il vero problema è l’incertezza giuridica medio tempore: è nel periodo di tempo tra la consegna da parte del notificante dell’atto per la notifica e la ricezione legale dell’atto da parte del notificato. E’ questa grigia zona di tempo in cui domina l’incertezza giuridica per il notificante ed il destinatario che va chiarificata. Ed è qui che opera la tecnica interpretativa del bilanciamento che – come si è detto – non vale in generale, ma soltanto per categorie di atti.

A) gli atti processuali.

Il notificante ha un termine a difesa o, comunque, un termine per svolgere la sua attività processuale. Questo termine gli deve essere riconosciuto per intero. Quindi, egli va tutelato anche se consegna l’atto all’ufficiale giudiziario proprio allo scadere del termine. Non gli si può obiettare: “per un principio di precauzione (che ti impone un onere di prudenza e diligenza), avresti dovuto consegnare l’atto all’ufficiale giudiziario qualche giorno prima in modo da garantirti una notifica nei termini” Infatti, la controreplica è agevole: “quanti giorni prima?”. E’ proprio qui che si anniderebbe l’incertezza giuridica che invece si vorrebbe garantire. Infatti, non può stabilirsi a priori quando un anticipo può dirsi congrue. Ed ancora: “chi mi garantisce che se consegno l’atto all’ufficiale giudiziario una settimana prima, la notifica avverrà nei termini? E se avviene fuori termine lo stesso, che succede?”. Alla fine, c’è un argomento risolutivo: “se la legge mi riconosce un termine di 30 giorni per espletare una attività difensiva, perché lo devo ridurre a 15 o a 20 per avere (non la sicurezza) ma la probabilità della notifica nei termini?”. Quello che si è appena detto per gli atti difensivi, vale per tutti gli atti processuali. Non sarebbe ragionevole distinguere tra atti processuali difensivi e gli altri atti processuali: la soluzione deve essere la stessa per tutti gli atti per i quali la legge riconosce ad una parte un potere di agire processuale. Va aggiunto che nessun pregiudizio (se non quello psicologico dell’attesa) subisce il notificato: il dies a quo per le sua facoltà processuali ù riconosciute per quel tipo di atto dall’ordinamento – scatterà dal momento della notifica. Quindi per gli atti processuali tutti, senza distinzione tra diritto di difesa e altre attività processuali – opera il principio di scissione. In questo caso entrambe le parti sono incolpevoli, ma il legislatore ha allocato la perdita sul notificante.

B) Gli atti negoziali unilaterali. Per gli atti sostanziali la tecnica del bilanciamento è preclusa da una norma specifica (art. 1334 c.c.): qui il bilanciamento lo ha già fatto il legislatore. Sta di fatto che l’inequivoco testo della norma (qui viene in rilievo il pur discusso brocardo in claris non fit interpretatio) preclude all’interprete ogni diversa interpretazione rispetto a quella fatta palese dal significato delle parole.

6. La revocatoria e la decisione di questa Suprema Corte. La domanda di revocatoria ha un effetto processuale e un effetto sostanziale. La giurisprudenza (Cass. 29.11.2013 n. 26804) è incline a ritenere che l’effetto interruttivo della prescrizione si verifichi al momento della notifica al destinatario dell’atto di citazione. Tale affermazione fonda le sue radici sul fatto che la decorrenza degli effetti dalla notifica al destinatario assicura la certezza delle situazioni giuridiche.

Agli argomenti addotti è agevole ribattere:

a) la regola dell’art. 1334 c.c. è dettata (come risulta anche dalla sedes in cui è collocata) per gli atti negoziali: l’atto di citazione non è un atto negoziale, ovviamente.

b) si tratterebbe allora di estendere l’art. 1334 c.c., agli atti processuali con effetti sostanziali.

Ma qui c’è lo sbarramento del criterio ermeneutico letterale: pertanto, nessuna interpretazione estensiva consente di applicare una regola nata per regolare atti negoziali unilaterali agli atti processuali.

c) occorrerebbe allora procedere in via di interpretazione analogica: ma non c’è nessuna analogia tra atti negoziali e atti processuali. Anziché la eadem ratio, c’è la ratio contraria: il principio fissato dalla Corte costituzionale tutela il diritto di agire e – prima ancora – il principio di ragionevolezza.

Ora, la giurisprudenza prevalente applica la regola dell’art. 1334, per analogia, ma in presenza di presupposti contrari all’analogia, ad un atto processuale sacrificando il diritto di azione.

Ma c’è di più: si è visto che il principio affermato dalla Corte costituzionale ha una portata espansiva potenzialmente applicabile a tutti gli atti (processuali e negoziali) in quanto il parametro di costituzionalità utilizzato dalla Corte costituzionale non è solo il diritto di difesa, ma soprattutto il principio di ragionevolezza. L’espansione in via interpretativa agli atti negoziali è impedita dall’esistenza di una norma specifica (l’art. 1334 c.c. appunto). Ora, dove tale norma non opera, deve espandersi il principio generale: art. 12 delle preleggi, cioè non l’analogia legis (quindi applicazione analogica dell’art. 1334, agli atti processuali ad effetti sostanziali), bensì l’analogia iuris (cioè applicazione agli atti- ove una norma specifica non disponga diversamente – del principio generale sancito dalla Corte costituzionale).

d) l’interpretazione prevalente si espone ad un’ulteriore obiezione: essa afferma che nell’atto di citazione si dovrebbe vedere anche una costituzione in mora (dunque, un atto recettizio). La giurisprudenza dominante purtroppo non approfondisce il tema, ma opera una sorta di commistione tra effetti sostanziali e struttura dell’atto. Dovremmo ritenere che secondo la giurisprudenza dominante l’atto di citazione per revocatoria abbia una duplice natura: processuale- negoziale? Ma questa è una costruzione arbitraria non consentita dalle norme: ad essere consequenziali dovremmo allora ritenere che i vizi dell’atto negoziale di costituzione in mora (quale ad esempio un vizio di volontà) si propaghi all’atto processuale della citazione contro il principio consolidato dell’irrilevanza della volontà negli atti processuali. Dunque, l’assunto inespresso ma presente nella giurisprudenza prevalente (quella della duplice natura processuale e negoziale: atto di citazione e contemporaneamente costituzione in mora) porta ad un groviglio di problemi.

In sostanza sovrappone gli effetti dell’atto alla natura dell’atto: che un atto processuale produca effetti sostanziali non significa che esso cambi natura: o per meglio dire sviluppi una doppia natura, natura formale (atto di citazione) e una natura nascosta ma baluginante (atto di costituzione in mora);

e) da ultimo, l’invocato principio della certezza dei rapporti giuridici. In questa obiezione c’è un aspetto paradossale: quasi che la certezza giuridica riguardi solo gli atti sostanziali e non anche gli atti processuali. Anche per gli atti processuali (il processo ci sta proprio per questo) vale il principio della certezza giuridica. Ma come si è a suo tempo visto, è apodittico affermare che la certezza giuridica sia tutelata soltanto dalla regola che gli effetti dell’atto si producono solo dal momento della notifica al destinatario e non dalla regola che tali effetti possono provvisoriamente prodursi fin dal momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, salvo il consolidamento definitivo degli effetti al momento di perfezionamento della fattispecie.

L’incertezza giuridica è solo temporanea (e concerne il periodo tra consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e sua notifica al destinatario). Ora, questa incertezza temporanea destinata a dissolversi alla fine nella certezza giuridica è – per così dire – una servitus iustitiae, cioè un danno temporaneo che ben può essere imposto ad una parte incolpevole (il notificando) per evitare un danno ben più grave e definitivo al notificante, parte ugualmente incolpevole. Più in generale, se il diritto si estingue per prescrizione quando non è esercitato, ciò che vale ad impedire che la prescrizione maturi è che il diritto sia esercitato.

Se il diritto deve o può esserlo dando inizio al giudizio, dare inizio al giudizio è atto di esercizio del diritto e quindi ciò che rileva è che l’avente diritto abbia compiuto gli atti necessari per iniziarlo, non che nel termine l’obbligato lo venga a sapere; se è stato iniziato ed è stato fatto quanto necessario perché sulla sua base prosegua, il convenuto sarà posto in grado di difendersi a proposito della tempestività dell’atto di inizio. Ciò vuol dire che, per impedire il maturarsi della prescrizione, è necessario che il diritto sia stato esercitato nel termine. E questo è un fatto oggettivo, che non dipende dalla conoscenza che l’obbligato ne abbia; il completamento del procedimento di notificazione, necessario perché la prescrizione non si perfezioni, mette il convenuto nella condizione di verificare se la prescrizione si è o no maturata. La soluzione accolta, che applica la tecnica interpretativa del bilanciamento, è del tutto ragionevole.

Invero: – il notificante non ha colpe; – il notificato lucra sul ritardo dell’ufficiale giudiziario; Dunque, il notificante subisce un danno senza colpa (quello che doveva fare l’ha fatto nei termini) il notificato gode di un vantaggio senza merito: è il puro caso che gli attribuisce il guadagno. Si tratta di scegliere se allocare la perdita sulla parte incolpevole e allocare il guadagno sulla parte immeritevole.

La giurisprudenza qui criticata, in sostanza, fa decidere al caso il torto e la ragione. Ma è proprio applicando la tecnica del bilanciamento che si trova la soluzione. Non si può allocare sul notificante incolpevole la perdita definitiva del diritto quando basterebbe imporre al notificato il lieve peso di un onere di attesa, dettato dal principio di precauzione. Entrambe le parti sono incolpevoli. Ma nel bilanciamento tra la perdita definitiva del diritto per una parte e un lucro indebito per l’altra parte, la soluzione più razionale è quella di salvaguardare il diritto di una parte incolpevole ponendo a carico dell’altra parte – parimenti incolpevole – un pati, cioè una situazione di attesa che non pregiudica, comunque, la sua sfera giuridica.

Da ultimo, si potrebbe obiettare: la tecnica del bilanciamento porta a soluzioni opposte per gli atti sostanziali e per quelli processuali: nel primo caso il bilanciamento operato dal legislatore (art. 1334 c.c.) privilegia il notificato, nel secondo caso (bilanciamento operato dalla giurisprudenza mediante interpretazione) si privilegia il notificante. In realtà, si tratta di conflitto apparente: si è premesso e più volte ripetuto che è proprio nella logica del bilanciamento che non può esservi una soluzione valida per tutti i casi. Nel nostro caso, gli opposti esiti del bilanciamento derivano dalla opposta natura degli atti che vengono in rilievo: atti sostanziali e atti processuali.

Per gli atti negoziali unilaterali un diritto non può dirsi esercitato se l’atto non perviene a conoscenza del destinatario. Per gli atti processuali il diritto (processuale) è esercitato con la consegna dell’atto all’ufficio notificante. La ratio posta a base di queste opposte soluzioni (atti negoziali unilaterali e atti processuali) implica una fondamentale actio finium regundorum: la soluzione a favore del notificante vale nel solo caso in cui l’esercizio del diritto può essere fatto valere solo mediante atti processuali. In ogni altro caso – e indipendentemente dalle scelte del soggetto che intende interrompere la prescrizione (l’ordinamento non può consentire che il pregiudizio per la parte destinataria, incolpevole, derivi dalle scelte arbitrarie e ad libitum della controparte) – opera la soluzione opposta. In conclusione, quando il diritto non si può far valere se non con un atto processuale, non si può sfuggire alla conseguenza che la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica. 7. L’esame del ricorso. Alla luce dei principi enunciati va ora esaminato il ricorso.

I ricorrenti hanno proposto due motivi:

1) violazione o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2903 e 2943 c.c., e art. 149 c.p.c., per aver erroneamente ritenuto che la consegna all’Ufficiale Giudiziario, dell’atto di citazione da notificare, non sia idoneo ad interrompere il decorso del termine prescrizionale previsto dall’art. 2903 c.c..

2) violazione o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1953 e 1950 c.c., per aver erroneamente ritenuto che dopo l’avvenuto pagamento – sia pure ad opera di altro coobbligato come nella specie – c’è solo la surrogazione o il regresso.

Il primo motivo è fondato in conseguenza delle conclusioni raggiunte sul tema dei tempi e dei modi di interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria, oggetto del giudizio di merito. La consegna dell’atto di citazione introduttivo del giudizio in data 17.11.2004, quando ancora non era scaduto il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2903 c.c., rende tempestivo l’esercizio dell’azione revocatoria. Conseguente è il suo esame nel merito.

Il secondo motivo non è fondato. E’ fuor di discussione che prima del pagamento il fideiussore possa esercitare, a sua scelta, contro il debitore principale, o l’azione di rilievo c.d. per liberazione, o l’azione di rilievo c.d. per cauzione. Questo, però, solo nei cinque casi previsti dall’art. 1953 c.c. e soltanto, prima del pagamento, poiché, dopo, può essere esercitata solo la surrogazione ed il regresso (v. anche Cass. 13.5.2002 n. 6808 indipendentemente dalla circostanza che si tratti di confideiussione o di fideiussione alla fideiussione). La conclusione non cambia se, in luogo del debitore principale, il pagamento interviene ad opera di uno dei confideiussori (nel caso in esame il B.), che si surroga poi nelle ragioni creditorie nei confronti degli altri fideiussori. Ciò che conta è la funzione della norma dell’art. 1953 c.c., che ha carattere preventivo e cautelare e che, quindi, non può più trovare applicazione quando i presupposti per il suo esercizio sono venuti meno (a seguito del pagamento).

Conclusivamente, è rigettato il secondo motivo ed è accolto il primo. La sentenza è cassata in relazione e la causa è rinviata alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione. Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, rigetta il secondo. Cassa in relazione e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 7 luglio 2015. Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 11/11/2015) 02/12/2015, n. 24492

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CICALA Mario – Presidente –
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso iscritto al n. 26937/2009 R.G. proposto da:
G.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Napolitano Francesco ed elettivamente domiciliato in Roma, Via Po n. 9, presso lo studio dello stesso, per procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 108/24/2008, depositata il 19/12/2008.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 novembre 2015 dal Relatore Cons. Dott. Emilio Iannello;
udito per il ricorrente l’Avv. Francesco Napolitano;
udito l’Avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per la controricorrente;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. CUOMO Luigi, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate notificava ad G.A., titolare della impresa individuale “La mia seconda pelle di G.A.”, due avvisi di accertamento per il recupero a tassazione, per gli anni d’imposta 2002 e 2003, a fini Iva, Irpef e Irap, di ricavi non contabilizzati e costi riferiti ad operazioni ritenute inesistenti, quali risultanti da p.v.c. redatto dalla G.d.F., che aveva anche riscontrato la mancanza di libri contabili obbligatori e l’omessa presentazione della dichiarazione relativa al 2002.
Il ricorso proposto dal contribuente – che lamentava l’utilizzo di dati, documenti ed elementi istruttori acquisiti dai verificatori in violazione di legge; l’illegittimo ricorso all’accertamento di tipo parziale di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis;
l’illegittimità degli avvisi di accertamento perchè non sottoscritti dal capo dell’ufficio o da un sostituto di grado dirigenziale validamente delegato;
l’errata, arbitraria e illegittima determinazione delle basi imponibili e il vizio di motivazione; l’illegittima applicazione delle sanzioni pecuniarie – veniva respinto dalla C.T.P. di Milano e lo stesso esito aveva l’appello proposto avanti la C.T.R. della Lombardia (sent. n. 180/24/2008 depositata il 19/12/2008), con il quale il contribuente aveva riproposto le medesime eccezioni, lamentando anche l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su alcune di esse.
2. Avverso tale sentenza G.A. propone ricorso per cassazione sulla base di otto motivi.
Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

3. Con il primo motivo – rubricato “violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 3” – il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata perchè priva di motivazione.
Afferma che la C.T.R. si è limitata a respingere il gravame attraverso un mero rinvio al contenuto della sentenza di primo grado, senza esprimere, con autonoma valutazione, le ragioni della conferma, in relazione ai motivi di impugnazione proposti dal contribuente.
Formula quesito di diritto.
4. Con il secondo motivo, corredato anch’esso da quesito di diritto, deduce vizio di omessa pronuncia (sotto la rubrica “violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”) sulla questione della legittimità – contestata con il secondo motivo d’appello – del ricorso da parte dell’ufficio all’accertamento parziale previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis, e dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 5, per essersi la C.T.R. al riguardo limitata a rilevare che la censura è stata “compiutamente affrontata” dai giudici di primo grado, “soprattutto se si tiene conto che è stato l’ufficio, secondo le sue prerogative, a determinare l’imponibile”.
5. Con il terzo motivo, pure esso corredato dalla formulazione di quesito di diritto, deduce ancora vizio di omessa pronuncia sulla eccepita illegittimità degli avvisi di accertamento, per violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, perchè non sottoscritti dal capo dell’ufficio o da un sostituto di grado dirigenziale validamente delegato.
Anche in tal caso, secondo il ricorrente, i giudici di secondo grado, limitandosi a osservare che i giudici di primo grado “con l’ampio rinvio ad una giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno dato conto della pretestuosità della eccezione, avente carattere puramente formale”, hanno di fatto omesso di pronunciarsi sulla questione.
6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ancora vizio di omessa pronuncia con riferimento al quarto motivo di gravame con il quale si era dedotta la violazione del D.P.R. 600 del 1973, art. 42 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54, 55 e 56 per errata, arbitraria ed illegittima determinazione delle basi imponibili, nonchè la violazione del L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7.
Lamenta che sul punto la sentenza impugnata si è limitata a rilevare che i primi giudici, affermando l’esistenza di “una situazione di totale inattendibilità della contabilità a cagione del ricorso alla pratica dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti da parte del contribuente”, avrebbero “diffusamente motivato sulla adeguatezza della sanzione amministrativa, applicata con modalità meno afflittive”. Negli stessi termini è formulato anche in tal caso quesito di diritto.
7. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia, in subordine, insufficiente motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – con riferimento alle medesime questioni per le quali, con i motivi secondo, terzo e quarto, ha in via principale dedotto vizio di omessa pronuncia – per avere la Corte territoriale respinto i motivi di gravame sulla base di un mero rinvio alla sentenza di primo grado, senza procedere ad una autonoma valutazione delle argomentazioni addotte dal contribuente.
8. Con il sesto motivo G.A. deduce, in via subordinata, per il caso di mancato accoglimento del terzo motivo di ricorso, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver omesso la C.T.R. di rilevare l’illegittimità degli avvisi di accertamento impugnati in quanto sottoscritti da soggetto diverso dal capo dell’ufficio in assenza di indicazione alcuna in ordine alla qualifica e ai poteri ad esso conferiti e in mancanza di prova dell’esistenza di un provvedimento di delega da parte del capo dell’ufficio: prova che, rimarca il ricorrente, nonostante la tempestiva eccezione sollevata in ricorso, non è stata fornita dall’ufficio neppure nel corso del giudizio di merito. Formula al riguardo quesito di diritto.
9. Con il settimo motivo il ricorrente deduce ancora violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere gli avvisi di accertamento frutto dell’accesso in locali di pertinenza dell’attività commerciale, eseguito dai verificatori in mancanza della previa autorizzazione del comandante del gruppo territoriale di appartenenza.
Rileva che sul punto l’affermazione della C.T.R. secondo cui “elementi fiscali acquisiti anche irritualmente sono comunque utilizzabili ai fini dell’accertamento”, atteso che “la negligenza dell’operatore nell’attività istituzionale non può andare a detrimento della legittima aspettativa alla prova da parte di chi non ha colpa” contrasta con il principio consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale gli elementi probatori irritualmente acquisiti e utilizzati ai fini del procedimento di accertamento tributario determina la nullità dell’atto finale, poichè frutto di un potere illegittimamente esercitato.
Viene anche in tal caso formulato quesito di diritto.
10. Con l’ottavo motivo il ricorrente, infine, denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere l’accertamento basato su elementi acquisiti in sede di indagine penale, in assenza della previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, autorizzazione nemmeno richiesta dagli organi accertatori.
Rileva che la regula iuris al riguardo applicata nella sentenza impugnata, secondo cui “l’eventuale mancanza di autorizzazione all’uso amministrativo di atti acquisiti in un procedimento penale non determina inutilizzabilità degli atti nel procedimento amministrativo, essendo la limitazione posta a presidio delle specifiche esigenze del procedimento penale e non dei soggetti coinvolti in tale procedimento”, sebbene conforme a più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, meriti di essere rivisitata, alla luce della lettera della norma la quale, secondo il ricorrente, interpretata anche alla luce degli artt. 97 e 109 Cost., impone di considerare la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria elemento necessario del procedimento amministrativo.
Viene anche al riguardo formulato quesito di diritto.
11. Nel proposto controricorso l’Agenzia eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso poichè privo di una esposizione sommaria dei fatti autosufficiente e idonea allo scopo. Contesta nel merito la fondatezza dei motivi dedotti, rilevando in particolare, quanto al terzo e al sesto motivo di ricorso che nel giudizio d’appello, in allegato alla memoria depositata in data 27/10/2008, l’ufficio ha depositato il mandato dirigenziale del firmatario.
12. E’ fondato il sesto motivo, di rilievo preliminare e assorbente.
Da tempo, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato l’orientamento secondo cui, in tema di imposte sui redditi, deve ritenersi, in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 1 e 3, che gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a detto ufficio) validamente delegato dal reggente di questo. Ne consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato (Cass. 27 ottobre 2000, n. 14195).
Analogamente, altra decisione di poco posteriore ha affermato che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui al D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, comma 1, lett. a) e b), è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere: il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario, ancorchè della carriera direttiva, alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio (Cass. 10 novembre 2000, n. 14626).
Più di recente questa Corte ha confermato tali principi ribadendo che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio, poichè il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio (Cass. 11 ottobre 2012, n. 17400).
A tale oramai consolidato orientamento ha dato ulteriore continuità la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 ribadendo che, nella individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega.
In tale occasione la S.C. ha evidenziato che tale conclusione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento (cfr. in materia d’imposte dirette Cass. 17400/12, 14626/00, 14195/00).
Previsione che trova giustificazione nel fatto che, come è stato osservato, gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (v. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 e, da ultimo, Cass. 9 novembre 2015, n. 22800).
Solo in diversi contesti fiscali – quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. 13461/12), il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l’avviso di mora (Cass. 4283/10), l’attribuzione di rendita (Cass. 8248/06) – e in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12).
Nella specifica materia dell’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, nel riferirsi, nel comma 1, ai modi stabiliti per le imposte dirette, richiama implicitamente il D.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, anche il ridetto art. 42 sulla nullità dell’avviso di accertamento, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (cfr., in materia di IVA, Cass. 10513/08, 18514/10 e 19379/12, in motiv.).
L’orientamento in rassegna, che qui si conferma, non è contraddetto dalla citata sentenza n. 22800 del 9 novembre 2015 che, soffermandosi sulla diversa, anche se potenzialmente interferente, questione della interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” cui può essere delegato, a mente della disposizione in esame il potere di sottoscrizione dell’atto (e giungendo al riguardo alla conclusione per cui per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la vecchia nona qualifica funzionale, ritenuta idonea a determinare la validità dell’atto in numerose sentenze di questa Corte, che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio: cfr. Cass. 5 settembre 2014, n. 18758) ha tuttavia certamente tenuto fermo il principio – che qui viene in rilievo – secondo cui ove venga contestato l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio e/o l’appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della vicinanza della prova, in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l’Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 1704; Cass. giugno 2013, n. 14942); non essendo, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori.
La decisione impugnata non si conforma a tale consolidato principio, avendo ritenuto l’eccezione meramente pretestuosa e formale e superandola sulla base di non meglio precisata giurisprudenza del Consiglio di Stato evidentemente inconferente trattandosi di principio che ha specifica attinenza alla materia tributaria. Lungi dal potersi ritenere formale e irrilevante, l’eccezione svolta, dunque, alla stregua del principio di diritto richiamato, poneva un tema di indagine decisivo che richiedeva un esame nel merito: esame che certamente non è consentito condurre per la prima volta in questa sede, non potendosi pertanto dare ingresso alle contrapposte allegazioni circa l’intervenuta produzione in giudizio, in grado di appello, di documento idoneo a comprovare l’esistenza del mandato conferito al funzionario che nella specie ha sottoscritto l’atto.
La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla C.T.R. della Lombardia per nuovo esame ed anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
Restano naturalmente assorbiti i restanti motivi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, assorbiti gli altri;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione.
ConclusioneCosì deciso in Roma, il 11 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 21/10/2015) 09/11/2015, n. 22800

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – rel. Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16543/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Q.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 115/2013 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 13/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2015 dal Presidente e Relatore Dott. MARIO CICALA;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DE BONIS e DE BELLIS che hanno chiesto l’accoglimento in subordine rimessione alle SS.UU.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione deducendo due motivi avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto- Mestre del 13/12/2013 n. 115/29/13 che accoglieva l’appello del sig. Q.G. e dichiarava la nullità di avvisi di accertamento dei redditi emessi nei di lui confronti.

La Commissione riteneva che tali avvisi fossero nulli in quanto emessi senza una adeguato preventivo contraddittorio e sottoscritti da funzionario non legittimato.

Il contribuente non si è costituito in giudizio. La Avvocatura di Stato ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Appare opportuno esaminare, in primo luogo, il secondo motivo di ricorso, relativo alla legittimazione del funzionario che ha sottoscritto gli atti impositivi, su delega del capo dell’ufficio. E dal momento che la sentenza impugnata ha affrontato un articolato complesso di problemi, che formano oggetto del ricorso erariale, il Collegio ritiene opportuno esaminare funditus la questione pronunciandosi ex art. 363 c.p.c., su tutti i profili, ancorchè – come risulterà in prosieguo – nel caso di specie il motivo di ricorso debba essere rigettato per considerazioni specifiche.

Materia del contendere è la interpretazione ed applicazione del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, (applicabile anche agli accertamenti IVA in quanto il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il citato art. 42) ed in particolare la individuazione di chi siano gli “impiegati della carriera direttiva” cui il capo dell’ufficio può delegare la sottoscrizione dell’avviso di accertamento. E la mancata osservanza di quanto prescritto dall’art. 42, comma 1, determina – come espressamente afferma la legge e costantemente dichiarato da questa Corte – la nullità dell’avviso di accertamento; ciò in quanto gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (si veda da ultimo la articolata motivazione di Cass. 5 settembre 2014, n. 18758).

Nell’applicazione dell’art, 42 occorre tener presente che la delega ivi prevista è altra cosa rispetto alla attribuzione di funzioni dirigenziali attraverso le procedure regolate prima dall’art. 24 del Regolamento e poi dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, (disposizioni entrambe cancellate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 37/2015 e dal Consiglio di Stato con la sentenza 4641/2015).

Ciò in quanto l’art. 42 prevede la delega amministrativa per singoli atti, mentre le norme caducate prevedevano il conferimento, attraverso contratti, di uno “status” con rilevanti riflessi anche economici; persino ove l’attribuzione delle funzioni superiori risultasse nulla (cfr. D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5).

Le due problematiche interferirebbero ove si ritenesse che il delegato debba essere un “dirigente” vero e proprio ex art. 11 del Regolamento della Agenzia, cui verrebbero equiparati (per quanto attiene alla funzione) i soggetti individuati con le procedure del (cancellato) art. 24. Ma invece il Collegio ritiene, in continuità con la costante giurisprudenza di questa Corte, che l’espressione “impiegato della carriera direttiva” contenuta nel ben noto art. 42 dpr 600/1973, non equivale a “dirigente” ma richieda un quid minus. E perciò la tematica dei “dirigenti illegittimamente nominati”, non entra nell’oggetto del giudizio. In quanto a seguito delle evoluzioni normative e contrattuali succedutesi dal 1973 in poi, l’”impiegato della carriera direttiva” oggi corrisponde al “funzionario della terza area” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 959).

Si tratta di un’evoluzione che ha avuto diverse tappe. La L. 11 luglio 1980, n. 312, recante il nuovo assetto retributivo – funzionale del personale civile e militare dello Stato, ha istituito le qualifiche funzionali. L’art. 4 della legge (concernente il primo inquadramento nelle suddette qualifiche) prevedeva che il personale della ex carriera direttiva transitasse nella 7 e nell’8 qualifica (la 8 venne istituita successivamente), e precisamente: “nella settima qualifica funzionale il personale (…) della carriera direttiva con le qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o qualifiche equiparate; nell’ottava qualifica funzionale il personale della carriera direttiva con la qualifica di direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e personale delle carriere direttive strutturate su una unica qualifica”.

Il passaggio successivo è intervenuto con il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto ministeri per il quadriennio 1998- 2001, il cui art. 13 (Aree di inquadramento) prevedeva che “il nuovo sistema di classificazione del personale, improntato a criteri di flessibilità correlati alle esigenze connesse ai nuovi modelli organizzativi, si basa sui seguenti elementi: a) Accorpamento delle attuali nove qualifiche funzionali in tre aree: (… ) Area C – comprendente i livelli dal 7 al 9 e il personale del ruolo ad esaurimento”. L’area era articolata nelle posizioni C1, C2 e C3, nella quale è rispettivamente confluito il personale della 7, 8 e 9 qualifica.

L’ultima tappa è costituita dal contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, il cui art. 17 (Classificazione) prevede che “Il sistema di classificazione del personale (…) è articolato in tre aree: (… ) Terza area:

comprendente le ex posizioni C1, C2 e C3″. La terza area è suddivisa in sei fasce retributive (da F1 a F6): il personale in servizio è transitato nelle fasce secondo una tabella di corrispondenza allegata al contratto, in base alla posizione ricoperta nell’ordinamento di provenienza. Le aree corrispondono a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità; ne consegue che tutte le mansioni di un’area sono considerate equivalenti e parimenti esigibili dal personale inquadrato nell’area stessa, a prescindere dalla sua posizione economica.

Alla luce della ricostruzione che precede, per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la “vecchia” nona qualifica funzionale;

ritenuta idonea a determinare la validità dell’atto in numerose sentenze di questa Corte, che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio (cfr. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 8).

La norma in esame assume così una propria autonoma valenza senza che occorra far ricorso al regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Entrate ex Delibera del Comitato Direttivo del 30 novembre 2000, n. 4; secondo cui gli avvisi di accertamento debbono essere “emessi dalla direzione provinciale e sono sottoscritti dal rispettivo direttore o, su delega di questi, dal direttore dell’ufficio preposto all’attività accertatrice ovvero da altri dirigenti o funzionari a seconda della rilevanza e complessità degli atti” (art. 5, comma 6, Reg. di Amm. n. 4). Del resto, il regolamento non potrebbe derogare alla legge che non parla genericamente di “funzionari”, ma di “impiegati della carriera direttiva”.

La autonoma valenza riconosciuta all’art. 42 tante volte citato, si inquadra – del resto – nella costante affermazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in materia tributaria non trova applicazione il principio secondo cui l’atto emanato con violazione della legge è di regola invalido (sub specie nullità o annullabilità poco importa); principio scolpito invece nell’art. 21 octies, introdotto nella L. n. 241 del 1990, dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, comma 1 (unitamente all’intero capo 4 bis dal titolo “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo, revoca e recesso”), applicabile agli atti amministrativi “comuni”. E perciò la nullità di cui qui si discute è rigidamente circoscritta nei limiti tracciati dall’art. 42, senza che assuma rilievo l’eventuale illegittimità del conferimento al capo dell’ufficio delegante della qualità di dirigente (anche temporaneo), avvenuta sulla base di una norma regolamentare illegittima o di una norma di legge dichiarata incostituzionale.

Ciò premesso occorre ribadire che, ove il contribuente contesti nel suo ricorso introduttivo (così come evidenziato nella sentenza impugnata) il possesso da parte del delegato (o del delegante) dei requisiti indicati dall’art. 42, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della “vicinanza della prova” in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 17044; Cass. giugno 2013, n. 14942). E dunque non è consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori.

Questa considerazione determina il rigetto del motivo di ricorso in quanto la sentenza di merito accerta che l’Ufficio non ha dato “alcun riscontro della qualità rivestita dal funzionario delegato”.

Si enunciano i seguenti principi di diritto:

In base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.

A seguito della evoluzione legislativa ed ordinamentale sono oggi “impiegati della carriera direttiva” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, i “funzionari della terza area” di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17).

E – in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributali – non occorre, ai meri fini della validità dell’atto, che i funzionari deleganti e delegati possiedano la qualifica di dirigente, ancorchè essa sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.

Ove il contribuente contesti – anche in forma generica – la legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento ad emanare l’atto (D.P.R. n. 600 del 1972, art. 42), è onere della Amministrazione che ha immediato e facile accesso ai propri dati fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonchè della esistenza della delega in capo al delegato.

Il primo motivo risulta così assorbito.

Non vi è luogo a provvedere per le spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2015


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 14/07/2015) 27/10/2015, n. 21794

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO Libertino Alberto – Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17425/2012 proposto da:

D.P.E., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FIRRINCIELI Maurizio con studio in AUGUSTA, VIALE ITALIA giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA P. MASCAGNI 64, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA LA ROSA, rappresentata e difesa dall’avvocato LA ROSA Salvatore giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 945/2011 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 08/07/2011, R.G.N. 1686/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2015 dal Consigliere Dott. PAOLO D’AMICO;

udito l’Avvocato SALVATORE LA ROSA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 41/2009, deliberata dal Tribunale di Siracusa, Sezione distaccata di Avola, il giudice dichiarava la risoluzione del contratto di locazione ad uso non abitativo stipulato fra D.M. G. e C.R., da un lato, ed D.P.E. dall’altro; condannava la D.P. al pagamento dei canoni locativi dovuti dal mese di gennaio del 1999 al dicembre 2001, oltre accessori.

Propose appello D.P.E..

Si costituì la C. resistendo al gravame.

La Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da D.P.E. ritenendo che la mancata iscrizione a ruolo della causa nel termine discendeva da una precisa scelta della parte che avrebbe potuto pagare il contributo unificato e ricorrere solo successivamente all’assistenza tramite il patrocinio a spese dello stato.

Propone ricorso per cassazione D.P.E..

Resiste con controricorso C.R. che presenta memoria.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo del ricorso D.P.E. denuncia “Violazione dell’art. 184 bis c.p.c.”.

Sostiene la ricorrente che costituisce implicita remissione in termini l’autorizzazione della Corte d’appello ad integrare l’errata Delib. Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Siracusa con altra Delib., corretta, di ammissione al gratuito patrocinio da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania effettivamente competente. Ritiene pertanto la ricorrente che, nel caso in esame, avrebbe dovuto essere applicato l’art. 184 bis c.p.c., di rimessione in termini, al fine dell’ammissibilità dell’appello proposto.

Secondo la D.P. ha quindi errato la Corte d’appello nel ritenere l’appello inammissibile.

Il motivo è infondato.

La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall’art. 184- bis c.p.c., che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153 c.p.c., comma 2, come novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perchè cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà (Cass., 28 settembre 2011, n. 19836).

Correttamente nel caso in esame l’impugnata sentenza ha ritenuto che, se per un verso l’errore del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Siracusa non poteva discendere dall’errore della parte, che si era rivolta ad un organo incompetente, per altro verso è evidente come la mancata iscrizione a ruolo della causa nel termine discenda da una precisa scelta della parte stessa che ben avrebbe potuto pagare il contributo unificato e ricorrere solo successivamente all’assistenza tramite il patrocinio a spese dello Stato. Non ricorre pertanto alcun errore scusabile tale da giustificare la rimessione in termini.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 luglio 2015.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 08/09/2015) 23/10/2015, n. 21593

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI BLASI Antonino – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15390-2010 proposto da:

COOPERATIVA AVVENIRE SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MERULANA 234, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CEPPARULO, rappresentato e difeso dall’avvocato AMATUCCI Andrea giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 47/2009 della COMM.TRIB.REG. di BARI, depositata il 28/04/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/09/2015 dal Consigliere Dott. MARINA MELONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo, inammissibilità del 2 motivo di ricorso.

Svolgimento del processo
La società cooperativa a r.l. Avvenire presentava istanza di recupero di credito d’imposta di Euro 232.876,98 per incremento occupazionale di lavoratori svantaggiati L. n. 388 del 2000, ex art. 7, comma 10 assunti nel periodo 2001-2003 e successivamente impugnava il silenzio rifiuto dell’Ufficio davanti alla CTP di Bari.

La Commissione Tributaria provinciale di Bari respingeva il ricorso ritenendo che il credito d’imposta richiesto non potesse essere accordato in quanto superiore al limite massimo usufruibile nel trienno in applicazione della regola “de minimis” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 7, comma 10.

La sentenza di primo grado veniva appellata dalla contribuente davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia la quale, in accoglimento dell’appello incidentale dell’Agenzia, dichiarava inammissibile il ricorso senza entrare nel merito, in quanto notificato ad un ufficio dell’Agenzia delle Entrate diverso da quello territorialmente competente ad emettere l’atto impositivo.

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Puglia ha proposto ricorso per cassazione la società cooperativa Avvenire a r.l. con due motivi e memoria di richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

L’Agenzia delle Entrate si costituiva al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente società coop. Avvenire a r.l. lamenta violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 22 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in quanto la CTR ha ritenuto nella fattispecie di dichiarare inammissibile il ricorso di primo grado perchè notificato all’Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari (OMISSIS) e non all’Ufficio di Gioia del Colle territorialmente competente ad emettere l’atto impositivo.

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente società coop. Avvenire a r.l. lamenta omessa motivazione sulla violazione di legge e falsa applicazione dei regolamenti CE 994/1998 e 2204/2002 da parte della L. n. 388 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la CTR ha ritenuto applicabile la regola de minimis ed operante il limite massimo relativo alla concessione del credito d’imposta nonostante che il regolamento CE nr. 2204 del 12/12/2002, emanato successivamente alla data di entrata in vigore della L. n. 388 del 2000, escludesse qualsiasi limite in caso di assunzione di lavoratori svantaggiati.

Il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto. Infatti questa Corte ha dichiarato con sentenza emessa da sez. 5, Sentenza n. 30753 del 30/12/2011 che la notifica presso ufficio locale dell’Agenzia delle entrate non competente non comporta l’invalidità dell’impugnazione: “In tema di contenzioso tributario, la notifica dell’impugnazione avverso il silenzio-rifiuto, da parte del contribuente, presso un ufficio della locale Agenzia delle entrate diverso da quello che avrebbe dovuto eseguire il rimborso in base all’istanza all’uopo presentata, non incide sulla validità dell’impugnazione del silenzio-rifiuto medesimo, stante il carattere unitario dell’Agenzia delle entrate competente per territorio e la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’ente-organo (e non alle sue singole , articolazioni) che ha emesso, o, in caso di diniego, non ha emesso l’atto di cui si controverte”.

Pertanto erroneamente la CTR ha dichiarato in via preliminare inammissibile il ricorso di primo grado in quanto notificato all’Ufficio di Bari (OMISSIS) invece che all’Ufficio di Gioia del Colle.

Conseguentemente la sentenza deve essere cassata e disposto il rinvio ad altra sezione della CTR affinchè decida nel merito.

Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto, cassata la sentenza e disposto il rinvio ad altra sezione della CTR della Puglia anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR della Puglia anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione quinta civile, il 8 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 2, Ord., (data ud. 16/07/2015) 20/10/2015, n. 21281

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 2706-2014 proposto da:

P.M., B.D., elettivamente domiciliati in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’Avv. ZAGARESE ETTORE, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.C., L.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FORNOVO, 3, presso lo studio dell’avvocato TEDESCO DAVIDE, rappresentati e difesi dall’avvocato NATALE GRAZIANO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 658/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 14/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/07/2015 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito l’Avvocato DAVIDE TEDESCO (DEL. AW. GRAZIANO NATALE), che chiede il rigetto.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380-bis e 375 c.p.c.:

“1. – Con sentenza n. 658/13 la Corte d’appello di Catanzaro dichiarava inammissibile l’appello proposto da B.D. e P.M. avverso la sentenza n. 410/11 del Tribunale di Rossano, nei confronti degli appellati L.A. e R. C.. Rilevava la Corte territoriale che mentre la sentenza impugnata era stata notificata il 16.1.2012, l’appello era stato notificato alla parte appellata il 16.2.2012, e dunque decorso il termine di cui all’art. 325 c.p.c.. Osservava, quindi, che non vi era prova che l’atto di citazione in appello fosse stato consegnato all’ufficiale giudiziario in data precedente a quella dell’avvenuta notificazione ai destinatali, posto che, a fronte dell’eccezione di tardività del gravame sollevata dalla parte appellata, la dimostrazione della data d’inoltro dell’atto per la notifica non poteva essere ricavata dal timbro ivi apposto a margine, recante il numero cronologico e la data ma senza firma del ricevente, non essendo stata esibita alcuna certificazione integrativa, idonea a dimostrare la tempestività dell’impugnazione.

2. – Per la cassazione di detta sentenza B.D. e P.M. propongono ricorso, affidato ad un solo motivo.

2.1. – Resistono con controricorso L.A. e R.C..

3. – Con l’unico motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 137, 139, 325, 326 e 327 c.p.c. e il vizio d’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Sostiene parte ricorrente, richiamando giurisprudenza dei questa Corte, che per il notificante la prova della tempestività della notificazione è fornita in maniera sufficiente dal timbro dell’ufficiale giudiziario apposto sull’atto, recante l’indicazione della data e del numero cronologico, ancorchè privo di sottoscrizione.

4. – Il motivo è fondato.

A seguito delle sentenze della Corte cost. nn. 477/02 e 28/04, nell’ordinamento deve ritenersi operante un principio generale di scissione del momento in cui si perfeziona la notificazione di un atto. In base a tale principio la notifica si intende perfezionata in momenti diversi per il richiedente e per il destinatario di essa, dovendo le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte di quest’ultimo contemperarsi con il diverso interesse del primo a non subire le conseguenze negative derivanti dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità, sicchè è sufficiente per il notificante dimostrare che il plico è stato inoltrato per la notifica, mediante consegna all’ufficiale giudiziario, entro il termine prescritto (Cass. 2261/07).

A tal riguardo la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la relativa prova può essere ricavata dal timbro, ancorchè privo di sottoscrizione, apposto dall’ufficiale giudiziario sull’atto, recante il numero cronologico, la data e la specifica delle spese, salvo che sia in contestazione la conformità al vero di quanto da esso desumibile, atteso che le risultanze del registro cronologico, che l’ufficiale giudiziario deve tenere ai sensi del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 116, comma 1, n. 1, fanno fede fino a querela di falso, (cfr. Cass. nn. 3755/15, 13640/13, 390/07, 15797/05 e 6836/05). Con la conseguenza che l’interessato deve farsi carico di esibire idonea certificazione dell’ufficiale giudiziario soltanto in caso di contestazione della conformità al vero di quanto indirettamente risulta da detto atto (Cass. n. 22003/08).

Nè si è mai formato presso questa Corte – anche prima dell’intervento delle S.U. n. 14294/07, che ha confermato l’orientamento anzi detto – un indirizzo diverso, poichè i precedenti di segno apparentemente opposto riguardavano fattispecie del tutto peculiari, in cui le annotazioni sull’atto o riferite all’atto da notificare non davano alcuna garanzia sulla consegna di questo all’ufficio notifiche entro una certa data (v. in motivazione la citata sentenza delle S.U.).

5. – Pertanto, si propone la decisione del ricorso con le forme camerali, nei sensi di cui sopra, in base all’art. 375 c.p.c., n. 5″.

2. – La Corte condivide la relazione, rispetto alla quale solo la parte ricorrente ha depositato memoria (ovviamente adesiva).

3. – Pertanto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione sesta civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 16 luglio 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 19/05/2015) 07/10/2015, n. 20072

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STILE Paolo – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21893/2014 proposto da:

D.C.G.W. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI, 13, presso lo studio dell’avvocato PALLINI MASSIMO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SERVIZI MUNICIPALI RIETI S.P.A.;

– intimata –

avversò la sentenza n. 6799/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2014 r.g.n. 1360/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/2015 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;

udito l’Avvocato PALLINI MASSIMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. D.C.G.W. impugnava L. n. 92 del 2012, ex art. 1 comma 48, il licenziamento irrogatogli dall’Azienda servizi municipalizzati di Rieti S.p.A. per ragioni disciplinari, relative all’illegittima fruizione di permessi ex L. n. 104 del 1992, nelle giornate del 16, 17 e il 18 luglio del 2012.

2. L’ordinanza di rigetto veniva confermata dal Tribunale con la successiva sentenza e la Corte d’appello rigettava il reclamo proposto dal D.C.. La Corte territoriale argomentava che dall’istruttoria espletata era emerso che nei tre giorni sopra indicati, per i quali il D.C. aveva richiesto ed ottenuto i permessi ex L. n. 104 del 1992, per assistere la suocera, in realtà egli aveva compiuto attività di tipo sportivo e ricreativo e nell’orario lavorativo per il quale aveva fruito del permesso non aveva svolto alcun tipo di assistenza in favore dell’invalida.

3. Per la cassazione della sentenza D.C.G.W. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo. L’Azienda servizi municipalizzati Rieti S.p.A. è rimasta intimata.

4. Il ricorso è inammissibile, non risultandone il compimento del processo notificatorio.

5. Deve premettersi che il difensore in data 15 settembre 2014 ha inteso effettuare la notifica del ricorso a mezzo posta elettronica certificata, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 1, e succ. mod..

6. Esaminando il quadro normativo di riferimento, si rileva che il comma 3 dell’art. 3 bis della suddetta L. n. 53, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, prevede che la notifica effettuata con modalità telematica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2, dello stesso D.P.R..

7. L’art. 6, comma 1, sopra richiamato prevede a sua volta che nella ricevuta di accettazione, fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata da questi utilizzato, sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione del messaggio di posta elettronica certificata.

8. Il comma 2 aggiunge che la ricevuta di avvenuta consegna è fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario, e da al primo la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario (indipendentemente dalla lettura che questo ne abbia fatto) e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione.

9. La L. n. 53 del 1994, art. 9, e succ. mod., prevede infine al comma 1 bis, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 16 quater, che, qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3 bis, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratti ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1. Il comma 1 ter, aggiunto dalla L. di conversione n. 114 del 11 agosto 2014, al D.L. n. 90 del 2014, ha poi aggiunto che in tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1 bis.

10. Dal sistema normativo sopra delineato risulta quindi che la notifica a mezzo posta elettronica certificata non si esaurisce con l’invio telematico dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del plico informatico nella casella di posta elettronica del destinatario, e la prova di tale consegna è costituita dalla ricevuta di avvenuta consegna. La mancata produzione della ricevuta di avvenuta consegna della notifica a mezzo p.e.c. del ricorso per cassazione, impedendo di ritenere perfezionato il procedimento notificatorio, determina quindi l’inesistenza della notificazione, con conseguente impossibilità per il giudice di disporne il rinnovo ai sensi dell’art. 291 c.p.c., in quanto la sanatoria ivi prevista è consentita nella sola ipotesi di notificazione esistente, sebbene affetta da nullità (così sull’ultima affermazione ex multis Cass. n. 3303 del 1994, Cass. n. 8287 del 2002, Cass. Sez. U., n. 20604 del 2008).

11. Ciò è quanto avvenuto nel caso in esame, in cui la difesa non ha prodotto la ricevuta di avvenuta consegna della notifica tramite p.e.c., neppure nel previsto supporto analogico (trasposizione cartacea del contenuto del documento informatico).

12. Non è stata prodotta peraltro neanche la ricevuta di accettazione, sicchè il processo notificatorio non risulta compiuto neppure per il notificante.

13. Segue la dichiarazione d’ inammissibilità del ricorso. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in considerazione della mancata radicazione del contraddittorio.

14. Si applica ratione temporis alla fattispecie la L. 24 dicembre 2012, n. 228, il cui art. 1, comma 17, ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater, del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1 bis. n giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso inammissibile, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla sulle spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2015


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 12-05-2015) 02-10-2015, n. 19704

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13678/2012 proposto da:

RIGANTE G. DI RIGANTE GIOVANNI & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI PRATI DEGLI STROZZI 22, presso lo studio dell’avvocato G. VENETO, rappresentata e difesa dall’avvocato BELSITO ANTONIO, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD S.P.A., legittimata in quanto società incorporante della Equitalia E.TR. s.p.a., soggetta all’attività di direzione e coordinamento di Equitalia s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MARIA GAZZONI, rappresentata e difesa dall’avvocato MOLINARA PAOLO, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 68/5/2011 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BARI, depositata il 29/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

uditi gli avvocati Liana DI MOLFETTA per delega dell’avvocato Antonio Belsito, Paolo MOLINARA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società Rigante G. di Rigante Giovanni & C. s.a.s. impugnò dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari la cartella di pagamento n. (OMISSIS) emessa da Equitalia E.TR. s.p.a. per IVA, sanzioni e interessi in relazione all’anno 2003, deducendo che tale cartella – risultante notificata il 27.05.2006 – le era rimasta assolutamente sconosciuta ed assumendo di essere venuta a conoscenza della relativa obbligazione tributaria soltanto dall’estratto di ruolo rilasciato, su sua richiesta, dalla competente concessionaria della riscossione.

La Commissione Tributaria provinciale di Bari, ritenuto che solo formalmente l’atto opposto era la cartella, mentre in realtà l’opposizione riguardava l’estratto di ruolo, ne dichiarò l’inammissibilità essendo l’estratto di ruolo “atto interno dell’Agente della riscossione, non rientrante tra quelli tassativamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 19922, art. 19, comma 1”. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 68/5/11, confermò la decisione.

In particolare i giudici d’appello, premesso che nell’atto introduttivo era stata impugnata la cartella in questione per omessa notifica, escludevano che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo potesse comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica) e conseguentemente escludevano che potesse essere “oggetto di discussione” la suddetta cartella in quanto non ritualmente opposta. I predetti giudici ribadivano inoltre l’inammissibilità della proposta opposizione anche ove ritenuta diretta avverso l’estratto di ruolo, rilevando che esso, oltre ad essere atto non previsto nel novero di quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19 citato, difetta del requisito della “coattività della prestazione tributaria ivi espressa” e quindi della idoneità a costituire “provocatio ad opponendum”, senza che sia per ciò solo configurabile violazione del diritto di difesa del contribuente, restando salva la possibilità di denunciare l’inesistenza della notifica della cartella in sede di gravame avverso eventuali e specifici atti realizzativi del credito fiscale.

Per la cassazione di questa sentenza la società ha proposto, nei confronti di Equitalia E.TR. s.p.a., ricorso per cassazione illustrato da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso Equitalia Sud s.p.a., incorporante di Equitalia E.TR. s.p.a..

Con ordinanza interlocutoria n. 16055 del 2014 il collegio della 6^-5 sezione civile di questa Corte dinanzi al quale il ricorso è stato discusso ha sollecitato l’intervento compositivo di queste sezioni unite segnalando che, nell’ambito di un panorama giurisprudenziale in materia di atti impugnabili dinanzi ai giudici tributari piuttosto composito e articolato, è negli ultimi anni emerso nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità uno specifico contrasto tra alcune pronunce secondo le quali il ruolo non è autonomamente impugnabile in quanto atto “interno”, che può essere impugnato solo con l’atto impositivo nel quale viene trasfuso e a mezzo del quale viene notificato, ed altre pronunce che hanno invece affermato l’autonoma impugnabilità del ruolo.

Motivi della decisione
1. Con unico motivo, deducendo “ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, e dell’art. 360 c.p.c., n. 3”, nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., la ricorrente censura la decisione impugnata innanzitutto affermando che l’estratto di ruolo può essere oggetto di ricorso dinanzi alle Commissioni Tributarie perché esso costituisce parziale riproduzione del ruolo, atto considerato impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, avendo peraltro la giurisprudenza di legittimità affermato che va riconosciuta la possibilità di ricorrere avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che essa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, atteso l’indubbio interesse del destinatario a chiarire la sua posizione rispetto a tale pretesa e quindi ad invocare la tutela giurisdizionale. La ricorrente si duole inoltre del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso ogni valutazione in ordine alle circostanze dalla medesima evidenziate con riguardo alla dedotta omissione di (valida) notifica della cartella, pur non avendo la convenuta contestato tali circostanze né tanto meno fornito alcuna prova dell’avvenuta notifica della suddetta cartella.

In particolare, rilevato che, dopo un primo infruttuoso tentativo di notifica presso la sede della società contribuente – dove la stessa era risultata sconosciuta -, veniva effettuata ulteriore notifica “per irreperibilità assoluta” con deposito dell’atto presso il Comune e affissione dell’avviso di deposito, la ricorrente evidenzia la mancanza di prova della comunicazione alla società, mediante raccomandata, dell’avvenuto deposito dell’atto presso il Comune nonché la mancanza dell’attestazione della impossibilità di effettuare la notificazione al legale rappresentante della suddetta società, il quale risultava individuato e nominato nell’atto da notificare.

Le censure esposte sono fondate esclusivamente nei limiti e nei termini di cui in prosieguo.

Prima di passare al relativo esame, tuttavia, è necessario definirne l’ambito e la reale portata attraverso un’attività interpretativa (della sentenza impugnata e dei ricorso per cassazione) resa imprescindibile innanzitutto per le diverse qualificazioni – ferma restandone la sostanza – della opposizione proposta dalla contribuente, ma anche per il rischio di una non univoca attribuzione di significato a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, potenzialmente inducente ambiguità non solo terminologica ma anche concettuale. In proposito occorre innanzitutto schematicamente considerare che, come emergente da quanto sopra riportato, la società ricorrente ha impugnato la cartella esattoriale a suo carico – della quale era venuta a conoscenza solo a seguito di rilascio dell’estratto di ruolo da parte del concessionario – deducendo che la medesima non era stata validamente notificata. I primi giudici hanno sostenuto che quella proposta, anche se formalmente qualificata come opposizione alla cartella, costituiva sostanzialmente una inammissibile impugnazione dell’estratto di ruolo, atto interno dei concessionario. Il contribuente ha contestato in appello la non impugnabilità dell’estratto di ruolo affermata dai primi giudici, si è doluto della ritenuta inammissibilità dell’opposizione e l’ha riproposta, ribadendo “le questioni, domande e richieste formulate nell’atto introduttivo” e insistendo per la “declaratoria di nullità e improduttività di qualsiasi effetto giuridico della cartella di pagamento impugnata”. I giudici d’appello hanno affermato l’inammissibilità della proposta opposizione, sia se qualificata come opposizione avverso la cartella sia se qualificata come opposizione avverso l’estratto di ruolo, e la società ha proposto ricorso per cassazione contestando la affermata inammissibilità dell’opposizione proposta ed altresì dolendosi del fatto che i giudici d’appello abbiano omesso di trarre le conseguenze dagli elementi circa l’invalidità della notifica della cartella addotti dalla medesima ricorrente e non contestati dalla controparte.

Come è evidente, al di là di mere qualificazioni, la ricorrente ha agito in giudizio nell’intento di ottenere attraverso la proposta opposizione (comunque qualificata) la declaratoria della nullità della cartella emessa a suo carico in quanto non validamente notificata e ricorre oggi dinanzi a questo giudice per ottenere l’annullamento della decisione impugnata laddove ha ritenuto inammissibile la suddetta opposizione. Occorrerà pertanto valutare la fondatezza della censura anche eventualmente rimettendo in discussione la formale qualificazione della opposizione proposta, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità secondo la quale la corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, a condizione che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio d’una eccezione in senso stretto (v. Cass. n. 3437 del 2014; 6935 del 2007; 19132 del 2005; 4939 del 1998).

Tanto premesso, prima di procedere oltre occorre, in via ulteriormente preliminare, fare chiarezza sull’oggetto della analisi che seguirà, perciò intendersi sul significato da attribuire a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”, e ciò non per mera esigenza definitoria fine a se stessa ma perché la comprensibilità di qualunque discorso passa per l’utilizzo di un linguaggio comune, quindi per la condivisione convenzionale del significato dei termini utilizzati, e la stessa correttezza di qualsivoglia soluzione giuridica impone che sia preventivamente individuato con precisione il concreto “oggetto” del problema da risolvere. Ne consegue che per decidere se un atto (volgarmente) detto “estratto di ruolo” sia stato o meno impugnato (e se sia o meno impugnabile) occorrerà identificare in fatto e, poi, qualificare in diritto l’oggetto concreto della disamina, al fine di evitare che si possa confondere l’”estratto di ruolo” con il “ruolo” e, soprattutto, che si possa in qualche modo ridurre, attesa la nota anfibologia di ogni documento, ad uno solo i due oggetti (“documento” e suo “contenuto”) come se si trattasse di della mera diversità di nome dello stesso oggetto.

Il “ruolo”, come noto, ha una sua precisa definizione legislativa, posto che, per il vigente testo del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 10, lett. b), esso è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario” e che, per l’art. 11 del medesimo D.P.R., “nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi”.

A norma del successivo art. 12, l’ufficio competente “forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano. In ciascun ruolo sono iscritte tutte le somme dovute dai contribuenti che hanno il domicilio fiscale in comuni compresi nell’ambito territoriale cui il ruolo si riferisce”; nel ruolo “devono essere comunque indicati il numero del codice fiscale del contribuente, la specie del ruolo, la data in cui il ruolo diviene esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione, anche sintetica, della pretesa; in difetto di tali indicazioni non può farsi luogo all’iscrizione”; “il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica, dal titolare dell’ufficio o da un suo delegato” e “con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo”, cioè costituisce titolo esecutivo.

Dai riprodotti dati normativi discende che il “ruolo” è un atto amministrativo impositivo (fiscale, contributivo o di riscossione di altre entrate allorché sia previsto come strumento di riscossione coattiva delle stesse) proprio ed esclusivo dell’”ufficio competente” (cioè dell’ente creditore impositore), quindi “atto” che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme legislative primarie, deve ritenersi tipico sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale (cfr. le norme sopra richiamate laddove si precisa che esso deve indicare le “somme dovute” in “riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento” o, “in mancanza” di questo, la “motivazione” del debito).

In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un suo delegato, giusta il dettato del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 24, comma 1, viene consegnato “al concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce”, esso pertanto non solo è atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore (mai del concessionario della riscossione), ma, nella progressione dell’iter amministrativo di imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto indefettibile.

Il concessionario della riscossione, a sua volta, in forza del ruolo ricevuto, redige “in conformità al modello approvato” (oggi dall’Agenzia delle Entrate) “la cartella di pagamento” (che, per il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, “contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata”) e provvede (ai sensi del successivo art. 26) alla “notificazione della cartella di pagamento” al debitore.

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, elenca espressamente tra gli “atti impugnabili” (quindi da impugnare necessariamente per evitare la cristallizzazione irreversibile di quel determinato momento del complessivo iter di imposizione e/o riscossione), al comma 1, lett. d), “il ruolo e la cartella di pagamento”, mentre la seconda parte del medesimo D.Lgs. n. 546, art. 21, comma 1, dispone espressamente che “la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”.

Da tali disposizioni si evince pertanto che: il ruolo è atto che deve essere notificato e la sua notificazione coincide con la notificazione della cartella di pagamento; è atto impugnabile; il termine iniziale per calcolare i “sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato” (fissati a espressa “pena di inammissibilità” dalla prima parte del medesimo art. 21 per l’impugnazione di qualsiasi “atto impugnabile”) coincide con quello della “notificazione della cartella di pagamento”; entro il suddetto termine pertanto il debitore, giusta i principi generali, a seconda del suo interesse, può impugnare entrambi gli atti (“ruolo” e “cartella di pagamento”) contemporaneamente ovvero anche solo uno dei due che ritenga viziato, con l’ovvio corollario che la nullità di un atto non comporta quella degli atti precedenti nè di quelli successivi che ne sono indipendenti e quindi che la nullità della cartella di pagamento non comporta necessariamente quella del ruolo mentre la nullità del ruolo determina necessariamente la nullità anche della cartella, questa essendo giuridicamente fondata su quel ruolo e, pertanto, “dipendente” dallo stesso.

Il “documento” denominato “estratto di ruolo”, tale indicato dallo stesso concessionario che lo rilascia, non è invece specificamente previsto da nessuna disposizione di legge vigente. Esso – che viene formato (quindi consegnato) soltanto su richiesta del debitore – costituisce (v. Consiglio di Stato, 4^, n. 4209 del 2014) semplicemente un “elaborato informatico formato dall’esattore…

sostanzialmente contenente gli… elementi della cartella…”, quindi anche gli “elementi” del ruolo afferente quella cartella (il C.d.S., peraltro, ha affermato l’inidoneità del suo rilascio ad ottemperare all’obbligo di ostensione all’interessato che ne abbia fatto legittima e motivata richiesta, della copia degli originali della cartella, della sua notificazione e degli atti prodromici).

Da quanto sopra esposto emerge con sufficiente chiarezza la differenza sostanziale tra “ruolo” ed “estratto di ruolo” (termini talvolta impropriamente utilizzati come sinonimi): il “ruolo” (atto impositivo espressamente previsto e regolato dalla legge, anche quanto alla sua impugnabilità ed ai termini perentori di impugnazione) è un “provvedimento” proprio dell’ente impositore (quindi un atto potestativo contenente una pretesa economica dell’ente suddetto); l’”estratto di ruolo”, invece, è (e resta sempre) solo un “documento” (un “elaborato informatico… contenente gli… elementi della cartella”, quindi unicamente gli “elementi” di un atto impositivo) formato dai concessionario della riscossione, che non contiene (né, per sua natura, può contenere) nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta.

La inidoneità dell’estratto di ruolo a contenere qualsivoglia (autonoma e/o nuova) pretesa impositiva, diretta o indiretta (essendo, peraltro, l’esattore carente del relativo potere) comporta indiscutibilmente la non impugnabilità dello stesso in quanto tale, innanzitutto per la assoluta mancanza di interesse (ex art. 100 c.p.c.) del debitore a richiedere ed ottenere il suo annullamento giurisdizionale, non avendo infatti alcun senso l’eliminazione dal mondo giuridico del solo documento, senza incidere su quanto in esso rappresentato. Peraltro, anche l’eventuale contestazione dell’attività certificativa del concessionario in sè considerata – ad esempio in relazione alla non corrispondenza tra quanto certificato nell’estratto e quanto risultante dal ruolo – avrebbe un senso solo in un ipotetico giudizio risarcitorio per aver confidato nella corrispondenza delle notizie riportate nell’estratto alle iscrizioni risultanti dal ruolo, non in un giudizio impugnatorio conducente esclusivamente ad un “annullamento” della certificazione.

Fatta – si spera – la chiarezza terminologica e concettuale necessaria al prosieguo dell’analisi della questione in esame, si può in astratto convenire con i giudici di primo grado e d’appello laddove hanno affermato la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, tra l’altro perchè “atto interno dell’Agente della riscossione” (così la sentenza di prime cure come riportata nella sentenza d’appello). E deve inoltre precisarsi che il contrasto giurisprudenziale per il quale la causa è stata rimessa a queste sezioni unite non riguarda l’impugnabilità dell’estratto di ruolo (documento tale definito dal concessionario che lo rilascia) bensì l’impugnabilità del ruolo, atto impositivo proprio dell’ente impostore disciplinato dalle norme sopra richiamate.

Tuttavia, come già evidenziato, al di là di ogni formale qualificazione, il ricorrente nella specie si è sempre doluto della invalida notificazione della cartella (e quindi anche del ruolo, posto che la sua notificazione coincide con quella della cartella D.Lgs. n. 546 citato, ex art. 21) e di questo atto – non del documento rilasciatogli dal concessionario – ha chiesto l’annullamento.

Pertanto occorrerà in questa sede affrontare la (diversa) questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata (e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo), con la precisazione che le considerazioni che saranno esposte in proposito devono intendersi riferibili anche alla impugnazione del ruolo, attesa la coincidenza della notificazione della cartella con quella del ruolo.

3. Escluso, sulla base di quanto si è fin qui esposto, l’interesse del richiedente ad impugnare il documento “estratto di ruolo”, può ovviamente sussistere un interesse del medesimo ad impugnare il “contenuto” del documento stesso, ossia gli atti che nell’estratto di ruolo sono indicati e riportati.

I suddetti atti (iscrizione del richiedente in uno specifico “ruolo” di un determinato ente impositore per un preciso “credito” di quest’ultimo; relativa cartella di pagamento fondata su detta iscrizione; notificazione della medesima – e del ruolo – ai richiedente nella data indicata nell’estratto di ruolo ricevuto) risultano univocamente impugnabili per espressa previsione del combinato disposto dei già richiamato D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, lett. d), e art. 21, comma 1. E ovviamente nessun problema in ordine alla impugnabilità dei medesimi si pone quando essi sono stati (validamente) notificati, sussistendo il diritto e l’onere dell’impugnazione con decorrenza dal momento della relativa notificazione (momento che per il ruolo e la cartella, come rilevato, è il medesimo ai sensi del D.Lgs. 546 citato, art. 21), mentre profili di problematicità potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi – ricorrente nella specie – di impugnazione di cartella della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo e non attraverso (valida) notifica.

Nella specie i giudici d’appello hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione della cartella di pagamento sul rilievo che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo non può comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta (ancorché per asserito difetto di notifica).

L’affermazione non è condivisibile. Premesso infatti in linea generale che i termini di impugnazione di un atto non possono che decorrere dalla (valida) notificazione dell’atto medesimo e che pertanto il destinatario dell’atto ha l’interesse (e il diritto) di provocare la verifica della validità della notifica dell’atto del quale egli non sia venuto a conoscenza in termini per l’impugnazione a causa di anomalie di tale notifica, è da escludere che l’impugnazione volta innanzitutto a provocare tale legittima verifica possa giammai condurre ad una “riapertura” dei suddetti termini, posto che, ove l’atto risultasse validamente notificato, nessuna “riapertura” sarebbe ovviamente ipotizzabile all’esito della verifica, mentre, ove l’atto non risultasse (validamente) notificato, i termini non avrebbero neppure iniziato a decorrere.

Posta pertanto come indiscutibile la possibilità per il contribuente di far valere l’invalidità della notifica di una cartella della quale (a causa di detta invalidità) sia venuto a conoscenza oltre i previsti termini di impugnazione, dubbi potrebbero ravvisarsi soltanto in relazione alla individuazione del momento a partire dal quale è possibile far valere tale invalidità, e ciò in ragione del disposto del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma 3, secondo il quale la mancata notifica degli atti autonomamente impugnabili adottati precedentemente all’atto notificato “ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”.

Tale previsione costituisce il precipitato di un principio – per anni considerato immanente al sistema tributario- secondo il quale la natura recettizia dell’atto tributario lo rende impugnabile solo a seguito di notifica al contribuente, essa sola costituente (secondo alcuni) manifestazione dell’esercizio della funzione impositiva, di talchè gli atti espressivi di tale funzione verrebbero a giuridica esistenza solo in quanto notificati.

In proposito, tuttavia, occorre dare conto del fatto che nell’ultimo decennio in numerose pronunce di questa Corte, anche a sezioni unite, si è ripetutamente affermata l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità che essi siano espressi in forma autoritativa (v. tra le molte s.u. n. 16293 del 2007 nonché da ultimo s.u. n. 3773 del 2014, secondo la quale è impugnabile la comunicazione con la quale l’Agenzia neghi la sussistenza del diritto patrimoniale che il creditore del creditore di imposta intende pignorare, rilevando che nella specie l’atto – ancorchè non diretto in forma autoritativa nei confronti del contribuente – ha natura indubbiamente tributaria comportando l’accertamento della sussistenza di crediti di imposta).

La giurisprudenza sopra richiamata, ammettendo l’autonoma ed immediata impugnabilità di qualsivoglia atto porti comunque legittimamente a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria (prescindendo dal fatto che tale atto sia direttamente rivolto al contribuente e si manifesti in forma autoritativa, quindi, a fortiori, prescindendo dal fatto che esso risulti notificato al medesimo contribuente) attraversa (di fatto superandola) la questione della natura recettizia dell’atto amministrativo e della sua impugnabilità solo a seguito della notifica al contribuente.

Tale questione risulta peraltro ampiamente superata anche dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità che, in conformità con la previsione letterale dell’art. 1334 c.c. – ai sensi del quale gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati -, ha ripetutamente affermato che la notificazione è una mera condizione di efficacia, non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio (ovvero l’inesistenza) di tale notificazione è irrilevante ove essa abbia raggiunto lo scopo per avere il destinatario impugnato l’atto in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo (v. tra le più recenti Cass. n. 654 del 2014 e n. 8374 del 2015), principio presupposto già da s.u. n. 19854 del 2004 (seguita da numerose altre), secondo la quale la natura non processuale dell’atto impositivo non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale – essendovi in proposito espresso richiamo nella disciplina tributaria – e quindi all’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie dettato per gli atti processuali, con la conseguenza che l’impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della relativa notificazione per raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 c.p.c., (sanatoria operante solo se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere impositivo).

Tanto premesso, occorre rilevare che nel diritto amministrativo, prima che la L. n. 15 del 2005, art. 14, introducesse, nella L. n. 241 del 1990, l’art. 21 bis (recante disposizioni in materia di “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo”), era assolutamente pacifica l’inapplicabilità della regola generale dettata dall’art. 1334 c.c. (espressamente prevedente – come già rilevato – una incidenza della mancata conoscenza da parte del destinatario dell’atto sulla efficacia del medesimo), valendo l’opposto principio secondo il quale l’esercizio unilaterale del potere produce effetti innovativi della precedente situazione giuridica senza bisogno di comunicazione al destinatario, salvo che la legge disponga espressamente in senso diverso o la recettizieta sia sicuramente desumibile dal tipo di atto. E’ quindi solo con la citata riforma del 2005 che trova espressa legittimazione il criterio c.d. “della qualità degli effetti”, secondo cui sono recettizi i provvedimenti “limitativi della sfera giuridica dei privati”.

Gli atti tributari – certo innanzitutto in ragione della indubbia incidenza sul patrimonio del destinatario – sono invece da sempre considerati atti recettizi. In tali atti pertanto le misure di partecipazione sono elementi costitutivi dell’efficacia giuridica, per cui l’effetto giuridico non decorre dalla data di adozione del provvedimento, ma dalla data di avvenuta comunicazione dello stesso.

E indubbiamente la natura recettizia degli atti tributari rende inapplicabile l’istituto della “piena conoscenza” ai fini del decorso del termine di impugnazione, essendo l’inammissibilità dell’utilizzo di strumenti alternativi o surrogatori al fine di provocare aliunde l’effetto di conoscenza una delle più rilevanti conseguenze connesse alla natura recettizia dell’atto, onde l’omessa comunicazione, nei modi di legge, del provvedimento recettizio (nella specie l’atto tributario) comporta il mancato decorso dei termini di impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile, con pregiudizio per la stabilità dei relativi effetti.

Da quanto sopra esposto circa l’origine storica e la disciplina connessa alla natura recettizia degli atti amministrativi in generale e degli atti tributari in particolare emerge che la recettizietà è essenzialmente e innanzitutto posta a presidio e tutela dei destinatario dell’atto, impedendo che l’atto recettizio, siccome negativamente incidente sulla sfera patrimoniale del contribuente, possa produrre i suoi effetti prima che siano scaduti i termini per impugnare, termini da calcolare a decorrere dalla conoscenza dell’atto, che non può essere ritenuta se non a seguito dell’avvenuto espletamento del procedimento all’uopo previsto dalla legge. Tuttavia, se è vero che, come sopra rilevato, non è sufficiente la prova della “piena conoscenza” dell’atto ai fini della decorrenza dei suddetti termini ma è necessaria una comunicazione effettuata nei modi previsti dalla legge, è anche vero che ciò non può impedire l’impugnabilità dell’atto (del quale il contribuente sia venuto “comunque” a conoscenza) ma soltanto, appunto, la decorrenza dei relativi termini di impugnazione in danno del contribuente, distinzione che risulta ben chiara nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. sul punto tra le altre s.u. n. 3773 del 2014 nonché Cass. nn. 17010 del 2012 e 24916 del 2013) secondo la quale l’ammissibilità di una tutela “anticipata” non comporta l’onere bensì solo la facoltà dell’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare successivamente, in ipotesi dopo la notifica di un atto “tipico”, la pretesa della quale il contribuente sia venuto a conoscenza (eventualmente attraverso un atto “atipico”, in quanto ad esempio non manifestato in forma “autoritativa” oppure privo delle indicazioni previste dal secondo comma dell’articolo 19 citato).

Ove poi volesse ritenersi che l’indiscutibile recettizietà dell’atto tributario sia (al di là delle sue origini storiche e della relativa disciplina positiva) intesa (anche) ad una sorta di “salvaguardia” dell’amministrazione, nel senso che la notifica manifesterebbe univocamente la volontà dell’amministrazione di “esternare” l’atto, così evitando l’impugnazione di “atti interni”, di carattere meramente procedimentale, rispetto ai quali non si sia completata la volontà dell’ente, è agevole replicare, a tacer d’altro, che nella specie l’iter procedimentale era assolutamente concluso e l’ente impositore aveva univocamente manifestato la volontà di “esternare” l’atto, avendo definito la pretesa tributaria, formato il ruolo costituente titolo esecutivo e richiesto al concessionario l’emissione e notificazione di cartella.

Né, d’altro canto, potrebbe ragionevolmente sostenersi che la recettizietà dell’atto tributario comporti la spettanza all’amministrazione del potere di stabilire, attraverso la scelta del momento di notifica dell’atto, (non solo quando esternare la propria volontà impositiva ma anche e soprattutto) quando consentire al destinatario di impugnare tale volontà impositiva, eventualmente già formatasi e portata all’esterno al punto da dare l’avvio ad un procedimento esecutivo e produrre effetti che comunque il contribuente ha interesse a contrastare.

Una lettura costituzionalmente orientata dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 citato, art. 19, comma÷3, (non esclusa dal tenore letterale del testo) impone pertanto di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato ivi prevista non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la facoltà del medesimo di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità che, impedendo la conoscenza dell’atto e quindi la relativa impugnazione, ha prodotto l’avanzamento del procedimento di imposizione e riscossione, con relativo interesse del contribuente a contrastarlo il più tempestivamente possibile, specie nell’ipotesi in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più reversibile se non in termini risarcitori.

Una diversa lettura della norma in esame (nel senso che l’impugnazione di un atto non notificato possa avvenire sempre e soltanto unitamente all’impugnazione di un atto successivo notificato) comporterebbe infatti una abnorme ed ingiustificata disparità tra i soggetti del rapporto tributario. E’ infatti da considerare che mentre le notifiche degli atti processuali vengono valutate immediatamente dal giudice nel processo e, se non valide e tempestive, non producono alcun effetto in danno del destinatario, con riguardo agli atti impositivi l’invalidità delle relative notifiche produce come unico effetto immediato (non l’intervento del giudice ma) l’impossibilità per il destinatario di conoscere l’atto e quindi di promuovere il controllo giurisdizionale sul medesimo, e non interrompe quindi (ma rende anzi più “fluido”, in mancanza di contestazioni) il procedimento di imposizione e riscossione avviato dall’amministrazione, procedimento che potrebbe pertanto proseguire indisturbato fino alla sua conclusione attraverso il compimento dell’esecuzione senza che il contribuente abbia avuto mai modo di contestare la pretesa attraverso una impugnazione, e ciò non per fatto al medesimo contribuente addebitabile, bensì in ragione della invalidità di notifiche delle quali è onerata l’amministrazione e che sono nella sua piena determinazione sia con riguardo ai tempi di intervento sia con riguardo alle relative modalità (ad esempio indicazione di nominativi e recapiti) sia con riguardo alla valutazione della espletata attività di notificazione (in relazione al successivo controllo del buon esito della medesima ed alle determinazioni circa la necessità o meno di riprendere il procedimento notificatorio).

In simile situazione, la possibilità per il contribuente di conoscere legittimamente attraverso il c.d. estratto di ruolo le iscrizioni a proprio carico e l’eventuale emissione e notificazione di cartelle potrebbe rappresentare un “correttivo” idoneo a bilanciare il rapporto sperequato tra amministrazione e contribuente soltanto se la conoscenza – attraverso l’estratto di ruolo – di un atto che il contribuente avrebbe avuto il diritto di impugnare (e che non è stato impugnato in quanto non conosciuto perché malamente notificato) ne consentisse l’immediata impugnazione, non certo se al contribuente – che a causa dell’invalidità di una notifica della quale era onerata l’amministrazione sia stato espropriato del proprio diritto di accedere alla tutela giurisdizionale – si continui a negare tale accesso, subordinandolo alla notifica di un ulteriore atto da parte dell’amministrazione, senza considerare che: in alcuni casi potrebbe anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad esecuzione forzata sulla base del ruolo; la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente sarebbe ancora una volta rimessa alla determinazioni dell’amministrazione circa i modi e i tempi della notifica dell’eventuale atto successivo;

nel frattempo aumenterebbe per il contribuente il pregiudizio connesso alla iscrizione in un registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione coatta; tale pregiudizio, nonché quello derivante da un eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione.

Per altro verso, la possibilità che il contribuente faccia valere immediatamente le proprie ragioni in relazione ad un atto non (validamente) notificatogli, senza bisogno di attendere la notifica di altro atto successivo (che potrebbe essere a sua volta malamente notificato) è funzionale anche al buon andamento della pubblica amministrazione, perché di certo contribuisce ad evitare i costi di una procedura esecutiva male instaurata, la produzione e l’aumento di danni da risarcire al contribuente, i rischi di decadenza dell’amministrazione in ragione di ripetute notifiche non andate a buon fine.

Né può ritenersi che la riconosciuta impugnabilità del ruolo e della cartella non (validamente) notificati dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza tramite l’estratto di ruolo espongano ai rischi di dilatazione del contenzioso e rallentamento dell’azione di prelievo, come da taluno paventato.

In proposito è infatti appena il caso di rilevare che l’impugnazione della cartella per mancanza di (valida) notificazione proposta non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato non comporta un aggravio del contenzioso se si considera che l’impugnazione della cartella, ancorché “ritardata”, interverrebbe in ogni caso al momento della notifica dell’atto successivo, mentre la proposizione “anticipata” di essa potrebbe evitare l’emissione e la notifica (quindi l’impugnazione) dell’atto successivo e perciò indurre un possibile effetto deflativo. Tanto premesso, è però indubbio che anche un eventuale (modesto) incremento del contenzioso non potrebbe giustificare una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale consistente nel posticipare la possibilità di accesso ad essa ad un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire e perciò ad un momento in cui è possibile che alcuni effetti lesivi dell’atto si siano già prodotti. E’ infine da escludere che dalla impugnabilità di un atto nel quale risulti esternata una ben definita pretesa tributaria possa derivare un “rallentamento” dell’azione di prelievo, che non sia quello strettamente (e legittimamente) derivante dall’interesse e dal diritto costituzionalmente presidiato del contribuente di contrastare la possibilità di un prelievo illegittimo, dovendo rilevarsi che posticipare il momento in cui il contribuente può far valere l’illegittimità della pretesa non serve a “sveltire” l’azione di prelievo ma solo ad aumentare il danno derivante da azioni esecutive in ipotesi portate avanti sulla base di pretese illegittime. 4) Alla luce di quanto fin qui esposto deve conclusivamente affermarsi la fondatezza – nei termini sopra riportati – del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente si duole della ritenuta inammissibilità della opposizione proposta per far valere l’invalidità della notifica della cartella di pagamento della quale essa era venuta a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo. Deve invece affermarsi l’infondatezza del motivo in esame nella parte in cui la ricorrente sostiene che i giudici d’appello, trascurando ogni valutazione sia in ordine alle circostanze di fatto offerte dalla contribuente con riguardo alla dedotta omissione di notifica della cartella sia in ordine alla mancata contestazione delle suddette circostanze ad opera della controparte, sarebbero incorsi in “difetto di attività del giudice che si risolve nella nullità della sentenza per insufficiente motivazione”.

In proposito, infatti, anche ritenendo di poter prescindere dalla impropria formulazione della censura, deve evidenziarsi che i giudici d’appello hanno dichiarato l’inammissibilità della proposta opposizione e che queste sezioni unite hanno ripetutamente affermato che, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza) con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare, con la conseguenza che è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (così SU n. 3840 del 2007 e numerose altre successive), dovendo a fortiori ritenersi infondata l’impugnazione che, come nella specie, sostanzialmente censuri (sia pure attraverso incongrui riferimenti normativi) l’omessa pronuncia sul merito da parte del giudice che si sia spogliato della relativa potestas iudicandi con una statuizione di inammissibilità.

Dall’argomentare che precede discende l’accoglimento, nei limiti e nei termini sopra esposti, del ricorso, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla CTR della Puglia in diversa composizione perché provveda a decidere la controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto: “E’ ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”.

Il giudice del rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per te spese alla C.T.R. Puglia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 2, Ord., (data ud. 21/05/2015) 30/09/2015, n. 19387

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19628/2012 proposto da:

C.D. (OMISSIS) elettivamente domiciliato in ROMA, VIA M. BRAGADIN, 95, presso lo studio dell’avvocato MATTEO CARLO PARROTTA, rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

PUBBLICO MINISTERO presso la PROCURA GENERALE di CATANZARO;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 277/11 R.C.C. della CORTE D’APPELLO di CATANZARO dell’8/06/2012, depositata il 20/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

Svolgimento del processo
Con ordinanza del 20 luglio 2012, la Corte di appello di Catanzaro, chiamata a pronunciarsi sull’opposizione proposta da C. D., con separati ricorsi, poi riuniti, avverso i decreti di liquidazione dei compensi ad esso spettanti per l’attività defensionale svolta nell’interesse dei propri assistiti, entrambi ammessi al gratuito patrocinio nell’ambito di un procedimento per i reati di cui della L. 685 del 1975, artt. 71, 74 e 75, e definito con sentenza in data 5/10/2012, in riforma del provvedimento impugnato, ha accolto le censure mosse ai provvedimenti impugnati e provveduto alla rideterminazione dell’ammontare dei compensi spettanti al difensore con l’aggiunta del rimborso delle spese di viaggio e dell’indennità di trasferta.

Avverso tale provvedimento definitivo della Corte di appello di Catanzaro ha presentato ricorso a questa Corte, il medesimo C., deducendo due diversi motivi.

Con la prima articolata censura ha denunciato, in primis, la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e all’art. 111 Cost., in secondo luogo, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, in relazione alle norme determinative della tariffa professionale penale di cui al D.M. n. 127 del 2004, nonchè violazione del principio del divieto di reformatio in peius anche per vizio di motivazione.

Con il secondo mezzo ha dedotto la violazione dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b); violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre ad omessa motivazione sul medesimo punto relativo alle spese del giudizio.

L’intimato Pubblico Ministero presso la Procura Generale di Catanzaro non ha svolto difese in questa fase del giudizio.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., proponendo l’accoglimento del ricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria illustrativa di adesione alla relazione.

Motivi della decisione
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con il primo motivo viene denunciata la inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni in tema di liquidazione degli onorati del difensore, in particolare dell’art. 82 T.U. materia di spese di giustizia e delle norme che ineriscono la tariffa professionale penale contenuti nel D.M. n. 127 del 2004, per avere la Corte di appello di Catanzaro, nonostante il riconoscimento della fondatezza delle censure sollevate dall’odierno ricorrente, proceduto ad una liquidazione dei compensi e degli onorari ad esso spettanti in misura inferiore rispetto ai decreti impugnati e per aver arbitrariamente disatteso quanto attestato dalle note difensive e dalle produzioni documentali della parte.

Con il secondo motivo il ricorrente censura l’ordinanza impugnata per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ed omessa motivazione, limitatamente alla mancata statuizione in ordine alla liquidazione delle spese del procedimento di opposizione.

Per poter procedere all’esame delle suddette doglianze occorre dare atto della imprescindibilità di un adempimento preliminare consistente nella previa integrazione del contraddittorio, non essendo stata evocata in giudizio la necessaria controparte dello stesso.

Al riguardo si sono pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte che, superando il contrasto esistente circa la legittimazione passiva nel giudizio di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, hanno statuito che litisconsorte necessario è il Ministero della Giustizia. Nel dettaglio, la Suprema corte, ha chiarito come non possa considerarsi titolare passivo del rapporto nè l’agenzia dell’entrate, sovente intimata in tali giudizi, nè il Pubblico Ministero, come è accaduto nel caso di specie, bensì un terzo e diverso soggetto, ciò in quanto tale giudizio, anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate ai fini di giudizio penale, presenta carattere di autonomo giudizio contenzioso avente ad oggetto controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale, per cui, parte necessaria dei procedimenti suddetti deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento, con la conseguenza che nei giudizi di opposizione a liquidazione inerenti a giudici civili e penali suscettibili di restare a carico dell’erario”, quest’ultimo va identificato nel Ministero della Giustizia, che pertanto è parte necessaria (Cass. S.U. 29 maggio 2012 n. 8516). Trattasi di principi consolidati e ribaditi dalle più recenti pronunce di questa Corte (Cass. 29 gennaio 2015 n. 1687; Cass. 21 ottobre 2014 n. 22316; Cass. 13 febbraio 2014 n. 3312; Cass. 14 febbraio 2013 n. 3622).

In definitiva si conferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., data la necessità di procedere all’integrazione del contradditorio ex art. 331 c.p.c.”.

Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, e alla quale non sono state rivolte critiche di sorta, sono condivisi dal Collegio, ragione per la quale l’ordinanza impugnata va cassata e, in applicazione dell’art. 383 c.p.c., comma 3, deve essere disposta la rimessione della causa al primo giudice, individuato come in dispositivo, il quale, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, pronunciando sul ricorso, dichiara la nullità del giudizio di merito e ne ordina la rinnovazione davanti al Presidente della Corte di appello di Catanzaro, previa integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero della giustizia, il quale provvederà anche per le spese del giudizio di Cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte di Cassazione, il 21 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 16/06/2015) 29/09/2015, n. 19299

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17820-2009 proposto da:

LA ECOLOGA IMMOBILIARE S.N.C. DI BOSCHETTO DI SONIA & SERGIO, già LA ECOLOGA DI SAORIN LUIGINA & C. S.N.C. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato MANZI LUIGI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIGNATELLI BIAGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

N.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato JOUVENAL DANIELA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SPAGNOLO SALVATORE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

B.L. C.F. (OMISSIS);

– intimato –

Nonchè da:

B.L. C.F. (OMISSIS) titolare dell’impresa individuale B.L. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato MANZI Luigi, rappresentata e difesa dall’avvocato PIGNATELLI Biagio, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

N.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato J.D., che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SPAGNOLO SALVATORE, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

LA ECOLOGA IMMOBILIARE S.N.C. DI BOSCHETTO DI SONIA & SERGIO, già LA ECOLOGA DI SAORIN LUIGINA & C. S.N.C. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza non definitiva n. 614/2008 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 02/02/2009 r.g.n. 484/2006;

avverso la sentenza definitiva n. 136/2009 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata minuta il 23/03/2009 r.g.n. 484/2006, pubblicata il 20/05/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/06/2015 dal Consigliere Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI;

udito l’Avvocato FAVARA ANGELA per delega PIGNATELLI BIAGIO;

udito l’avvocato JOUVENAL DANIELA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario che ha concluso per l’accoglimento primo motivo ricorso principale e incidentale, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, che aveva respinto le domande in particolare di N. A. (ricorrente con altri, dipendente con mansioni di operatore ecologico autista di Ecologa s.n.c. di Saorin Luigina & C. dal 2 giugno 1989 al 30 aprile 1999 e della ditta individuale B. L. il solo 1 maggio 1999 in corrispondenza della cessione di ramo di azienda da questa a Iride s.r.l. con passaggio ad essa con identiche mansioni ma applicazione del CCNL Federambiente, più attinente all’attività di raccolta, spazzamento e smaltimento di rifiuti da sempre svolta e di maggior favore per i dipendenti, rispetto a quello per aziende di trasporto adottato dalle precedenti datrici) di accertamento dell’applicabilità a tutto il rapporto di lavoro del più favorevole CCNL e di condanna solidale di Ecologa s.n.c. di Saorin Luigina & C. e della ditta individuale B. L. (costituenti unico centro di imputazione di interessi per i segnalati indici sintomatici) al pagamento della somma di L. 70.234.270 (a titolo di differenze retributive, indennità lavaggio indumenti, 13, ma e 14.ma mensilità, ferie non godute, lavoro straordinario e T.f.r.), con sentenza non definitiva 2 febbraio 2009 accertava l’unicità di impresa delle due datrici convenute, condannandole in solido per i titoli suindicati ad importo poi liquidato, con sentenza definitiva 20 maggio 2009, nella somma di Euro 50.871,51, al lordo di interessi legali e rivalutazione monetaria maturati, nonchè alla rifusione delle spese dei due gradi di giudizio, in misura di due terzi, compensato il terzo residuo.

A motivo della decisione non definitiva, la Corte territoriale riteneva provata, in base a critico e argomentato esame delle risultanze istruttorie, l’unicità dell’organizzazione imprenditoriale di Ecologa s.n.c. di Saorin Luigina & C. e della ditta individuale B.L. (per identità di sede, di partecipazione dello stesso nucleo familiare, per promiscuità e indifferenziato utilizzo di personale e mezzi, essendo stato N.A., benchè formalmente dipendente della prima, in prevalenza addetto al servizio di raccolta dei rifiuti urbani appaltato a B.L.) e la corretta applicazione al rapporto di lavoro, per l’intera sua durata, del CCNL per i dipendenti da imprese esercenti attività di nettezza urbana (Ausitra), in applicazione dei principi in tema di c.d. “clausole sociali” e secondo lo schema del contratto a favore di terzo.

A fondamento della sentenza definitiva, la Corte veneziana poneva il conteggio delle spettanze retributive concordato tra le parti, in applicazione del suddetto contratto, con inquadramento al 4 livello da gennaio 1990 alla cessazione del rapporto. Con atto notificato il 13 luglio 2009, Ecologa Immobiliare s.n.c. di Boschetto Sonia e Sergio (già Ecologa di Saorin Luigina & C. s.n.c.) ricorre per cassazione avverso entrambe le sentenze con dieci motivi, cui si associa B.L. con controricorso, contenente ricorso incidentale con gli stessi dieci motivi; ad entrambi resiste N.A. con distinti controricorsi.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente ed il controricorrente ricorrente incidentale deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 434 c.p.c., comma 2, artt. 330, 156, 162, 164 e 291 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per nullità della sentenza non definitiva per omessa pronuncia sulla questione di radicale nullità o inesistenza della notificazione del ricorso in appello a difensore diverso da quello di primo grado domiciliatario, privo di alcun collegamento con la parte.

Con il secondo, i predetti deducono vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5 c.p.c, sul fatto decisivo e controverso dell’unicità delle imprese convenute, per incongrua, parziale e non corretta valutazione del materiale istruttorio, in particolare con attribuzione di rilevanza a deposizioni testimoniali inattendibili ed omessa considerazione dell’esercizio da Ecologa s.n.c. della sola attività di trasporto per conto di terzi e non di asporto di rifiuti urbani, neppure mai oggetto di appalti sottoscritti dalla medesima. Con il terzo, i predetti deducono violazione dell’art. 112 c.p.c, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, per non corrispondenza della pronuncia, di accertamento dell’unicità del centro decisionale delle due imprese, a domanda mai formulata, per la limitazione della parte alla richiesta di accertamento della loro unicità per uso promiscuo di mezzi e attrezzature, identità di sede, qualità di socio di Ecologa s.n.c. di B.L., titolare dell’omonima impresa individuale.

Con il quarto, i predetti deducono violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per ultrapetizione della pronuncia di accertamento dell’applicazione al rapporto di lavoro in contestazione del CCNL Ausitra ai sensi della L. n. 300 del 1970, srt. 36 rispetto alla domanda formulata di applicabilità degli artt. 2070, 1175, 1337 e 1375 c.c. Con il quinto, i predetti deducono vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sul fatto decisivo e controverso dell’applicabilità al rapporto di lavoro in contestazione del CCNL Ausitra, in base a premesse logico-giuridiche indimostrate o documentalmente smentite, quali l’identità delle imprese convenute, la riferibilità a Ecologa s.n.c. dei contratti di appalto stipulati dall’impresa Boschetto con enti pubblici, contenenti clausole comportanti l’applicazione del CCNL contestato ed al cui rispetto essa obbligatasi. Con il sesto, i predetti deducono violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 36 art. 1411 c.c. e di norme di CCNL, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea qualificazione della c.d. “clausola sociale” alla stregua di pattuizione in favore del terzo lavoratore, così legittimato ad esigere la prestazione stabilita, di applicazione del CCNL oggetto della clausola, quando invece l’art. 36 cit. istitutivo di un obbligo giuridico datoriale nei soli confronti della P.A..

Con il settimo, i predetti deducono vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sul fatto decisivo e controverso dell’inquadramento e degli importi riconosciuti al lavoratore, per assenza di effettive argomentate ragioni per l’attribuzione, ancorchè contestata, del 4 livello, anzichè del 3 del CCNL Ausitra, in ogni caso spettante solo per il periodo successivo al maggio 1995 e dell’inutilizzabilità delle differenze di orario tra i due CCNL a fini di riconoscimento della prestazione di orario straordinario. Con l’ottavo ed il nono, i predetti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 4 CCNL Ausitra e art. 2070 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per vizio di ultrapetizione, avendo la Corte territoriale riconosciuto la spettanza al lavoratore anche dell’indennità di lavaggio indumenti, in assenza di sua specifica domanda, neppure implicita in quella di differenze retributive in quanto priva di tale natura (e pertanto non computabile nel T.f.r.), nè riconoscibile ai sensi dell’art. 2070 c.c., in difetto di adesione datoriale ad alcuna associazione rappresentativa firmataria del CCNL cit., in particolare riferimento all’art. 3 del suo all. 4.

Con il decimo, i predetti deducono vizio di motivazione della sentenza definitiva, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sul fatto decisivo e controverso del presunto accordo tra le parti in ordine alla liquidazione delle spettanze al lavoratore, per la salvezza, espressamente riservata da Ecologa s.n.c. in calce alla nota dei conteggi 27 febbraio 2009, delle contestazioni sul livello di inquadramento e su altre voci in precedenza contestate. Il primo motivo, relativo ad omessa pronuncia sulla questione di radicale nullità o inesistenza della notificazione del ricorso in appello a difensore diverso da quello di primo grado domiciliatario, è infondato.

Ed infatti, la sentenza non definitiva impugnata non ha omesso la pronuncia sulla questione preliminare prospettata, avendola piuttosto implicitamente respinta a seguito della trattazione e decisione del merito della controversia: posto che non è configurabile il vizio di omessa pronuncia quando una domanda, pur non espressamente esaminata, debba ritenersi rigettata anche con pronuncia implicita, perchè indissolubilmente avvinta ad altra domanda, che ne costituisca (o di cui essa costituisca, come nel caso di specie) il presupposto e il necessario antecedente logico – giuridico, decisa e rigettata dal giudice (Cass. 4 agosto 2014, n. 17580; Cass. 23 settembre 2004, n. 19131).

La pronuncia di implicito rigetto della questione posta in ordine al vizio della notificazione dell’atto di appello, in quanto indirizzato a difensore diverso da quello officiato come domiciliatario nel giudizio di primo grado, appare poi corretta. E ciò sul presupposto della sua avvenuta sanatoria ai sensi dell’art. 156 c.p.c., u.c., per raggiungimento dello scopo, con la costituzione in giudizio della parte, difesasi anche nel merito, attesa la ravvisata nullità della notificazione del ricorso in appello.

Al riguardo, è decisiva la distinzione tra notificazione (radicalmente) inesistente ovvero (soltanto) nulla. E’ noto come essa sia segnata dal discrimine tra la sua esecuzione in un luogo o con riguardo ad una persona che non presentino alcun riferimento con il destinatario dell’atto, risultando a costui del tutto estranei (dando luogo ad inesistenza), ovvero mediante consegna a persona o in luogo diversi da quello stabilito dalla legge, ma tuttavia suscettibili dell’istituzione di un simile collegamento, così da rendere possibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario: così procurando semplicemente la nullità della notificazione, sanabile con effetto ex tunc attraverso la costituzione del convenuto, ovvero attraverso la rinnovazione della notifica cui la parte istante provveda spontaneamente o in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice (Cass. 2 dicembre 2009, n. 25350).

A più puntuale specificazione del principio, secondo cui la notificazione eseguita in luogo o a soggetti diversi da quelli dovuti ne comporta l’inesistenza solo in difetto di alcuna attinenza o riferimento o collegamento di quel luogo o soggetto con il destinatario (diversamente essendo affetta da semplice nullità), è stata ritenuta nulla e non inesistente la notificazione dell’atto di appello effettuata presso il procuratore domiciliatario costituito nella prima fase del primo grado di giudizio, anzichè presso il nuovo difensore che lo aveva sostituito in corso di causa (Cass. 21 marzo 2011, n. 6470).

Ed ancora, qualora la notificazione del ricorso per cassazione venga eseguita, anzichè presso il procuratore domiciliatario della parte nel giudizio di secondo grado (in conformità a quanto prescritto dall’art. 330 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi) presso il suo diverso procuratore domiciliatario in primo grado, l’eventuale rituale presentazione del controricorso contenente la difesa nel merito, dimostrando ex post che la notificazione ha raggiunto lo scopo cui era preordinata, impedisce di ritenerla inesistente perchè non riferibile al luogo ed alla parte sua destinataria, con conseguente ammissibilità del ricorso, altrimenti assumendo rilevanza solo l’astratto interesse al rispetto della legge processuale (Cass. 29 maggio 2013, n. 13451). E l’arresto merita convinta adesione per la sua correttezza giuridica e la sua persuasività logico- argomentativa, nell’assumere, in stretta aderenza alla fattispecie esaminata, una consapevole e ben motivata posizione contraria rispetto al precedente indirizzo contrario di legittimità, ravvisante piuttosto un’inesistenza della notificazione siffatta del ricorso per cassazione, sull’assunto della necessaria revoca, con la seconda procura con elezione di domicilio, della precedente elezione, così non consentendo di considerare il luogo in essa indicato come ancora riferibile al destinatario dell’atto (Cass. 17 aprile 2007, n. 9147; Cass. s.u. 13 febbraio 2008, n. 3395): secondo un’applicazione rigorosa del principio, sul rilievo dell’interruzione, una volta intervenuta la sostituzione del difensore revocato, di ogni rapporto tra la parte ed il procuratore cessato, non più gravato da alcun obbligo, nell’inoperatività della proroga che si accompagna alla semplice revoca del mandato senza la nomina di nuovo difensore (Cass. 27 luglio 2012, n. 13477). La diversa qualificazione di nullità, piuttosto che di inesistenza, della notifica in esame si fonda sulla contestazione del”l’argomentazione centrale, per ritenere inesistente la notificazione stante la mancanza di ogni riferibilità del ricevente rispetto alla parte destinataria dell’atto … data dall’esaurimento definitivo di ogni efficacia della procura a suo tempo rilasciata al ricevente l’atto, che vale a rendere il difensore soggetto completamente estraneo al giudizio, per la mancanza di qualunque obbligo di questi rispetto alla parte prima rappresentata”: sicchè “ad impedire la riferibilità alla parte è la presenza di un nuovo procuratore domiciliatario, legato alla parte dalla rappresentanza tecnica; di un nuovo rappresentante processuale qualificato a ricevere l’atto di impugnazione per vagliare l’opportunità della difesa”. Ebbene, la sentenza citata reputa che “tale corretta impostazione teorica, alla base dello schema tipico della notificazione dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., non è scalfita se si attribuisce rilievo ad ipotesi nelle quali, come nella specie, la riferibilità della persona e del luogo della notifica alla parte destinatario della stessa emerge in concreto ed è ricavabile ex post dalla circostanza che la parte interessata ne ha avuto conoscenza – in qualunque modo, in sè irrilevante – e ha usato tale conoscenza proprio per le finalità (difesa rispetto alla notifica di un atto di impugnazione) cui la notifica dell’atto era preordinata, senza prospettare lesioni nei propri diritti di difesa conseguenti alla violazione delle regole disciplinanti la notificazione. La riferibilità in concreto ed ex post consente all’atto notificatorio, pur viziato, di essere riconosciuto come appartenente alla categoria delle notificazioni, escludendo l’inesistenza e consentendo la sanatoria nell’ambito delle nullità processuali, secondo la distinzione affermatasi nella giurisprudenza”. Ed un tale argomentare poggia sul solido fondamento di un consolidato insegnamento di legittimità che esclude, “in presenza di una piena difesa nel merito da parte del soggetto cui il ricorso non sia stato ritualmente notificato, senza che sia neppure allegata la lesione del proprio diritto ad apprestare la difesa per il ricorso”, la prevalenza degl’astratto mancato rispetto della regola legale”, quale oggetto di tutela dall’ordinamento di un interesse all’astratta osservanza della legge “in controtendenza alla linea evolutiva della giurisprudenza di legittimità che richiede un pregiudizio del diritto di difesa subito da chi denuncia un vizio processuale”, avendo ripetutamente la Corte di cassazione ritenuto che “in materia di impugnazioni civili, dai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire si desume quello per cui la denunzia di vizi dell’attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa, concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio (Cass. 25 gennaio 2012, n. 1029; 27 gennaio 2012, n. 1201; 7 febbraio 2011, n. 3024; 23 febbraio 2010 n. 4340; Sez. Un. 21 febbraio 2008, n. 4435; Cass. 25 luglio 2006, n. 16898)”.

Ebbene, nel caso di specie, tanto Ecologa s.n.c. quanto B. L. si sono costituiti nel giudizio di appello, svolgendo difese nel merito e richiedendo, oltre all’inammissibilità dell’impugnazione per inesistenza della sua notificazione, anche la reiezione delle domande avversarie con essa devolute, per infondatezza. Ma soprattutto, la prima (s.n.c.) ha ricevuto la notificazione dell’atto di appello presso il nuovo difensore Avv. Gentilin, pure avendo officiato come difensore domiciliatario in primo grado l’Avv. Sguotti; e correlativamente il secondo (titolare dell’omonima ditta individuale) ha ricevuto la notificazione dell’atto di appello presso il nuovo difensore Avv. Sguotti, pure avendo officiato come difensore domiciliatario in primo grado l’Avv. Gentilin. Se ad una tale speculare inversione di difensori domiciliatari, invero singolare, ad opera di due parti tra le quali sussistente un unico centro di interessi (secondo l’accertamento della Corte territoriale), si aggiunge pure quello, sempre accertata dalla medesima Corte, della qualità di socio della Ecologa s.n.c. di B.L. (a pg. 17 della sentenza non definitiva), neppure in fatto contestato dalle parti ricorrenti principale e incidentale, appare di un’evidenza solare (per l’obbligo di informazione di entrambi i citati) difensori, inversamente difensori domiciliatari in primo e secondo grado delle due parti, della notificazione dell’atto di impugnazione ricevuto a B.L., titolare di ditta individuale e socio di società personale, pertanto illimitatamente e solidalmente responsabile delle obbligazioni sociali, a norma dell’art. 2291 c.c.) l’esistenza di quel collegamento tale da rendere possibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario. Come in effetti è stato, per le ragioni illustrate, pure riscontrate dalla documentata rinuncia a verbale congiuntamente da entrambi i predetti difensori all’eccezione di inammissibilità dell’appello per irritualità della notifica (come da verbale di causa prodotto sub 2 da N. A. e indicato al primo periodo di pg. 3 del suo controricorso).

Sicchè il vizio della notificazione denunciato deve essere correttamente qualificato alla stregua di nullità, sanata con effetto ex tunc attraverso la costituzione delle due controparti, appellate e odierne ricorrenti principale ed incidentale. Per tali ragioni il motivo scrutinato deve essere respinto.

Il secondo motivo, relativo a vizio di motivazione sul fatto decisivo e controverso dell’unicità delle imprese convenute, è inammissibile.

Esso si articola in una generica confutazione probatoria, con la contrapposizione di una interpretazione dei fatti propria della parte a quella della Corte territoriale, tendente alla sollecitazione di un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità, qualora, come nel presente caso (per le correttamente argomentate e pertanto condivisibili ragioni illustrate a pgg. 16, 17 della sentenza), esente da vizi logico-giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).

Il terzo motivo, relativo a violazione dell’art. 112 c.p.c. per non corrispondenza della pronuncia, di accertamento dell’unicità del centro decisionale delle due imprese, ad una domanda mai formulata, è infondato.

Ed infatti, la pronuncia resa è coerente alla questione prospettata, oggetto di specifica domanda, non potendosi davvero configurare unità di imprese, se non previo l’accertamento dell’unicità della loro struttura organizzativa e di unità direttiva verso uno scopo comune, alla base della traduzione del collegamento economico – funzionale tra imprese in un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici, oltre che economici (Cass. 15 maggio 2006, n. 11107). Il quarto motivo, relativo ad ultrapetizione della pronuncia di accertamento dell’applicazione al rapporto di lavoro in contestazione del CCNL Ausitra ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 36 è pure infondato.

Ed infatti, la pronuncia della Corte territoriale corrisponde alla domanda proposta dal lavoratore, fondata sull’allegazione dell’inadempimento datoriale alle obbligazioni assunte nei confronti degli enti appaltanti e dei dipendenti di applicazione del CCNL Ausitra, a fondamento della pretesa di differenze retributive (come indicato a pg. 10 della sentenza non definitiva) ed oggetto specifico del secondo motivo di appello (come indicato a pg. 18 della sentenza), con la piena coerenza del ragionamento argomentativo svolto dalla Corte territoriale a fondamento della decisione al riguardo (a pgg. da 18 a 20 della sentenza), integrante diversa (e corretta) qualificazione giuridica della domanda (in luogo di quella ai sensi dell’art. 2070 c.c. e dell’art. 36 Cost. del lavoratore, riportata a pg. 11 della sentenza), nella piena titolarità del giudice di merito (Cass. 12 dicembre 2014, n. 26159; Cass. 14 novembre 2011, n. 23794), in applicazione del principio “iura novit curia” a norma dell’art. 113 c.p.c. (Cass. 24 luglio 2012, n. 12943) e non integrante violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 3 luglio 2014, n. 15223; Cass. 28 giugno 2010, n. 15383).

Il quinto motivo, relativo a vizio di motivazione sul fatto decisivo e controverso dell’applicabilità al rapporto di lavoro in contestazione del CCNL Ausitra, è parimenti infondato.

Appare, infatti, corretta e bene argomentata la motivazione della sentenza impugnata, tanto in ordine alla ritenuta identità delle imprese convenute (a pgg. 16, 17 della sentenza), a fondamento del rigetto del secondo motivo, tanto in ordine alla riferibilità ad Ecologa s.n.c. dei contratti di appalto stipulati dall’impresa B. con enti pubblici, in virtù della comunicazione ad essa dell’obbligo contratto dall’impresa individuale (per l’accertata unità imprenditoriale) e della natura di tale obbligo, in favore del terzo lavoratore (come ritenuto in riferimento al sesto motivo).

Ed anche questo sesto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 36, art. 1141 c.c. e di norme di CCNL per erronea qualificazione della c.d. “clausola sociale” alla stregua di pattuizione in favore del terzo lavoratore, è infondato.

B.L. ha, infatti, assunto con il Comune di Rubano l’obbligo di applicazione integrale del CCNL Ausitra (art. 13.2 del capitolato speciale di appalto 11 settembre 1989), costituente clausola a favore del terzo, a norma dell’art. 1411 c.c., pertanto legittimante il lavoratore ad esigerne l’applicazione normativa e retributiva, rendendo la circostanza responsabile l’appaltatore, nei confronti del personale dipendente dalle imprese coinvolte nel lavoro assunto, del rispetto delle condizioni normative ed economiche previste dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro, applicabile al settore di attività (Cass. 8 settembre 2014, n. 18860).

Il settimo motivo, relativo a vizio di motivazione sul fatto decisivo e controverso dell’inquadramento e degli importi riconosciuti al lavoratore, è inammissibile.

Esso viola il principio di autosufficienza del ricorso prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per omessa trascrizione della declaratoria del CCNL in esame, nè delle dichiarazioni dei testi in modo adeguato (Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; 30 luglio 2010, n. 17915), così da non consentire, sulla base del solo ricorso, una verifica in sede di legittimità dell’accertamento di fatto, altrimenti insindacabile, della Corte territoriale (terzo capoverso di pg. 20 della sentenza), pure comportante inammissibilità, per insindacabilità della valutazione probatoria delle risultanze istruttorie del giudice di merito (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197;

Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 marzo 2007, n. 5066).

L’ottavo ed il nono motivo, relativi a violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 4 CCNL Ausitra e art. 2070 c.c., per vizio di ultrapetizione, atteso il riconoscimento della spettanza al lavoratore anche dell’indennità di lavaggio indumenti, in assenza di sua specifica domanda, sono infondati.

La Corte territoriale ha, infatti, accertato l’esistenza della suddetta domanda fin dal ricorso introduttivo (penultima riga di pg.

10 della sentenza): con il che è esclusa la ricorrenza tanto del vizio di ultrapetizione tanto di violazione di legge denunciati, sul presupposto del riconoscimento dell’indennità, in applicazione della c.d. clausola sociale a norma della L. n. 300 del 1970, art. 36.

Infine, il decimo motivo, relativo a vizio di motivazione della sentenza definitiva sul fatto decisivo e controverso del presunto accordo tra le parti in ordine alla liquidazione delle spettanze al lavoratore, è infondato.

Sul punto, correttamente e adeguatamente ha statuito la sentenza definitiva, limitata al quantum del credito del lavoratore: avendo la Corte territoriale dato esplicito atto della redazione di comune accordo del relativo conteggio depositato il 27 febbraio 2009, “ferme restando le contestazioni delle parti appellate come da riserva di impugnazione ex art. 361 c.p.c.” (primo capoverso di pg. 16 della sentenza), indicate nelle contestazioni sul livello di inquadramento, oggetto del settimo motivo (respinto per inammissibilità) e in “altre voci precedentemente contestate” (così a pg. 68 del ricorso), neppure individuate, con evidente violazione del principio di autosufficienza del ricorso, prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto dei due eaminati ricorsi con la regolazione delle spese del giudizio secondo il principio di soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta entrambi i ricorsi principale e incidentale e condanna la ricorrente ed il controricorrente ricorrente incidentale in solido alla rifusione, in favore di N.A., delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 7.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2015