Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 27-05-2015) 25-09-2015, n. 19060

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19693-2010 proposto da:

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

A.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 525/2009 della COMM. TRIBUTARIA CENTRALE di BOLOGNA, depositata il 10/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/05/2015 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Amministrazione Finanziaria ha notificato ad A.F. nei novembre 1982 avvisi di accertamento per IRPEF ed ILOR relativi agli anni 1975/1980; in data 14-3-1983 il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa ex L. n. 516 del 1982, determinando i nuovi imponibili con riferimento non alle dichiarazioni originariamente presentate ma a quanto accertato nei detti avvisi; l’Ufficio, previo controllo, ha proceduto quindi alla liquidazione della detta dichiarazione integrativa ed alla conseguente formazione dei ruoli, con notifica al contribuente della relativa cartella nel settembre 1988, quando però era stata già emessa la sentenza della Corte Costituzionale 175/1986, che aveva sancito l’illegittimità di tutti gli avvisi di accertamento notificati, come quelli in questione, tra il 14/7/1986 ed il 15/3/1983.

Avverso detta cartella il contribuente ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributarla di primo grado di Parma, sostenendo che la su riferita declaratoria di illegittimità costituzionale non poteva che travolgere anche la dichiarazione integrativa, essendo infatti quest’ultima parametrata su avvisi dichiarati illegittimi.

L’adita Commissione, in parziale accoglimento del ricorso, ha ritenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto procedere ad una riliquidazione della dichiarazione integrativa procedendo D.L. n. 429 del 1982, ex art. 19, e cioè considerandola come presentata “in assenza di accertamento”.

La Commissione di secondo grado ha rigettato l’appello dell’Ufficio.

Con sentenza depositata il 10 giugno 2009 la CTC, sez. di Bologna, ha rigettato il ricorso dell’Ufficio; in particolare la CTC ha evidenziato che la dichiarazione integrativa era strettamente connessa e subordinata all’avviso di accertamento; di conseguenza la nullità di quest’ultimo, da ritenersi atto presupposto, non poteva che travolgere tutto il rapporto tributario dallo stesso generato.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione il Ministero dell’Economia e della Finanze e l’Agenzia delle Entrate, affidato ad un motivo; il contribuente non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione, in quanto proposto oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, ratione temporis vigente (un anno e 46 gg dalla pubblicazione della sentenza impugnata, avvenuta in data 10-6-2009).

Il ricorso, invero, è stato notificato, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., tramite ufficiale giudiziario, mediante deposito di copia nella casa comunale, per irreperibilità del contribuente presso l’indirizzo nel quale quest’ultimo aveva la sua residenza anagrafica (via (OMISSIS)), in data 24-9-2010, e quindi oltre il su menzionato termine.

Irrilevante è, invece, al riguardo, la precedente procedura notificatoria per posta, la cui conclusione, attesa la mancanza della relativa cartolina di ritorno, non può ritenersi provata.

E’ vero, infatti, che “In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (Cass. Sez. unite 17352 e ssg.).

Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il ricorso è stato consegnato all’Ufficio postale per la notifica in data 21-7-2010, ma, in mancanza (come detto) della relativa cartolina di ritorno, non vi è prova che il mancato perfezionamento dell’intrapresa procedura non sia addebitabile a colpa del notificante; siffatta circostanza configura una interruzione nella continuità della procedura notificatoria, sicché non può ritenersi avvenuta una ripresa del procedimento notificatorio e gli effetti della seconda notifica (avvenuta ex art. 143 c.p.c.) non possono essere ricollegati ad atti della prima, e, in particolare, alla consegna all’ufficio postale del ricorso da notificare.

In conclusione, quindi, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, non avendo il contribuente svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/05/2015) 24/09/2015, n. 18936

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11870-2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MALESCI ISTITUTO FARMACOBIOLOGICO SPA in persona del legale rappresentante pro tempore e del Consigliere di Amministrazione, elettivamente domiciliato in ROMA VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato FIORILLI PAOLO, rappresentato e difeso dagli avvocati PISTOLESI FRANCESCO, MICCINESI MARCO giusta delega a margine;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 13/2008 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE, depositata il 28/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2015 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIORENTINO che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PISTOLESI che ha chiesto il rigetto del ricorso e la inammissibilità e l’accoglimento del ricorso principale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine il rigetto del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
In relazione alla contestata indetraibilità dell’IVA su fatture passive aventi ad oggetto corrispettivi versati da Malesci Istituto Farmacobiologico s.p.a. per la organizzazione e lo svolgimento di congressi e convegni scientifici autorizzati dal Ministero della Salute negli anni 1998 e 1999, in quanto qualificate come “spese di rappresentanzà negli avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio di Firenze della Agenzia delle Entrate, in quanto tali non detraibili ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) e dell’art. 74 TUIR (entrambe le norme nel testo vigente ratione temporis), la Commissione tributaria della regione Toscana, con sentenza 28.3.2008 n. 13 ed in parziale riforma della decisione di prime cure, dichiarava infondata la pretesa fiscale, interpretando il complesso normativo, anche in combinato disposto dalla L. n. 67 del 1988, art. 19, comma 14 (come modificato dalla L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13), ritenendo che la speciale disciplina normativa riservata, in materia di imposte sui redditi, alle spese per convegni e congressi sostenute dalle imprese farmaceutiche, sottraeva tali spese alla categoria delle “spese di rappresentanza” disciplinate dall’art. 74, comma 2 vecchio TUIR cui rinviava la norma sulla indetraibilità dell’IVA, e pertanto non andavano incontro al divieto di detrazione d’imposta dovendo essere considerate, anche al tempo dei fatti, assoggettate all’ordinario regime IVA previsto per le “spese di pubblicità”, come peraltro deponevano le successive modifiche della L. n. 449 del 1997, art. 36, comma 13 (che consentivano la deduzione, ai fini delle II.DD. delle spese di pubblicità farmaceutica effettuata attraverso convegni e congressi) e la giurisprudenza di legittimità.

I Giudici di appello ritenevano, invece, fondata la pretesa fiscale concernente la indetraibilità dell’IVA sulle spese sostenute dalla società per “servizi connessi” all’acquisto di “beni da destinare ad omaggio” (fonendoscopi), non essendo stata dimostrata la “inerenza” di tali spese con l’esercizio della impresa farmaceutica.

Annullavano inoltre gli avvisi limitatamente alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie, ravvisando, da un lato, la ricorrenza di difficoltà interpretative idonee ad integrare le cause di non punibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 8 ed D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, e dall’altro, la carenza di una autonoma motivazione in ordine all’illecito contestato.

La sentenza di appello, notificata in data 18.7.2008, è stata impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate, con ricorso notificato alla contribuente il 18.5.2009 ed affidato a tre motivi con i quali si deducono vizi di violazione di norme di diritto e vizi di motivazione.

Resiste con controricorso la società, eccependo la inammissibilità del ricorso per violazione del termine breve di impugnazione e proponendo contestuale ricorso incidentale, affidato a tre motivi, con i quali vengono dedotti vizi per “errores in judicando” ed “errores in procedendo” e vizio di motivazione. Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione
1. Il ricorso principale è inammissibile.

La parte resistente ha eccepito che il ricorso per cassazione era stato notificato oltre il termine breve di impugnazione previsto dall’art. 325 c.p.c. e dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 1, e art. 62, comma 2, essendo stata notificata la sentenza di appello, ad istanza di parte, in data 18.7.2008 a “mani proprie”, alla “Agenzia delle Entrate – Ufficio di Firenze (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, in via (OMISSIS)” (come emerge dalla relata di notifica), ed essendo stato invece proposto il ricorso per cassazione con atto consegnato all’Ufficiale giudiziario in data 13.5.2009 e notificato alla società contribuente in data 18.5.2009.

La Agenzia fiscale ricorrente contesta la eccezione pregiudziale ritenendo tempestiva la proposizione del ricorso, dovendo ritenersi inefficace, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, la notifica della sentenza di appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 38 in quanto eseguita presso la sede dell’ufficio finanziario che aveva emanato l’avviso di accertamento opposto, anzichè presso la sede della Direzione regionale delle entrate che aveva partecipato al giudizio di appello.

1.1 Risulta dagli atti (intestazione della sentenza di appello) che nel giudizio di secondo grado l’ufficio della Agenzia delle Entrate, che aveva emanato l’atto impugnato (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), e nei cui confronti era stato proposto il ricorso (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. c), art. 20, comma 1, art. 23, comma 1), era stato in giudizio “mediante” l’”Ufficio del contenzioso” della Direzione regionale della Toscana (DRE), giusto il disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, per cui “l’ufficio…..nei cui confronti è proposto il ricorso sta in giudizio direttamente o mediante l’ufficio del contenzioso della direzione regionale o compartimentale ad esso sovraordinata”.

In proposito occorre osservare che, se parte del processo tributario, introdotto dal contribuente, deve intendersi “l’ufficio……che ha emanato l’atto impugnato…” (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1), l’art. 11 comma 2, introduce un sistema di legittimazione processuale alternativa, funzionale al modello organizzativo delle Agenzia fiscali.

La norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, deve, infatti, essere interpretata alla stregua del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 62, comma 2, che ha attribuito alla Agenzia delle Entrate (ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico con autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria: D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61, commi 1 e 2; art. 1, comma 1, e art. 13, comma 1, Statuto, approvato con delibera CD in data 13.12.2000 n. 6) tutte le competenze già esercitate dal Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, con “facoltà” di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72).

L’Agenzia fiscale è, infatti, articolata in uffici “centrali e periferici”, “regionali e provinciale (a loro volta articolati in strutture di vertice ed uffici dipendenti), in base alle disposizioni del regolamento di amministrazione adottato con delibera CD del 30.11.2000 n. 4 (art. 2, comma 2; art. 4, comma 1; art. 5), secondo criteri organizzativi che combinano l’applicazione del “principio di competenza” (territoriale e per valore) con i principi “gerarchico” (fondato su rapporti di sovra e sottordinazione: art. 11, comma 1, lett. c), Statuto) e di “sussidiarietà” (art. 1, comma 1, lett. d) reg. amm.).

Per quanto qui interessa, la gestione del contenzioso risulta attribuita a tutte le strutture periferiche, sia di “vertice” che “meramente operative”:

– le Direzioni regionali e le Direzioni provinciali delle Province autonome di Trento e Bolzano, che sono “strutture di vertice”, infatti, oltre a funzioni di direzione e di coordinamento svolgono anche “attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento, della riscossione, e del contenzioso” (art. 4, comma 3, reg. amm.);

– presso le altre Direzioni provinciali (articolate a loro volta negli “uffici territoriali”, nell’”ufficio controlli” e nell’”ufficio legale”) “l’ufficio legale tratta il contenzioso di tutta la direzione provinciale” (art. 5, comma 3 del reg. amm.) – il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate in data 23.2.2001 n. 36122, pubblicato in GU n. 151/2001 (da ricomprendersi tra le “disposizioni interne” di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3), adottato in esecuzione delle norme di legge, regolamentari e statutarie, prevede che le Direzioni regionali esercitano funzioni anche “nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento e del contenzioso”, istituendo presso tali organi anche rufficio del “Contenzioso tributario” cui è affidata tra l’altro la “rappresentanza dinanzi alle Commissioni tributarie regionali”.

1.2 Tanto premesso, ferma la esclusiva riconducibilità dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio (pretesa fiscale) all’Erario, e per esso alla Agenzia delle Entrate alla quale sono stati attribuiti ex lege i poteri di gestione del rapporto tributario con il contribuente, osserva il Collegio che indipendentemente dal rapporto organizzativo, interno all’ente di diritto pubblico, che viene ad essere instaurato tra l’organo sovraordinato (DRE) e l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato (avocazione gerarchica della trattazione del contenzioso; accentramento in via generale, presso l’ufficio contenzioso della DRE, della rappresentanza in giudizio dei singoli uffici locali; valutazione caso per caso da parte dell’organo sovraordinato della opportunità di sostituire l’ufficio che ha emanato l’atto nella assunzione della posizione di parte processuale), non pare dubbio che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, attribuisca all’”ufficio del contenzioso” della DRE (nella specie la Direzione regionale della Toscana) una legittimazione processuale concorrente con quella dell’”ufficio provinciale periferico” che ha emanato l’atto opposto (nella specie l’Ufficio di Firenze (OMISSIS)), consentendo all’”ufficio del contenzioso” della DRE di costituirsi in giudizio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 23, comma 1, in sostituzione del predetto “ufficio periferico” al quale è stato notificato il ricorso introduttivo ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 20 (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 20911 del 03/10/2014).

La individuazione dell’ufficio della Agenzia delle Entrate, ritenuto maggiormente idoneo a sostenere la difesa dell’ente pubblico in giudizio, è espressione di scelte discrezionali proprie dell’ente, che riflettono la specifica organizzazione ed articolazione interna degli uffici, che si inscrivono tutte nella definizione legale di “parte nel processo tributario” compiuta dalla legge che, al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 28 conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122, applicabile al caso di specie) disponeva, infatti, che “Sono parti nel processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio, l’ufficio delle entrate del Ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso”, norma che deve essere coordinata, ai fini della individuazione della parte processuale pubblica, con le disposizioni dell’art. 18, comma 2, lett. c) – secondo cui il contribuente deve indicare nel ricorso introduttivo l’ufficio nei cui confronti la impugnazione è proposta -, e dell’art. 23, comma 1 -per cui “l’ufficio….nei cui confronti è stato proposto il ricorso” si costituisce in giudizio entro sessanta giorni dal perfezionamento della notifica-, dovendo in conseguenza ritenersi, in base al combinato disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, comma 1 e art. 23, comma 1, che la qualità di “parte nel processo” debba comunque essere riconosciuta -anche in ipotesi di una eventuale “sostituzione” da parte dell’organo gerarchicamente sovraordinato ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2 -, all’”ufficio provinciale periferico” della Agenzia fiscale “che ha emanato” l’avviso di rettifica o di accertamento ed al quale il ricorso introduttivo è stato notificato dal contribuente.

Orbene il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2, che disciplina la notificazione delle sentenze di merito dei Giudici tributali (ai fini della decorrenza del termine breve anche per la proposizione del ricorso per cassazione: Corte cass. Set. 5, Sentenza n. 5871 del 13/04/2012 secondo cui “l’applicazione di tali disposizioni alle decisioni delle Commissioni tributarie regionali, in forza del generale richiamo fatto per il processo tributario di secondo grado alle norme dettate per il primo grado, trova ostacolo nella disciplina del ricorso per cassazione, interamente regolato dal codice di procedura civile, poichè la notifica delle sentenze di appello resta fuori del giudizio di legittimità, mirando solo alla più celere formazione del giudicato formale”), prescrive in modo inequivoco che la notificazione della sentenza deve essere eseguita “alle altre parti” (“a norma dell’art. 137 c.p.c.” e ss. ed ora, dopo le modifiche introdotte dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 1, lett. a), “a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16”) e dunque, alla stregua delle considerazioni che precedono, all’ufficio che ha emanato l’avviso di accertamento/rettifica opposto, in quanto individuato ex lege come parte del processo tributario e, pertanto, legittimato a ricevere la notifica della sentenza di merito agli effetti della decorrenza, nei confronti dell’Agenzia fiscale titolare del diritto controverso (ente con personalità giuridica di diritto pubblico, nel quale è inserito l’ufficio periferico dotato di pari capacità di stare in giudizio ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11, secondo un modello assimilabile alla preposizione istruttoria di cui agli artt. 2203 e 2204 cod. civ.), del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione.

Tanto alla stregua del principio di diritto affermato dalla Corte – cui il Collegio intende aderire- secondo cui per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11, la nuova realtà ordinamentale – caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore- consente infine di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (cfr.

Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 3118 del 14/02/2006; Sez. U, Sentenza n. 3116 del 14/02/2006), non comportando tale soluzione un aggravio nell’esercizio del diritto di difesa nella fase di legittimità, poichè l’Ufficio centrale e quelli periferici -che emettono l’atto impugnato e curano il contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie- debbono comunque cooperare nell’attività di predisposizione della difesa tecnica dell’Agenzia nel giudizio di cassazione (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 22889 del 25/10/2006; id. Sez, 5, Sentenza n. 441 del 14/01/2015).

1.3 La soluzione indicata non trova ostacolo nella disposizione dell’art. 16, comma 2 che, ai fini delle notificazioni e comunicazioni alle parti del processo, richiama anche il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 secondo cui “salva la consegna a mani proprie”, “le notificazioni sono fatte……nel domicilio eletto o in mancanza, nella residenza, o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio”, indicazione che ha effetto anche per i successivi gradi di giudizio (art. 17, comma 2).

Se, infatti, non può essere logicamente negata alla Amministrazione finanziaria la facoltà di eleggere domicilio, al pari della parte contribuente, deve altresì rilevarsi come la norma del processo tributario, da ultimo richiamata, venga a derogare all’art. 170 c.p.c. (alla norma processualtributaria è stata riconosciuta sì efficacia “endoprocessuale” ma del tutto peculiare, atteso che la indicazione mantiene efficacia, ove non revocata o modificata, anche nel successivo grado di merito, pertanto, venendo a disporre il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., ma non anche in deroga alla norma del processo civile che disciplina la “notifica degli atti di impugnazione” – art. 330 c.p.c. – da ritenersi non incompatibile con quella speciale del processo tributario: Corte cass. Sez, U, Sentenza n. 29290 del 15/12/2008; id.

Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 460 del 13/01/2014), e venga, quindi, ad incidere anche sulla disciplina della notifica della sentenza di merito, tenuto conto che, il previgente testo del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 in vigore alla data della notifica (la modifica normativa successiva della L. n. 73 del 2010, che ha sostituito il rinvio agli artt. 137 c.p.c. e ss. con quello al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, ha ampliato “le forme” della notificazione della sentenza, ritenendo valide anche la spedizione diretta a mezzo posta in plico senza busta con raccomandata AR, ovvero la consegna della sentenza all’addetto all’ufficio – art. 16, comma 3 -, mentre non ha apportato modifiche alla disciplina del luogo e della parte destinataria della notifica che doveva, essere rinvenuta, pertanto, nella disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, commi 2, 4 e 5, e dall’art. 17), non escludeva l’applicazione – alla notifica delle sentenze tributarie- dell’art. 285 c.p.c. (secondo cui la sentenza deve essere notificata al procuratore costituito, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., ovvero alla parte costituita personalmente in giudizio, presso la residenza dichiarata od il domicilio eletto), norma che doveva pertanto intendersi derogata – relativamente alla disposizione che consente la notifica della sentenza di merito ai sensi dell’art. 170 c.p.c.- dalla disposizione speciale del processo tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, comma 1, che fa salva in ogni caso la notifica “a mani proprie” (“le comunicazione e le notificazioni sono fatte, salva la consegna a mani proprie,…”), e che è stata costantemente interpretata da questa Corte nel senso che gli atti processuali e “la sentenza di merito” possono sempre essere notificati direttamente alla parte personalmente, anche nel caso in cui vi sia stata elezione di domicilio (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 10474 del 03/07/2003 secondo cui debbono ritenersi ricomprese “tutte le forme di notifica previste dagli artt. 138, 140 cod. proc. civ. e la notifica a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l’atto venga comunque consegnato a mani proprie del destinatario”; id. Sez. 5, Sentenza n. 9381 del 20/04/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 5504 del 09/03/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 10961 del 13/05/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 16234 del 09/07/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 7059 del 26/03/2014, con riferimento alla notifica della sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale).

La applicazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1 indifferentemente ad entrambe le parti del processo tributario, esclude alla radice il dubbio di incompatibilità comunitaria prospettato nella memoria illustrativa dalla Agenzia delle Entrate (secondo cui la notifica eseguita in via alternativa all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero all’ufficio del contenzioso della DRE, costituitosi in giudizio, sarebbe lesiva dei “principi di origine comunitaria di equivalenza ed effettività della difesa”), peraltro in modo assolutamente carente, essendo stata omessa la indicazione delle norme dell’ordinamento comunitario che si assumono in ipotesi in conflitto con quelle processuali, e tenuto altresì conto, da un lato, che la materia della disciplina processuale è estranea alle materie riservate alla Comunità Europea dal Trattato (art. 6 TUE), e dall’altro che, anche nel caso in cui la ricorrente abbia inteso fare generico riferimento alla violazione dei principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proprio la mancata individuazione della norma comunitaria in conflitto con la disposizione processuale, impedirebbe comunque la verifica dell’asserita violazione, atteso che, per espressa previsione dell’art. 51, n. 1 della Carta, le disposizioni della medesima si applicano agli Stati membri esclusivamente “nell’attuazione del diritto dell’Unione” (e cioè soltanto ove debba applicarsi una norma comunitaria diversa dalla Carta). E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia che, quando un regolamento comunitario (od una direttiva comunitaria) conferisce un potere discrezionale ad uno Stato membro, quest’ultimo deve esercitare tale potere nel rispetto del diritto – e dei principi della Carta – dell’Unione (cfr. Corte di giustizia CE, sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609; 4 marzo 2010, causa C-578/08, Chakroun, Racc. pag. 1-1839, e 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, McB., Racc. pag. 1-8965), ma nel caso di specie la ricorrente neppure allega -e non è dato altrimenti individuare- il regolamento o la direttiva comunitaria dai quali deriverebbe il potere discrezionale attribuito allo Stato membro nel disporre la disciplina legislativa del processo tributario, che non può, pertanto, essere considerata una normativa di attuazione di un diritto derivante dall’ordinamento comunitario.

Nè è dato ravvisare neppure un “vulnus” al principio di eguaglianza e di effettitività dell’esercizo del diritto di difesa ex artt. 3 e 24 Cost., tenuto conto che la notifica della sentenza tributaria eseguita, in via alternativa, all’ufficio periferico che ha emanato l’atto (parte processuale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 10, comma 1), ovvero -presso il domicilio eletto- nei confronti dell’ufficio del contenzioso della DRE (costituitosi in giudizio “in sostituzione” del primo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2), od ancora direttamente all’ente pubblico presso la sede legale (quale soggetto di diritto pubblico, parte sostanziale del rapporto tributario controverso, nella organizzazione del quale sono organicamente inseriti i predetti uffici), sono forme tutte egualmente funzionali, secondo un canone di ragionevolezza, ad assicurare all’Amministrazione finanziaria la effettiva conoscenza della sentenza pronunciata all’esito del giudizio, ai fini del tempestivo apprestamento dell’atto di impugnazione, non potendo essere addotti in contrario, dall’Agenzia fiscale, eventuali ostacoli di mero fatto dovuti a ritardi od inefficienze della organizzazione degli uffici dell’ente di diritto pubblico.

1.4 La menzionata norma del processo tributario (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1), come interpretata da questa Corte, legittima, pertanto, la parte interessata (pubblica o privata) a notificare la sentenza tributaria di merito, tanto al procuratore domiciliatario, quanto alla “parte personalmente” (“a mani proprie”), dovendo applicarsi tale disposizione anche alla ipotesi, che ricorre nel caso di specie, in cui l’”ufficio che ha emesso l’atto impositivo” Opposto – al quale è stato notificato il ricorso introduttivo e che viene indicato dalla legge come “parte nel processo”- stia in giudizio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2, “mediante” l’”ufficio del contenzioso” della DRE e questo abbia eletto domicilio presso la Direzione regionale (come nel caso di specie in cui -come emerge anche dalla intestazione della sentenza della CTR – l’ufficio del contenzioso della DRE della Toscana aveva indicato, costituendosi in grado di appello, il domicilio in Firenze via della Fortezza n. 8: cfr.anche memoria illustrativa depositata dalla Agenzia, pag. 7), essendo irrilevante al proposito che non sia configurabile un rapporto di rappresentanza negoziale tra gli uffici dell’ente pubblico, trovando genesi la partecipazione al giudizio dell’ufficio della DRE in una scelta di tipo organizzativo, riservata all’organo competente del soggetto di diritto titolare della pretesa tributaria contestata (l’Agenzia fiscale dotata di personalità giuridica di diritto pubblico), atteso che la alternativa, prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, tra la modalità di notifica “a mani proprie” della parte e la notifica presso il luogo indicato con la elezione di domicilio (anche in assenza di procuratore ad litem o di altro soggetto indicato come domiciliatario) opera in via generale e nei confronti di tutte le parti del processo, dovendo quindi ritenersi equipollenti la notifica della sentenza di merito eseguita alla parte costituitasi personalmente “a mani proprie”, anche se in luogo diverso dal domicilio eletto, e la notifica della sentenza di merito eseguita, presso il domicilio eletto, alla parte ovvero al procuratore ad litem costituito in giudizio o ancora al soggetto indicato come domiciliatario.

1.5 La questione pregiudiziale posta all’esame di questa Corte può dunque essere risolta alla stregua del seguente principio di diritto:

– la scelta riservata alla Agenzia fiscale -ente al quale è conferita personalità giuridica di diritto pubblico e che riveste la posizione di parte sostanziale, ai sensi del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, nel rapporto tributario controverso- di assumere la lite, introdotta dal contribuente, mediante costituzione in giudizio dell’ufficio periferico che ha emanato l’atto impositivo opposto ovvero dell’ufficio del contenzioso della DRE a quello gerarchicamente sovraordinato, ovvero direttamente con la costituzione in giudizio del Direttore generale dell’ente (in quanto organi tutti dotati di legittimazione processuale concorrente), e così del pari la analoga scelta dell’Agenzia fiscale di avvalersi o meno del patrocinio di un avvocato del foro privato, con il conferimento di apposita “procura ad litem”, hanno carattere eminentemente organizzativo, rispondendo alle esigenze di funzionalità ed efficienza dell’ente pubblico, in considerazione della sua specifica articolazione sul territorio e della distribuzione delle competenze tra i vari organi ed uffici centrali e periferici, e non immutano, pertanto, all’assetto legislativo del processo tributario che, individua “ex ante”, nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, come “parte nel processo”, l’ufficio della Agenzia fiscale “che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto” (ovvero l’ufficio con competenza su tutto o parte del territorio nazionale al quale spettano -in base ai regolamenti organizzativi dell’ente- le attribuzioni in merito a) rapporto controverso). Ne segue che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, bene può essere validamente eseguita, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 nei confronti dell’”ufficio che ha emanato l’atto”, opposto dal contribuente, anche nel caso in cui quest’ultimo si sia costituito in giudizio “mediante” l’ufficio del contenzioso della DRE e questo abbia eletto domicilio presso di sè, in quanto se, da un lato, l’intervento sostitutivo dell’ufficio della DRE non comporta il venire meno della qualifica legale di parte processuale dell’ufficio che ha emanato l’atto impositivo, dall’altro lato, il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 17 e 38 disciplinano un sistema compiuto delle modalità di notifica degli atti del processo tributario e delle sentenze emesse dai Giudici tributali, e l’art. 17, comma 1, in deroga all’art. 170 c.p.c., prevede che la notifica dell’atto possa essere eseguita direttamente alla parte mediante consegna “a mani proprie”, ovvero, in via alternativa, mediante notifica alla stessa parte nel domicilio eletto od in caso di conferimento del mandato ad litem al procuratore domiciliatario.

Sembra opportuno al Collegio evidenziare come l’enunciato principio, che si pone in linea con i richiamati precedenti delle sentenze SS.UU. n. 3116 n. 3118 del 14.2.2006, non contrasta con l’affermazione riportata nella massima CED della SC tratta dal precedente di questa Corte 5 sez. 3.10.2014 n. 20911, secondo cui “agli uffici periferici va riconosciuta la posizione processuale di parte e l’accesso della difesa avanti alle commissioni tributarie, permanemdo la vigenza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11” atteso che in quella causa veniva in questione la distribuzione tra i vari uffici centrali e periferici dell’Agenzia fiscale, secondo le norme attributive della competenza, della legittimazione a resistere in giudizio, mentre nella presente causa viene in questione la individuazione dell’ufficio dell’Agenzia fiscale che riveste la qualità di “parte nel processo” ed al quale, pertanto, può essere validamente notificata la sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, secondo le modalità alternative di notifica sopra indicate.

1.6 La notifica della sentenza della CTR effettuata ad istanza della società contribuente presso la sede dell’Ufficio di Firenze (OMISSIS) (in Firenze via S. Caterina D’Alessandria n. 23) che aveva emesso gli avvisi di accertamento IVA impugnati, anzichè alla Direzione regionale della Toscana (con sede in Firenze via della Fortezza n. 8) costituitasi in giudizio in sostituzione del primo, deve, in conseguenza, ritenersi idonea a far decorrere, nei confronti della Agenzia Entrate, il termine breve ex art. 325 c.p.c. per la proposizione del ricorso per cassazione, dovendo essere considerata inammissibile la impugnazione in quanto proposta oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 62 c.p.c., comma 2 e art. 325 c.p.c., comma 2.

2. Venendo a trattare del ricorso incidentale autonomo, proposto dalla società contribuente osserva il Collegio quanto segue.

2.1 Il primo motivo con il quale si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1 e dell’art. 19 bis.1, comma 1, lett. h), in combinato disposto con l’art. 74, comma 2 TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed il secondo motivo con il quale si deduce il vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sono entrambi inammissibili, il primo, per inosservanza dell’onere di esposizione sommaria dei fatti di causa del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), entrambi per difetto di autosufficienza ed altresì per difetto di interesse alla impugnazione.

2.2 La ricorrente incidentale, premesso di aver offerto in dono ai partecipanti ai convegni dei “fonendoscopi” di valore inferiore al limite di lit. 50.000 (previsto per la deducibilità dal reddito d’impresa delle spese di rappresentanza, dall’art. 74, comma 2 TUIR), si duole che la CTR abbia assoggettato alla medesima disciplina normativa anche altri “oneri soltanto indirettamente correlati ai medesimi donativi e/o aventi natura di costi generali inerenti all’impresa” (cfr. quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.).

2.3 La descrizione della fattispecie controversa è assolutamente carente, non essendo dato individuare la natura ed il contenuto delle prestazioni di servizi di cui si sarebbe avvalsa la società, nè tanto meno l’asserita “accessorietà” delle stesse ai beni consegnati in omaggio: è la stessa società ricorrente incidentale, peraltro, ad introdurre un ulteriore elemento di incertezza laddove ipotizza che le spese in questione possano alternativamente costituire “oneri indirettamente correlati” agli omaggio, ovvero “spese di carattere generale” (nozione in alcun modo esplicitata).

2.4 La sentenza della CTR, peraltro, ha deciso sulla questione controversa alla stregua di due distinte “rationes decidendi”: a) ha negato la detrazione IVA per omessa prova da parte della contribuente del requisito di “inerenza” delle predette spese “generali” all’esercizio dell’attività economica della impresa farmaceutica; b) ha ritenuto non condivisibile “la scissione del costo unitario da quello direttamente afferente (quale il costo della confezione) all’omaggio”.

Entrambi i motivi in esame investono esclusivamente la statuizione sub lett. b), lasciando impregiudicata la statuizione sub lett. a), da sola idonea a giustificare il decisum. In ogni caso qualora si volessero ravvisare due differenti questioni oggetto di decisione (rispettivamente concernenti, le spese generali ritenute non inerenti, e le spese afferenti agli omaggi ritenute superiori al limite di valore indicato), entrambi i motivi sarebbero egualmente da ritenere inammissibili in quanto:

– alcuna prova “decisiva”, ritualmente prodotta nel giudizio di merito, e neppure alcuna descrizione della natura e della entità delle spese sostenute per tali servizi “accessori” è stata fornita dalla ricorrente incidentale, difettando pertanto il necessario requisito di autosufficienza previsto per l’ammissibilità del motivo:

– la statuizione sub lett. b) della sentenza di appello, è errata in diritto, ma corretta nella soluzione giuridica adottata, atteso che la espressa riconducibilità della elargizione di omaggi tra le “spese di rappresentanza” (e non tra le “spese di pubblicità”: art. 74, comma 2 TUIR) deducibili dal reddito d’impresa ai fini delle imposte dirette, non può trovare alcuna corrispondenza in ambito IVA in cui è, invece, espressamente preclusa la detrazione d’imposta delle “spese di rappresentanza” D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19 bis.1, comma 1, lett. h) (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 24932 del 06/11/2013, in motivazione, paragr. 10.2). Nella specie non è stato, peraltro, neppure indicato dalla società se i beni consegnati in omaggio contenessero elementi pubblicitari relativi a prodotti farmaceutici o medicinali fabbricati o commercializzati dalla società e se dunque potessero essere valutate come costi di pubblicità, per i quali è consentita senza limitazioni la detrazione IVA sulle fatture passive.

3. Il terzo motivo con il quale si deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia su uno specifico motivo di appello, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 è inammissibile per omessa formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c..

La società lamenta che la CTR non avrebbe pronunciato in ordine al motivo di gravame con il quale si impugnava la decisione di prime cure che aveva ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento che aveva negato la detrazione dell’IVA su fatture emesse in acconto per l’anno 1997 e relative ad acquisti di beni (destinati ad omaggi) perfezionati nel successivo anno 1998.

3.1 La censura è inammissibile atteso che il motivo di ricorso per cassazione, soggetto al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve in ogni caso concludersi con la formulazione di un quesito di diritto idoneo, cioè tale da integrare il punto di congiunzione tra l’enunciazione del principio giuridico generale richiamato e la soluzione del caso specifico, anche quando un “error in procedendo” sia dedotto in rapporto alla affermata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., non essendovi spazio, in base al testo dell’art. 366-bis cod. proc. civ., per ipotizzare una distinzione tra i motivi d’impugnazione associati a vizi di attività a seconda che comportino, o no, la soluzione di questioni interpretative di norme processuali (cfr. Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4329 del 23/02/2009; id. Sez. L, Sentenza n. 4146 del 21/02/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 10758 del 08/05/2013).

4. In conclusione il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile e quello incidentale deve essere rigettato, sussistendo le condizioni per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso principale proposto dalla Agenzia delle Entrate e rigetta il ricorso incidentale proposto dalla società contribuente, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 07/05/2015) 22/09/2015, n. 18643

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 6632/2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

E.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 41/28/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di MILANO del 09/03/2012, depositata il 03/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 07/05/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la relazione di seguito integralmente trascritta:

“L’Agenzia delle entrate ricorre contro il sig. E.A. per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, confermando la sentenza di primo grado, ha annullato un avviso di accertamento IRPEF per l’anno 2003, in quanto notificato il 20.1.09, ossia dopo la scadenza del termine di decadenza di cui al D.P.R. n. 600 del 1973art. 43, nella specie spirato il 31.12.08.

La Commissione Tributaria Regionale, dopo aver riferito che l’Agenzia delle entrate aveva dedotto che l’atto era stato consegnato al messo comunale per la notifica in data 17.12.08, motiva la propria decisione affermando che ai fini del rispetto del termine di decadenza di cui al D.P.R. n. 600 del 1973art. 43, si dovrebbe avere riguardo esclusivamente alla data di consegna dell’avviso di accertamento al contribuente.

Il ricorso si fonda su un solo motivo, con cui l’Agenzia delle entrate lamenta il vizio di violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973artt. 43 e 60 e art. 137 c.p.c. e segg.) in cui la Commissione Tributaria Regionale sarebbe incorsa disconoscendo l’operatività del principio della scissione degli effetti della notificazione tra notificante e destinatario.

Il ricorso è fondato.

La pronuncia della Commissione Tributaria Regionale si pone infatti in contrasto con il costante indirizzo di questa Corte secondo il quale, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 477 del 2002 e 28 del 2004, nell’ordinamento deve ritenersi operante un principio generale in base al quale, quando un atto debba essere notificato entro un determinato termine, la notifica, anche fuori dall’ipotesi di esecuzione della stessa a mezzo del servizio postale, si intende comunque perfezionata in momenti diversi per il richiedente e per il destinatario della notifica, dovendo le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte di quest’ultimo contemperarsi con il diverso interesse del primo a non subire le conseguenze negative derivanti dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio per la parte di quest’ultimo sottratta alla sua disponibilità (Cass. 2261/07). Tale principio opera anche per la notifica degli atti impostivi, come chiarito da questa Corte nelle sentenze n. 1647/04, n. 15298/08, n. 315/10 e, infine, nell’ordinanza 26053/11.

La Commissione Tributaria Regionale ha pertanto errato nel ritenere tardivo l’avviso di accertamento impugnato, perchè il termine per la notifica al contribuente dell’avviso di accertamento è un termine di decadenza (dal potere di accertamento dell’amministrazione), e non un termine di prescrizione (del credito erariale).

In conclusione, si ritiene che il procedimento possa essere definito in camera di consiglio, con la declaratoria di manifesta fondatezza del ricorso e la cassazione della sentenza gravata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale che si atterrà alla regula juris che il principio secondo cui gli effetti della notificazione si producono per il notificante al momento della consegna del piego all’agente notificatore (ovvero al personale del servizio postale) e per il destinatario al momento della ricezione ha carattere generale e trova applicazione non solo con riferimento agli atti processuali ma anche con riferimento agli atti d’imposizione tributaria. Ne consegue che è tempestiva la notifica dell’avviso di accertamento consegnato al messo comunale prima dello spirare del termine di decadenza gravante sull’ufficio, a nulla rilevando che la consegna al destinatario sia avvenuta successivamente a tale scadenza”.

che il contribuente non si è costituito;

che la relazione è stata notificata alla ricorrente;

che non sono state depositate memorie difensive;

che il Collegio condivide gli argomenti esposti nella relazione;

che, pertanto, si deve accogliere il ricorso e cassare la sentenza gravata;

che, in difformità dalla proposta della relazione, il Collegio ritiene non necessario il rinvio al giudice di merito, in quanto dalla stessa sentenza gravata emerge che l’impugnato avviso di accertamento era stato consegnato al messo comunale per la notifica in data 17.12.08, entro il termine decadenziale del 31.12.08;

cosicchè, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente;

le spese si compensano per i gradi di merito e seguono la soccombenza per il giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza gravata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente;

compensa le spese dei gradi di merito e condanna l’intimato a rifondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.600, oltre spese prenotate a debito.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015


Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., (data ud. 09/06/2015) 17/09/2015, n. 18270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRIBBA Tito – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 14919-2013 proposto da:

D.S.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 149, presso lo studio dell’avvocato LANZILAO ANGELO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 253/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE del 18/01/2013, depositata il 18/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/06/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. a seguito di relazione a norma dell’art. 380 bis c.p.c., condivisa dal Collegio.

2. La Corte di appello di Lecce, con sentenza del 18 marzo 2013, in accoglimento del gravame svolto da M.M., accertata la nullità della notificazione del ricorso di primo grado, ha dichiarato la nullità, per violazione del principio del contraddittorio, di tutti gli atti processuali e della sentenza di primo grado, disponendo la remissione della causa al giudice di primo grado.

3. Per la Corte territoriale doveva ritenersi illegittima la declaratoria di contumacia, in primo grado, del M., per non avere la predetta parte convenuta ricevuto la notifica del ricorso introduttivo del giudizio, “ricevuto da soggetto diverso” (così in sentenza), omonimo del M., residente in (OMISSIS), mentre l’appellante, all’epoca della notifica, risiedeva in via (OMISSIS).

4. Di tale sentenza domanda la cassazione D.S.G., con quattro motivi, con i quali deduce violazione degli artt. 139 e 149 c.p.c. e L. n. 890 del 1982, art. 7 e art. 160 c.p.c., per avere la Corte di merito escluso la regolarità della notificazione del ricorso, ricevuto dalla figlia convivente dell’appellante, M. L. (tale e in tale qualità dichiaratasi all’agente postale notificante), circostanza incontestata (nè impugnata con querela di falso), nè contrastata con adeguati elementi dimostrativi dell’inesistenza del rapporto di convivenza con il destinatario dell’atto o dell’occasionale presenza al momento della notifica, in difformità dalla giurisprudenza di legittimità che reputa il problema del luogo di notificazione superato dalla dichiarazione di convivenza resa all’agente postale, nella specie dalla predetta M.L. (primo motivo); omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, quale il piego ricevuto dalla predetta M., quale figlia convivente, non esaminato dalla Corte, sebbene fosse un fatto decisivo per il giudizio, incompatibile con la possibilità che il piego fosse stato consegnato all’omonimo M.M. (del quale neanche era stata acquisita la prova che avesse una figlia di nome L.), e risoltasi a disaminare l’eccezione di nullità solo nel profilo relativo al luogo della notificazione, pretermettendo l’assorbente profilo della convivenza della consegnataria con il destinatario dell’atto (secondo motivo); violazione degli artt. 160, 101 e 354 c.p.c., per avere la Corte comminato la nullità, ex art. 160 c.p.c. (per violazione delle disposizioni sulla persona cui l’atto doveva essere consegnato), benchè il piego raccomandato fosse stato consegnato ad uno dei soggetti indicati dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, trascurando di considerare l’indimostrata residenza dell’omonimo nel luogo ove l’atto andava notificato (terzo motivo);

infine, violazione dell’art. 354 c.p.c., per avere disposto la rimessione della causa al giudice di primo grado, in assenza di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio (ultimo motivo).

5. M.M. è rimasto intimato.

6. Il secondo motivo merita accoglimento, con assorbimento degli altri, per avere la Corte territoriale del tutto trascurato la circostanza, peraltro decisiva, della ricezione del piego raccomandato da parte di un familiare convivente del destinatario dell’atto.

7. Invero, in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, con la consegna del piego a persona di famiglia, convivente con il destinatario, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c., in quanto il problema dell’identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire (v., Cass. 6345/2013, in motivazione; Cass. nn. 22607/2009, 24852/2006; 9928/2001).

8. In conclusione il ricorso va accolto, la sentenza impugnata cassata e la causa rinviata alla stessa Corte territoriale, in diversa composizione, che provvederà all’esame del gravame e alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla stessa Corte d’appello in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 9 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 24/06/2015) 24/07/2015, n. 15650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BOGNANNI Salvatore – Presidente –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso n.r.g. 12426/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

GALFA COSTRUZIONI S.r.l.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 134/32/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della Lombardia, depositata il 14/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2015 dal Consigliere Dott. ROBERTA CRUCITTI.

Svolgimento del processo
Nella controversa avente origine dall’impugnazione da parte della Galfo Costruzioni s.r.l. dell’avviso di accertamento con il quale erano stati rettificati, in via induttiva, ai fini IRES, IVA ed IRAP, gli imponibili dichiarati per l’anno di imposta 2006, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe, dichiarava l’appello, proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la pronuncia di primo grado, inammissibile siccome tardivo.

Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso affidato due motivi.

La contribuente non ha svolto attività difensiva.

Il Consigliere relatore ha depositato relazione ex art. 380 bis c.p.c., ed il Presidente ha fissato il giorno 24 giugno 2015 per l’adunanza in Camera di consiglio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 149 c.p.c., della L. n. 890 del 1992, del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 20 e 53, per avere la C.T.R. dichiarato inammissibile l’appello attribuendo, a tal fine, rilevanza alla data di deposito presso la Segreteria laddove l’impugnazione era stata notificata mediante spedizione, pacificamente avvenuta il 14.1.2013 e ricezione da parte della Società il 16.1.2013.

2. Con il secondo motivo, avanzato in subordine, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 149 c.p.c., della L. n. 890 del 1982, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, nonchè dell’art. 327 c.p.c., laddove si volesse ritenere che con il termine “deposito” la C.T.R. avesse fatto riferimento alla ricezione dell’atto da parte del contribuente, effettivamente avvenuta in data 16.1.2013, essendo pacifico che gli effetti della notifica devono essere ricollegati per il notificante alla consegna dell’atto all’agente notificatore.

3. Il primo motivo è fondato con assorbimento del secondo mezzo, avanzato in subordine. Ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 20 e 53, ai fini della tempestività dell’atto di appello deve aversi riguardo alla data della notificazione, e non a quella del deposito presso la Segreteria della C.T.R., con l’ulteriore precisazione che detta notificazione, per come noto, deve ritenersi espletata, per il notificante, in base al principio di “anticipazione” con la consegna dell’atto all’agente notificatore, ovvero, nella specie, con la consegna all’Ufficio postale.

4. La sentenza impugnata, laddove ha individuato nella data di un non meglio specificato deposito dell’atto di appello il termine finale ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione ha fatto erronea applicazione della normativa di riferimento.

5. Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio a diversa Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia anche per il regolamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso ed assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia a diversa Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia anche per il regolamento delle spese processuali.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2015


Cass. civ. Sez. VI – 5, Sent., (ud. 07-05-2015) 21-07-2015, n. 15258

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25836/2014 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato MISIANI CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 5111/21/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di ROMA dell’8/07/2014, depositata il 04/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/05/2015 dal Presidente Relatore Dott. MARIO CICALA;

udito l’Avvocato Claudio Misiani difensore del ricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
Il signor S.L. ricorre contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, riformando la sentenza di primo grado, ha rigettato il ricorso con cui il contribuente aveva dedotto la nullità della notifica di un avviso di accertamento effettuata in Roma, a mezzo posta, in un indirizzo (via (OMISSIS)) diverso da quello della residenza anagrafica del contribuente (via (OMISSIS)).

Nella sentenza gravata si legge: “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 e del 2010, laddove giustappunto la residenza anagrafica del S. figura indicata in (OMISSIS), l’Agenzia appellante ha dato conto del proprio assunto, ovvero che il contribuente avesse eletto colà il proprio domicilio fiscale”. Da tale affermazione, la Commissione Tributaria Regionale trae la conclusione della validità della notificazione dell’avviso impugnato, “giustappunto effettuata in quello che figurava il domicilio fiscale del contribuente”.

Il ricorso del contribuente si articola su sei motivi:

– con il primo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso fondando la propria decisione su un fatto (l’avere il contribuente effettuato un’elezione di domicilio) prospettato dall’Ufficio solo nell’atto di appello;

– con il secondo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 47 c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), in cui il giudice territoriale sarebbe incorso affermando che l’indicazione di residenza anagrafica in un indirizzo dimostrerebbe l’intervenuta elezione di domicilio fiscale a tale indirizzo; con il terzo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione degli artt. 2702 e 2721 c.c., e del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, commi 3 e 6, e art. 3, comma 10, in cui il giudice territoriale sarebbe incorso perchè, a fronte del disconoscimento della conformità delle copie prodotte dall’Agenzia delle dichiarazioni fiscali del contribuente con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, non ha addossato all’Ufficio l’onere di provare detta conformità;

– con il quarto, riferito tanto al n. 5 quanto al n. 4 (con riguardo all’art. 115 c.p.c.) dell’art. 360 c.p.c., si denuncia l’omesso esame della circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che il contribuente non aveva indicato nè residenza nè domicilio nelle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dal suo intermediario per gli anni 2009 e 2010, come documentato dalle “attestazione di avvenuto ricevimento”, rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10, e corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file”;

– con il quinto, riferito tanto al n. 3 (con riguardo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6) quanto all’art. 360 c.p.c., n. 5, si denuncia la violazione del principio, che il ricorrente desume dalle norme richiamate, per il quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe l’onere di verificare presso i registri anagrafici la residenza del contribuente a cui intende notificare un atto; nonchè l’omesso esame del fatto (rilevante ai fini del giudizio di validità della notifica effettuata all’indirizzo di via (OMISSIS) sotto il profilo del rispetto, da parte dell’Ufficio, del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 6, laddove prescrive che la comunicazione degli atti dell’Amministrazione “nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione”) che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’erroneo indirizzo di via (OMISSIS) (avvenuta in data 31/12/10) e precisamente in data 19/10/10, l’Amministrazione aveva notificato altro avviso di accertamento (pur esso relativo al medesimo modello Unico 2006) al corretto indirizzo di via (OMISSIS), dove l’atto era stato consegnato a mani della moglie del contribuente.

– con il sesto, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per inesistenza della motivazione, assumendo che la sentenza gravata non rispetterebbe il minimo costituzionale dell’obbligo di motivazione sia sotto il profilo dell’assoluta omissione di considerazione di fatti di decisiva rilevanza prospettati in giudizio dal contribuente, sia sotto il profilo della confusione tra indicazione di residenza ed elezione di domicilio.

La difesa erariale sì è costituita in questa sede al solo scopo di partecipare all’udienza, alla quale, peraltro, non ha poi presenziato.

La causa è stata discussa all’udienza pubblica del 7/5/15, in cui è intervenuto il difensore del ricorrente che aveva peraltro depositato anche memoria.

Motivi della decisione
Il primo mezzo di ricorso va disatteso, giacché la deduzione che il contribuente aveva effettuato una elezione di domicilio nell’indirizzo di via (OMISSIS) non costituiva un’eccezione in senso tecnico, ma una mera difesa volta paralizzare l’eccezione di nullità della notifica dell’atto impositivo sollevata dal contribuente nel ricorso introduttivo. E’ fermo indirizzo di questa Corte, infatti, che il divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, concerne esclusivamente le sole eccezioni in senso stretto, e non anche le eccezioni improprie o le mere difese, che sono sempre deducibili (da ultimo, Cass. 25756/14).

Il secondo mezzo è inammissibile, perché non pertinente alla ratio decidendi della sentenza gravata, la cui argomentazione risulta travisata dal ricorrente. E’ vero infatti che, come chiarito da questa Corte (cfr. sent. 11081/06), in tema di notificazione degli atti di accertamento tributario, la facoltà del contribuente di “eleggere” domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. “d”) si differenzia dalla semplice “dichiarazione” di domicilio, consistente nell’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica (art. 58, comma 2, D.P.R. cit.), in cui è possibile eseguire le notifiche; ma l’argomentazione della sentenza gravata non fa mai riferimento all’elezione di domicilio in senso tecnico, non parla mai della nomina di un domiciliatario, non cita mai il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. “d”. Il senso complessivo della sentenza gravata, quale risultante dallo stralcio sopra trascritto (e nonostante l’improprietà lessicale dell’affermazione che il contribuente avrebbe “eletto colà il proprio domicilio fiscale”), è dunque palesemente quello di attribuire all’indicazione della residenza anagrafica contenuta nelle dichiarazioni dei redditi relative agli esercizi 2009 e 2010 il valore di una “dichiarazione di domicilio” – vale a dire l’indicazione di un luogo, compreso nel comune d’iscrizione anagrafica, in cui è possibile eseguire le notifiche – e non quello di una vera e propria “elezione di domicilio”, vale a dire la nomina di un domiciliatario.

Con il terzo ed il quarto motivo il contribuente sostanzialmente lamenta che la Commissione Tributaria Regionale per un verso (terzo motivo) avrebbe ignorato il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni fiscali del contribuente prodotte dall’Agenzia con il file teletrasmesso dall’intermediario ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, e per altro verso (quarto motivo) avrebbe omesso di esaminare la circostanza di fatto, decisiva e non contestata dall’Ufficio in sede di merito, che nei files delle dichiarazioni dei redditi teletrasmesse dall’intermediario del contribuente per gli anni 2009 e 2010 non risultava alcuna indicazione nè di residenza nè di domicilio.

Entrambi i motivi – da trattare congiuntamente per la loro intima connessione – risultano fondati.

Per la piena intelligenza delle censure è necessario tener presente che, come riportato nell’esposizione dei fatti di causa svolta nel ricorso per cassazione, nel ricorso introduttivo di primo grado il contribuente contestò la validità della notifica dell’atto impositivo impugnato sulla scorta delle seguenti deduzioni di fatto:

a) detta notifica era stata effettuata per compiuta giacenza, presso l’ufficio postale, del plico raccomandato contenente l’atto impositivo impugnato e l’avviso di giacenza era stato lasciato nella cassetta postale di un appartamento (l’interno 2) di uno stabile di via (OMISSIS);

b) esso contribuente non aveva mai avuto la residenza nè il domicilio in via (OMISSIS) ed era ininterrottamente residente in via (OMISSIS) dal 2001;

c) esso contribuente aveva indicato l’indirizzo di via (OMISSIS) come quello di propria residenza nel modello Unico 2006, lasciando in bianco lo spazio relativo all’indicazione della residenza nelle dichiarazioni dei redditi successive proprio perchè la residenza non era variata rispetto a quella risultante dal modello Unico 2006; l’indirizzo di via (OMISSIS) era peraltro stato indicato dal contribuente come propria residenza nel modello AA9/8, di apertura e chiusura della partita IVA in relazione ad un periodo di attività professionale esercitata dal gennaio 2008 al novembre 2010;

Alle controdeduzioni dell’Agenzia – nelle quali si affermava che l’indirizzo di via (OMISSIS) risultava indicato come residenza anagrafica del contribuente sia nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2010 e nel 2009, sia nel summenzionato modello AA9/8 – esso contribuente aveva replicato, con memorie depositate nel giudizio di primo grado l’I 1/6/12 e il 14/12/12, per un verso, evidenziando che dalla copia autentica del modello AA9/8, allegata al ricorso introduttivo, risultava che in tale modello l’indirizzo di residenza anagrafica era stato indicato in via (OMISSIS) e, per altro verso, contestando la conformità all’originate delle “copie” delle dichiarazioni 2009 e 2010 prodotte dall’Ufficio.

Con riferimento a queste ultime, in particolare, il contribuente – argomentando che non si trattava di copie in senso tecnico, bensì di trascrizioni in forma cartacea di una combinazione di dati trasmessi dal contribuente e di dati inseriti dal sistema ai fini di informatizzazione – aveva contro dedotto, davanti al giudice di prime cure, che il dato relativo alla residenza anagrafica in via (OMISSIS) non proveniva dal contribuente ma dal sistema informatico dell’Agenzia (e, precisamente, dal cosiddetto “cassetto fiscale”), nel quale tale dato era stato inserito per un errore di lettura del suddetto modello AA9/8 (il cui originale cartaceo era stato, come sopra riferito, prodotto in giudizio); errore fatto palese dal rilievo che, nel cassetto fiscale, l’erronea indicazione dell’indirizzo del contribuente in via Lorenzo il Magnifico 119 era corredata dall’annotazione “a decorrere dal 10/1/08” – fonte “Collegamento IVA”.

Sulle controdeduzioni svolta dal contribuente l’Ufficio non aveva preso posizione e la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente sulla scorta di una duplice ratio decidendi consistente:

1) da un lato, nell’accertamento in fatto che l’Agenzia non aveva fornito la prova dell’asserita indicazione da parte del contribuente dell’indirizzo di via (OMISSIS);

2) d’altro lato, nell’affermazione di diritto che, in mancanza di elezione di domicilio D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, comma 1, lett. d), ai fini della notifica degli atti impositivi l’amministrazione finanziaria era onerata di accertare l’attuale residenza anagrafica del contribuente, potendo la stessa essere variata rispetto a quella indicata nell’ultima dichiarazione dei redditi.

Così ricostruiti fatti di causa, osserva il Collegio che l’affermazione sulla cui base la Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello dell’Agenzia contro la sentenza di prime cure, ossia l’affermazione secondo la quale l’Amministrazione finanziaria avrebbe provato che il contribuente aveva dichiarato il proprio domicilio in via (OMISSIS) “attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi relativi agli esercizi d’imposta del 2009 del 2010”, è censurabile sotto entrambi i profili sviluppati, rispettivamente, nel terzo nel quarto motivo di ricorso. Quanto al profilo sviluppato nel terzo motivo, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata trascura completamente il disconoscimento della conformità delle copie delle dichiarazioni dei redditi prodotte dall’Agenzia ai files delle medesime dichiarazioni teletrasmessi dall’intermediario; disconoscimento che il contribuente aveva operato nel giudizio di primo grado – producendo la “attestazione di avvenuto ricevimento” del file (rilasciate dall’Agenzia ai sensi del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10) corredate dalla “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” – ed aveva poi ribadito nel punto 4 delle controdeduzioni in appello, come precisato, in osservanza del principio di autosufficienza, a pagina 12 del ricorso per cassazione.

Quanto al profilo sviluppato al quarto motivo quarto motivo di ricorso, è sufficiente rilevare che la suddetta affermazione della sentenza gravata risulta palesemente apodittica, giacchè il giudice territoriale omette completamente di esaminare la deduzione di fatto del contribuente secondo la quale nei files delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010 teletrasmessi all’Ufficio non sarebbe stato indicato alcun indirizzo di residenza nè di domicilio e, quindi, di vagliare la documentazione prodotta fin dal primo grado di giudizio a sostegno di tale deduzione, vale a dire la “visualizzazione dei dati relativi alle dichiarazioni contenute nel file” scaricata dal “Servizio telematico di presentazione delle dichiarazioni”. Il terzo e quarto motivo vanno pertanto accolti.

Il quinto mezzo va disatteso tanto con riferimento alla censura di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, e alla L. n. 212 del 2000, art. 6, quanto con riferimento alla censura di omesso esame di fatti decisivi.

Sotto il primo profilo, osserva il Collegio che il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, (alla cui stregua le variazioni e modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notifiche degli atti dell’Amministrazione finanziaria, ancorché soltanto del trentesimo giorno successivo alla variazione anagrafica) non autorizza la conclusione che – dovendo in ogni caso l’Ufficio, prima di notificare un atto al contribuente, controllare, mediante una verifica sui registri anagrafici, l’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi – detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti dell’Amministrazione finanziaria.

Tale interpretazione renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prescritta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, e urterebbe contro il consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza (o di un proprio domicilio in un indirizzo diverso da quello di residenza, ma nell’ambito del medesimo comune ove il contribuente è fiscalmente domiciliato) va effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (vedi Cass. nn. 5358/06, 11170/13, 26715/13, nella quale ultima si legge: “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Sulla scorta di tali considerazioni deve allora affermarsi che altro è il caso di un cambio di residenza e altro è il caso di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi; in quest’ultimo caso, infatti, la notificazione che si sia perfezionata presso l’indirizzo indicato nella dichiarazione dei redditi (anche quando, come nella specie, il perfezionamento della notifica avvenga tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto in casa comunale) deve considerarsi valida, nonostante che tale indicazione sia difforme (non importa se per da errore o per malizia) rispetto alle risultanze anagrafiche.

Alla stregua di tale principio deve poi giudicarsi inammissibile la censura di omesso esame del fatto che, pochi mesi prima della notifica dell’impugnato avviso di accertamento nell’indirizzo di via (OMISSIS), altro avviso di accertamento era stato validamente notificato all’indirizzo di via (OMISSIS), difettando, per le indicate ragioni di diritto, il requisito della decisività del fatto.

Parimenti infondato, infine, va giudicato il sesto mezzo di ricorso, giacché la motivazione della sentenza gravata esplicita il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione Tributaria Regionale, fermi restando i vizi che tale percorso inficiano in relazione ai profili sollevati nel terzo e nel quarto mezzo di gravame. In definitiva il ricorso va accolto relativamente al terzo e quarto mezzo, disattesi gli altri, e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio perché questa rinnovi l’accertamento della circostanza che il contribuente avrebbe indicato la propria residenza in via Lorenzo il Magnifico 119 nei files teletrasmessi delle dichiarazioni dei redditi 2009 e 2010.

Il giudice di rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo ed il quarto mezzo di ricorso, respinge gli altri e cassa la sentenza gravata; rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2015


Corte cost., Sent., (data ud. 23/06/2015) 16/07/2015, n. 170

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Alessandro CRISCUOLO Presidente

– Paolo Maria NAPOLITANO Giudice

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Mario Rosario MORELLI “

– Giancarlo CORAGGIO “

– Giuliano AMATO “

– Silvana SCIARRA “

– Daria de PRETIS “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza del 21 maggio 2014, e dal Consiglio superiore della magistratura − sezione disciplinare, con ordinanza del 14 luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 182 e 204 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 45 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di D.P.M. e di M.T.;

udito nell’udienza pubblica del 23 giugno 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Gianfranco Iadecola e Carmine Di Zenzo per D.P.M. e Francesco Saverio Marini per M.T.

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio di legittimità – promosso avverso la sentenza con cui la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato il ricorrente responsabile dell’incolpazione di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, infliggendogli le sanzioni della censura e del trasferimento di sede, perché, quale magistrato con funzioni di giudice aveva (con negligenza inescusabile) omesso di dichiarare tempestivamente la perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari di due imputati, con un ritardo di cinquantasei giorni per entrambi – la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza emessa il 21 maggio 2014 (iscritta al n. 182 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo.

La norma – che al primo periodo dispone che “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – viene censurata, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, e limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, là dove, nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

Il Collegio rimettente afferma (in termini di rilevanza) la non fondatezza dei motivi di impugnazione svolti dal ricorrente. Sulla base della propria giurisprudenza, la Corte di cassazione esclude, da un lato, che la menzionata lettera a) del comma 1 dell’art. 2 riguardi solo comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti e non già le condotte colpose riferite (come nella specie) al difetto del dovere di diligenza. E rileva, dall’altro, come la non configurabilità della scarsa rilevanza del fatto, di cui all’art. 3-bis del medesimo d.lgs. sia stata adeguatamente vagliata e motivata dal giudice a quo.

Nel merito, le sezioni unite rimettenti osservano che – vigente la regola in base alla quale, per tutti gli illeciti puniti con una sanzione diversa da quella minima, l’irrogazione della ulteriore sanzione del trasferimento è facoltativa e condizionata all’accertamento dell’incompatibilità della permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia – solo nel caso delle violazioni previste dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 2, il trasferimento stesso deve essere sempre e comunque disposto, con un meccanico automatismo che si pone in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Per il Collegio a quo – a fronte di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale – imporne indefettibilmente l’irrogazione come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi di ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”) comporta l’equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari. I quali sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Pertanto, al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’applicazione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

2.− Si è costituito D.P.M., il magistrato ricorrente nel giudizio a quo, che, in via principale, contesta il principio di diritto affermato dalla Corte rimettente, nella parte in cui esclude la configurabilità di qualsiasi rapporto di specialità tra le violazioni disciplinari di cui alle lettere a) e g) dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, ed afferma che le violazioni sanzionate sub lettera a) abbiano natura non solo dolosa ma anche colposa.

In subordine, la parte privata costituita concorda con le argomentazioni svolte a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, rimarcando il vulnus ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza arrecato da un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte sanzionabili indiscriminatamente, ai sensi del citato art. 2, comma 1, lettera a), con identico rigore e severità a prescindere dal disvalore delle specifiche violazioni consumate dal magistrato e dalle loro rilevanza dolosa o colposa.

3.− Nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un magistrato – incolpato degli illeciti disciplinari previsti, tra l’altro, dagli artt. 1 e 2, comma 1, lettere a) e g), del D.Lgs. n. 109 del 2006 (perché incorso, contro i doveri di diligenza e correttezza, in qualità di giudice delegato alla procedura fallimentare relativa ad una srl dichiarata fallita con sentenza del Tribunale, “in grave violazione di legge dovuta a negligenza inescusabile, disattendendo le disposizioni di cui agli artt. 25 e 31 L.F. che prevedono – ratione temporis – obblighi di direzione, oltre che di controllo e vigilanza, sull’operato del curatore fallimentare, determinando un ingiusto danno ai creditori del fallimento, consistito nel mancato incasso integrale di un credito IVA di elevatissimo valore nominale”) – la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza emessa il 14 luglio 2014 (iscritta al n. 204 del registro ordinanze dell’anno 2014), ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto legislativo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

La rimettente – “Considerato, ai fini della valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, prospettata anche dalla Procura Generale, che nel caso di specie la Sezione disciplinare ravvisa un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza” – ritiene che la questione in esame non sia manifestamente infondata proprio alla luce di quanto condivisibilmente osservato dalla sopra riportata ordinanza di rimessione delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, da “intendersi integralmente richiamata”.

4.− Si è costituito il magistrato incolpato nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione.

La parte, in particolare, osserva che – poiché il menzionato art. 2, comma 1, lettera a), contempla una vasta gamma di illeciti disciplinari, che comprendono anche comportamenti non tipizzati, inerenti la violazione da parte del magistrato dei generici doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità ed equilibrio (ovvero comportamenti che, ancorché legittimi, compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro dell’istituzione giudiziaria) di cui al precedente art. 1, punibili sia a titolo di dolo che di colpa – l’automatismo previsto dalla norma censurata non consente alla sezione disciplinare di valutare la gravità dell’addebito contestato, l’eventuale intensità del dolo o della colpa, la gravità o meno della negligenza, il pregiudizio effettivamente arrecato al prestigio della amministrazione giudiziaria, l’entità del danno o del vantaggio arrecati ad una delle parti. Sicché (richiamata la giurisprudenza costituzionale in materia) la parte ribadisce che detto automatismo vulnera il principio di razionalità connesso a quello di indispensabile gradualità sanzionatoria, che presuppone la necessità della valutazione della condotta del soggetto e la verifica della effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla previsione sanzionatoria.

Considerato in diritto

1.− La Corte di cassazione, sezioni unite civili, e la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura censurano – per violazione dell’art. 3 della Costituzione – l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della L. 25 luglio 2005, n. 150), che dispone l’obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), dello stesso d.lgs.

2.− I giudizi, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3.− Preliminarmente, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

La rimettente – trascritta l’incolpazione oggetto del procedimento disciplinare sottoposto al suo giudizio, e rilevato che “con ordinanza interlocutoria n. 11228 del 2014, la Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 13, comma 1, secondo periodo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, in relazione all’art. 3 Cost.” – si limita, da un lato, ad affermare la rilevanza della questione (ravvisando, in concreto, “un’ipotesi di negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare, la cui reale consistenza impone una graduazione della sanzione commisurata all’entità del danno stesso e alla misura della negligenza”); e, dall’altro lato, in termini di non manifesta infondatezza, a riportarsi a “quanto condivisibilmente osservato dalla richiamata ordinanza interlocutoria n. 11228/2014 della Corte di cassazione che qui deve intendersi integralmente richiamata”.

Ove anche si volesse prescindere (in termini di sufficienza della motivazione circa la rilevanza della questione nel giudizio a quo) dalla portata non del tutto esauriente della assai sintetica argomentazione svolta in tal senso – in base alla quale la riconducibilità della condotta ascritta all’incolpato alla fattispecie di cui alla lettera a), comma 1, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006 (e di conseguenza anche al dovere di applicare la sanzione accessoria previsto dalla norma censurata) si evince solo indirettamente, in ragione della mera affermazione della configurabilità, nel caso concreto, dei presupposti della negligenza e del danno ingiusto, che caratterizzano detta ipotesi sanzionatoria rispetto a quella contemplata dalla successiva lettera g) – viceversa, quanto al requisito della non manifesta infondatezza della questione, la sezione disciplinare rimettente ha esclusivamente fatto riferimento al contenuto argomentativo della richiamata ordinanza di rimessione pronunciata, in altro processo, dal giudice di legittimità.

Orbene, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude che, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi, sia ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Infatti, il principio di autonomia di ciascun giudizio di costituzionalità in via incidentale, quanto ai requisiti necessari per la sua valida instaurazione, e il conseguente carattere autosufficiente della relativa ordinanza di rimessione, impongono al giudice a quo di rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza, non potendo limitarsi ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del processo principale (ex plurimis, sentenze n. 49, n. 22 e n. 10 del 2015; ordinanza n. 33 del 2014), ovvero anche in altre ordinanze di rimessione emanate nello stesso o in altri giudizi (sentenza n. 103 del 2007; ordinanze n. 156 del 2012 e n. 33 del 2006).

4.− Dal canto loro, le sezioni unite civili della Corte di cassazione censurano l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, che – rispetto alla previsione generale del primo periodo dello stesso articolo, in base al quale “La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia” – nel periodo successivo prevede che “Il trasferimento è sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettera a), nonché nel caso in cui è inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni”.

La Corte rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza e disparità di trattamento, poiché imporre indefettibilmente l’irrogazione di una sanzione particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo e morale e materiale, come conseguenza di tutti i “comportamenti che, violando doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” (e quindi a ogni condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, oltre che nel rispetto della “dignità della persona”), comporta l’irragionevole equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari, che sono bensì accomunati dall’elemento dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare di ben diversa gravità, essendovi ricompresi comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi, che consistono inoltre nell’inosservanza di doveri non tutti di pari importanza. Con la conseguenza che al giudice disciplinare, in violazione della “indispensabile gradualità sanzionatoria” connessa alla irrazionalità di ogni automatismo sanzionatorio, è impedito di tenere conto di volta in volta di queste differenze e di verificare se l’inflizione della sanzione accessoria sia necessaria per il conseguimento dello scopo, che le è proprio, di evitare il contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell’ufficio.

Il giudice a quo chiede, quindi, la declaratoria di incostituzionalità della norma, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”, così da determinare l’eliminazione (dal contenuto precettivo della disposizione censurata) della automatica applicabilità della sanzione accessoria del trasferimento nel caso di accertamento delle sole violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a), con l’effetto di far riespandere anche rispetto alla fattispecie punitiva de qua la regola generale prevista dal primo periodo della stessa norma.

5.− Preliminarmente, vanno rigettate le obiezioni (peraltro non tradotte in una formale eccezione di irrilevanza della questione) mosse dalla parte costituita, che ripropone nel giudizio di costituzionalità le medesime difese svolte a sostegno del primo motivo di ricorso in cassazione. Con esso, il ricorrente lamentava che la sezione disciplinare, nell’escludere che il fatto, come contestato, potesse essere sanzionabile alternativamente ai sensi, sia della lettera a), sia della lettera g) del comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, avesse erroneamente ritenuto la sussistenza della prima anziché della seconda di tali disposizioni; e conseguentemente avesse irrogato, oltre alla censura, anche la sanzione del trasferimento di sede, comminata dall’art. 13 dello stesso decreto legislativo come effetto automatico di “una delle violazioni previste dall’art. 2, comma 1, lettera a)”. Tale tesi difensiva viene basata dalla parte sulla ritenuta specialità della ipotesi disciplinare sub lettera g) rispetto a quella di cui alla lettera a), applicabile unicamente in caso di comportamenti del magistrato “contrassegnati da intenzionalità volitiva dei suoi doveri primari … e non da mera colpa”: configurandosi da ciò “ragioni ed argomenti per avallare una lettura ispirata a ragionevolezza”, onde escludere nella fattispecie l’applicabilità della ipotesi disciplinare di cui alla lettera a) e quindi anche della sanzione accessoria.

5.1.− Questa Corte rileva che, viceversa, nel contesto dell’ordinanza di rimessione, ad espressa confutazione di tali argomentazioni, le sezioni unite civili hanno sottolineato espressamente, da un lato, come (riguardo alla specifica ipotesi di ritardo nella scarcerazione di imputati o indagati) la propria giurisprudenza si sia “stabilmente orientata nel senso che le previsioni delle lettere a) e g) dell’articolo 2, comma 1 del D.Lgs. n. 109 del 2006 sono entrambe contestualmente applicabili, poiché non sussiste tra loro un rapporto di specialità, che comporti l’esclusione dell’una o dell’altra” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 29 luglio 2013, n. 18191, 22 aprile 2013, n. 9691 ed 11 marzo 2013, n. 5943). E, dall’altro, come, alla stregua della suddetta giurisprudenza, risulti “altresì da disattendere l’assunto del ricorrente, secondo cui la lettera a) attiene soltanto a comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”; ciò in quanto tale disposizione configura l’illecito disciplinare di cui si tratta come conseguente alle violazioni dei “doveri di cui all’articolo 1” (secondo cui “Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni”), tra le quali sono certamente comprese anche quelle colpose, in quanto riferite, tra l’altro, al dovere della “diligenza” nell’esercizio delle funzioni attribuite al magistrato.

La Corte rimettente, dunque (nel rigettare i motivi addotti dal ricorrente a sostegno della impugnazione, ed in tal modo qualificando il fatto ascritto all’incolpato, oltre che escludendone la scarsa rilevanza), ha confermato integralmente il giudizio espresso dalla sezione disciplinare, che aveva ritenuto appunto applicabile la lettera a), comma 1, dell’art. 2, a fronte del difetto di diligenza addebitato al magistrato, per non essersi avveduto della scadenza del termine massimo della misura degli arresti domiciliari, cui erano sottoposte due persone nei cui confronti procedeva il suo ufficio, in un procedimento a lui affidato.

Dal mancato accoglimento delle ragioni addotte quali motivi di impugnazione – articolato sulla base di uno sviluppo argomentativo del tutto coerente, fondato su una interpretazione in sé non implausibile – consegue, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, essendo il Collegio rimettente chiamato ad applicare la misura del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio nel modo prescritto dalla norma censurata.

6.− Nel merito la questione è fondata.

6.1.− La giurisprudenza di questa Corte è da tempo costante nell’affermare come il “principio di proporzione”, fondamento della razionalità che domina “il principio di eguaglianza”, postuli l’adeguatezza della sanzione al caso concreto; e come tale adeguatezza non possa essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito, valutazione che soltanto il procedimento disciplinare consente (sentenze n. 447 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988).

Ferma, dunque, restando la discrezionalità del legislatore di prevedere l’indefettibile adozione di sanzioni accessorie, quando ciò sia giustificato dalla peculiarità della situazione fattuale generatrice dell’illecito, nonché dalla sussistente correlazione tra tale situazione e la gravità della sanzione (sentenza n. 112 del 2014), l’ordinamento è orientato verso la tendenziale esclusione di previsioni sanzionatorie rigide, la cui applicazione non sia conseguenza di un riscontrato confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto, e rispetto alle quali l’indispensabile gradualità applicativa non sia oggetto di specifica valutazione nel naturale contesto del procedimento giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012 e n. 363 del 1996) ovvero in quello disciplinare (ex plurimis, sentenze n. 329 del 2007, n. 212 e n. 195 del 1998, n. 363 del 1996).

D’altronde, data la ratio di tale orientamento, non ci sono motivi per escluderne l’applicazione nei confronti dei magistrati; riguardo ai quali, peraltro, nei suoi interventi normativi, il legislatore (fermo il presupposto della spettanza del potere disciplinare al Consiglio superiore della magistratura, e l’attribuzione del suo esercizio alla sezione disciplinare) è stato indotto a configurare tale procedimento “secondo paradigmi di carattere giurisdizionale” (sentenza n. 497 del 2000) per l’esigenza precipua di tutelare in forme più adeguate specifici interessi e situazioni connessi allo statuto di indipendenza della magistratura (sentenze n. 87 del 2009 e n. 262 del 2003).

6.2.− Ciò premesso, va (sotto altro profilo) sottolineato che l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 109 del 2006, si configura quale “norma di parziale chiusura” del sistema disciplinare in cui la compatibilità tra la previsione di un precetto cosiddetto “a condotta libera” ed il principio informatore di tipicità della riforma risulta assicurata dallo specifico riferimento dei “comportamenti” sanzionabili ai doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, nonché a quelli di rispetto della dignità della persona, cui il magistrato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 109 del 2006, deve improntare la propria condotta nell’esercizio delle proprie funzioni (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3669).

Peraltro, va altresì rilevato che le ipotesi trasgressive de quibus configurano fattispecie di illecito “di evento”, in cui, non diversamente da quanto si verifica in campo penale per analoghe figure di reato, la consumazione non si esaurisce con la condotta tipica, ma esige che si verifichi un “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”, ossia un concreto accadimento lesivo, in danno del soggetto passivo, che costituisca la conseguenza diretta dell’azione o omissione vietata (anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, 22 aprile 2013, n. 9691 e 11 marzo 2013, n. 5943, già citate).

Risulta, quindi, di agevole constatazione il fatto che vi sono violazioni dei doveri del magistrato, stabiliti dall’art. 1 del medesimo decreto (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, rispetto della dignità della persona), che pur non traducendosi in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile, tuttavia arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti, e sono pertanto perseguibili a norma della lettera a), comma 1, dell’art. 2 del decreto (in tal senso, anche Corte di cassazione, sezioni unite civili, n. 5943 del 2013, citata).

6.3.− Orbene, nonostante l’ampio ventaglio dei possibili “comportamenti” caratterizzati da siffatti requisiti, la cui configurabilità in termini di illecito disciplinare non richiede una particolare connotazione di gravità, né uno specifico grado di colpa, quella di cui alla lettera a) costituisce l’unica ipotesi, tra le molteplici, di illecito funzionale (tutte tipizzate dall’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006) alla quale consegue – come ulteriore sanzione imposta dalla norma censurata – l’obbligatorio trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio del magistrato condannato.

La necessaria adozione di tale misura punitiva appare basata su una presunzione assoluta, del tutto svincolata – oltre che dal controllo di proporzionalità da parte del giudice disciplinare – anche dalla verifica della sua concreta congruità con il fine (ulteriore e diverso rispetto a quello repressivo dello specifico illecito disciplinare) di evitare che, data la condotta tenuta dal magistrato, la sua permanenza nella stessa sede o ufficio appaia in contrasto con il buon andamento della amministrazione della giustizia (come, invece previsto dalla regola generale disciplinata dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006).

Ne consegue, da un lato, un vulnus al principio di uguaglianza, derivante dal diverso (e più grave) trattamento sanzionatorio riservato (senza alcun concreto riferimento alla gravità dell’elemento materiale ovvero di quello psicologico) al solo illecito funzionale de quo; dall’altro lato, l’irragionevolezza della deroga alla regola posta dal primo periodo del comma 1 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 109 del 2006, giacché la ratio della soluzione normativa scrutinata non sembra potersi rinvenire neppure in una particolare gravità dell’illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell’interesse protetto; laddove siffatti parametri sembrerebbero doversi ritenere significativi (quali indici di adeguatezza dell’intervento repressivo della condotta illecita) non solo in sede di giudizio di colpevolezza e irrogazione della pena principale, ma anche nella determinazione della sanzione accessoria.

Ciò tanto più in quanto tale sanzione comporta un effetto molto gravoso per il magistrato, giacché concreta una eccezione alla regola della inamovibilità, che incide direttamente sul prestigio e sulla credibilità dello stesso. Invero non pare trascurabile – in una cornice che, doverosamente, privilegii il principio di necessaria adeguatezza tra il “tipo” di sanzione e la “natura” e “gravità” dell’illecito disciplinare (ontologicamente diversificato in ragione della varietà delle condotte addebitabili) – la circostanza che la misura obbligatoria del trasferimento di ufficio si aggiunge alla sanzione disciplinare tipica, aumentandone significativamente la portata afflittiva, anche sul piano del prestigio personale (non scisso da quello professionale) che il magistrato condannato vedrà significativamente compromesso, attesa la rilevanza esterna che la misura stessa presenta (si pensi alla pubblicità del trasferimento in una media o piccola sede giudiziaria). Il tutto, non senza sottolineare ulteriormente come la misura del trasferimento, ove non congruamente supportata da valide ragioni che la rendano “funzionalmente” giustificata, potrebbe finire per profilare aspetti di dubbia compatibilità con lo stesso principio di inamovibilità dei giudici costituzionalmente sancito dall’art. 107 Cost.

6.4.− L’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006 va, dunque, dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 , recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, limitatamente alle parole da “quando ricorre” a “nonché”;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 13, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 109 del 2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2015.

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2015.


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-03-2015) 22-05-2015, n. 10543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30242-2011 proposto da:

CHARLES PHILIPPE PRESSE SOCIETA’ (OMISSIS), in persona del legale rappresentante p.t. sig. B.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato DE CURTIS CLAUDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati DI SALVATORE SALVATORE, CARMINE RUSSO, ENRICO BONELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

LEONARDO PUBLISHING SRL IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS), in persona del liquidatore D.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PUCCINI 10, presso lo studio dell’avvocato FERRI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAFARO MARINA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 18/10/2011 R.G.N. 1694/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito l’Avvocato MARIO FERRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – La srl Leonardo Publishing – poi in liquidazione – ottenne il 10.2.09 ingiunzione di pagamento in danno della Presse Charles Philippe dal tribunale di Parma per Euro 46.570,03 e, dichiaratane l’esecutività (con ordinanza 21.10.09) per inesistenza della notifica dell’opposizione dell’ingiunta in quanto eseguita a mezzo fax, la creditrice conseguì, riguardo ad essa, certificato di titolo esecutivo europeo in data 20.4.11.

La debitrice presentò istanza di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004, che fu però respinta con provvedimento del 23.6.11: il reclamo avverso il quale fu rigettato dalla corte di appello di Bologna.

Per la cassazione di quest’ultimo provvedimento, reso il 18.10.11 in proc. n. 1694/11 r.g., ricorre oggi, affidandosi a due motivi illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., la Presse Charles Philippe; resiste, con controricorso, la Leonardo Publishing srl in liq.ne.

Motivi della decisione
2. – La ricorrente, che fonda la sua difesa sull’inesistenza o nullità insanabile della notifica del decreto ingiuntivo n. 304/09 poi munito del certificato di titolo esecutivo europeo, articola due motivi.

2.1. Con il primo motivo, la Presse Charles Philippe si duole di violazione di legge – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 18, comma 2, del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007 – violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Al riguardo, essa:

– ripropone la censura di violazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007, in quanto la notifica avrebbe dovuto seguire – a prevalenza di norme contenute in trattati bilaterali o nelle Convenzioni di Bruxelles del 27.9.68 e dell’Aja del 15.11.65 – unicamente a mezzo degli allegati standard al Regolamento stesso e tramite l’organo specificamente designato dallo Stato richiesto della notifica (nella specie, ufficiale giudiziario francese), anzichè – come nella specie accaduto – direttamente a mezzo posta;

– si duole dell’omessa pronunzia su tale eccezione ad opera della corte di appello;

– contesta la reputata sanabilità di un tale vizio, essendo malamente applicata la previsione di sanatoria di cui all’art. 18 del Regolamento n. 805 sul titolo esecutivo europeo, non contenuta però nel Regolamento n. 1393, successivo e speciale rispetto al primo.

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge – violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 2, Regolamento CE n. 805/2004 – violazione dei principi in tema di inesistenza delle notificazioni – violazione degli artt. 156 e 160 c.p.c. (in relazione all’art. 160 c.p.c., n. 3) – omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

Al riguardo, essa:

– nega essersi instaurato un procedimento giudiziario nel quale, indicata come debitrice, sia stata coinvolta in tempo utile per potersi difendere, attesa la riscontrata inesistenza della notifica dell’opposizione da essa proposta (che pare riferire alla stessa consegna dell’atto ed alla conoscenza legale dello stesso) e quindi per la mancata verifica dell’inesistenza a monte della notifica dello stesso decreto ingiuntivo;

– sottolinea mancare quest’ultima di tutti gli estremi dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati;

– sostiene che la combinata inesistenza delle due notifiche – del decreto ingiuntivo e dell’opposizione – ha impedito l’instaurazione di qualunque valido rapporto processuale;

– nega la sanatoria della prima inesistenza e l’applicabilità di qualunque conversione, diffondendosi sui rimedi concessi al debitore apparente e sulle conseguenze della prima sugli sviluppi processuali successivi.

3. – La controricorrente, premesso un richiamo alla non impugnabilità espressa del titolo esecutivo europeo ai sensi dell’art. 10, comma 3 del Regolamento n. 805, ribatte:

– quanto al primo motivo: che la corte territoriale ha preso in esame la doglianza lamentata come pretermessa, avendo ritenuto sanata la nullità originaria della notificazione diretta a mezzo posta, anzichè a mezzo ufficiale giudiziario francese; che va presa a riferimento, ai fini dell’art. 10 comma 1, lett. b), del Regolamento, la disciplina di quest’ultimo, pienamente rispettata con riguardo alle norme minime procedurali sulla configurabilità della non contestazione ad opera del debitore; che sul punto il debitore è stato posto in grado di opporsi, non rilevando che egli abbia poi male usato il relativo potere, sì da incorrere nell’estinzione del giudizio di opposizione in forza di un provvedimento coperto da giudicato formale e sostanziale anche per la successiva inerzia di esso ingiunto; che, al riguardo, del tutto idonea era la consegna di copia del monitorio all’ingiunta presso il suo recapito, eseguita a mezzo posta a termini degli artt. 13 e 14 del Regolamento n. 805;

– quanto al secondo motivo: che la notifica del monitorio ben poteva avere luogo a mezzo posta, ai sensi proprio del Regolamento n. 805/2004; che eventuali vizi di notifica ben potevano essere superati ai sensi dell’art. 18 di quest’ultimo, ove il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostri che egli abbia ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per difendersi; che in effetti l’ingiunta aveva iscritto – peraltro tempestivamente – a ruolo l’opposizione al decreto ingiuntivo, prendendo posizione nel merito delle pretese avanzate contro di essa; che pertanto l’inesistenza della sua notifica – dipendendo dall’evidente difettosità dell’attività processuale successiva di cui egli era onerato – non inficia la piena possibilità, di cui ha potuto godere il debitore, di conoscere l’atto e di difendersi da esso.

4. – Il presente ricorso per cassazione, siccome dispiegato avverso il provvedimento, reso in camera di consiglio, dalla corte di appello sul reclamo avverso il diniego di revoca del (certificato di) titolo esecutivo europeo, è inammissibile per difetto del requisito di decisorietà e di definitività di quel provvedimento.

5. – Va premesso che, con il titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, un titolo esecutivo – giudiziale o stragiudiziale – formatosi in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca, secondo quanto previsto dall’art. 2, comma o par. 3 del Regolamento stesso) può essere munito di uno speciale certificato che lo rende idoneo a fondare, quale titolo esecutivo appunto, un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell’Unione.

La ratio dell’intera normativa è, con evidenza ricavabile dai considerando premessi al testo, l’agile apprestamento di uno strumento di facile e pronta eseguibilità in tutto il territorio dell’Unione sol che al debitore sia stata data la possibilità di contestare adeguatamente la pretesa della controparte e che di questa facoltà non si sia avvalso o non si sia avvalso fruttuosamente.

Importante tappa (verso il traguardo, di recente attinto, della definitiva soppressione di qualunque necessario controllo successivo da parte dello Stato membro richiesto dell’esecuzione, consacrato dal più recente Regolamento n. 1215/2012, divenuto efficace dal 10.1.15) nella creazione ed integrazione dello spazio giuridico europeo, esso comporta l’anticipazione a monte e cioè da parte dello Stato in cui si forma il titolo – con abbandono del tradizionale sistema dell’exequatur o del controllo a valle da parte dello Stato richiesto dell’esecuzione, per quanto sempre più attenuato o facilitato o perfino eventualizzato – del controllo di idoneità del titolo stesso a fungere da base legale di un processo esecutivo in altro Stato membro come se fosse stato lì emesso, sol che l’Autorità dello Stato in cui esso è formato rilevi la sussistenza di alcuni presupposti:

– in via preliminare, la non operatività degli speciali ambiti di esclusione previsti, non applicandosi il Regolamento in materia fiscale, doganale, amministrativa, di responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri, in materia di stato e capacità delle persone, di regime patrimoniale tra i coniugi, di testamenti e successioni, fallimenti e procedure concorsuali, sicurezza sociale ed arbitrato; e comunque nel rispetto delle norme in tema di competenza giurisdizionale espressamente previste, tra cui quelle in tema di assicurazioni e di contratti dei consumatori;

– in via principale, la non contestazione del credito pecuniario;

– ancora, il rispetto di norme procedurali minime (cc.dd. minima standard) all’interno del procedimento al cui esito il titolo è stato pronunziato, volte a dare contezza delle possibilità, per il debitore, di contestare la pretesa avversaria.

Nessun controllo sul merito o sul rito del titolo esecutivo è mai consentito al giudice dello Stato richiesto dell’esecuzione e questa non può essere negata, tranne l’eccezionale evenienza del conflitto con altra pronunzia tra le stesse parti (ovvero forse anche, ma soltanto in via di interpretazione e non senza contrasti, in quella di eventi sopravvenuti alla definitività del titolo).

Ai fini della qualifica di credito non contestato idoneo al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, il detto Regolamento (art. 3) esige:

– che il debitore quel credito non abbia mai contestato nel corso del procedimento giudiziario, in conformità alle relative procedure giudiziarie previste dalla legislazione dello Stato membro di origine;

ovvero:

– che il debitore non sia comparso o non si sia fatto rappresentare in un’udienza relativa a un determinato credito pur avendolo contestato inizialmente nel corso del procedimento, sempre che tale comportamento equivalga a un’ammissione tacita del credito o dei fatti allegati dal creditore secondo la legislazione dello Stato membro d’origine.

6. – Il titolo esecutivo europeo non corrisponde allora ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè:

– da un lato, un titolo esecutivo domestico o nazionale, stragiudiziale (con alcune peculiarità e conseguenti esenzioni, indicate nei commi o par. 3 degli artt. 24 e 25 del Regolamento) oppure reso all’esito di una procedura giudiziale nazionale tipica, nella quale però siano state osservate, se del caso in aggiunta rispetto alle forme minimali sufficienti per la legislazione nazionale, norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione di concezione eurounitaria da parte del debitore ingiunto;

– dall’altro lato, un provvedimento formale che tale rispetto appunto riscontri e certifichi, provvedimento che esso solo potrà definirsi il vero e proprio certificato di titolo esecutivo europeo, evidentemente come quid pluris rispetto al primo.

Ma neppure l’eventuale mancato rispetto delle norme procedurali minime osta al rilascio del certificato (art. 18, comma o par. 1, del Regolamento n. 805 del 2004) se:

– la decisione sia stata notificata al debitore secondo le norme di cui agli artt. 13 o 14 del Regolamento stesso;

– ed il debitore abbia avuto la possibilità di ricorrere contro la decisione per mezzo di un riesame completo e sia stato debitamente informato con la decisione o con un atto ad essa contestuale delle norme procedurali per proporre tale ricorso, compreso il nome e l’indirizzo dell’istituzione alla quale deve essere proposto e, se del caso, il termine previsto;

– ed infine il debitore non abbia impugnato la decisione di cui trattasi conformemente ai relativi requisiti procedurali.

Ed ancora (art. 18, comma o par. 2, del Regolamento), neppure l’inosservanza, nel procedimento svoltosi nello Stato membro d’origine, dei requisiti procedurali di cui agli art. 13 o 14 osta al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo se il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostra che questi ha ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per potersi difendere.

– da un lato, esclude espressamente (art. 10, comma o par. 4) ogni impugnazione del certificato di titolo esecutivo europeo, cioè del (solo) provvedimento con cui lo Stato membro di origine attesta appunto la ricorrenza dei presupposti per la circolazione intraeuropea del titolo esecutivo domestico;

– dall’altro lato, ne ammette pure – ai sensi dell’art. 10, comma o par. 1, lett. b) – la revoca da parte del giudice del Paese membro di origine, se risulti manifestamente concesso per errore sui requisiti stabiliti nel Regolamento stesso, come pure la rettifica per divergenza tra i dati contenuti nel titolo nazionale e nel certificato;

– ed infine ne prevede la neutralizzazione mediante il rilascio di un certificato sulla sorte del titolo originario, che abbia perso in tutto o in parte la sua efficacia esecutiva (ai sensi dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento in esame).

Tale regime consente di concludere che il certificato di titolo esecutivo europeo, costituito dal provvedimento ulteriore e distinto rispetto al titolo esecutivo nazionale, allora integra, cioè completa, quest’ultimo in modo da renderlo idoneo alla circolazione intraeuropea: tanto che la sua funzione può, se non altro descrittivamente, equipararsi ad una sorta di formula esecutiva intraeuropea o ad un provvedimento di funzione analoga a quello previsto dall’art. 647 cod. proc. civ.; in tal modo, esso ha una funzione dichiarativa evidentemente servente rispetto al titolo esecutivo cui accede, conferendogli il riconoscimento della sua idoneità a circolare nello spazio giuridico eurounitario; ma non risolve questioni, nè pronunzia su diritti ulteriori rispetto a quelli consacrati nel titolo in favore del creditore; si limita a certificarne l’idoneità a fondare l’esecuzione in dipendenza di un determinato sviluppo processuale.

In quanto tale, esso allora non ha natura decisoria, dovendo le contestazioni sulla concreta estrinsecazione del diritto di difesa del debitore farsi valere contro il titolo in sè considerato, ma esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento che lo ha prodotto o, in casi eccezionali, con il riesame previsto dallo stesso Regolamento 805, direttamente contro il titolo stesso e mai contro il certificato.

Tanto è reso manifesto dalla previsione dell’art. 19 del Regolamento, che ricollega la concedibilità del certificato di titolo esecutivo europeo alla previsione, nell’ordinamento dello Stato membro in cui il titolo esecutivo si forma, di strumenti processuali straordinari di riesame, in via di eccezione alla regola generale della non ulteriore impugnabilità, del titolo esecutivo in quanto tale; in particolare, tale norma prevede che debba essere possibile per il debitore impugnare non già il certificato di titolo esecutivo europeo, ma il titolo stesso, quando la domanda giudiziale o un atto equivalente o, se del caso, le citazioni a comparire in udienza siano stati notificati secondo una delle forme previste all’art. 14, e:

– o la notificazione non sia stata effettuata in tempo utile a consentirgli di presentare le proprie difese, per ragioni a lui non imputabili, oppure:

– il debitore non abbia avuto la possibilità di contestare il credito a causa di situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali per ragioni a lui non imputabili, purchè in entrambi i casi agisca tempestivamente.

Tanto giustifica la conclusione che, purchè questa sia una facoltà intrinseca all’ordinamento processuale nazionale di produzione del titolo, il certificato di titolo esecutivo europeo non solo può essere comunque concesso, ma soprattutto resta insensibile alle relative problematiche, solo che di quegli strumenti avverso il titolo in sè considerato possa avvalersi il debitore, ricorrendone beninteso i presupposti.

E che sia onere del debitore rivolgere le sue critiche, anche se basate sulla concreta compressione del suo diritto di contestazione della pretesa avversaria, al titolo e non al certificato è confermato pure dalla già richiamata previsione dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento, a mente del quale allorchè una decisione giudiziaria certificata come titolo esecutivo europeo non è più esecutiva o la sua esecutività è stata sospesa o limitata, viene rilasciato, su istanza presentata in qualunque momento al giudice d’origine, un certificato comprovante la non esecutività o la limitazione dell’esecutività utilizzando il modello di cui all’all.

4.

Il che porta a concludere che le contestazioni del debitore relative al processo conclusosi con il titolo esecutivo poi certificato come europeo vanno mosse appunto esclusivamente avverso il titolo esecutivo domestico e coi mezzi di impugnazione di questo, potendo solo in esito ad essi, una volta rimossane l’efficacia esecutiva, conseguire il risultato di elidere in radice quella del certificato europeo già rilasciato.

8. – La conclusione va applicata alla revoca (in francese, retrait;

in inglese, withdrawal) del certificato di titolo esecutivo europeo:

riservata dal Regolamento ai casi di concessione per manifesto errore sulla sussistenza dei requisiti di concedibilità.

Occorre, cioè, valutare la portata di questa previsione; ma va subito precisato che a tali fini risulta neutra la regolamentazione del relativo procedimento nelle forme di quello camera di consiglio, operata dalla Repubblica italiana mediante comunicazione alla competente autorità eurounitaria – la Commissione – ai sensi dell’art. 30, par. o commi 1 e 2 del Regolamento 805 (come si ricava dal c.d. atlante giudiziario civile, a tanto deputato dallo stesso Regolamento, al sito web (OMISSIS)).

Tale attribuzione – se pure rende applicabile il reclamo, in virtù della portata generale dell’art. 739 cod. proc. civ. – non esime dalla necessità di ricostruire comunque l’oggetto del procedimento e la natura del provvedimento che lo conclude suo oggetto, al fine di valutare i mezzi di tutela ulteriori in relazione alle situazioni giuridiche effettivamente coinvolte.

Accertato che le violazioni procedurali idonee ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare il debito sono deducibili solo nel procedimento di riesame previsto dall’art. 19 del Regolamento avverso il titolo, esse non rilevano di per sè sole considerate, ma solo in quest’ultimo e solo per il caso in cui sia in concreto attivato: e, siccome tale procedimento di riesame ha chiaramente ad oggetto il titolo esecutivo domestico o nazionale e non anche il certificato di titolo esecutivo europeo, quelle violazioni vanno fatte valere contro il primo e non contro il secondo.

E, con tutta evidenza e con riferimento al caso in cui il titolo sia costituito – come nella fattispecie – da un decreto ingiuntivo, nell’ordinamento italiano l’ambito di operatività del riesame come disciplinato dall’art. 19 citato coincide sostanzialmente, ma in modo del tutto appagante, con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. Pertanto, per la sussistenza di una sede propria di contestazione, il provvedimento della corte di appello che definisce il reclamo avverso il diniego di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento non è suscettibile anche di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7.

Il sistema di impugnazione del complesso provvedimento in cui si articola il titolo esecutivo europeo (titolo domestico più certificato), delineato sopra al 7, impone quindi – anche a garanzia, in accordo con parte della dottrina, della massima funzionalità possibile all’istituto – di circoscrivere l’oggetto della revoca alla sola carenza evidente dei requisiti formali di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, tanto da limitarla ad un errore manifesto sulla sussistenza dei requisiti formali di rilascio e quindi del procedimento proprio e specifico di richiesta-esame- rilascio del certificato medesimo; qualunque ulteriore contestazione sul rito della formazione del titolo esecutivo, implicante la compressione del diritto del debitore di contestare il debito, ma pure sul merito della pretesa e per il caso sia ritenuta fondata l’indispensabile preliminare contestazione in rito, va ricondotta all’ambito di operatività dell’art. 19 del Regolamento 805 e, quindi, all’esperimento, se ancora possibile, degli strumenti straordinari di revisione del titolo in sè considerato.

Pertanto, in tale contesto e se correttamente interpretato, l’istituto della revoca non può involgere alcun diritto del debitore relativo al merito della pretesa od alla correttezza del rito seguito per l’emanazione del provvedimento costituente il titolo esecutivo:

diritto che è tutelato in altra e specifica sede. Così – cioè – il certificato non è di per sè stesso decisorio, perchè la tutela delle posizioni giuridiche relative alla violazione del diritto di difesa nel procedimento concluso con il titolo è riservata ad altri ambiti processuali, sol che il debitore se ne avvalga correttamente.

9. – Va a questa conclusione applicato il principio generale, oramai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per il quale anche per i provvedimenti resi all’esito di un procedimento in camera di consiglio la carenza del carattere di decisorietà o di definitività li rende insuscettibili di ricorso per cassazione, pure ai sensi del comma settimo dell’art. 111 Cost., perchè questo è esperibile solo nei confronti di provvedimenti giurisdizionali lesivi di situazioni giuridiche sostanziali e per le quali non siano previste altre sedi processuali di tutela loro proprie (per tutte, v.

Cass. Sez. Un., 15 luglio 2003, n. 11026, ovvero 3 marzo 2003, n. 3073; nello stesso senso: Cass. 11 agosto 2004, n. 15487; Cass., ord. 11 marzo 2005, n. 5390; Cass. 7 ottobre 2005, n. 19643; Cass. 26 ottobre 2006, n. 23027; Cass. 1 agosto 2007, n. 16984; Cass. 12 giugno 2009, n. 13760; Cass., ord. 20 novembre 2010, n. 23578; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2757; Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3883; i principi sono stati ribaditi in tema di opposizione esecutiva, tra l’te altre, da Cass. 24 ottobre 2011, n. 22033, come pure, in tema di condanna alle spese contenuta in un provvedimento cautelare ante causam, da Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, oppure, in tema di ricorso avverso ordinanze di inammissibilità di appelli ai sensi dell’art. 348-bis cod. proc. civ., da Cass., ord. 17 aprile 2014, n. 8940).

Del resto, quand’anche la lesione di situazioni aventi rilievo processuale fosse prospettata quale compressione del diritto di azione, la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.

Pertanto, il ricorso, proposto appunto contro un provvedimento reso all’esito di un procedimento in camera di consiglio come quello in esame, non è ammissibile neppure se articolato sulla prospettata violazione di norme processuali: e tanto va dichiarato in dispositivo.

10. – Questa conclusione non impedisce però di affrontare e risolvere comunque la questione di rito sottesa al ricorso.

Essa può qualificarsi di particolare importanza, siccome di rilevanza pratica notevole e suscettibile di riproporsi per il futuro in relazione ad una potenzialmente indefinita serie di concrete applicazioni nello spazio giuridico intraeuropeo o eurounitario sempre più fruito dagli operatori.

E la questione può essere definita pronunciando il principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ.: in particolare, la sottesa doglianza, come sollevata da parte ricorrente, è anche infondata, perchè la notifica a mezzo posta in altro Paese membro dell’Unione Europea di un decreto ingiuntivo è idonea a fondare il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo sia ai sensi del Regolamento CE n. 805, sia ai sensi proprio del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007, malamente invocato dall’odierna ricorrente in senso opposto.

10.1. La notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida, in primo luogo, ai sensi del Regolamento n. 805 del 2004.

Ed infatti:

– questo costituisce certamente lex specialis rispetto a quello del 2007, sicchè esso non è derogato dalla legge generale successiva;

– infatti, il primo non istituisce speciali procedure affiancate alle altre ordinarie ma solo esige – ai fini dell’attribuzione della qualità peculiare al titolo di idoneità a fondare l’esecuzione in ogni Paese membro – che in concreto in queste ultime siano state osservate specifiche modalità: poi prevedendo le caratteristiche della notifica del provvedimento domestico ai fini della sua certificabilità come titolo esecutivo europeo;

– pertanto, è l’osservanza delle norme dettate dal n. 805 a fondare idoneamente il rilascio del certificato del titolo esecutivo europeo e non già quella di altre norme, se del caso di diverso tenore;

– nella specie, sono rispettati i cc.dd. minima standards del Regolamento n. 805, con conseguente irrilevanza di ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di inesistenza o di nullità insanabile e sugli effetti di essa sulla ritualità o meno dell’instaurazione del rapporto processuale;

– invero, una volta eseguita a mezzo posta, nel rispetto cioè quanto meno dell’art. 14 del Regolamento n. 805, la notifica del decreto ingiuntivo, quest’ultimo contenendo gli estremi dell’invito a costituirsi ritualmente per difendersi sotto pena di definitività dell’ingiunzione, si è per ciò stesso avuto il rispetto quanto meno dell’art. 18, comma 2, del Regolamento n. 805;

– in particolare, la possibilità di fruizione del tempo utile per difendersi è resa evidente dall’effettivo confezionamento di un atto di piena presa di posizione sul merito delle pretese;

– la reazione stessa indubbiamente vi è stata ed è stata completa;

– resta irrilevante l’inutilizzabilità in concreto a fini processuali di tale opposizione, la quale è dipesa dalla malaccorta condotta processuale dell’opponente, per la difettosa forma di estrinsecazione della reazione.

10.2. In secondo luogo, la notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida anche e proprio ai sensi del Regolamento n. 1393 del 2007 (applicabile agli Stati dell’Unione, ad eccezione della Danimarca, come ricordato all’art. 1, comma o par. 3).

Ed infatti:

– è questo stesso a consentire notificazione o comunicazione tramite i servizi postali, ovvero direttamente tramite altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro;

– esso Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di notificazione o comunicazione degli atti, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente;

– esso stesso, al suo articolo 15 (notificazione o comunicazione diretta), precisa pure che chiunque abbia un interesse in un procedimento giudiziario può notificare o comunicare atti direttamente tramite gli ufficiali giudiziari, i funzionari o altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro: ed al riguardo, la Repubblica francese ha comunicato di non opporsi alla possibilità di notificazione o comunicazione diretta (come si evince dalle informazioni ricavabili dall’atlante giudiziario europeo al sito (OMISSIS), operate ai sensi dell’art. 23, par. 1, del Regolamento n. 1393 del 2007);

– per le esigenze di semplificazione e di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli Stati membri dell’Unione, che ispira ormai da almeno tre lustri la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi considerando al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vanificazione;

– il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri;

– almeno in quest’ambito, deve allora bastare – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente e, per quanto visto, nel caso del decreto ingiuntivo con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. – la cura con cui normalmente si espleta quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’idonea tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto;

– tale conclusione è conforme a quella della dottrina prevalente, la quale, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00, sia all’art. 14 Reg. CE 1393/07, ritiene che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di … ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti in ciascuno degli Stati membri hanno facoltà di … ecc.: del resto riconducendosi l’attività notificatoria degli organi statali espressamente ed istituzionalmente a ciò deputati, come appunto l’ufficio notifiche (o Ufficio N.E.P.), direttamente allo Stato;

– ed andranno, beninteso, solo osservate le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

10.3. Pertanto, va affermato, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., comma 3 il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

11. – In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; ma l’assoluta novità della questione e la sua peculiare complessità, dipendente dall’interazione di diversi principi eurounitari con quelli nazionali, integrano una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità; letto l’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 5 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 19-03-2015) 22-05-2015, n. 10554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28468/2011 proposto da:

L.F.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO PICCARDI 4, presso lo studio dell’avvocato CORRADO PASCASIO, rappresentata e difesa dall’avvocato CAMPIONE FRANCO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA (già UGF ASSICURAZIONI SPA), in persona del suo procuratore speciale Dott.ssa G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 27 8, presso lo studio dell’avvocato FERRARO MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GIOVE giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI ROMA ROMA CAPITALE (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI SNC;

– intimati –

Nonché da:

ROMA CAPITALE (già COMUNE DI ROMA) (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore On.le A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FULCIERI P. DE CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MORO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MAGNANELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

L.F.E. (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI GENERALI SRL, UGF ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 11042/2011 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 24/05/2011, R.G.N. 67187/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO MORO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato.

Svolgimento del processo
1. L.F.E. convenne in giudizio il Comune di Roma e chiese il risarcimento del danno conseguente alla caduta, a causa di una buca, sul marciapiede di una strada cittadina. Il Giudice di pace di Roma accolse la domanda e condannò al pagamento in solido, di circa Euro 3.500,00, il Comune e l’impresa di costruzioni Marziali Costruzioni snc, chiamata quale appaltatrice dei lavori di manutenzione dal Comune; condannò inoltre l’Assicurazione a manlevare l’impresa di costruzioni della predetta somma, escluso l’importo di franchigia.

Il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello principale del Comune e di quelli incidentali dell’impresa e dell’assicurazione, nella contumacia della originaria attrice, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda e condannò la L. alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado (sentenza del 24 maggio 2011).

2. Avverso la suddetta sentenza L. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, esplicati da memoria.

Il Comune di Roma resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, esplicato da memoria.

L’impresa appaltatrice e l’assicurazione non si difendono.

Motivi della decisione
La decisione riguarda i ricorsi riuniti, principale e incidentale, avverso la stessa sentenza.

1. Con il primo motivo si deduce la nullità del processo di appello, e della conseguente sentenza, per essersi svolto nella dichiarata contumacia della danneggiata, nonostante la nullità della notifica alla stessa dell’appello principale del Comune (primo profilo) e degli appelli incidentali dell’assicurazione (secondo profilo) e dell’impresa appaltatrice (terzo profilo).

Le censure non hanno pregio.

2. Si sostiene (quanto al primo profilo) la nullità della notifica dell’atto di appello, effettuata dal Comune ex art. 139 c.p.c., con ufficiale giudiziario, mediante consegna al portiere, con invio, ai fini dell’avviso della avvenuta notificazione al portiere, di raccomandata senza avviso di ricevimento.

Il Comune, nel controricorso, ammette la comunicazione senza avviso di ricevimento e sostiene che non occorre ai fini del perfezionamento della notifica.

Il giudice di merito, dopo la precisazione in udienza del Comune che la notificazione era stata fatta senza avviso di ricevimento, dichiarò la contumacia della L..

2.1. La questione all’attenzione della Corte è “se, ai fini del perfezionamento rispetto al destinatario della notifica dell’atto (ex art. 139 c.p.c., e L. n. 890 del 1982, ex art. 7), avvenuta nelle mani del portiere che, ai sensi dello stesse norme, rilascia ricevuta, sia necessario (come sostiene la ricorrente) o meno, che la raccomandata contenente l’avviso della avvenuta notificazione al portiere, sia stata fatta con avviso di ricevimento e, quindi, rispetto alla specie, se sia necessaria, o meno, la produzione dell’avviso di ricevimento con conseguenze sulla legittimità della dichiarazione di contumacia del destinatario”.

Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa.

A sostegno vi sono argomenti letterali e sistematici.

2.2. In generale, è opportuno premettere che è oramai principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, la mancata spedizione dell’avviso, sia che si tratti di applicazione dell’art. 139 cit., che di applicazione dell’art. 7 cit., dopo la novella del 2008, costituisce non una mera irregolarità ma una nullità. Con la conseguenza che, fermi gli effetti della notifica per il notificante, la mancata spedizione dell’avviso rende nulla la notifica per il destinatario dello stesso (Cass. n. 17915 del 2008;

n. 1366 del 2010, n. 21725 del 2012; n. 6345 del 2013).

2.3. Nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni.

Tanto, sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., aggiunto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. nella L. n. 31 del 2008).

Ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 cit.) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (art. 7 cit.), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata.

2.4. Dall’analisi del sistema normativo delle notificazioni, nel quale si inseriscono le norme in argomento, emerge che la previsione della sola raccomandata senza avviso di ricevimento è rispondente ad una distinzione ragionevole dalle ipotesi nelle quali l’avviso di ricevimento è richiesto.

2.4.1. Infatti, il legislatore richiede espressamente l’avviso di ricevimento quando si tratti della notifica a mezzo posta dell’atto e non della comunicazione della notizia che la notificazione dell’atto è stata effettuata ad altra persona.

Così è richiesto l’avviso di ricevimento: per la notifica dell’atto a mezzo ufficiale postale, fatta al destinatario, a persona di famiglia, al portiere (art. 7 cit. commi da 1 a 5); per la notifica a mezzo posta effettuata dall’ufficiale giudiziario (art. 149 c.p.c.);

per la notifica dell’atto all’estero (art. 142 c.p.c.), secondo l’interpretazione della giurisprudenza, a specificazione del richiamo nella norma della sola raccomandata (Cass. n. 12834 del 2003).

2.4.2. Eccezionalmente, il legislatore richiede l’avviso di ricevimento anche quando non si tratti della notifica dell’atto ma della notizia da comunicare al destinatario. E lo fa quando l’atto è stato consegnato in luogo lontano dalla disponibilità del destinatario.

E’ l’ipotesi disciplinata dall’art. 140 c.p.c., rispetto alla notifica dell’atto fatta dall’ufficiale giudiziario nel caso di impossibilità della notifica per irreperibilità, incapacità, rifiuto delle persone legittimate a ricevere, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso il Comune e, tra l’altro, dare notizia dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ pure l’ipotesi analoga disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, come modificato dal D.L. n. 35 del 2005, conv. nella L. n. 8 del 2005, rispetto alla notifica fatta a mezzo posta, nel caso di impossibilità di effettuare la stessa per temporanea assenza, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso l’ufficio postale dando notizia al destinatario dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ opportuno mettere in evidenza che, dopo l’intervento della Corte costituzionale che ha riguardato l’art. 140 c.p.c., (sent. n. 3 del 2010), in entrambi i casi, la notificazione si ha per eseguita per il destinatario decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della notizia di avvenuto deposito o dalla data di ritiro del piego, se anteriore.

2.4.3. In definitiva, la previsione letterale della sola raccomandata senza avviso di ricevimento, quando si tratta di dare notizia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto a persona che, secondo una ragionevole previsione, è a contatto con il destinatario, trova giustificazione della propria diversità nell’ambito di un sistema dove è richiesto sempre l’avviso di ricevimento per la notificazione dell’atto e dove lo stesso avviso viene richiesto qualora l’atto non si sia potuto consegnare a persona “vicina”, ma è stato depositato in un ufficio lontano dal normale accesso del destinatario.

Ed infatti, le persone che ricevono l’atto sono soggetti che, o per vincoli contrattuali o per vincoli parentali, secondo l’id quod plerumque accidit consegneranno l’atto al destinatario. Mentre, la maggiore estensione dell’avviso nel caso di notifica a mezzo posta (art.7 cit.) può trovare spiegazione nella diversa autorevolezza esterna normalmente riconosciuta dai destinatari all’ufficiale giudiziario rispetto all’ufficiale postale.

Inoltre, un ulteriore argomento, convince della ragionevolezza della soluzione scelta dal legislatore.

Come si è visto, nei casi eccezionali in cui è richiesto l’avviso di ricevimento nonostante si tratti solo di dare notizia e non di notificare l’atto, il sistema prevede oramai una disposizione di “chiusura”, che consente di considerare per eseguita la notificazione (dieci giorni dalla spedizione della raccomandata informativa, se non ritirato il plico). Invece, nel caso ora all’attenzione della Corte non esiste una norma di chiusura; con la conseguenza che, in caso di mancata ricezione personale dell’avviso si riaprirebbe astrattamente l’applicabilità delle norme previste per la notificazione a mezzo posta, procedendo all’infinito verso la ricerca della effettività della ricezione.

2.4.4. Nella giurisprudenza della Corte non vi sono pronunce espresse che vadano in direzione contraria. Infatti, l’affermazione contenuta in una massima (Cass. n. 23589 del 2008), secondo cui “In tema di sanzioni amministrative, nel caso di notifica a mezzo posta del verbale di accertamento dell’infrazione, ai sensi della L. n. 890 del 182, art. 7, – nel regime applicabile ratione temporis, prima della modifica introdotta dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. in L. n. 31 del 2008 – ove la consegna del piego, per l’assenza del destinatario, sia avvenuta nelle mani del custode dello stabile di residenza di quest’ultimo, non è necessario l’invio della raccomandata con ricevuta di ritorno. Tale adempimento, infatti, è stata introdotto dal D.L. citato ed è imposto per le notifiche successive all’entrata in vigore di quest’ultimo”, non corrisponde al principio di diritto utilizzato nella decisione. In particolare, come emerge dalla motivazione della sentenza, nell’escludere ratione temporis l’applicazione alla specie dell’art. 7, come novellato negli anni 2007/2008, per le notifiche a mezzo posta effettuate precedentemente, la Corte ha incidentalmente rilevato, aderendo senza motivazione alla prospettazione della ricorrente, che con la nuova norma sarebbe stata necessaria la raccomandata con avviso di ricevimento.

2.5. Il motivo è, pertanto, rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo di ufficiale giudiziario, al portiere o al vicino (ex art. 139 c.p.c.), e nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo posta, a persona diversa dal destinatario (L. n. 890 del 1982, ex art. 7, come modificato nel 2007/2008) ai fini del perfezionamento della notifica, rispetto al destinatario, non è necessario che sia fatta con avviso di ricevimento la raccomandata diretta al destinatario e contenente la notizia della avvenuta notificazione dell’atto alle persone suddette; con la conseguenza che, nella specie, è stata legittimamente dichiarata la contumacia della parte, destinataria di atto di appello ricevuto dal portiere e della raccomandata, senza avviso di ricevimento, contenente la notizia dell’avvenuta consegna al portiere dell’atto”.

3. Sempre con il primo motivo, con un secondo e terzo profilo, si deduce la nullità della sentenza e del processo per nullità della notificazione degli appelli incidentali, disposta dal giudice, quando la danneggiata era stata dichiarata contumace.

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’assicurazione, la prospettazione della nullità, per essere stata fatta la notifica, personalmente alla danneggiata già dichiarata contumace (mentre non può rilevare la notifica, di cui si parla a pag. 3 del ricorso, dell’appello incidentale all’avvocato della danneggiata in primo grado, essendo già stata dichiarata la contumacia), a persona convivente, senza che risulti la prova dell’invio della seconda raccomandata, non può essere esaminata dalla Corte. Il ricorrente non chiarisce e omette il necessario rinvio agli atti processuali se la notificazione sia stata effettuata a mezzo posta o dall’ufficiale giudiziario; circostanza rilevante atteso che l’invio della seconda raccomandata sarebbe richiesto nel primo caso (art. 7 cit.) e non nel secondo (art. 139).

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’impresa (anche per questa essendo irrilevante la notificazione all’avvocato di primo grado), si assume che la notifica fu fatta personalmente a soggetto non meglio identificato, oltre la mancanza della seconda raccomandata. Ogni esame della questione resta preclusa dal totale assenza di riferimenti e rinvii agli atti processuali, per cui le modalità della notifica sono solo asserite, senza la possibilità per la Corte di verificarne la decisività.

Entrambi i profili, pertanto, sono inammissibili.

4. Nel merito, il Tribunale ha ritenuto non provato il nesso di causa tra la caduta e l’avvallamento sul marciapiede. Ha messo in evidenza:

che nessuno dei testi l’aveva vista inciampare nell’avvallamento, essendosi questi limitati a riferire che era presente un avvallamento nei pressi della caduta; che, secondo la stessa ammissione della danneggiata, stava camminando a passo veloce per raggiungere l’autobus; che camminava guardando l’autobus e, anche il marciapiede e, quindi senza la necessaria attenzione; che altro teste aveva affermato che l’avvallamento era comunque visibile.

4.1. La decisione è censurata invocando la violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 112 c.p.c., (secondo motivo) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione delle prove (terzo).

I motivi sono tutti inammissibili. Al di là della invocazione della violazione di legge, le censure si sostanziano nella critica alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice con percorso argomentativo privo di vizi logici; quindi, essi consistono in una prospettazione di una diversa valutazione favorevole alla danneggiata, richiedendo inammissibilmente alla Corte di legittimità di farla propria compiendo un giudizio sul merito della causa.

Quanto alla invocata violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale emanato una pronuncia ultrapetita, disponendo la restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, indistintamente, a favore di tutti gli appellanti e, quindi, anche a favore della Assicurazione, mentre sarebbero stati condannati in solido solo il Comune e l’impresa, evidente è la non conferenza della censura. Con la sentenza è stata disposta la restituzione delle somme percepite, naturalmente, a favore di chi le ha versate.

5. Il ricorso incidentale proposto dal Comune, in modo espressamente condizionato, con il quale si invoca la violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendo di aver proposto appello incidentale alla sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto la responsabilità solidale del Comune e dell’impresa, mentre il Comune aveva agito in manleva, facendo valere l’esistenza di un contratto di appalto per la manutenzione, e che tale questione sarebbe restata assorbita nel giudizio di secondo grado per via del rigetto della domanda, resta assorbito.

6. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate secondo i parametri vigenti, seguono la soccombenza a favore del controricorrente. Non avendo gli altri intimati svolto attività difensiva, non sussistono le condizioni per la pronuncia in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale;

condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 24-02-2015) 20-05-2015, n. 10272

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23061-2011 proposto da:

P.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 9, presso lo studio dell’avvocato DE ARCANGELIS GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.A., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNI FABRIZIO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4746/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/11/2010 R.G.N. 7944/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2015 dal Consigliere Dott. ULIANA ARMANO;

udito l’Avvocato GIORGIO DE ARCANGELIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 16 novembre 2010 la Corte di appello di Roma, ritenuta infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per inesistenza della notifica dell’atto introduttivo, a modifica della decisione di primo grado, ha condannato P.G. al risarcimento del danno per negligente esercizio dell’attività professionale di commercialista in favore di I.A. nella misura di Euro 863,77, oltre interessi e rivalutazione Avverso detta sentenza propone ricorso P.G. con due motivi.

Resiste con controricorso I.A..

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si denunzia vizio di motivazione e violazione e falsa applicazione della L. n. 53 del 1994.

Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione di inesistenza della notificazione dell’atto di appello non tenendo in conto che alla relazione di notificazione mancavano tutti gli elementi costitutivi della stessa, vale a dire la indicazione della generalità del notificante, la sottoscrizione del notificante e la indicazione delle generalità della persona alla quale l’atto era stato consegnato. Con motivazione illogica e contraddittoria, la Corte di merito aveva ritenuto regolare la notificazione dell’atto ad opera dell’avvocato difensore, solo in considerazione della sottoscrizione dell’atto di appello da parte del difensore stesso.

Sostiene la ricorrente poi che nella relazione di notificazione mancava il nome ed il cognome del notificante; che la sottoscrizione di tale relazione non era riconducibile all’avvocato difensore; che mancava la certezza dell’identità della persona che aveva ricevuto l’atto.

Di conseguenza la notificazione doveva ritenersi inesistente e non suscettibile di sanatoria.

2. Il motivo è infondato L’atto di appello è stato notificato ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 4 direttamente dall’avvocato Fabrizio Bruni difensore dell’appellante I., mediante consegna di copia dell’atto nello studio dell’avvocato Giorgio De Arcangelis difensore domiciliatario di P.G..

Come correttamente ha ritenuto la Corte d’appello, non vi sono dubbi sull’identificazione dell’avvocato Fabrizio Bruni quale procedente alla notifica, sui rilievo chela relata è apposta all’atto di appello sottoscritto dallo stesso B. e contiene il richiamo al numero di registro cronologico ed alla autorizzazione del consiglio dell’ordine competente.

A ciò deve aggiungersi che l’atto di appello contiene la vidimazione per la notificazione diretta ai sensi dell’art. quattro della L. n. 53 del 1994 da parte del consiglio dell’ordine secondo quanto prevede l’art. 4, comma 2.

Infatti la notifica può essere eseguita mediante consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario se questi ed il notificante sono iscritti nello stesso albo. In tal caso l’originale e la copia dell’atto devono essere previamente vidimati e datati dal consiglio dell’ordine nel cui albo entrambi sono iscritti.

L’atto risulta consegnato presso lo studio del difensore dell’appellato, a persona identificata come addetta alla ricezione, in quanto segretaria addetta al ritiro degli atti, che ha sottoscritto con firma leggibile.

3. Si osserva che la sottoscrizione del notificante è volta ad individuare senza incertezze l’identità di quest’ultimo e l’attribuzione a lui delle operazioni di notificazione, onde attestare la sussistenza in capo allo stesso dei requisiti soggettivi indispensabili.

Non può negarsi che tale identificazione può bene avvenire sulla base di elementi i quali, come nella specie, la vidimazione dell’atto di appello a cura dell’ordine degli avvocati per consentire la notifica diretta, la sottoscrizione dell’atto di appello da parte dell’avvocato notificante, l’indicazione numero di cronologico del numero di autorizzazione dell’ordine degli avvocati ed, immediatamente in sequenza, la relazione di notifica e la firma della persona abilitata a ricevere l’atto.

4. La Corte d’appello ha ritenuto poi,con doppia motivazione, sanabili eventuali nullità della notifica a seguito della costituzione in giudizio dell’appellata A tale proposito si osserva che la L. n. 53 del 1994, art. 11 qualifica come nulle le notificazioni” se mancano i requisiti soggettivi ed oggettivi ivi previsti, se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

Anche la seconda motivazione della Corte di merito è conforme alla legge, essendo possibile la sanatoria della notifica nulla. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 1.160,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori come per legge ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 11/11/2014) 15/05/2015, n. 9939

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8692-2009 proposto da:

B.S.E., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PASQUALE STANISLAO MANCINI 2, presso lo studio dell’avvocato CICERCHIA PIETRO, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2008 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 19/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2 014 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato CICERCHIA che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. A seguito della notifica della cartella di pagamento n. (OMISSIS) per IVA, IRPEF ed IRAP 1998 per l’importo complessivo di Euro 14.040,21, B.S.E. la impugnava, ritenendo invalida la notifica dell’avviso di accertamento e, quindi, nulla la conseguente cartella.

Nel merito contestava l’accertamento del maggior reddito, sulla scorta dei parametri, affermandone la non applicabilità in ragione della sua ridotta capacità lavorativa dovuta all’età (76 anni all’epoca dei fatti) ed allo stato di salute precario.

2. Il ricorso veniva respinto in primo grado dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano con la sentenza n. 183/40/07, ed in secondo grado dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con la sentenza n. 11/11/08.

3. Con tale decisione il giudice adito riteneva legittimamente eseguita la notifica dell’avviso di accertamento in conformità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 139 c.p.c. e, stante la definitività dell’avviso di accertamento, rigettava il ricorso in quanto la cartella non risultava impugnata per vizi propri.

4. Per la cassazione della sentenza d’appello il contribuente ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, scanditi in ulteriori sub- motivi, ed illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste l’intimata Agenzia delle Entrate con controricorso.

Motivi della decisione
1.1. Il primo motivo di ricorso riguarda la dedotta impossibilità di identificare il soggetto, persona fisica, che aveva eseguito la notifica ed è articolato in tre submotivi.

1.1.1. Con il primo il contribuente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sulla doglianza proposta in primo e secondo grado circa la mancata compilazione della relata di notifica nella parte in cui il soggetto notificante doveva indicare le proprie generalità, per essere identificato, risultando la firma apposta in calce illegibile.

1.1.2. Con il secondo sub-motivo, proposto in subordine, il contribuente lamenta la violazione del D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 110 e art. 148 c.p.c., art. 46 disp. trans. c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in merito alla medesima questione.

1.1.3. Con il terzo sub-motivo, la stessa questione è prospettata sotto la censura per vizio per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

1.2. Il primo motivo va rigettato, inammissibile il primo sub-motivo, infondato il secondo ed assorbito il terzo.

1.3.1. Quanto alla censura per omessa pronuncia, va preliminarmente ricordata la differenza tra i due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia: il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass. SS.UU. sent. n. 17931/2013, Sez. lav. sent. n. 13866/2014).

Nel caso in esame la CTR, sia pure in modo sintetico, si è pronunciata sulla regolare provenienza della notifica dal messo notificatore del Comune di Milano e sulla validità della notifica dell’avviso di accertamento, prendendo in esame le diverse censure sollevate dal contribuente e contestandone il fondamento, per cui il motivo si palesa inammissibile.

1.3.2. La seconda censura sulla questione della nullità della notifica per asserita indecifrabilità della sottoscrizione, proposta sotto la veste della violazione di legge è infondata.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare l’illeggibilità della firma di colui che ha eseguito la notificazione dell’avviso di accertamento non comporta l’inesistenza dell’adempimento, salvo il caso (non ricorrente nella fattispecie, giacchè l’avviso di accertamento fu notificato il 12.07.2004 dal messo comunale di Milano, come si evince dall’atto ove tale qualità è indicata sopra la sottoscrizione, e dal timbro dell’Ufficio – Servizio Messi Milano – per ricevuta dell’atto da notificare in data 08.07.2004) – di superamento, causato dall’indecifrabilità della sottoscrizione e da altre circostanze inerenti al contesto dell’atto, della presunzione di appartenenza del notificatore all’ufficio competente (Cass. n. 10186/2003, n. 11354/2001; n. 4100/1978; in tema di notifica a mezzo posta, Cass. n. 2327/1998; in tema d’illeggibilità della sottoscrizione dell’atto amministrative, Cass. nn. 8881/1996, 522/1994).

Nel caso in esame il contribuente si è limitato a lamentare la mancanza di elementi per l’identificazione del soggetto che aveva eseguito la notificazione, senza tuttavia contestare nè superare la presunzione di appartenenza del notificante all’ufficio competente ed il motivo risulta infondato.

1.3.3. La terza censura è assorbita dalla decisione sulla seconda, considerato altresì che il contribuente, sotto la veste del vizio motivazionale in buona sostanza chiede un riesame del merito della vicenda, con l’intento di pervenire ad una decisione conforme alle sue aspettative.

2.1. Il secondo motivo riguarda la mancata indicazione sulla relata di notifica delle ragioni della mancata consegna dell’atto ai soggetti indicati nell’art. 139 c.p.c., nell’ordine indicato dalla norma, ed è articolato in tre sub-motivi.

2.1.1. Con il primo sub-motivo il contribuente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in merito alla doglianza proposta in primo e secondo grado circa la mancata indicazione delle ragioni della mancata consegna dell’atto ai soggetti indicati dall’art. 139 c.p.c..

2.1.2. Con il secondo sub-motivo, proposto in subordine, il contribuente lamenta la violazione dell’art. 139 c.p.c. e art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in merito alla medesima questione.

2.1.3. Con il terzo sub-motivo, la medesima questione è prospettata come vizio per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.2. Il secondo motivo va rigettato, inammissibile il primo sub- motivo, infondato il secondo ed assorbito il terzo.

2.3.1. La prima censura per omessa pronuncia è inammissibile: si richiama in proposito quanto statuito sub 1.3.1.

2.3.2. Il secondo sub-motivo è infondato.

Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente la CTR ha fatto corretta applicazione dell’art. 139 c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in quanto in concreto ha verificato che la notifica al vicino di casa C.V. era avvenuta in mancanza di altri legittimati al ritiro, come da attestazione del messo riportata nella relata di notifica. La doglianza proposta deduce la genericità dell’attestazione, priva – a dire del ricorrente – dell’indicazione specifica dei soggetti non reperiti e dell’ordine seguito nella ricerca, ma appare pretestuosa in quanto si fonda sulla apodittica considerazione che la attestazione sia una “formula di stile”, priva di una portata concreta ed obiettiva idonea a consentire la verifica del rispetto rigoroso da parte del messo notificatore dell’ordine previsto dall’art. 139 c.p.c., considerazione che contrasta con l’accertamento in fatto operato dalla CTR. In buona sostanza il ricorrente, sotto la forma del vizio di legge, tende ad ottenere una rivalutazione nel merito della vicenda, inammissibile in sede di legittimità.

2.3.3. Il terzo sub-motivo è assorbito per le ragioni indicate sub 1.3.3. che si richiamano.

3.1. Il terzo motivo riguarda la mancata prova della spedizione/consegna della raccomandata prevista dall’art. 139 c.p.c. all’ing. B..

3.1.1. Con il primo sub motivo il contribuente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in merito alla doglianza proposta in primo e secondo grado circa della mancata prova della spedizione/consegna della raccomandata prevista dall’art. 139 c.p.c. all’ing. B..

3.1.2. Con il secondo sub motivo, proposto in subordine, il contribuente lamenta la violazione dell’art. 139 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c. e art. 1335 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in merito alla medesima questione.

3.1.3. Con il terzo sub-motivo, la medesima questione è prospettata come vizio per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

3.2. Il terzo motivo va rigettato, inammissibile il primo sub-motivo, infondato il secondo ed assorbito il terzo.

3.3.1. La prima sub-censura per omessa pronuncia è inammissibile sotto più profili.

In particolare si osserva che il ricorrente ha proposto la doglianza sia in merito alla mancanza di prova della spedizione della raccomandata che della consegna.

Quanto al profilo della spedizione si richiama quanto statuito sub 1.3.1., giacchè nella sentenza vi è espressa pronuncia in merito che riferisce della avvenuta annotazione della spedizione della raccomandata apposta sulla relata di notifica.

Quanto al profilo della consegna va rilevata la mancanza di autosufficienza del motivo: questa censura si connota di novità, giacchè, dalla lettura della sentenza, non se ne evince la pregressa prospettazione ed il ricorrente ha mancato di riprodurre i passi dell’atto di appello inerenti tale censura, di modo da consentire alla Corte un pieno apprezzamento della stessa.

3.3.2. Il secondo sub-motivo è infondato.

Ribadita l’inammissibilità anche di questo motivo sub specie “consegna” della raccomandata, va invece affermata l’infondatezza dello stesso con riferimento alla “spedizione”. Se è vero che, secondo il più recente orientamento di questa Corte, l’omessa spedizione della raccomandata non costituisce una mera irregolarità, ma un vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale giudiziario medesimo, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario (Cass. 17915/08; id. n. 7667/2009; id.

n. 19366/2013, n. 13468/2014) va considerato che nel caso di specie la CTR ha correttamente applicato tali principi riscontrando l’avvenuta spedizione della raccomandata dalla annotazione contenuta nella relata, per cui la decisione risulta immune da vizi.

3.3.3. Il terzo sub-motivo è assorbito per le ragioni indicate sub 1.3.3. che si richiamano.

4.1. Il quarto motivo riguarda la dedotta impossibilità di identificare il soggetto al quale era stata consegnata la “copia dell’atto in busta chiusa e sigillata”.

4.1.1. Con il primo sub motivo il contribuente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in merito alla doglianza proposta in primo e secondo grado circa della mancata prova della impossibilità di identificare il soggetto al quale era stata consegnata la “copia dell’atto in busta chiusa e sigillata”, assumendo che il sig. C., nel frattempo deceduto, non aveva mai ritirato la posta nel suo interesse e di non avere mai avuto notizia della notifica dell’atto di accertamento.

4.1.2. Con il secondo sub motivo, proposto in subordine, il contribuente lamenta la violazione dell’art. 139 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, art. 2697 c.c., art. 148 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in merito alla medesima questione. Sostiene che la CTR ha errato nel ritenere che la notifica era stata eseguita ritualmente al vicino, in quanto vi era oggettiva incertezza sulla identificazione della persona alla quale il soggetto notificante aveva consegnato la busta chiusa e sigillata, come si evinceva dalla diversità della sottoscrizione apposta sulla ricevuta di tale busta rispetto alla sottoscrizione apposta in calce alla relazione di notificazione.

4.1.3. Con il terzo sub motivo, la medesima questione è prospettata come vizio per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.2. Il primo motivo va rigettato, inammissibile il primo sub-motivo, infondato il secondo ed assorbito il terzo.

4.3.1. Per il primo sub-motivo si richiama quanto statuito sub 1.3.1.

4.3.2. Il secondo sub-motivo è infondato.

Come già affermato da questa Corte, la qualità della persona, qualificata vicino di casa, di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, l’inesistenza del rapporto di vicinato, che invece nel caso in esame è confermato dal ricorrente, sia pure deducendo che l’incombenza della ricezione di notifiche non era mai stata svolta in precedenza dal C.: quanto alla dedotta differenza riscontrata – a dire del ricorrente – nelle firme apposte sulla relata e sulla busta, premesso che la questione appare nuova ed il motivo privo di autosufficienza sul punto in quanto non riproduce l’atto di appello, va rilevato che trattasi di questione di fatto, peraltro prospettata in via meramente ipotetica, che non può essere esaminata in sede di legittimità.

4.3.3. Il terzo sub-motivo è assorbito per le ragioni indicate sub 1.3.3. che si richiamano.

5.1. Conclusivamente il ricorso va rigettato su tutti i quattro motivi, inammissibili tutti primi sub-motivi, infondati tutti i secondi sub-motivi ed assorbiti tutti i terzi sub-motivi.

5.2. Il ricorrente va condannato alla refusione delle spese del giudizio di legittimità nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE – rigetta il ricorso su tutti i motivi;

– condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite del giudizio di legittimità che liquida nel compenso di Euro 1.800,00=, oltre spese prenotate a debito; spese compensate per le fasi di merito del giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 03-03-2015) 29-05-2015, n. 11165

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SEGRETO Antonio – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19729-2011 proposto da:

B.H.L. (OMISSIS), considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MEISSNER EGMONT, giusta procura speciale notarile del Dott. Notaio TILMAN HERRIGER in KORSCHENBROICH del 16/06/2011 N. 810/2011;

– ricorrente –

e contro

INA ASSITALIA SPA, T.F., UCI UFFICIO CENTRALE ITALIANO SCRL;

– intimati –

avverso la sentenza n. 462/2011 del TRIBUNALE di BOLZANO, depositata il 08/04/2011 R.G.N. 5397/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2015 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità in subordine rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
T.F. convenne innanzi al Giudice di pace di Brunico l’Ufficio Centrale Italiano s.r.l., in qualità di rappresentante e domiciliataria di Provinzial Feuerversicherunsanstlt der Rheinprovinz nonchè H.B.L. chiedendo che, accertata l’esclusiva responsabilità del B. nella causazione dell’incidente stradale verificatosi il (OMISSIS), i convenuti venissero condannati a risarcirgli i danni subiti.

Resistettero gli intimati, il B., chiedendo e ottenendo di chiamare in causa Le Assicurazioni d’Italia, in quanto società garante dell’attore, nei cui confronti propose domanda riconvenzionale.

Con sentenza non definitiva del 18/23 aprile 1998, il Giudice di Pace accertò l’esclusiva responsabilità del B. nella eziologia dell’incidente.

Avverso detta pronuncia propose appello il soccombente. All’esito dell’istruttoria sul quantum debeatur, il decidente, rigettata la domanda riconvenzionale, condannò il B., in solido con l’Ufficio Centrale Italiano, al pagamento della somma di L. 1.950.850.

Il gravame proposto avverso detta pronuncia, riunito a quello avente ad oggetto la decisione sull’an debeatur, venne deciso dalla Corte d’appello di Bolzano con sentenza che, dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva, rigettò quella avverso la sentenza definitiva.

Detta pronuncia venne tuttavia cassata dalla Suprema Corte che, accolto il primo motivo di ricorso, cassata la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rigettati gli altri, rinviò la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Bolzano.

Riassunto il giudizio, il giudice di rinvio, in data 8 aprile 2011, ha respinto sia l’appello avverso la sentenza non definitiva, sia quello avverso la sentenza definitiva. Il ricorso di B.H. L. avverso detta pronuncia è affidato a due motivi.

Non si sono difesi gli intimati.

Motivi della decisione
1 Preliminare e assorbente è il rilievo dell’inammissibilità dell’impugnazione. Queste le ragioni.

Occorre muovere dalla considerazione che, in base al disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12 a tenor del quale il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana, la procura alle liti utilizzata in un giudizio celebrato nel nostro Stato, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci. A tal fine occorre però che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, quanto alla scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cass. sez. un., ord. 13 febbraio 2008, n. 3410; Cass. civ. 14 novembre 2008, n. 27282).

2 Sotto altro, concorrente profilo, va poi osservato che, benché l’art. 122 c.p.c., comma 1, prescrivendo l’uso della lingua italiana, si riferisce ai soli atti endoprocessuali e non anche agli atti prodromici al processo, come la procura, per questi ultimi vige pur sempre il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (confr. Cass. civ., sez. un. 2 dicembre 2013, n. 26937; Cass. civ. 29 dicembre 2011, n. 30035; Cass. civ. 14 novembre 2008 n. 27282).

3 Venendo al caso di specie, la procura, rilasciata a Lorschenbroich, in Germania, era esente, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ratificata dall’Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253, nonché alla Convenzione bilaterale tra l’Italia e la Germania conclusa in Roma il 7 giugno 1969, sia dalla legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, sia dalla c.d. apostille, e cioè dal rilascio, da parte dell’organo designato dallo Stato di formazione dell’atto, di un attestato idoneo a che l’atto venga riconosciuto ed accettato come autentico.

Tanto non esclude, tuttavia, che andava allegata non solo la traduzione della procura speciale, ma anche quella dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma era stata apposta in sua presenza, da persona di cui egli aveva accertato l’identità. Il mancato espletamento di tale adempimento comporta la nullità della procura e quindi l’inammissibilità dell’impugnazione. Nessun provvedimento va adottato in ordine al governo delle spese di lite, non essendosi costituita in giudizio la parte vittoriosa.

P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 06/10/2014) 22/04/2015, n. 8154

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4882/2009 proposto da:

ROSSI MARCELLO SAS IN LIQUIDAZIONE in persona del Liquidatore, elettivamente domiciliato, in ROMA VIA DELLE QUATTRO FONTANE 15, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CONTESTABILE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE TINELLI giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE CENTRALE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA, EQUITALIA GERIT SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 131/2007 della COMM.TRIB.REG. di ROMA, depositata il 16/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/10/2014 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato DE LORENZI su delega dell’Avvocato TINELLI che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato GALLUZZO che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza 10.1.2008 n. 131 la Commissione tributaria della regione Lazio in accoglimento dell’appello proposto dall’Ufficio di Viterbo della Agenzia delle Entrate ha dichiarato legittima la cartella di pagamento, notificata in data 27.3.2004 a Rossi Marcello s.a.s. dal Concessionario per il servizio di riscossione ed emessa in seguito a controllo automatizzato – ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis – della dichiarazione fiscale relativa all’anno 1998 (Modello Unico 1999) ed avente ad oggetto le somme dovute dalla società contribuente a titolo IRAP ed IVA, come esposte in dichiarazione ma il cui versamento risultava omesso.

I Giudici territoriali rigettavano la eccezione pregiudiziale formulata dalla società in ordine alla inammissibilità dell’appello proposto dall’Ufficio, ritenendo irrilevante che la notifica fosse stata eseguita in luogo diverso ((OMISSIS)) da quello in cui, circa due anni prima, avevano trasferito il proprio studio ((OMISSIS)) i difensori abilitati alla assistenza tecnica presso i quali la parte contribuente aveva eletto domicilio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17. Ritenevano infatti i Giudici che essendo stato ricevuto l’atto di appello in data 24.8.2006 da soggetto dichiaratosi “impiegato addetto alla corrispondenza”, la notifica si era perfezionata e sarebbe stato onere della parte eccipiente fornire la prova della insussistenza della qualità dichiarata dal consegnatario. Inoltre il luogo della notifica era stato individuato correttamente, con riferimento al domicilio eletto dalla società in primo grado, avendo omesso la contribuente di comunicare alle parti costituite la successiva variazione di domicilio, come prescritto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1.

Nel merito la CTR riteneva fondati i motivi di gravame dell’Ufficio appellante, andando esente la cartella dal vizio di nullità per omessa previa comunicazione al contribuente dell’esito del controllo automatizzato, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, non essendo emerse nella specie “incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione” ed inoltre non essendo incorso l’Ufficio in decadenza dall’esercizio del potere di controllo, trovando applicazione alle “controversie pendenti il termine del 31.12.2004 fissato dalla norma transitoria di cui alla L. 31 luglio 2005, n. 156, art. 1, comma 5 bis, di conversione del D.L. 17 giugno 2005, n. 106, avente efficacia retroattiva.

Avverso tale sentenza la società ha proposto rituale ricorso per cassazione, deducendo sette motivi, con atti notificati alla Agenzia delle Entrate, alla Banca Monte Paschi Siena s.p.a. già Concessionaria per la riscossione dei tributi e ad Equitalia Gerit s.p.a. subentrata quale Agente per la riscossione della provincia di Roma.

Ha resistito la Agenzia delle Entrate con controricorso.

Non hanno svolto difese gli altri intimati.

La società ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Con il primo ed il secondo motivo la società deduce il vizio di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non aver dichiarato la CTR la inammissibilità dell’atto di appello, in quanto proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., ritenendo invece validamente perfezionata la notifica della impugnazione in violazione dell’art. 139 c.p.c., commi 1, 2 e 3.

Sostiene la società che la notifica dell’atto di appello nel luogo indicato nella elezione di domicilio effettuata in primo grado doveva ritenersi inesistente, essendo venuto meno, a seguito del trasferimento dello studio professionale, avvenuto per entrambi i legali difensori della società avv. Tinelli ed avv. Contestabile in data 12.11.2004 (come attestato dalle certificazioni rilasciate dal Consiglio dell’Ordine forense di appartenenza), qualsiasi collegamento tra detto luogo ed i domiciliatari, e non potendo prevalere, ai fini della validità della notifica, il criterio della qualifica soggettiva del ricevente l’atto (quale “impiegato addetto alla corrispondenza”: cfr. sentenza CTR motiv. pag. 3) sul diverso criterio della previa corretta individuazione del luogo della notifica, come si evinceva dal tenore dell’art. 139 c.p.c. (primo motivo).

Ad analoga conclusione, secondo la ricorrente, doveva pervenirsi anche nel caso in cui il vizio di invalidità fosse da ricondursi nella categoria della nullità e non della inesistenza, in quanto la costituzione in grado di appello della società era intervenuta dopo lo spirare del termine c.d. “lungo” di impugnazione, sicchè la costituzione in giudizio non poteva produrre effetti sananti, essendo già passata in giudicato la sentenza (secondo motivo).

2. Con il terzo e quarto motivo la società deduce la nullità della sentenza di appello nella parte in cui ha rigettato la eccezione di inammissibilità dell’appello proposto dall’Ufficio, sul presupposto della corretta notifica dell’atto di appello presso l’originario domicilio, in quanto la contribuente aveva omesso di comunicare, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, la variazione del domicilio eletto.

La società sostiene che tale obbligo di comunicazione sussiste soltanto in caso di domicilio “volontariamente eletto” e non anche in caso di “mera indicazione” del domiciliatario: in quest’ultima ipotesi, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, l’aspetto personale prevale su quello reale sicchè, qualora il domiciliatario trasferisca il proprio studio, il soggetto che richiede la notifica è tenuto previamente a verificare, tramite informazioni acquisite dall’albo professionale, quale sia l’attuale indirizzo dello studio professionale, tanto più che tale variazione risultava nota alla Amministrazione finanziaria dagli atti di altro giudizio tributario pendente tra le stesse parti (terzo motivo). In ogni caso la mancata comunicazione della variazione dello studio del domiciliatario non autorizzava ad eseguire la notifica in luogo avulso da qualsiasi collegamento con il destinatario dell’atto, sicchè l’Ufficio, qualora non fosse stato in grado di conoscere il nuovo indirizzo, avrebbe allora dovuto notificare l’appello presso la Segreteria della CTR ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 3 (quarto motivo).

3. I motivi primo, secondo, terzo e quarto, con i quali si sollevano questioni interpretative delle norme che disciplinano il procedimento notificatorio, possono essere esaminati congiuntamente.

3.1 La soluzione della questione di diritto sottoposta all’esame della Corte si prospetta evidentemente opposta, secondo che agli indicati vizi della notifica (consegna dell’atto in luogo diverso da quello in cui era stato trasferito lo studio professionale del domiciliatario) si attribuisca un effetto invalidante – suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c. -, oppure, all’errore di consegna dell’atto, debba invece riconoscersi un effetto radicalmente inemendabile, tale da rendere del tutto inesistente l’atto di notifica, tenuto conto che la “ratio legis” sottesa alla assoluta improduttività di effetti giuridici determinati dalla “inesistenza” dell’atto notificatorio, si fonda sulla regola di esperienza (id quod plerumque accidit) secondo cui la “totale difformità” del procedimento in concreto seguito, rispetto allo schema legale, induce a ritenere che l’atto notificando non sia pervenuto a conoscenza del destinatario.

3.2 Da tale corretta premessa non può, tuttavia, farsi discendere, come vorrebbe la società ricorrente, sia per il caso di “inesistenza” che per il caso di “vizio di nullità” della notifica dell’atto introduttivo del giudizio (nella specie della notifica dell’atto di appello), la equipollenza degli effetti (passaggio in giudicato della sentenza impugnata) laddove vi sia stata “tardiva” costituzione in giudizio (mediante deposito della memoria contenente le controdeduzioni oltre il termine di decadenza previsto per la impugnazione principale: artt. 325 e 327 c.p.c.; D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 21 e 51) del destinatario dell’atto invalidamente notificato. Mentre infatti la notifica “nulla” corrisponde ad una violazione delle modalità di applicazione della disciplina normativa che regola il procedimento notificatorio, sicchè quest’ultimo è riconoscibile negli atti compiuti dall’ufficiale notificatore (es.

nella ipotesi in cui non sia stato seguito l’ordine tassativo delle persone abilitate a ricevere l’atto: Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 11332 del 30/05/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 22151 del 27/09/2013) e la costituzione del convenuto consente di ritenere raggiunto il risultato di conoscenza legale cui il procedimento è preordinato, come se fin “ab origine” il vizio attinente l’attività notificatoria non si fosse verificato, viceversa tale efficacia sanante, con effetto ex tunc, del vizio del procedimento non può riconoscersi in caso di “inesistenza” della notifica, rimanendo irrilevante a tale proposito che l’atto sia comunque effettivamente pervenuto a conoscenza del destinatario: appare evidente, infatti, come non possa logicamente concepirsi una sanatoria, con effetto “ex tunc”, di un atto che nella realtà giuridica non è mai venuto ad esistenza (la difformità dell’atto dal modello legale è, in questo caso, tale da impedire di riconoscere negli atti compiuti un’attività riconducibile allo stesso procedimento notificatorio disciplinato dalla legge: si verifica tale ipotesi quando la illegittimità non attiene alle modalità di condotta “interne” alla sequenza procedimentale, descritta dalla legge, ma si risolve invece nel compimento di una attività del tutto avulsa dalla fattispecie normativa astratta come nel caso in cui l’atto, venga consegnato ad un “soggetto diverso” da una delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c.). Ne segue che, in difetto della stessa “esistenza” di un atto notificatorio sia pure invalido, la successiva eventuale instaurazione del contraddittorio, mediante costituzione in giudizio del destinatario, non potrà che operare con effetto “ex nunc”, atteso che la costituzione in giudizio, in questo caso, non può considerarsi effetto conseguenziale del procedimento notificatorio (inesistente), ma interviene quale atto di accettazione del contraddittorio, autonomamente ed originariamente riferibile alla volontà del convenuto, ed in quanto tale privo di qualsiasi collegamento causale con la (inesistente) “vocatio in jus”, con l’ulteriore corollario che l’atto di impugnazione non portato a conoscenza del destinatario (statnte la inesistenza della notifica) potrà ritenersi tempestivamente proposto soltanto nel caso in cui la costituzione in giudizio del convenuto/resistente avvenga prima della scadenza del termine di decadenza previsto per la proposizione della impugnazione.

3.3 Tanto premesso occorre richiamare i consolidati principi di diritto, enunciati da questa Corte, secondo cui sussiste radicale inesistenza della notifica soltanto quando la stessa venga effettuata con consegna di copia dell’atto “in luogo o a persona privi di qualsiasi rapporto con il suo destinatario”, mentre, nel caso in cui essa sia stata eseguita in un luogo (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 1.6.2007 n. 12908 – notifica eseguita presso lo studio del procuratore non domiciliatario, anzichè presso il domicilio eletto – ) od a persona (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 29.7.2011 n. 16759 – notifica eseguita a procuratore diverso da quello domiciliatario, ma con studio in comune -) non privi di “astratto collegamento” con il destinatario, ricorre mera nullità della notifica, sanata con effetto “ex tunc”, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, a seguito del raggiungimento dello scopo dell’atto, che si verifica tanto nel caso in cui il resistente si sia ritualmente costituito in giudizio (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 4.4.2008 n. 8777 – essendo irrilevante ai fini della sanatoria che la costituzione in giudizio sia avvenuta ai solo fine di eccepire la nullità -), quanto nel caso di rinnovazione della notifica invalida cui la parte istante provveda spontaneamente o in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 15.1.2007 n. 621; id. 2^ sez. 2.12.2009 n. 25350).

3.4 La statuizione della CTR che ha ritenuto valida la notifica dell’atto di appello, impugnata dalla società ricorrente, si articola su due distinte “rationes decidendi”:

a) la notifica dell’atto di appello, se pure eseguita presso il luogo del precedente studio professionale dei difensori, è stata ricevuta da persona qualificatasi come “impiegato addetto alla corrispondenza del suddetto studio legale”: sussiste quindi un collegamento tra il luogo di ricezione ed i difensori destinatari dell’atto che legittima la presunzione legale di avvenuta conoscenza e che può essere contrastata soltanto mediante la prova che la persona rinvenuta in loco non rivestisse la qualità dichiarata b) correttamente l’Amministrazione finanziaria, aveva notificato l’atto di appello presso il domicilio indicato in primo grado, non avendo adempiuto i difensori a comunicare la variazione del domicilio eletto, come prescritto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1.

3.5 La decisione della CTR deve ritenersi conforme a diritto, alla stregua delle seguenti precisazioni correttive della motivazione.

3.6 Occorre, in premessa, dare atto del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (riferito al “procuratore ad litem” nel giudizio regolato dal codice di procedura civile), secondo cui la elezione di domicilio, della parte, presso il difensore costituito, non deve intendersi riferita al “luogo” ma alla “persona” (così argomentando a contrario dall’art. 141 c.p.c.), prevalendo l’”elemento personale” su quello “reale-spaziale”, essendo effettuata la elezione di domicilio “presso la persona del difensore” in qualunque luogo essa si trovi, con la conseguenza che la indicazione dello studio non assolve alla funzione di elemento costitutivo della elezione di domicilio, ma solo alla esigenza pratica di individuare il luogo in cui il domiciliatario è reperibile: venendosi, dunque, a distinguere tra elezione “volontaria” di domicilio “presso una persona od un ufficio” ex art. 141 c.p.c., in cui prevale l’elemento topografico, ed indicazione di domicilio presso il “procuratore costituito”, fondata sugli artt. 84 e 170 c.p.c., interpretati alla luce dell’art. 330 c.p.c., in cui prevale l’elemento personale.

3.7 Da ciò la giurisprudenza trae come corollario:

1- che il procuratore-domiciliatario, trasferendo il proprio studio, non modifica la originaria elezione di domicilio;

2- pertanto non è tenuto a comunicarla all’Ufficio e neppure alle altre parti costituite in quanto:

2a) solo la parte che ha “autonomamente” eletto domicilio ex art. 141 c.p.c. è tenuta a comunicare le variazioni, e non anche invece il procuratore-domiciliatario;

2b) non determinandosi “variazione di elezione di domicilio”, la ricerca della individuazione del luogo ove è l’attuale studio professionale del procuratore costituito, ricade sulla parte che effettua la notifica, in quanto onere non eccessivamente disagevole, potendo essere accertato il nuovo indirizzo tramite informazioni acquisite dall’Albo professionale.

3.8 La distinzione tra le due tipologie della elezione volontaria di domicilio e della indicazione di domicilio presso il difensore, effettuate ai fini processuali, rinviene il proprio discrimine nel potere rappresentativo conferito dalla parte al proprio difensore – presso il quale elegge domicilio – mediante il rilascio della “procura ad litem”, e trova il proprio referente normativo nell’art. 82 c.p.c., comma 3, art. 83 c.p.c., comma 1, art. 84 c.p.c., comma 1, art. 170 c.p.c., comma 1, e art. 330 c.p.c., comma 1, seconda parte.

3.9 Quanto al giudizio tributario, l’apparente ostacolo della non immediata trasponibilità dei principi di diritto indicati (enunciati dalla giurisprudenza in relazione al processo civile), non essendo in tale processo richiesto obbligatoriamente il “ministero del difensore” ma soltanto l’”assistenza in giudizio” di un difensore abilitato (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, comma 1), e dunque non essendo dato rinvenire – in ogni caso – un conferimento di potere rappresentativo mediante un atto di procura, deve essere superato relegando la speciale disciplina del luogo delle comunicazioni e della notifica dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, (secondo cui le notifiche debbono essere eseguite nel domicilio eletto o in mancanza nella residenza o sede dichiarata dalla parte all’atto della costituzione) ai soli atti “endoprocessuali”, in tal modo venendo a trovare applicazione agli atti di impugnazione delle sentenze tributarie – mediante la norma di rinvio di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49 – le disposizioni del codice di procedura (art. 170 c.p.c., comma 1, e art. 330 c.p.c., comma 1) che consentono la notifica degli atti anche al “procuratore costituito”, cui viene a tutti gli effetti equiparato il “difensore abilitato alla assistenza tecnica” nel processo tributario, anche se sprovvisto di “procura ad litem” (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 29290 del 15/12/2008 secondo cui “L’art. 330 c.p.c., nella parte in cui dispone l’eseguibilità della notifica dell’impugnazione “presso il procuratore costituito”, è applicabile al processo tributario in quanto la specifica previsione normativa in tema di notificazioni contenuta nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1, secondo la quale la notifica deve eseguirsi (salvo quella a mani proprie) nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della costituzione in giudizio, costituisce eccezione all’art. 170 c.p.c., (relativo alle sole notificazioni endoprocessuali) e non all’art. 330 c.p.c., invece applicabile in virtù del richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art. 49, alle norme processuali codicistiche, non costituendo ostacolo, all’introduzione della notifica dell’impugnazione “presso il procuratore costituito”, la non obbligatorietà, nel processo tributario, della rappresentanza processuale da parte del procuratore “ad litem”, in quanto tale rappresentanza, non essendo vietata, è facoltativa”; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 460 del 13/01/2014).

3.10 Pertanto anche nel processo tributario è dato distinguere una elezione di domicilio “autonoma” (ove prevale l’elemento topografico) compiuta volontariamente dal contribuente, che rimane pertanto onerato della comunicazione di eventuali successive variazioni del domicilio eletto (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 1), dalla “mera indicazione” come domiciliatario del difensore incaricato della assistenza tecnica (ove prevale invece l’elemento personale), in relazione alla quale non assumono rilevanza eventuali successivi trasferimenti dello studio professionale del domiciliatario: da un lato, non essendo tenuto il “domiciliatario” a comunicare le variazioni dell’indirizzo dello studio professionale (in assenza di specifica prescrizione normativa); dall’altro, essendo invece onerata la parte che deve effettuare la notifica della previa verifica (mediante le opportune ricerche presso gli albi elenchi o ruoli professionali: D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12) del luogo in cui può essere utilmente eseguita la consegna dell’atto al domiciliatario (anche tale onere non è espressamente previsto, ma deve ritenersi tuttavia immanente alle norme che disciplinano il procedimento notificatorio e va ricondotto alle attività preliminari di ricerca nelle quali si sostanzia la ordinaria diligenza richiesta al notificante, tenuto conto altresì che tale attività preliminare non si traduce in un onere particolarmente gravoso e non comporta eccessive difficoltà).

3.11 Deve, pertanto, essere corretta la motivazione della sentenza impugnata, quanto alla seconda “ratio decidendi”, atteso che nella fattispecie in esame – da quanto è dato evincere dagli atti – il contribuente aveva incaricato della propria difesa tecnica due avvocati, che collaboravano nello stesso studio legale, eleggendo il domicilio, ai fini della notifica degli atti del processo, presso il loro studio professionale (recte indicando i difensori quali “domiciliatari”), con la conseguenza che, trovando applicazione – in difetto di notifica della sentenza di appello – la disposizione dell’art. 330 c.p.c., comma 1, seconda parte, che autorizza la notifica della impugnazione anche al “procuratore costituito” – cui deve essere equiparato il difensore domiciliatario incaricato della assistenza tecnica nel processo tributario -, alcun obbligo incombeva sui predetti difensori di comunicare la variazione dell’indirizzo del loro studio professionale, essendo invece tenuta la Amministrazione finanziaria ad esperire le relative ricerche prima di eseguire la notifica dell’atto di appello.

3.12 La errata motivazione della CTR non inficia, tuttavia, la conformità a diritto della decisione di rigetto della eccezione di inammissibilità dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado, atteso che l’atto di appello – come risulta dall’accertamento in fatto compiuto dalla CTR e non contestato dalla società contribuente – è stato consegnato a persona qualificatasi (nella relata di notifica dell’Ufficiale giudiziario) come “impiegato addetto alla corrispondenza” dello studio legale dei difensori della società.

3.13 In proposito deve ritenersi consolidata la giurisprudenza di questa Corte che ritiene applicabili, anche in caso di “indicazione del domiciliatario”, le norme processuali concernenti la ricerca del destinatario e la consegna dell’atto, in sua temporanea assenza, a persone abilitate alla ricezione, in quanto legate al domiciliatario da rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione, con la conseguenza che è da ritenersi validamente perfezionata, non soltanto la notifica eseguita con consegna dell’atto a persona dichiaratasi “addetta all’ufficio” rinvenuta dall’Ufficiale giudiziario nel luogo indicato dal contribuente al momento della “indicazione del domicilio presso il procuratore costituito” (cfr.

Corte Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 24502 del 30/10/2013), ma anche a persona che, in considerazione della qualifica dichiarata, possa comunque relazionarsi al procuratore domiciliatario, anche se rinvenuta dall’Ufficiale notificatore “in luogo diverso” da quello originariamente indicato come domicilio (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17391 del 24/07/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 19763 del 13/11/2012; id. 7 febbraio 2013, n. 2907 – per la notifica dell’atto di appello -). Ed infatti la prevalenza che deve essere attribuita nel caso di procuratore domiciliatario all’”elemento personale”, rispetto a quello “topografico” dell’indirizzo dello studio professionale (che è appunto suscettibile di variazioni senza onere di comunicazione alle altre parti del processo), consente di valorizzare il momento della consegna dell’atto a persone che, per la qualità rivestita e dichiarata, appaiono tenute ad introdurre l’atto notificato nella sfera di conoscibilità legale del “procuratore domiciliatario”, anche se rintracciate in luogo diverso – se pure non del tutto privo di astratto collegamento con i domiciliatari – da quello dello studio professionale in cui i difensori – domiciliatari risultano essersi attualmente trasferiti. In tal caso la notifica dell’atto di impugnazione, con consegna della copia a “persona addetta allo studio” fuori dei locali dello studio o comunque in luogo diverso -quale nella specie l’originario indirizzo dello studio professionale indicato al momento della “elezione di domicilio presso il procuratore costituito” – non può ritenersi validamente perfezionata, ma tale vizio riverbera come mera “nullità sanabile” e non si traduce nella “inesistenza del procedimento notifìcatorio” (cfr. Corte Cass. Sez., 5, Sentenza n. 2907 del 07/02/2013 – per la notifica dell’atto di appello – secondo cui la notificazione dell’atto di appello avverso la decisione della commissione tributaria provinciale effettuata al difensore al domicilio inizialmente indicato per il giudizio, con la consegna a persona dichiaratasi abilitata a riceverlo “quale collaboratore”, priva di rilevanza la circostanza che il difensore destinatario abbia nel frattempo comunicato la variazione dello studio, attestando la relata di notifica la conservazione di una relazione tale da autorizzare la presunzione che il difensore medesimo sia stato informato del contenuto dell’atto notificato; id. Sez. 5, Sentenza n. 28285 del 18/12/2013 – che applica il medesimo principio alla notifica del ricorso per cassazione -).

Orbene, incontestata la circostanza della consegna dell’atto di appello a persona qualificatasi come “collaboratore ed addetto allo studio professionale”, la notifica della impugnazione da parte dell’Amministrazione finanziaria in luogo diverso da quello in cui era stato attualmente trasferito lo studio professionale, non determina la inesistenza ma soltanto la nullità del procedimento notificatorio, dovendo pertanto ritenersi sanati, con effetto ex tunc, i vizi della notifica dell’atto di appello proposto dall’Ufficio avanti la CTR, per raggiungimento dello scopo dell’atto, a seguito della costituzione in giudizio della società appellata, non essendo da questa stata fornita alcuna prova che la persona che aveva ricevuto l’atto non rivestisse la qualità indicata, nè che la consegna dell’atto nel luogo indicato aveva impedito la materiale conoscenza della impugnazione.

3.14 Infondati il primo ed il secondo motivo, divengono inammissibili per carenza di interesse i motivi terzo e quarto (concernenti il rigetto della eccezione di inammissibilità per omessa comunicazione D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, della variazione dell’indirizzo dello studio) in quanto dall’accoglimento degli stessi la parte ricorrente non potrebbe comunque conseguire la cassazione della pronuncia impugnata.

4. Venendo a trattare i motivi concernenti il merito della pretesa tributaria, ritiene il Collegio infondato il quinto motivo di ricorso con cui si impugna la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, che prescrive, a pena di nullità dell’atto impositivo, l’obbligo dell’Amministrazione accertatrice “prima di procedere alle iscrizioni a ruolo” a seguito di controlli automatizzati delle dichiarazioni fiscali, di “invitare il contribuente…..a fornire i chiarimenti necessari od i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla richiesta” (la norma generale dello Statuto del contribuente è stata successivamente riprodotta nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, comma 3, e nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, comma 3, come modificati dal D.L. n. 203 del 2005, art. 2, conv. in L. n. 248 del 2005: tali disposizioni, tuttavia, non prevedono alcuna autonoma comminatoria della sanzione di nullità in caso di inosservanza della previa informazione al contribuente, dovendo quindi ricondursi la sanzione della nullità dell’atto impositivo esclusivamente alla ipotesi specificamente contemplata dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, che condiziona l’obbligo di invitare il contribuente a fornire chiarimenti prima di effettuare la iscrizione a ruolo “qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”. La sanzione di nullità, espressamente comminata dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, era bene presente al Legislatore quando ha modificato, nel 2005, gli D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, inserendo gli obblighi di comunicazione al contribuente in seguito ai controlli automatizzati: la mancata espressa previsione della nullità della cartella in caso di inosservanza di tali obblighi induce quindi a ritenere che il Legislatore abbia inteso limitare la grave sanzione di invalidità dell’atto impositivo esclusivamente alla ipotesi di “rilevante incertezza” sui dati esposti nella dichiarazione considerata dalla norma dello Statuto del contribuente).

4.1 La norma in questione è stata, infatti, costantemente interpretata da questa Corte alla stregua del costante orientamento di questa Corte secondo, cui in tema di riscossione delle imposte, l’avviso bonario con cui, ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5, prima di procedere all’iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione di un tributo risultante da una dichiarazione ovvero nel caso in cui emerga la spettanza di un minor rimborso d’imposta rispetto a quello richiesto, si invita il contribuente a fornire chiarimenti o a produrre documenti mancanti, deve essere inviato dall’Amministrazione finanziaria, a pena di nullità, nei soli casi in cui “sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione” (come testualmente prevede la norma asseritamente violata) e non anche se non risulti dall’atto impositivo l’esistenza di incerte e rilevanti questioni interpretative, situazione, quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti alla disposizione appena indicata (in sede cioè di rettifica di errori materiali o di mera constatazione della difformità tra imposta dovuta, esposta in dichiarazione, e somme effettivamente versate all’Erario), la quale implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo; del resto, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi risultanti dalla dichiarazione, non avrebbe posto la condizione di cui al citato inciso (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26316 del 29/12/2010;

id. Sez. 5, Sentenza n. 795 del 14/01/2011; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7536 del 31/03/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 8342 del 25/05/2012).

4.2 La parte ricorrente non ha neppure allegato quale fosse, nel caso concreto, l’”elemento di incertezza” – irrisolta – presente nei dati esposti in dichiarazione, sul quale era stata fondata la emissione della cartella di pagamento avente ad oggetto la somma incontestata e non ancora versata dalla contribuente, nè ha ricollegato la incertezza ad incomprensione di lettura dei dati esposti nella dichiarazione (ipotesi ravvisatale nel caso in cui non sia chiara graficamente la posta di un onere deducibile o di una spesa detraibile). Nè, peraltro, è stato addotto dalla parte ricorrente, che sussisteva l’obbligo di instaurazione anticipata del contraddittorio, in quanto l’Ufficio, svolgendo il controllo automatizzato, ha inteso piuttosto contestare le qualificazioni giuridiche delle singole voci esposte in dichiarazione, fornendo una diversa valutazione che viene ad incidere, modificando il dato esposto in dichiarazione, sul titolo dei componenti positivi e negativi di reddito (è la ipotesi della “rettifica c.d. cartolare” che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, impone alla Amministrazione di inserire nella cartella di pagamento tutti gli elementi essenziali dell’atto impositivo, trattandosi del primo atto con il quale vengono portate a conoscenza del contribuente le ragioni della pretesa) in tal modo portando ad emersione “una imposta od una maggiore imposta” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, comma 3;

D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, comma 3) non risultante dalla dichiarazione e quindi non riferibile direttamente al contribuente (art. 36 bis, comma 4; art. 54 bis, comma 4: “i dati contabili risultanti dalla liquidazione…..si considerano a tutti gli effetti come dichiarati dal contribuente….”).

Pertanto, in difetto del presupposto della incertezza risultante dalla dichiarazione o dell’accertamento di una imposta diversa da quella liquidata nella dichiarazione sottoposta a controllo, alcun invito preventivo a chiarimenti doveva essere trasmesso al contribuente dalla Amministrazione finanziaria.

5. Infondata è anche la censura (sesto motivo) concernente la violazione del D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 462, art. 2, comma 2, che disponeva, nel testo applicabile al tempo della notifica della cartella: “1. Le somme che, a seguito dei controlli automatici effettuati ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, e D.P.R. 29 settembre 1972, n. 633, art. 54 bis, risultano dovute a titolo d’imposta, ritenute, contributi e premi o di minori crediti già utilizzati, nonchè di interessi e di sanzioni per ritardato o omesso versamento, sono iscritte direttamente nei ruoli a titolo definitivo, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione.

1-bis. Se i termini per il versamento delle somme di cui al comma 1, sono fissati oltre il 31 dicembre dell’anno in cui è presentata la dichiarazione, l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo è eseguita entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui èprevisto il versamento dell’unica o ultima rata.

2. L’iscrizione a ruolo non è eseguita, in tutto o in parte, se il contribuente o il sostituto d’imposta provvede a pagare le somme dovute con le modalità indicate nel D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 19, concernente le modalità di versamento mediante delega, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, prevista dai commi 3, dei predetti art. 36 bis, e art. 54 bis, ovvero della comunicazione definitiva contenente la rideterminazione in sede di autotutela delle somme dovute, a seguito dei chiarimenti forniti dal contribuente o dal sostituto d’imposta. In tal caso, l’ammontare delle sanzioni amministrative dovute è ridotto ad un terzo”.

5.1 Premesso che la parte ricorrente omette del tutto di precisare le ragioni per le quali la norma speciale in questione verrebbe ad esautorare il presupposto al quale sia la norma dello Statuto del contribuente (incertezza rilevante su aspetti della dichiarazione) che le norme tributarie sui “controlli automatizzati”, in materia di II.DD. e di IVA (emersione di un risultato diverso da quello indicato nella dichiarazione, o di una imposta o maggiore imposta non indicata in dichiarazione), condizionano l’obbligo di previa informativa, è appena il caso di evidenziare che, anche a volere individuare nella disposizione del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2, un autonomo obbligo di previa informativa del contribuente del constatato inadempimento parziale o totale del versamento della imposta liquidata nella dichiarazione (che si aggiunge agli obblighi di comunicazione previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, comma 3), la violazione di un tale obbligo di comunicazione preventiva non determinerebbe in alcun modo la invalidità della cartella di pagamento in quanto:

a) la cartella notificata in base ad iscrizione a ruolo eseguita “anticipatamente” rispetto al termine dilatorio previsto dal D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2, non incorre in vizio di nullità, trattandosi di sanzione non espressamente comminata dalla legge (Corte Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18140 del 22/10/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 3366 del 12/02/2013);

b) non è ravvisabile un pregiudizio indiretto – conseguente al mancato invio della previa comunicazione al contribuente – incidente sulla possibilità di fruire del beneficio della riduzione della sanzione pecuniaria irrogata per tardivo od omesso versamento della imposte dovute: è stato, infatti, precisato da questa Corte che, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’omessa comunicazione dell’invito al pagamento prima dell’iscrizione a ruolo, con la riduzione e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2, non determina la nullità di tale iscrizione e degli atti successivi, ma una mera irregolarità, inidonea ad incidere sull’efficacia dell’atto, sia perchè non si tratta di condizione di validità, stante la mancata espressa sanzione della nullità, avendo il previo invito al pagamento l’unica funzione di dare al contribuente la possibilità di attenuare le conseguenze sanzionatorie dell’omissione di versamento, sia perchè l’interessato può comunque pagare, per estinguere la pretesa fiscale, con riduzione della sanzione, una volta ricevuta la notifica della cartella (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3366 del 12/02/2013, in termini. Con riferimento alla analoga previsione della comunicazione dell’invito al versamento delle somme dovute, contemplato dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 6, invito cui l’ufficio risulta tenuto “ex lege” al fine di consentire al contribuente il versamento di quanto addebitatogli entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, con applicazione della soprattassa, oggi sanzione amministrativa ex D.Lgs. n. 471 del 1997, pari al sessanta per cento della somma non versata, cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 907 del 25/01/2002 ed id. Sez. 5, Sentenza n. 13948 del 24/06/2011 che rilevano come l’unica funzione dell’avviso predetto è quella di consentire al contribuente di attenuare le conseguenze sanzionatorie della realizzata omissione, fermo restandone l’obbligo di corresponsione integrale del tributo e degli interessi sul medesimo, “medio tempore” maturati. Vedi anche Corte Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18140 del 22/10/2012 – in materia di imposte sui redditi, che esclude la nullità della cartella emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, in difetto di previa comunicazione trasmessa al contribuente).

5.2 Anche il sesto motivo è, pertanto, infondato.

6. Con il settimo motivo si censura la sentenza per errata applicazione del D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1, commi 5 bis e 5 ter, convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, sostenendo la società che la CTR avrebbe illegittimamente applicato con efficacia retroattiva le disposizioni del D.L. n. 106 del 2005, che differivano il termine di decadenza per la notifica delle cartelle emesse a seguito di esercizio dei controlli automatizzati, in quanto, viceversa, avrebbe dovuto disconoscere alla norma efficacia retroattiva e dichiarare decaduta l’Amministrazione finanziaria.

6.1 I fatti sono di seguito esposti.

La dichiarazione fiscale concerne l’anno d’imposta 1998 ed è stata presentata nel 1999.

In esito a controllo automatizzato la PA ha notificato la cartella di pagamento in data 27.3.2004.

6.2 Sostiene la società ricorrente che la CTR sarebbe incorsa in errore non applicando la disposizione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, (“il concessionario notifica la cartella di pagamento, entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo”) nel testo anteriore a quello vigente alla data della notifica della cartella di pagamento (2 aprile 2003) ed introdotto a seguito del D.Lgs. n. 193 del 2001, art. 1, comma 1, lett. b), – applicabile ai ruoli esecutivi a decorrere dal 9.6.2001 – che non stabiliva alcun termine per la notifica della cartella, rimanendo questa, in quanto esercizio del diritto di credito, assoggettata al solo termine ordinario di prescrizione.

6.3 Occorre premettere che:

– il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, prevedeva originariamente che l’iscrizione a ruolo e la successiva consegna dei ruoli all’intendenza di finanza dovevano avvenire entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione;

– il D.Lgs. n. 46 del 1999, con l’art. 6 – che aveva sostituito il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17 – prescriveva, inoltre, che le somme dovute a seguito di liquidazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, dovevano essere iscritte in ruoli resi esecutivi entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione;

– il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, disponeva che la notifica della cartella doveva avvenire entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo: tale termine era poi venuto meno a seguito di abrogazione disposta dal D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, art. 1, comma 1, lett. b), (la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 417, lett. c), ha poi nuovamente stabilito un termine di decadenza prevedendo che la cartella doveva essere notificata “entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quello di consegna del ruolo, ovvero entro l’ultimo giorno del sesto mese successivo alla consegna se la cartella è relativa ad un ruolo straordinario”).

6.4 Venuto meno, a far data dal 9.6.2001 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 193 del 2001), il termine di decadenza previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, per la notifica della cartella di pagamento, ed in considerazione della disposizione, espressamente definita di interpretazione autentica, contenuta nella L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 28, che aveva dichiarato “non perentorio” il termine annuale per la rettifica in controllo automatizzato delle dichiarazioni fissato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, le SS.UU. di questa Corte erano intervenute a colmare la completa mancanza di termini perentori per l’esercizio della potestà impositiva, determinatasi a seguito del combinato disposto normativo sopra indicato, statuendo con sentenza 12.11.2004 n. 21498 che, “non essendo concepibile che il cittadino resti soggetto “sine die” al potere dell’Amministrazione, il termine di decadenza entro cui va circoscritta l’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria va ricollegato, nelle ipotesi di “controllo c.d. formale” (o, più rettamente, cartolare), a cui segua una mera attività di liquidazione, a quello per l’iscrizione a ruolo, fissato nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17, comma 1, (nel testo vigente “ratione temporis”), mentre nelle ipotesi di “rettifica cartolare” (o formale), il relativo potere deve, a pena di decadenza, essere esercitato mediante la notifica dell’atto impugnabile (la cartella di pagamento) entro il termine stabilito, in via generale, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, (nel testo applicabile “ratione temporis”).

6.5 Successivamente la questione relativa alla mancanza di un termine di decadenza per la notificazione delle cartelle di pagamento approdava avanti alla Corte costituzionale, che, con sentenza 7.7.2005 n. 280, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 – nel testo modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001 -, nella parte in cui non prevedeva alcun termine a pena di decadenza entro il quale si doveva notificare al contribuente la cartella di pagamento.

Il Legislatore ha, quindi, inteso conformarsi alla pronuncia del Giudice delle Leggi adottando il D.L. 17 giugno 2005, n. 106, convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156, ridisciplinando la intera materia dei termini di decadenza sia per l’attività di accertamento che per la notificazione delle cartelle.

In particolare, all’art. 1, commi 5 bis e 5 ter – con riferimento ai “controlli automatizzati” delle dichiarazioni fiscali – ha stabilito:

1-) dettando la disciplina normativa “a regime” (ed al dichiarato fine di “di conseguire… la necessaria uniformità del sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto”) che, a modifica del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 1, la notifica delle cartelle deve essere eseguita entro “il 31 dicembre: a) del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultando dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36 bis” (art. 1, comma 5 ter, lett. a), n. 2);

2-) dettando la disciplina normativa “transitoria” che, a modifica del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 36, comma 2, le cartelle di pagamento, “in deroga al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1, lett. a)”, dovevano essere notificate a pena di decadenza “entro il 31 dicembre: a) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001” (art. 1, comma 5 ter, lett. b, n. 2).

6.6 Tanto premesso, relativamente alla dichiarazione presentata dalla società con il modello unico 1999 concernente l’anno di imposta 1998 occorre rilevare l’orientamento assolutamente prevalente di questa Corte di legittimità secondo cui alla disciplina introdotta, in tema di riscossione delle imposte, dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, convcrtito con modificazioni nella L. n. 156 del 2005 – emanato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 di declaratoria d’incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 -, nella parte in cui, modificando il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 36, comma 2, ha prescritto che per le somme che risultano dovute a seguito dei controlli automatizzati delle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001, la cartella di pagamento debba essere notificata, a pena di decadenza “entro il 31 dicembre:……b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione”, deve riconoscersi inequivoco valore transitorio, con conseguente applicazione della stessa, non solo alle situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore, ma anche a quelle ancora non definite con sentenza passata in giudicato (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 21.7.2006 n. 16826; id. 5^ sez. 30.6.2009 n. 15313; id.

5^ Sez. 5, sentenza n. 2212 del 31/1/2011; id. 5^ sez. ord. 30.12.2011 n. 30704; id. Sez. 5^, sentenza n. 15786 del 19/9/2012;

id. Sez. 5^, sentenza n. 16365 del 26.9.2012; id. 5^ sez. 5.10.2012 n. 16990).

6.7 Tale orientamento deve essere condiviso in quanto confermato anche dal Giudice delle Leggi, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 ter, rilevando come tale disciplina fornisse un equilibrato bilanciamento dell’interesse del contribuente (a non rimanere assoggettato “sine die” al potere impositivo) e dell’interesse del Fisco (ad assicurare i controlli necessari alla riscossione delle entrate), e giudicando ragionevoli i termini indicati in quanto termini di decadenza più ridotti avrebbero comportato, quanto alle dichiarazioni presentate prima della entrata in vigore della L. n. 156 del 2005, “la consumazione, in tutto o in gran parte, del termine decadenziale di notificazione della cartella ancor prima dell’entrata in vigore della suddetta legge che tale termine introduce” (cfr.

Corte cost. sentenza n. 11/2008 ed ord. n. 378/2008).

6.8 Pertanto vertendosi nel caso di specie di notifica della cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, ed D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, della dichiarazione modello unico, relativa all’anno di imposta 1998 e presentata nell’anno 1999, la Amministrazione finanziaria, notificando la cartella in data 27.3.2004, non è incorsa in decadenza, atteso che – per le dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001 – il relativo termine di decadenza, in deroga al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, veniva a scadere – ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 36, comma 2, come modificato dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 ter, lett. b, n. 2, conv. in L. n. 156 del 2006 – alla data del 31.12.2004.

7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte:

– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 6 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2015


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 08/01/2015) 16/04/2015, n. 7688

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19155/2012 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DON MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA Roberto, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

SOC. COOP. COCIF, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore Signor B.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 103, presso lo studio dell’avvocato LUISA GOBBI, rappresentata e difesa dall’avvocato GHINELLI Maurizio giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 118/2012 del TRIBUNALE di CASSINO, depositata il 02/02/2012, R.G.N. 1800/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/01/2015 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato DONATELLO FUMIA per delega;

udito l’Avvocato LUISA GOBBI per delega non scritta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 02 febbraio 2012, il Tribunale di Cassino ha rigettato l’opposizione ex art. 617 c.p.c., proposta da M. F. avverso l’esecuzione immobiliare promossa ai suoi danni dalla COCIF s.c.a.r.l. per lamentare la nullità degli atti della procedura sull’assunto dell’omessa notifica dell’atto di precetto, del pignoramento immobiliare, nonchè dell’avviso ex art. 569 c.p.c..

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione M. F., svolgendo due motivi, illustrati anche da memoria.

Ha resistito la s.c.r.l. COCIF, depositando controricorso.

Motivi della decisione
1. Il Tribunale ha ritenuto infondata la censura di omessa notifica del pignoramento, osservando che l’atto risultava notificato mediante consegna, da parte dell’ufficiale giudiziario procedente, alla madre del M. dichiaratasi convivente, come da relata che faceva fede fino a querela di falso, con la conseguenza che il problema dell’identificazione del luogo ove era stata eseguita la notifica risultava assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dalla consegnataria dell’atto; ha, altresì, ritenuto preclusa, perchè tardiva qualsivoglia contestazione in ordine alla notificazione del precetto, per inosservanza del termine di cui all’art. 617 c.p.c.;

ha, infine, ritenuto regolare anche la notificazione dell’avviso ex art. 569 c.p.c., a mezzo posta, siccome avvenuta sempre mediante consegna del plico alla madre del M., precisando che gli atti successivi in forza del disposto dell’art. 176 c.p.c., si presumevano conosciuti e che, in ogni caso, la contestazione era tardiva, stante l’autonomia di ciascuna fase o subprocedimento del processo esecutivo, con conseguente sanatoria dei vizi degli atti afferenti alla fase precedente e non tempestivamente impugnati ex art. 617 c.p.c..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, erronea e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2700 c.c., artt. 617 e 569 c.p.c.. Al riguardo parte ricorrente – precisato che nella relata dell’atto di pignoramento si dava atto della consegna del plico alla “madre convivente”, mentre nell’avviso di ricevimento del plico contenente l’avviso ex art. 569 c.p.c., non vi era l’indicazione della qualità di “convivente” della madre, come pure negli avvisi successivi – lamenta che il Tribunale abbia erroneamente attribuito valore di pubblica fede al contenuto di siffatte dichiarazioni e non abbia, quindi, ritenuto ammissibile la prova contraria, omettendo, altresì, di dare atto che la documentazione prodotta attestava l’effettività della sua residenza in luogo diverso da quello delle notificazioni.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Al riguardo parte ricorrente lamenta che il Tribunale abbia del tutto omesso di motivare sul punto decisivo e controverso della vicenda, costituito dalla circostanza che esso opponente, in realtà, non era convivente con la madre, ma residente, prima in (OMISSIS) con il suo nucleo famigliare, come risultava dalle certificazioni anagrafiche e da altri documenti prodotti in giudizio e come si voleva provare per testi.

2. Va preliminarmente dato atto che il ricorso prescinde totalmente dal rilievo di tardività delle censure attinenti alla notificazione del precetto, con la conseguenza che in parte qua la decisione è passata in giudicato.

2.1. Ciò premesso e precisato che i motivi vanno esaminati congiuntamente per la stretta connessione delle censure, il Collegio ritiene il ricorso, per un verso, infondato e, per altro, inammissibile.

L’infondatezza consegue al rilievo che la decisione impugnata risulta conforme al principio, costantemente predicato in fattispecie analoghe da questa Corte, con specifico riferimento alla notifica a mezzo posta, in ragione del quale se la consegna dell’atto sia avvenuta nelle mani di persona dichiaratasi famigliare convivente con il destinatario, deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c., in quanto il problema dell’identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire (cfr. Cass. 13 marzo 2013, n. 6345; Cass. 26 ottobre 2009, n. 22607; Cass. 22 novembre 2006, n. 24852; Cass. 19 marzo 1993 n. 3261, quest’ultima già cit. nella sentenza impugnata).

2.2. L’inammissibilità discende dal difetto di specificità delle censure, segnatamente quella di violazione dell’art. 2700 c.c., posto che il Tribunale ha riconosciuto valore di pubblica fede all’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente (o dall’agente postale), alla constatazione di quanto avvenuto in loro presenza e, in specie, al ricevimento da parte di costoro delle dichiarazioni rese dalla consegnataria dell’atto, esclusivamente con riguardo al loro contenuto estrinseco, ritenendo, di conseguenza, irrilevante la documentazione attestante la residenza dell’opponente, a fronte dell’assorbente rilievo dell’indiscutibilità del dato di fatto che la consegnataria avesse dichiarato di essere “madre convivente” con il destinatario della notifica.

Ne consegue che la critica del ricorrente avrebbe dovuto essere diretta alla dimostrazione di avere provato e/o chiesto di provare – non già di avere trasferito altrove la propria residenza ovvero di avere costituito un proprio nucleo famigliare – bensì di non avere avuto alcun rapporto di convivenza, neppure provvisorio, con la consegnataria dell’atto al momento della sua notificazione. E tanto avrebbe richiesto, in particolare, che il ricorrente riportasse in ricorso i capitoli di prova articolati, in ossequio all’onere dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, che, secondo una consolidata elaborazione giurisprudenziale, costituisce il corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione e che risulta ora tradotto nelle più puntuali e definitive disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (cfr. SS.UU. 22 maggio 2012, n.8077 in motivazione).

2.3. Sussiste un ulteriore profilo di inammissibilità – con specifico riferimento alle contestazioni concernenti la notificazione dell’avviso ex art. 569 c.p.c. e gli atti successivi – giacchè parte opponente ignora gli altri argomenti svolti dal Tribunale, di per sè idonei a sorreggere la decisione, rappresentati dal rilievo dell’intervenuta preclusione a fare valere eventuali vizi anteriori al subprocedimento di vendita e dalla presunzione di conoscenza dei successivi provvedimenti assunti in udienza. Si rammenta che l’impugnazione in sede di legittimità di una decisione di merito che si fonda su distinte rationes decidendo, autonome l’una dall’altra e ciascuna sufficiente, da sola, a sorreggerla, è meritevole di ingresso solo se risulta articolata in uno spettro di censure che investano utilmente tutti gli ordini di ragioni esposte nella sentenza, atteso che la eventuale fondatezza del motivo dedotto con riferimento a una sola parte delle ragioni della decisione non porterebbe alla cassazione della sentenza, che rimarrebbe ferma sulla base dell’argomento non censurato (Cass. 16 dicembre 2010, n. 25510;

Cass. S.U. 2004/19200; Cass. 2002/3965; 2007/1596; 2009/24540).

In conclusione l’esame complessivo dei motivi conduce al rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 8.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre accessori come per legge e contributo spese generali.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2015


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/01/2015) 11/03/2015, n. 4862

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4884/2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata, in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 30/2009 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 27/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Alla signora C.C. veniva notificata dall’Ufficio di Aversa dell’Agenzia delle Entrate una cartella di pagamento, con la quale l’Ufficio recuperava a tassazione, per l’anno 2003, la maggiore l’IVA dovuta a seguito del controllo automatizzato della relativa dichiarazione, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54 bis.

2. L’atto impositivo veniva impugnato dalla contribuente dinanzi alla CTP di Caserta, che accoglieva il ricorso.

3. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate veniva disatteso dalla CTR della Campania con sentenza n. 30/15/2009, depositata il 27.1.2009, con la quale il giudice di seconde cure riteneva improponibile l’appello dell’Ufficio, per non essere stato il medesimo parte del giudizio di prime cure.

4. Per la cassazione della sentenza n. 30/15/2009 ha proposto, quindi, ricorso l’Agenzia delle Entrate affidato ad un solo motivo.

l’intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, e art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1. Si duole l’Amministrazione ricorrente del fatto cha la CTR abbia dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Ufficio, per non essere stato il medesimo parte nel processo di prime cure, non essendosi costituito dinanzi alla Commissione Tributaria di prima istanza.

1.2. Il motivo è fondato.

1.2.1. Ed invero, il fatto che la sentenza di primo grado sia stata resa nei confronti dell’Ufficio di Caserta dell’Agenzia delle Entrate e che l’appello sia stato proposto dall’Ufficio di Aversa, non comporta l’inammissibilità dell’appello. E ciò, sia per il carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’organo (e non alle singole articolazioni organizzative) che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. 29465/2008;

15718/2009; 3727/2010).

1.2.2. Nè può dubitarsi del fatto che la parte contumace nel processo tributario di primo grado possa legittimamente proporre appello, come si evince dal combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, e art. 327 c.p.c. (Cass. 11991/2006).

1.3. Il mezzo va, di conseguenza, accolto.

2. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della CTR della Campania, che dovrà procedere all’esame del merito della controversia, attenendosi ai seguenti principi di diritto: “l’appello proposto da un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate diverso da quello nei cui confronti è stata emessa la sentenza di primo grado è ammissibile, sia per il carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di ridurre ai massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’organo (e non alle singole articolazioni organizzative) che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato “; “la parte contumace nel processo tributano di primo grado può legittimamente proporre appello, come si evince dal combinato disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, e art. 327 c.p.c.”.

3. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione;

accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Campania, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Tributaria, il 27 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2015