Cass. civ. Sez. VI – 2, Sent., (ud. 10-07-2014) 03-03-2015, n. 4270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24180/2013 proposto da:

C.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8, presso lo studio dell’avvocato PELLICANO’ Antonino, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS) in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– resistente –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 1098/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO del 14.12.2012, depositato il 02/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/07/2014 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito per la ricorrente l’Avvocato Antonino Pellicano che si riporta agli atti.

Svolgimento del processo
1. – C.C., con ricorso depositato l’11 luglio 2012, chiese alla Corte d’appello di Catanzaro l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in relazione alla eccessiva durata della procedura esecutiva promossa nel 2003 nei confronti dell’INPS, per ottenere il pagamento di un credito di Euro 7.004,48 dovuto in forza di una sentenza del Tribunale del lavoro di Reggio Calabria, giudizio definito in primo grado con sentenza del 27 maggio 2005, in appello con sentenza depositata il 13 ottobre 2011, con istanza di assegnazione somme del 25 maggio 2012.

2. – L’adita Corte di merito, con decreto depositato il 2 aprile 2013, ritenuto che il periodo di durata del processo presupposto eccedente quello ragionevole fosse pari a circa tre anni, ha liquidato, a titolo di indennizzo, l’importo di 750,00 Euro per ogni anno di ritardo, condannando il Ministero della Giustizia al pagamento di Euro 2250,00 in favore della ricorrente, compensando per la metà le spese del giudizio, in considerazione della mancata opposizione dell’Avvocatura dello Stato, e condannando il Ministero della Giustizia alla rifusione del residuo cinquanta per cento.

3. – Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo la C., che ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione
1. – Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione in forma semplificata.

2. – Con l’unico motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè vizio di motivazione. La Corte di merito – si osserva nel ricorso – ha disposto la compensazione per metà delle spese del giudizio in considerazione della mancata opposizione del Ministero della Giustizia. Secondo la ricorrente, la mancata costituzione del resistente non può determinare automaticamente la compensazione parziale delle spese del giudizio, poichè è da una colpa organizzativa dell’Amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice.

3. – La censura è fondata.

Non si può ritenere che il comportamento processuale del Ministero convenuto, che non si opponga alla liquidazione del danno da irragionevole durata del processo, integri le “gravi ed eccezionali ragioni” che possono giustificare la decisione di compensare parzialmente o integralmente le spese di lite, a fronte di soccombenza totale di una parte, poichè comunque l’istante è stato costretto ad adire il giudice per ottenere il riconoscimento del diritto (v., ex multis, Cass., sent. n. 23632 del 2013).

4. – Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto. Il decreto impugnato deve essere cassato limitatamente alla statuizione sulla compensazione parziale delle spese del giudizio, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, elidendo dal predetto decreto, fermo nel resto, la statuizione relativa alla compensazione per metà tra le parti delle spese del giudizio e condannando il Ministero della Giustizia alla rifusione, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di merito, da distrarre in favore dell’avv. Antonino Pellicanò, dichiaratosi antistatario. In applicazione del principio della soccombenza, il Ministero deve altresì essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, da distrarre parimenti in favore dell’avv. Prellicanò, antistatario.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato limitatamente alla statuizione sulla compensazione parziale delle spese, fermo nel resto, e, decidendo nel merito, elide dal decreto detta statuizione, ponendo interamente a carico del Ministero della Giustizia le spese del giudizio di merito, da distrarre in favore dell’avv. Antonino Pellicanò, dichiaratosi antistatario. Condanna altresì il predetto Ministero al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 500,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, da distrarsi in favore dell’avv. Antonino Pellicano, dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Sent., (data ud. 21/01/2015) 02/03/2015, n. 4222

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23329-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

FIERA DI FORLI’ SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ELEONORA DUSE 35, presso lo studio dell’avvocato GOMMELUNI ALBERTO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MATTEO TARGHINI giusta procura alle liti in calce al ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 55/16/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BOLOGNA dell’11/06/2012, depositata il 12/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ROBERTO GIOVANNI CONTI;

udito l’Avvocato Bacosi Giulio (Avvocatura) difensore della ricorrente che si riporta agli scritti ed eccepisce al tardività del controricorso;

udito l’Avvocato Gommellini Alberto difensore della controricorrente che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo
Il giudizio nasce da una variazione di categoria operata dall’Agenzia del Territorio di Forlì con passaggio dalla Cat. E/9 alla Cat D/8 relativamente al complesso immobiliare destinato a padiglione fieristico di proprietà della società Fiera di Forlì spa.

Il riclassamento, secondo l’Agenzia, trovava giustificazione in base alla legislazione vigente, D.L. n. 262 del 2006, art. 2 comma 40 conv. nella L. n. 286 del 2006 e della circolare dell’Agenzia del Territorio n. 4/2007, non avendo efficacia le nuove categorie catastali previste dal D.P.R. n. 138 del 1998.

Il giudice di primo grado al quale si è rivolta la società Fiera di Forlì SPA ha annullato l’avviso di accertamento.

La CTR dell’Emilia Romagna, con sentenza n. 55/16/12, depositata il 12.7.2012, ha respinto l’appello dell’Agenzia.

Il giudice di appello, a prescindere dal rilievo che il D.P.R. n. 138 del 1998, anche se non attuato in alcune sue disposizioni, ha forza di legge e che nello stesso è prevista l’inclusione delle unità immobiliari stabili destinate alle fiere nell’ambito del gruppo catastale comprendente immobili speciali per funzioni pubbliche o di interesse collettivo, riteneva decisiva la disposizione normativa di cui al ricordato D.L. n. 286 del 2006, art. 2, comma 40. Nel caso di specie l’Ufficio aveva considerato l’intero compendio immobiliare “a destinazione commerciale”, ignorando la destinazione effettiva dei vari locali ad esclusivo uso fieristico.

Peraltro, nei locali della Fiera non veniva svolta, al di fuori dei giorni di svolgimento delle manifestazioni fieristiche, alcuna stabile attività ad eccezione che per alcuni locali ad uso ufficio.

Aggiungeva che a sostegno dell’assunto della società alcune pronunce di merito avevano rigettato gli accatastamenti in categoria D/8, ritenendo che gli immobili erano destinati all’assolvimento di esigenze di pubblico interesse e come tali dovevano essere collocati nella Cat. E. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, al quale ha resistito la società contribuente con controricorso eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso, in quanto notificato oltre il termine di 60 giorni-dalla notifica della sentenza. La causa veniva posta in decisione all’udienza del 21 gennaio 2015.

Motivi della decisione
La preliminare eccezione di tardività del ricorso per cassazione è fondata. Nel caso di specie la parte controricorrente ha documentato di avere proceduto alla notifica mediante consegna diretta della sentenza della CTR qui impugnata all’Agenzia delle entrate in data 17 settembre 2012 – v. nota allegata al fascicolo recante la ricezione con Prot.7101 del 18.9.2012 – in forza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2 come modificato dal D.L. n. 40 del 2010, art. 3, comma 1 conv. nella L. n. 73 del 2010. Ed è la stessa parte ricorrente ad indicare in ricorso (pag.l)che la sentenza impugnata era stata notificata alla stessa. Orbene, giova rammentare che la disposizione testè indicata ha previsto che “al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 38, comma 2, le parole: “a norma degli artt. 137 e segg. c.p.c.” sono sostituite dalle seguenti: “a norma dell’articolo 16” e, dopo le parole: “dell’originale notificato”, sono inserite le seguenti: “ovvero copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata mezzo del servizio postale unitamente all’avviso di ricevimento”. La modifica normativa appena ricordata ha consentito alle parti private di procedere alla notificazione della sentenza con consegna diretta ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16 “…Le comunicazioni sono fatte mediante avviso della segreteria della commissione tributaria consegnato alle parti, che ne rilasciano immediatamente ricevuta, o spedito a mezzo del servizio postale in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, sul quale non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’avviso.” Ora, pare evidente la tardività del ricorso per cassazione spedito per la notifica alla parte contribuente il – e consegnato in data 14 ottobre 2013, quando era ampiamente scaduto il termine breve ex art. 325 c.p.c. per l’impugnazione della sentenza di appello, consegnata all’Agenzia in data 17 settembre 2012 a mani proprie.

A nulla poi rileva, quanto meno per quel che riguarda gli effetti correlati al decorso del termine breve di impugnazione, il mancato deposito della ricevuta di consegna diretta all’Agenzia pure previsto dal ricordato art. 38, comma 2 cit., non risultando dalla lettera della legge alcuna sanzione correlata all’inadempimento di siffatto onere – per come evidenziato dalla dottrina unanime – nè potendo l’omesso deposito produrre effetti ai fini della conoscenza della sentenza una volta che la notifica a mani proprie della stessa è stata, come detto, ritualmente eseguita.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo in favore della parte controricorrente.

P.Q.M.
LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in favore della controricorrente in Euro 2000,00 per compensi, oltre Euro 100,00 per esborsi ed oltre accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sesta sezione civile, il 21 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2015


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 17/12/2014) 21/01/2015, n. 1113

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 26883-2013, proposto da:

V.C., rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Lorenti Francesco, presso lo studio del quale in Roma, alla via Rimini, n. 14, elettivamente domicilia;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, domicilia;

– resistente –

avverso la sentenza n. 90/21/13 della Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione 21, depositata in data 9 aprile 2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17 dicembre 2014 dal consigliere Angelina-Maria Perrino e letta la relazione da lei depositata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

constatata la regolarità delle comunicazioni e sentito l’avv. Francesco Lorenti;

osserva quanto segue.

Svolgimento del processo
La contribuente impugnò un’intimazione di pagamento per imposta di registro ed Invim, sostenendo che non fosse stata preceduta dalla notificazione di alcuna cartella di pagamento. La Commissione tributaria provinciale respinse il ricorso, là dove la Commissione tributaria regionale ha dichiarato inammissibile l’appello, in base al rilievo che era stato notificato ad ufficio diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato. Propone ricorso V.C., per ottenere la cassazione di questa sentenza, affidandolo ad un unico motivo, al quale l’Agenzia non replica con difese scritte, limitandosi a depositare memoria di costituzione.

Motivi della decisione
1 – Con l’unico motivo di ricorso, la contribuente si duole della violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10, 11 e 12 sostenendo che l’ufficio territoriale Roma (OMISSIS) al quale è stato notificato il ricorso di primo grado rientra nell’articolazione territoriale facente capo alla direzione provinciale (OMISSIS), ufficio controlli di Roma, al quale è stato notificato l’appello.

2. – Il motivo è fondato e va in conseguenza accolto.

2.1. – La Corte, prendendo le mosse dalla sentenza n. 3116 resa dalle sezioni unite in data 14 febbraio 2006, ha chiarito che, in relazione all’agenzia fiscale, tutti i suoi uffici periferici hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c.; ciò in quanto tali uffici vanno qualificati come organi dell’agenzia che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza (Cass. 9 aprile 2009, n. 9703).

2.2. – A tanto si è aggiunto che la notificazione ad un ufficio anzichè ad un altro dell’Agenzia delle entrate non è affetta da nullità, trattandosi di un mero errore riguardante l’individuazione dell’ufficio dell’Agenzia territoriale delle entrate deputato a ricevere la notifica (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3680).

2.3. -Errore che, se anche sussistente, nel caso in esame non ha prodotto nocumento alcuno, emergendo dalla sentenza impugnata che l’Agenzia si è regolarmente costituita nella fase di appello, spiegando compiutamente le proprie difese.

3. – Il ricorso va in conseguenza accolto, con cassazione della sentenza e rinvio per esame del merito e per la regolazione delle spese ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

P.Q.M.
la Corte:

– accoglie il ricorso;

– cassa la sentenza impugnata;

– rinvia per nuovo esame nonchè per la regolazione delle spese ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2015

 


Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., (ud. 05-11-2013) 30-01-2014, n. 2035

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10187/2012 proposto da:

S.V. (OMISSIS) in qualità di Curatore del fallimento n. 1105/2010 in capo alla società PROFILSERRE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato DE FELICE SERGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCIO ANTONIO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 866/2011 del TRIBUNALE di LOCRI del 13.3.2012, depositato il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Antonio Ricci che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Curatela del Fallimento PROFILSERRE s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi avverso il decreto emesso nella causa N. 866/2011 e depositato il 20.03.2012 con cui il Tribunale di Locri ha accolto l’opposizione allo stato passivo del fallimento della società Profilserre a r.l. proposta da Equitalia ETR s.p.a..

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
Con i tre motivi di ricorso il fallimento ricorrente contesta, sotto diversi profili,il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’opposizione per tardività. Deduce che l’atto oggetto di opposizione relativo alla comunicazione di deposito dello stato passivo del fallimento era stato comunicato L. Fall., ex art. 97, dal cancelliere tramite un servizio di posta privata ad Equitalia in data 20.6.11, come risulta dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22.7.11.

Sostiene in particolare il ricorrente che doveva ritenersi che la comunicazione effettuata tramite un servizio di posta privata fosse del tutto legittima e conseguentemente la data di notifica doveva ritenersi essere quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto da Equitalia.

A sostegno della propria tesi deduce che,la comunicazione ai sensi della L. Fall., art. 97, può essere data a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ovvero tramite telefax o posta elettronica quando il creditore abbia indicato tale modalità di comunicazione e, che il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal decreto legislativo n. 58 del 2011 con entrata in vigore dal 30.4.11, prevede che sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio postale universale, e, cioè,alla Poste italiane, i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni,che riguarda le notifiche da parte dell’Ufficiale giudiziario che si avvale del servizio postale, ma non anche quelle effettuate direttamente dal cancelliere a mezzo posta per cui questi poteva avvalersi anche dei servizi di posta privati.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente appaiono infondati.

Invero, nel caso di specie non rileva la questione se il cancelliere possa avvalersi di un servizio di posta privata o meno.

Quello che qui rileva è accertare se, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.

Tale ipotesi è da escludere.

Va a tale proposito rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di contenzioso tributario, (ma il principio riveste una portata generale applicabile anche al caso di specie) che nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario.

(Cass. 17723/06 e Cass. 13812/07).

Non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le notifiche effettuate da un servizio di posta privato. Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualità di pubblici ufficiali onde gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni.

A tale proposito è già stato chiarito da questa Corte che, in tema di tempestività del ricorso per cassazione, il termine di cui all’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dalla notifica della sentenza impugnata, la quale, nell’ipotesi in cui la notifica abbia avuto luogo a mezzo del servizio postale, va desunta, in mancanza di altri elementi, dalla busta di spedizione, ove sul retro sia stata apposta la data di arrivo presso il destinatario, non potendo essere ricavata dal timbro apposto sul plico da parte dello stesso destinatario, pur recante il numero cronologico e la data, trattandosi di atti di organizzazione interna e nonostante la natura eventualmente pubblica del predetto soggetto (nel caso di specie trattavasi dell’Agenzia delle Entrate) (Cass. 25753/07).

Ciò sta a significare che l’attestazione fidefacente dell’ufficiale postale non è surrogabile da alcun altro tipo di atto neppure nel caso in cui lo stesso sia stato compiuto al momento della ricezione da un ente pubblico.

Ciò porta a maggior ragione ad escludere che possa essere idonea ai fini in esame l’attestazione di un semplice privato. Deve conclusivamente affermarsi che,non essendovi prova circa l’effettiva data di consegna della comunicazione di cancelleria relativa al deposito dello stato passivo del fallimento della Profilserre srl, l’opposizione avverso il detto atto deve ritenersi tempestiva.

Il ricorso va in conclusione respinto. Nulla per le spese.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 27/10/2014) 19/12/2014, n. 2693

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14733/2011 proposto da:

C.M. (OMISSIS), domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato SPAMPINATO Giambattista con studio in BELPASSO, VIA ROMA 200 giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CROSS FACTOR SPA (OMISSIS) in persona dell’amministratore pro tempore Dr. Z.R., domiciliata ex lege in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CASTRO Antonio giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

SICILCASSA SPA IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 294/2011 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 07/03/2011, R.G.N. 1735/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2014 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito l’Avvocato GIOVAMBATTISTA SPAMPINATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
Con ricorso 17 ottobre 2003 C.M. proponeva opposizione all’esecuzione immobiliare (n. 7/02 r.es. tribunale di Catania) contro di lei intrapresa dalla Sicilcassa spa sulla base di un decreto ingiuntivo che l’aveva raggiunta nella sua qualità di fideiussore del fratello C.G.. Deduceva l’inesistenza del titolo esecutivo, dal momento che il decreto ingiuntivo non le era mai stato validamente notificato e che, in ogni caso, il credito della banca doveva ritenersi prescritto sia nei propri confronti sia, per gli effetti di cui all’art. 1955 c.c., nei riguardi del debitore principale C.G..

Nella costituzione in giudizio della Sicilcassa, in liquidazione coatta amministrativa, interveniva la sentenza n. 58/07 con la quale il tribunale di Catania rigettava l’opposizione.

Interposto gravame dalla C. veniva emessa – previo intervento in giudizio della Cross Factor spa in qualità di cessionaria del credito di Sicilcassa in liquidazione coatta amministrativa, D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 90, comma 2 (TUB) – la sentenza n. 294 del 7 marzo 2011 con la quale la corte di appello di Catania estrometteva dal giudizio la cedente Sicilcassa in liquidazione coatta amministrativa, e rigettava l’appello a spese compensate.

Avverso questa sentenza viene da C.M. proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi; resiste con controricorso la Cross Factor spa. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

In tale sede Cross Factor ha richiamato la decisione con la quale questa corte (ord. 6^ sez. n. 20176/13, in ricorso n. 12273/11) ha escluso la prescrizione nel rapporto creditorio con il debitore principale C.G..

Motivi della decisione
1.1 Con il primo motivo di ricorso C.M. lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 149 c.p.c., nonchè L. n. 890 del 1982, artt. 7 e 8, atteso che la corte di appello aveva erroneamente reputato nulla – invece che radicalmente inesistente – la notificazione del decreto ingiuntivo nei suoi confronti, mediante ritiro del plico presso l’ufficio postale, da parte del fratello C.G.; residente in altro Comune e comunque privo di delega scritta abilitante il ritiro. In ogni caso, quand’anche tale notificazione fosse stata correttamente ritenuta nulla, la corte di appello aveva errato nel non considerare l’opposizione all’esecuzione quale opposizione tardiva al decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c., con conseguente valutazione nel merito delle sue deduzioni di non debenza della somma ingiunta.

1.2 Il motivo è infondato.

Con esso la ricorrente da per scontato ciò che non è; vale a dire, che la corte di appello abbia ritenuto invalida la notificazione del decreto ingiuntivo. Al contrario, la principale ratio decidendi della corte territoriale è stata proprio nel senso di escludere tale invalidità, sotto il profilo tanto della inesistenza quanto della nullità della notificazione.

Il convincimento di validità è stato dal giudice di merito basato sulla considerazione che la notificazione era qui stata eseguita nel luogo di residenza della C., dove il plico era stato materialmente ricevuto da uno stretto familiare (il fratello G.), da presumersi quantomeno temporaneamente convivente con la destinataria. Richiamando l’orientamento di legittimità in materia, la corte di appello ha osservato (sent. appello, pagg. 6-7) che: – la mancata indicazione sull’avviso di ricevimento della raccomandata della qualità di convivente della persona di famiglia che riceve il plico non comporta alcuna nullità allorquando quest’ultimo venga, come nella specie, recapitato presso l’effettivo luogo di residenza del destinatario; – del tutto irrilevante era il fatto che il fratello G. risultasse anagraficamente risiedere altrove, atteso che la sua presenza presso l’abitazione della destinataria al momento del recapito ingenerava quantomeno una presunzione di convivenza temporanea “pur sempre logicamente sufficiente a fondare il buon fine della notificazione”.

L’argomento della invalidità della notificazione – nel senso però della nullità legittimante l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. (nella specie in ogni caso proposta oltre il termine ultimo di 10 giorni dal primo atto di esecuzione) e non della radicale inesistenza con conseguente asserita perdita di efficacia del titolo ex art. 644 c.p.c. – è stato sì affrontato dalla corte di appello, ma solo “ad abundantiam” ed a titolo meramente ipotetico-concessivo (sent.

appello, pag.7: “anche a voler andare di contrario avviso ed a voler seguire la tesi dell’appellante, la notifica del decreto ingiuntivo opposto fondamento dell’azione esecutiva sarebbe nulla e non certo inesistente”).

Ora, la doglianza in esame – tutta protesa ad avvalorare, nell’ambito della invalidità della notificazione, la categoria dell’inesistenza, con conseguente perdita di efficacia del decreto ingiuntivo ex art. 644 c.p.c., invece che quella della nullità ipoteticamente rilevante ex art. 650 c.p.c. – non censura in maniera specifica questa principale ed autonoma ratio decidendi basata, all’opposto, sulla conformità della notificazione in oggetto a quanto disposto dalla L. n. 890 del 1982, artt. 7 e 8, sulla notificazione a mezzo posta.

Essa è, in ogni caso, infondata proprio nel sostenere l’invalidità della notificazione, dal momento che la contraria decisione del giudice di merito è applicativa di un principio pacifico nella giurisprudenza di questa corte, in forza del quale in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, la mancata indicazione della qualità di convivente della persona di famiglia che riceve il piego, sull’avviso di ricevimento della raccomandata, non comporta alcuna nullità. Essendo invece nulla la notifica quando (ma si tratta di fattispecie qui non ricorrente) la persona di famiglia riceva l’atto nel proprio appartamento, diverso da quello della residenza del destinatario dell’atto. (Cass. n. 23578 del 14/11/2007). Nella sentenza n. 23057 del 30/10/2009, questa Corte ha altresì ribadito il principio per cui (in motiv.): “in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, la L. n. 890 del 1982, art. 1, ha introdotto una presunzione di convivenza temporanea del familiare che si sia trovato in casa del destinatario al momento della notifica e abbia preso in consegna l’atto, salva prova contraria, da fornirsi a cura dell’interessato, dell’assenza di qualsiasi, pur temporanea convivenza (Cass. civ., 1^, 20 luglio 2001, n. 9928), ulteriormente precisandosi, in tale prospettiva, che la semplice mancata indicazione della qualità di convivente della persona di famiglia che riceve il piego, sull’avviso di ricevimento della raccomandata, non comporta alcuna nullità” (in termini, anche Cass. n. 9928 del 20/07/2001).

Nella fattispecie, la C. – dando per scontata l’invalidità della notifica – non ha addotto alcun elemento volto a superare, nell’opposta e corretta ottica di validità della stessa, la presunzione di temporanea convivenza col fratello sacerdote.

Quanto al fatto, anch’esso incidentalmente dedotto nello sviluppo della doglianza in esame, che la notificazione sarebbe avvenuta mediante ritiro del plico all’ufficio postale, si rileva anche in tal caso la mancata censura dei passaggi fondamentali del ragionamento della corte territoriale (comunque qui criticato sotto il profilo della violazione di legge, non già della carenza motivazionale), secondo cui: – che il plico fosse stato consegnato a G. “nell’abitazione di C.M.” costituiva un elemento incontroverso di causa (sent. appello, pag. 6); – la mancata sussistenza di un avviso di ricevimento della raccomandata dal quale risultasse la qualità di convivente della persona di famiglia che ritirava materialmente il plico non era rilevante a sostegno della invalidità, posto che la notificazione era stata comunque effettuata con riguardo all’indirizzo di reale residenza del destinatario dell’atto (ivi).

2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la nullità della sentenza della corte di appello e dell’intero procedimento perchè la corte territoriale, pur dopo aver affermato la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo, non aveva poi disposto la rinnovazione dell’atto nullo e di quelli consequenziali (con l’eventuale remissione della causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c.), secondo quanto previsto dall’art. 156 c.p.c. e segg.; così da valutare i motivi di appello alla stregua di motivi di opposizione tardiva al decreto ingiuntivo.

Si tratta di censura logicamente condizionata all’accoglimento del primo motivo di ricorso; invece qui rigettato.

3.1 Con il terzo motivo di ricorso la C. si duole – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non essendosi la corte di appello pronunciata sulla sua eccezione (proposta in primo grado ed implicitamente riproposta anche in appello) di prescrizione del credito della banca ex art. 643 c.p.c., comma 3 e art. 2935 c.c.; atteso che quest’ultima le aveva notificato l’atto di precetto (da lei ricevuto il 1 febbraio 2002) oltre 10 anni dopo la notificazione del decreto ingiuntivo (29 gennaio 92); senza che fosse nella specie invocabile, vertendosi di atto recettizio, il principio di scissione degli effetti della notificazione.

3.2 Si tratta di doglianza inaccoglibile per una preliminare considerazione di natura processuale.

E’ infatti dirimente osservare che l’eccezione di prescrizione nel rapporto diretto tra la banca e la C., proposta e disattesa in primo grado, non venne fatta oggetto di uno specifico motivo di appello, tanto che in nessuna parte della sentenza della corte d’appello si da atto dell’esistenza di uno specifico motivo di gravame sulla prescrizione relativa al rapporto diretto tra la banca e la garante C.. In essa si affronta il problema della prescrizione con esclusivo riguardo al rapporto con il debitore principale C.G. (fatto oggetto del distinto ricorso per cassazione come sopra definito), dall’appellante dedotto a sostegno della sua liberazione per fatto del creditore ex art. 1955 c.c.; è su tale presupposto che la corte di appello ha respinto il motivo di gravame, osservando che il titolo esecutivo nei confronti della C. non era più rappresentato dalla originaria fideiussione, ma dal giudicato formatosi sul decreto ingiuntivo contro di lei ottenuto dalla banca: “il giudicato costituito dalla statuizione recata dal decreto ingiuntivo sorregge di per sè solo la condanna della C. al pagamento dell’ importo ivi indicato ed oggetto dell’odierna esecuzione forzata”. Aggiunge la corte catanese che tale affermazione resterebbe ferma quand’anche il debitore principale ottenesse la caducazione del titolo nei propri confronti, posto che “ciò non avrebbe riflesso sul distinto ed autonomo giudicato formatosi in capo all’odierna appellante (neanche sotto il profilo di cui all’art. 1306 c.c.” (sent. appello, pag. 10).

La stessa ricorrente, d’altra parte, assume che l’eccezione di prescrizione relativa al proprio rapporto diretto con la banca era stata riproposta in appello solo “implicitamente” (ricorso, pag. 18), e dunque non mediante uno specifico mezzo volitivo-argomentativo;

inoltre, allorquando viene ricostruito il secondo motivo di appello (ricorso, pag. 7), è ancora la stessa ricorrente a riferire che esso ebbe ad oggetto proprio e soltanto l’eccezione di prescrizione poi presa in esame dalla corte di appello, vale a dire quella ex art. 1955 c.c.. Salvo aggiungere, ma l’argomento urta con la necessaria specificità del gravame ex art. 342 c.p.c., che in tale motivo “era sottesa, e per continenza ricompresa, l’eccezione di prescrizione decennale del credito” concernente la tardiva notifica del precetto anche nei suoi diretti confronti.

Lungi dal potersi condividere, questo argomento non considera che – al contrario – invocare la liberazione del proprio obbligo di garanzia ex art. 1955 c.c., per mancata possibilità di surrogazione del fideiussore nei diritti del creditore, non solo non sottende, ma confligge, con la deduzione della diversa causa estintiva eventualmente individuabile nella prescrizione nel rapporto diretto di escussione.

Ne deriva pertanto che non di omessa pronuncia si è trattato, bensì di omessa proposizione di uno specifico motivo di gravame concernente un’eccezione in senso stretto.

4. Con il quarto motivo di ricorso la C. si duole di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90 (TUB) in relazione agli artt. 58 e 65 del medesimo TUB, non avendo la corte di appello considerato che l’interveniente volontaria Cross Factor spa non aveva comprovato il possesso dei requisiti per acquistare i crediti derivanti dalla procedura liquidatoria della Sicilcassa spa; con conseguente sua carenza di legittimazione a subentrare nella posizione di quest’ultima.

La doglianza non può essere accolta, dal momento che il motivo di ricorso non indica se questo aspetto di asserita carenza di legittimazione attiva in capo all’interveniente Cross Factor spa sia stato dedotto avanti alla corte di appello (che, su tale punto, ha ritenuto de plano sussistente tale legittimazione, al punto da estromettere dal giudizio Sicilcassa: sent. pag. 4). Sicchè la contestazione per la prima volta in sede di legittimità della inesistenza o, quantomeno, della mancata dimostrazione del possesso dei requisiti per la cessione dei crediti da parte della procedura liquidatoria della banca, deve ritenersi inammissibile. Tanto più che – nella stessa prospettazione della parte ricorrente – si verterebbe comunque non già di legittimazione intesa quale condizione dell’azione, bensì di titolarità del diritto (efficacia ed opponibilità dell’acquisto del credito); e dunque di questione di merito non rilevabile d’ufficio, ma rientrante nella disponibilità delle parti.

Ne segue il rigetto del ricorso, con condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione che si liquidano, come in dispositivo, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed il resto per compenso professionale; oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2014


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 10-11-2014) 18-12-2014, n. 26864

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19637-2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

INTERAUTO SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LIMA 7 INT. 7, presso lo studio dell’avvocato IANNUCCILLI PASQUALE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO SAGLIOCCO giusta delega a margine;

SOCIETA’ EQUITALIA POLIS SPA (già GEST LINE SPA) in persona del responsabile della riscossione della Prov. di Napoli, elettivamente domiciliato in ROMA L.G. FAVARELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO SCIAUDONE giusta delega a margine;

– controricorrenti –

sul ricorso 20332-2009 proposto da:

EQUITALIA POLIS SPA (già GEST LINE SPA) in persona del responsabile dell’Ag. della riscossione per la Prov. di Napoli, elettivamente domiciliato in ROMA VIA FAVARELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SCIAUDONE, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

INTERAUTO SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LIMA 7 INT. 7, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE IANNUCCILLI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO SAGLIOCCO giusta delega a margine;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICO DI NAPOLI (OMISSIS), C.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 101/2008 della COMM.TRIB.REG. della Campania depositata il 23/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/11/2014 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

la Corte riunisce i ricorsi r.g. 19637/09 e 20332/09 perchè contro

la stessa sentenza;

udito per il n. r.g. 19637/09 ricorrente l’Avvocato DE STEFANO che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
1. Il 5 agosto 2005 C.E., quale legale rappresentante della soc. Interauto, impugnò l’intimazione di pagamento notificata dalla concessionaria dei servizi per la riscossione in forza di sentenza che aveva definito violazioni in materia di IVA commesse dalla società contribuente negli anni ’80.

La Contrada denunciò l’omessa notificazione della presupposta cartella, che avrebbe essere effettuata presso il proprio domicilio essendo la soc. Interauto una ditta oramai inattiva.

Nel giudizio di primo grado si costituirono la concessionaria per la riscossione e l’amministrazione finanziaria; dalle loro difese emerse che la notificazione della cartella era stata fatta il 19 dicembre 2001 presso il domicilio della C. (via (OMISSIS)) con le formalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ., ivi compresa la spedizione della raccomandata informativa ivi recapitata e consegnata a mani del fratello C.R..

Il ricorso di Elisa Contrada per la soc. Interauto fu rigettato dalla commissione tributaria provinciale di Napoli. Il primo giudice ritenne regolare la notificazione della cartella perché la raccomandata informativa era stata ricevuta presso l’abitazione della destinatala da persona di famiglia, il che, a prescindere dell’eventuale non convivenza del consegnatario, implicava la presunzione di successiva consegna all’interessata.

2. Costei ha proposto gravame che, con sentenza del 23 giugno 2008, è stato accolto dalla commissione tributaria regionale della Campania.

Il giudice d’appello ha ritenuto che fosse stato violato il precetto della L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 4, riguardo all’omessa specificazione, sull’avviso di ricevimento delle raccomandata informativa, della qualità rivestita dalla persona consegnataria e dell’indicazione di convivenza anche temporanea del familiare.

Prescindendo dal fatto che l’appellante aveva esibito certificazioni attestanti la diversa residenza del fratello, il giudice regionale ha osservato che tutti gli adempimenti richiesti dalla L. n. 890 fossero essenziali per il completamento della fattispecie notificatoria, sicché, in mancanza, la notificazione della cartella fosse da considerarsi nulla.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Agenzia delle entrate (n. 19637/09) ed Equitalia Polis (n. 20332/09) propongono separati ricorsi, affidati rispettivamente a due e quattro motivi. Resiste con controricorsi la soc. Interauto, in persona della l.r. C. E.. Equitalia Polis deposita anche controricorso adesivo al ricorso l’Agenzia delle entrate e confermativo delle ragioni avanzate col proprio autonomo ricorso.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente i due ricorsi, essendo stati proposti avverso la medesima sentenza, vanno riuniti (art. 335 cod. proc. civ.); il primo ha natura processuale di ricorso principale e il secondo ma natura sostanziale di ricorso incidentale.

2. L’Agenzia delle entrate articola due motivi di ricorso principale.

2.1. In primo luogo, denunciando plurime violazioni di norme di diritto (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60; art. 140 cod. proc. civ.;

art. 1335 cod. civ.; L. n. 890 del 1982, art. 7), sostiene che, contrariamente all’assunto del giudice d’appello, l’invio e il recapito della raccomandata informativa prescritta dall’art. 140 cod. proc. civ. sono disciplinati dalle disposizioni regolamentari del servizio postale universale e, quindi, dalla ordinaria disciplina civilistica sulla comunicazione di atti recettizi. Il che comporta, secondo la ricorrente, che l’atto sia stato ritualmente comunicato e abbia raggiunto il suo scopo per il solo fatto che è pervenuto al domicilio della destinataria. Tal effetto si verifica, per la difesa erariale, indipendentemente dal fatto che sull’avviso di ricevimento sia o meno specificato il rapporto di parentela e lo stato di convivenza, anche temporanea, tra la persona destinataria e il soggetto consegnatario, poichè si tratterebbe di indicazioni non previste dalle normali disposizioni regolamentari del servizio postale, applicabili alla raccomandata informativa.

2.2. In secondo luogo, denunciando violazione della legge sulle notifiche a mezzo posta (L. n. 890 del 1982, art. 7), la ricorrente rileva che, secondo la giurisprudenza di legittimità, non è causa di nullità della notificazione la mancata specificazione, sull’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con la persona destinataria. Osserva, in proposito, che il ritiro del plico postale da parte di un familiare rinvenuto nell’abitazione dall’ufficiale postale lascia presumere una situazione di convivenza almeno temporanea.

3. La concessionaria Equitalia Polis, a sua volta, articola quattro motivi di ricorso incidentale. Con il primo, il secondo e il quarto motivo avanza, in buona sostanza, le medesime tesi svolte dall’Agenzia nel suo ricorso.

Inoltre, con il terzo mezzo, sostiene che – atteso l’avvenuto compimento delle formalità prescritte dalla legge cioè deposito, affissione e spedizione della comunicazione (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 140 cod. proc. civ.) – la notifica sarebbe di per sè stessa valida indipendentemente dalla qualifica del soggetto consegnatario della controversa raccomandata informativa.

4. I ricorsi, da esaminarsi congiuntamente per la loro intima correlazione, devono essere accolti nei sensi qui di seguito precisati.

4.1. Premesso che la notificazione della cartella di pagamento è pacificamente regolata dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, va ricordato che il comma 3 prevede che, nelle ipotesi di cui all’art. 140 cod. proc. civ., la notifica della cartella di pagamento si effettua con le modalità fissate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Quest’ultimo richiede il deposito nella casa comunale, oltre che l’affissione dell’avviso alla porta del destinatario e l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento.

4.2. La sentenza n. 3 del 2010 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cit., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione. A seguito di tale sentenza, pertanto, la notificazione effettuata ai sensi di tale disposizione si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione.

La stessa Corte costituzionale, con ordinanza n. 63 del 2011, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 cit., impugnato nella parte in cui dispone che, nei casi d’irreperibilità, la notificazione della cartella di pagamento si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune, non consente che il termine per l’opposizione decorra dalla concreta conoscibilità dell’atto impositivo da parte del destinatario. Sul punto ha censurato l’operato del giudice rimettente che non ha considerato che la sentenza n. 3 del 2010 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 140 cit. laddove prevedeva che la notifica si perfezionasse, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione e non si è posto il problema della tempestività o meno dell’impugnazione della cartella rispetto all’altro momento risultante dalla citata pronuncia di incostituzionalità.

Dunque, la Corte delle leggi ha indicato il percorso ermeneutico obbligato da osservare per un’interpretazione costituzionalmente orientata del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3. Perciò, dovendosi tener conto della sentenza n. 3 del 2010 della stessa Corte costituzionale, la Corte di cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “nell’ipotesi in cui una cartella esattoriale venga notificata ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, e quindi con deposito presso la Casa Comunale, affissione dell’avviso alla porta del destinatario e l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini della tempestività dell’impugnazione della detta cartella il dies a quo della decorrenza del termine deve essere individuato nel giorno del ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata” (Sez. 5, n. 14316 del 28/06/2011).

4.3. Tanto premesso, ai fini del positivo completamento del procedimento notificatorio della cartella nei casi d’irreperibilità temporanea del destinatario, si richiede o il recapito della raccomandata informativa ovvero il semplice decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata stessa.

Tale ultima regola si spiega perché la raccomandata informativa non tiene luogo all’atto da notificare ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, così come analogo avviso è affisso alla porta dell’abitazione, dell’ufficio e dell’azienda. Il che spiega pure il perché tale peculiare recapito non sia soggetto alle disposizioni di cui alla precitata L. n. 890, che si riferisce solo alle notificazioni effettuate col ministero dell’ufficiale giudiziario, il quale si avvalga del servizio postale mediante per la consegna del plico contenente l’atto da notificare a mezzo dell’agente postale. Ciò comporta, per la raccomandata informativa, il solo rispetto di quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria, disciplinata dal D.M. 9 aprile 2001. Esso dispone che “tutti gli invii di posta raccomandata sono consegnati al destinatario o ad altra persona individuata come di seguito specificato, dietro firma per ricevuta” art. 32 e che “sono abilitati a ricevere gli invii di posta presso il domicilio del destinatario, anche i componenti del nucleo familiare, i conviventi e i collaboratori familiari e, se vi è servizio di portierato, il portiere” art. 39. Dunque è sufficiente che sia avvenuta la consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento per l’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro della corrispondenza (Sez. 5, n. 11708 del 27/05/2011). Ne consegue che non è ravvisabile alcun profilo di nullità ove la raccomandata, debitamente consegnata nel domicilio della persona destinatala, sia corredata da avviso di ricevimento sottoscritto da persona ivi rinvenuta, ma della quale non risulti dall’avviso medesimo la qualità o la relazione col destinatario dell’atto, fatta salva querela di falso (Sez. 5, n. 1906 del 29/01/2008; conf. Sez. 6- 5, n. 25128 del 08/11/2013); sicché, la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., è superabile solo se la persona destinataria dia prova di essersi trovata senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione del plico (Sez. 5, n. 15315 del 04/07/2014). Il che, comunque, nella specie non è avvenuto.

4.4. Il giudice d’appello, nell’accogliere le tesi della contribuente appellata, si è completamente discostato dai superiori principi di diritto e la relativa sentenza deve essere cassata senza rinvio potendosi rigettare direttamente il ricorso introduttivo la cui delibazione non richiede ulteriori accertamenti di fatto (art. 384 cod. proc. civ.).

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo tenendo conto del valore della vertenza (Euro 3.906.838,70), dell’apporto difensivo delle parti ricorrenti e della partecipazione della sola difesa erariale alla pubblica udienza di discussione.

Nell’evolversi della vicenda processuale si ravvisano giustificati motivi per la compensazione integrale delle spese dei gradi di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie i ricorsi riuniti (n. 19637/09 e n. 20332/09) nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza d’appello e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente, che condanna alle spese del giudizio di legittimità liquidate a favore dell’Agenzia delle entrate in Euro 20.000,00 per compensi (oltre alle spese prenotate a debito) e a favore di Equitalia Polis in Euro 15.000,00 per compensi (oltre a Euro 200,00 per borsuali e agli oneri di legge); compensa le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2014


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 28/05/2014) 17/12/2014, n. 26501

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27033/2009 proposto da:

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 179, presso lo studio dell’avvocato ZANELLO ANDREA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOTTIGLIONI ROBERTO giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 58/2008 della Commissione tributaria regionale della Liguria, depositata il 06/11/2008;

udita la relazione della, causa svolta nella pubblica udienza del 28/05/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato ZANELLO che si riporta, alle ore 11,15 l’Avv. ZANELLO deposita note di udienza;

udito per il controricorrente l’Avvocato MARCHINI che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. R.F. ricorre, nei confronti del Ministero delle Finanze – che non si è costituito -, per la cassazione della sentenza n. 58 depositata il 6 novembre 2008 con la quale la nona sezione della C.T.R. Liguria, in controversia concernente impugnazione di cartella esattoriale per Irpef relativa all’anno 1997, accoglieva l’appello principale dell’Agenzia e rigettava l’appello incidentale del contribuente ritenendo rituale la notifica del prodromico avviso di accertamento in quanto avvenuta presso il domicilio del contribuente ed a mani di persona che in quel momento si trovava presso l’abitazione e attuava “un comportamento da persona di famiglia”.

L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso notificato in data 30.12.2009 (e in ogni caso redatto in data 28.12.2009).

2. Preliminarmente deve rilevarsi che, alla luce della recente giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 8516 del 2012), il ricorso è da ritenere ammissibile benchè notificato al Ministero delle Finanze dopo il primo gennaio 2001 (perciò quando unico soggetto passivamente legittimato doveva ritenersi l’Agenzia) e benchè l’Agenzia si sia costituita in giudizio oltre il termine perentorio previsto per l’impugnazione (circostanze queste che, secondo la precedente giurisprudenza della quinta sezione civile di questa Corte, avrebbero comportato senz’altro l’inammissibilità del ricorso a causa dell’efficacia sanante solo ex mone della costituzione dell’Agenzia, v. tra le altre Cass. nn. 22992 e 26321 del 2010).

Nella citata decisione le sezioni unite di questa Corte hanno affermato che la L. n. 260 del 1958, art. 4, (a norma del quale l’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato e il giudice deve concedere un termine entro il quale l’atto deve essere rinnovato) è applicabile anche quando l’errore d’identificazione riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (come nella specie il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, facoltativamente difesa dall’Avvocatura dello Stato ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72, e R.D.L. n. 1611 del 1933, art. 43), tuttavia – in forza dell’inviolabile principio del contraddittorio – limitatamente alla prevista rimessione in termine e con esclusione di ogni possibilità di automatica “stabilizzazione”, nei confronti dell’effettivo destinatario, degli effetti dell’atto giudiziario notificato ad altro soggetto.

Ad avviso delle sezioni unite è infatti in tali limiti che va ricondotto a sintesi sistematicamente coerente il contrasto riscontrabile, anche all’interno della giurisprudenza di questa Corte, tra l’orientamento (v. Cass. n. 10.010 del 2011 e n. 6917 del 2005) che reputa l’operatività della L. n. 260 del 1958, art. 4, circoscritta agli errori di identificazione, per così dire, “interni” alle singole soggettività (che incidono, cioè, sull’organo in concreto munito di legittimazione processuale nell’ambito del medesimo soggetto di diritto pubblico), e quello che ritiene la norma applicabile anche agli errori di identificazione incidenti su soggettività distinte (diverse Amministrazioni dello Stato – v. Cass. nn. 1405 del 2003, 8697 del 2001, 10806del 2000, 10890 del 1996 -, e addirittura enti diversi, quali Stato e Regione – v. Cass. nn. 3709 del 2011, 11473 del 2003 e 4755 del 2003 -).

L’adesione al secondo indirizzo è stata ritenuta dalle sezioni unite imprescindibilmente imposta dal rilievo che esso è pienamente compatibile con il complessivo dato letterale e si rivela il solo idoneo a soddisfare la ratio legis, identificabile nell’intento di agevolare l’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale delle pretese vantate nei confronti della pubblica amministrazione, in rapporto alla circostanza che l’esercizio di tale diritto, condizionato dal rispetto di rigorosi termini di decadenza, rischia di essere vanificato nelle non infrequenti ipotesi in cui la concreta individuazione dell’organo investito della rappresentanza dell’amministrazione convenuta ovvero quella del soggetto pubblico passivamente legittimato al giudizio risulti particolarmente ardua.

D’altro canto (considerato anche che l’unitarietà ed inscindibilità dello Stato nell’esercizio della sue funzioni sovrane non elide l’autonomia soggettiva delle persone giuridiche di diritto pubblico, v. Cass. 6917/05), la necessaria effettività del contraddittorio impone che, in relazione agli errori di identificazione incidenti su soggettività diverse (e quindi, in definitiva, sulla stessa legitimatio ad causam), l’operatività della L. n. 260 del 1958, art. 4, sia circoscritta al profilo della rimessione in termine.

Secondo l’insegnamento delle sezioni unite, pertanto, la notifica del ricorso al Ministero delle Finanze invece che all’Agenzia delle Entrate deve comportare non l’inammissibilità del ricorso medesimo ma soltanto la rimessione in termine del ricorrente per rinnovare la notifica all’effettivo destinatario. Nella specie tuttavia tale rimessione non è necessaria essendosi l’Agenzia delle Entrate già costituita in giudizio a mezzo dell’Avvocatura dello Stato (senza peraltro neppure rilevare l’errore di identificazione).

3. Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 39 c.p.c., comma 2, il ricorrente, premesso che l’avviso di accertamento prodromico alla cartella in questa sede impugnata fu notificato presso la sua abitazione a mani di D.V. in qualità di “suocero”, e premesso altresì che il D. non era suo suocero nè con lui convivente, chiede a questa Corte di dire se, per la valutazone della legittimità della notifica dell’avviso di accertamento sulla base del quale è stata emessa l’impugnata cartella esattoriale, ed ai fini della operatività della presunzione di consegna, per “persona di famiglia” possa intendersi qualunque persona si trovi presso l’abitazione ed attui “un comportamento da persona di famiglia” ovvero solo chi sia legato al notificatario da un vincolo formale e giuridicamente cogente di familiarità o affinità.

La censura è fondata.

E’ vero che l’esegesi giurisprudenziale del secondo comma dell’art. 139 c.p.c., ha ampliato il concetto di “persona di famiglia” fino a ricomprendervi non solo i parenti ma anche gli affini ed ha escluso che sia implicito nella previsione codicistica che la “persona di famiglia” cui fa riferimento la norma citata debba convivere col notificatario. E’ vero altresì che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, di provare l’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità su indicate ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario. Occorre tuttavia rilevare che nella specie il destinatario della notifica ha contestato espressamente che colui al quale l’atto fu consegnato, qualificatosi come suocero, fosse un proprio affine e fosse con lui convivente, dimostrando documentalmente le circostanze suddette, come riferito in ricorso e non contestato dalla controricorrente Agenzia.

Tali circostanze peraltro sono date per scontate dalla sentenza impugnata, secondo la quale la notifica in parola è rituale (non perchè non è stata adeguatamente contestata la circostanza, emergente dalla relata, che l’atto fu consegnato al suocero del destinatario rinvenuto presso la sua abitazione, ma) perchè avvenuta a mani di persona che al momento della notifica si trovava presso l’abitazione del contribuente ed attuava “un comportamento da persona di famiglia”.

In tali termini i giudici d’appello hanno ravvisalo la ritualità della notifica sulla base di una condizione di “apparenza” che, se può ritenersi idonea a tale scopo ex ante, alla luce di quanto risultante all’ufficiale giudiziario al momento della notifica, non può certo reggere ex post, a fronte di contestazione e prova contraria fornita dal notificatario.

Nè può peraltro trascurarsi che la notificazione è disciplinata minutamente da una serie di regole il rispetto delle quali consente, all’esito del procedimento del “notum facere”, di considerare convenzionalmente intervenuta la conoscenza degli atti da notificare, indipendentemente dal fatto che una effettiva conoscenza dei medesimi vi sia stata.

La “conoscenza legale” che si raggiunge all’esito del procedimento di notificazione rappresenta dunque un equilibrato compromesso tra l’esigenza di tempi processuali (o comunque “procedimentali”) contenuti e “certi” e l’esigenza di tutela dei diritti dei cittadini, primo fra tutti quello di difesa. L’equilibrio è garantito da una articolata regolamentazione che, con particolare riguardo alla consegna dell’atto da notificare a mani di persona diversa dal destinatario, individua una serie di soggetti che, per i loro legami con il notificatario, consentono di fondare una ragionevole- presunzione di consegna dell’atto, disciplinando anche l’ordine secondo il quale le differenti categorie di soggetti indicati possono venire in considerazione e prevedendo perfino la necessità di ulteriori incombenti quando il legame col destinatario dell’atto non sia ritenuto da solo sufficiente a fondare la suddetta presunzione di consegna (ipotesi di consegna al portiere o al vicino di casa).

Il “rigore” nella individuazione delle categorie di soggetti ai quali è possibile, secondo la previsione normativa, consegnare l’atto da notificare in luogo del destinatario è dunque d’obbligo, ed è pertanto da escludere che, essendo intervenuta documentata contestazione da parte del notificatario, possa considerarsi rituale una notifica pacificamente effettuata non a mani di persona di famiglia bensì a mani di persona “che si comporta come tale”.

Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto accolto, con assorbimento del secondo (col quale la censura di cui al motivo che precede viene prospettata come error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4) e la sentenza impugnata deve essere cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con l’accoglimento del ricorso introduttivo.

Considerato lo sviluppo della vicenda processuale e le circostanze di fatto emergenti dagli atti, si dispone la compensazione delle spese dell’intero processo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo. Compensa le spese dell’intero processo.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2014


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 26/05/2014) 05/12/2014, n. 2577

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5712-2009 proposto da:

EQUITALIA POLIS SPA già GEST LINE SPA in persona del Direttore Operativo pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA ARTURO, che lo rappresenta e difende con procura speciale del Not. Dr. SCOGNAMIGLIO RENATO in SANTANGELO rep. n. 52857 del 30/10/2008;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ CALZATURIFICIO CARMENS SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI ESTE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

sul ricorso 6011-2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ CALZATURIFICIO CARMENS SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 47/2007 della COMM.TRIB.REG. del VENETO depositata il 21/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/05/2014 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;

udito per il n. r.g. 5712/09 ricorrente l’Avvocato BOCCIA delega Avvocato MARESCA che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il n. r.g. 6011/09 ricorrente l’Avvocato DETTORI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sorrentino Federico che ha concluso per l’accoglimento di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
1. Equitalia Polis ricorre per cassazione avverso la sentenza 43/30/07 del 21.1.2008 con la quale la CTR Veneto, in accoglimento dell’appello spiegato dalla contribuente, ha riformato la sentenza di primo grado che ne aveva respinto il ricorso nei confronti di una cartella di pagamento per IVA e Irpeg 1999, dichiarandone la nullità sul rilievo che essa era priva di sottoscrizione e non recava l’indicazione del soggetto responsabile del procedimento.

La CTR ha motivato la propria decisione muovendo dalla considerazione che “il prevalente orientamento giurisprudenziale … individua quale atto amministrativo a tutti gli effetti la cartella esattoriale …

con la conseguenza che la stessa, come previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 deve contenere l’indicazione del responsabile del procedimento”; e da ciò ha tratto la conclusione, con riguardo alla specie in giudizio, che, “poichè l’impugnata cartella di pagamento non reca l’indicazione del funzionario responsabile dell’emanazione dell’atto, nè vi è alcuna sottoscrizione della stessa, non essendovi neppure un contrassegno che impegni la responsabilità del titolare dell’organo, quale la stampigliatura del nome o la firma della persona titolare, la cartella deve intendersi illegittima per la mancanza di requisiti essenziali”.

Il ricorso è affidato a due motivi di gravame.

Analogo ricorso con due motivi è proposto avverso la medesima sentenza anche dalla Agenzia delle Entrate.

In entrambi i pendenti giudizi resiste con controricorso la parte intimata. Equitalia Polis ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
2. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi a mente dell’art. 335 c.p.c., trattandosi di separate impugnazione avverso la medesima sentenza.

3.1. Con il primo motivo di gravame entrambi i ricorrenti censurano l’impugnata sentenza sotto il profilo della violazione e falsa applicazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 per aver dichiarato la nullità della cartella priva di sottoscrizione in quanto “la sottoscrizione deve intendersi quale requisito necessario dell’atto per la sua validità nei soli casi in cui essa sia espressamente richiesta dalla legge” (Equitalia) ovvero “deve ritenersi elemento essenziale solo nei casi in cui sia espressamente prevista dalla legge, dal momento che di regola è sufficiente che dai dati contenuti nella cartella sia possibile individuare con certezza l’autorità da cui proviene” (Agenzia).

2.2. Il motivo è fondato.

Ancorchè nella specie non si renda applicabile ratione temporis il dettato del D.L. n. 78 del 2009, art. 15, comma 7, convertito in L. n. 102 del 2009, in base al quale “la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione dalle norme che disciplinano le entrate tributarie erariali amministrate dalle Agenzie fiscali e dall’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto in tutti i casi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati” (13461/12), corrisponde tuttavia ad un consolidato insegnamento del diritto vivente (1425/13), autorevolmente ribadito tra l’altro dall’ordinanza 21.4.2000, n. 117 della Corte Costituzionale, che attinta proprio sullo specifico rilievo della legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 nella parte in cui non prevedeva che la cartella di pagamento sia provvista di sottoscrizione autografa ha avuto modo di chiarire che “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge”, l’affermazione secondo cui, per un verso, “la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che, di là da questi elementi formali, esso sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo” (4757/09) e, per altro verso, che “la cartella esattoriale prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, come documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, dev’essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, essendo sufficiente la sua intestazione per verificarne la provenienza nonchè l’indicazione, oltre che della somma da pagare, della causale, tramite apposito numero di codice” (14894/08).

La sentenza della CTR qui impugnata oblitera manifestamente il detto principio e va quindi cassata.

3. Il secondo motivo, parimenti comune ad entrambe le parti, denuncia violazione e falsa applicazione di legge e segnatamente della L. n. 212 del 2000, art. 7, in cui la CTR è incorsa per aver dichiarato la nullità dell’opposta cartella mancante dell’indicazione del soggetto responsabile del procedimento, giacchè seppur la norma richiamata concerna anche il concessionario, “è ovvio che la stessa trovi applicazione – e giustificazione – solo nei casi in cui il predetto soggetto responsabile del procedimento sia concretamente in grado, poichè titolare di potere discrezionale del procedimento in itinere di soddisfare le esigenze di tutela del contribuente”, di modo che la prescrizione in parola non si applica agli atti dell’agente della riscossione, atteso che egli è “privo di qualsivoglia potere discrezionale in relazione all’attività svolta” e che la cartella di pagamento è “atto a carattere vincolato”, rispetto al quale l’agente della riscossione è privo di qualsiasi potere di modificazione (Equitalia); ovvero perchè “la mancanza di quest’ultima indicazione non comporta tuttavia la nullità dell’atto, nè tanto meno questa è desumibile dal tenore o dalla ratio della norma”, stante altresì il disposto della L. n. 241 del 1991, art. 5, che della norma statutaria violata costituisce il modello di riferimento, che in difetto di detta indicazione assegna la qualifica di responsabile del procedimento al funzionario preposto all’unità organizzativa che ha emanato l’atto.

3.2. Il motivo è fondato.

Le Sezioni Unite hanno affermato il principio, che si rende esattamente applicabile al caso di specie atteso che l’iscrizione a ruolo di cui qui si discute è avvenuta in epoca antecedente, secondo cui “l’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazione finanziaria non è richiesta, dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 (c.d. Statuto del contribuente), a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter, convertito, con modificazioni, nella L. 28 febbraio 2008, n. 31, applicabile soltanto alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008” (11722/10). Successivamente, questa Corte ha altresì specificato che la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita, come nel caso in esame, a ruoli consegnati ad agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, pur essendo formata in violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, lett. a), non soltanto non è nulla, per le ragioni sopra specificate, ma non è affetta neanche da annullabilità, in quanto la disposizione citata è priva di sanzione e la violazione in questione non incide direttamente sui diritti costituzionali del destinatario, sicchè trova allora applicazione la L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, il quale, allo scopo di sanare con efficacia retroattiva tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa, esclude l’annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma di atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, come nel caso della cartella esattoriale, il suo contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (6395/14; 1425/13; 4516/12).

Ne consegue che non essendosi attenuta a questo principio neppure in parte qua la sentenza impugnata deve essere doverosamente cassata.

4. Non potendo peraltro questa Corte decidere nel merito, in ragione della pregiudizialità delle questioni decise dalla CTR rispetto alle altre portate al suo esame va disposto il rinvio della causa alla medesima che in altra composizione provvederà pure alla liquidazione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie i ricorsi riuniti cassa l’impugnata sentenza e rinvia avanti alla CTR Veneto che in altra composizione provvederà pure alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5^ sezione civile, il 26 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2014


Cass. civ., Sez. VI – 3, Sent., (data ud. 13/11/2014) 28/11/2014, n. 25307

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9719/2013 proposto da:

CO.IN. (OMISSIS), E.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI GRACCHI 209, presso lo studio dell’avvocato DARIO DE BLASIIS, rappresentati e difesi dall’avvocato BRANCATELLI ANTONINO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.C. (OMISSIS), C.R. (OMISSIS), C.A. (OMISSIS), C.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliate in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE, rappresentate e difese dall’avvocato MERLINO NICOLA, giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 203/2012 della CORTE D’APPELLO di MESSINA del 13/03/2012, depositata il 12/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/11/2014 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO.

Svolgimento del processo
1. Ai fini che ancora rilevano nella presente controversia, nel 1996, Ca.Ca. convenne in giudizio E.S. e chiese il risarcimento dei danni. Assunse di essere stato investito, e di aver riportato delle lesioni, da E.S. alla guida di una Alfa Romeo, che sopraggiunse mentre egli cercava di trovare riparo allontanandosi dalla vettura Mercedes ferma a causa di un altro sinistro stradale.

Il C. all’udienza di prima comparizione chiese di integrare il contraddittorio nei confronti della proprietaria dell’Alfa Romeo, Co.In., avendo il convenuto eccepito l’irregolarità del contraddittorio per non essere stata citata la proprietaria del veicolo. Disposta l’integrazione del contraddittorio e rilevato da parte del giudice che non era andata a buon fine, l’attore chiese e ottenne il rinnovo della notifica, che effettuò tempestivamente in mani del figlio convivente della Co., la quale restò contumace.

Il Tribunale di Messina accolse la domanda e condannò, in solido, il conducente e la proprietaria della vettura, al pagamento di oltre Euro 27 mila e accessori.

Il processo di appello, instaurato dalla Co., nel quale l’ E. era restato contumace, venne interrotto per la morte del danneggiato e proseguì nei confronti degli eredi di questi, verso i quali era stato effettuato l’atto di riassunzione del contraddittorio dalla Co..

La Corte di appello di Messina rigettò l’impugnazione (sentenza del 12 aprile 2012).

2. Avverso la suddetta sentenza, la proprietaria ( Co.) e il conducente ( E.) dell’Alfa Romeo propongono un ricorso unico, affidato a due motivi di natura processuale.

I C. resistono con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 153 e 294 c.p.c..

Sotto un primo profilo – riproponendo l’eccezione di nullità dell’integrazione del contraddittorio di primo grado, rigettata dal giudice di appello – sostengono che erroneamente il giudice avrebbe concesso all’attore la possibilità di rinnovare la notifica dell’atto introduttivo di primo grado alla Co. nonostante la prima notifica disposta dal giudice, su richiesta dell’attore danneggiato, non fosse andata a buon fine per colpa del notificante a causa della incompleta trascrizione dell’indirizzo imputabile allo stesso notificante. Secondo i ricorrenti, il giudice, rilevata la mancata correttezza della prima notifica, avrebbe dovuto ritenere estinto il processo trattandosi di litisconsorzio necessario.

La censura non ha pregio e va rigettata.

2.1. Nella specie è pacifico: che si versa in ipotesi di contraddittorio necessario nei confronti del proprietario dell’autovettura; che l’integrazione del contraddittorio fu effettuata nel termine perentorio individuato dal giudice e che la stessa non si perfezionò per via dell’incompleta trascrizione dell’indirizzo del destinatario; che il giudice, richiesto, concesse nuovo termine per l’integrazione, il quale fu rispettato.

La tesi dei ricorrenti, secondo cui il giudice avrebbe erroneamente concesso nuovo termine, atteso che il mancato rispetto del primo termine era dipeso dalla parte e che comunque la parte non aveva dimostrato che il mancato rispetto fosse dipeso da fattori estranei alla sua volontà, non ha pregio.

2.2. In primo luogo deve rilevarsi che i ricorrenti invocano la violazione dell’art. 153 cit. e, sostanzialmente nella parte esplicativa del ricorso, dell’art. 184 bis c.p.c., ora abrogato, ma astrattamente applicabile alla causa ratione temporis, il quale, nel dare rilievo alla non imputabilità rispetto al richiedente della rimessione in termini, disciplina la diversa ipotesi di decadenza per mancato rispetto del termine perentorio. Mentre, nella specie, il termine era stato rispettato, ma l’integrazione del contraddittorio – tempestivamente richiesta – non si era perfezionata.

2.3. Nella specie, quindi, viene in questione la possibilità della rinnovazione dell’atto di integrazione del contraddittorio qualora il termine perentorio assegnato dal giudice sia stato rispettato.

La giurisprudenza di legittimità relativa alla fase dell’impugnazione è costante nell’affermare il principio che “In tema di integrazione del contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c., qualora risultino violate le norme che disciplinano il procedimento di notificazione, la nullità è sanabile attraverso la rinnovazione dell’atto di integrazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c., con fissazione di un nuovo termine anch’esso perentorio, purchè il precedente termine assegnato sia stato rispettato sia pure attraverso una notifica nulla, e non inesistente”. (da ultimo, Cass. 23 dicembre 2011, n. 28640); si ravvisa una nullità sanabile tutte le volte che sia possibile riconoscere nell’atto di integrazione la rispondenza ai modello legale della sua categoria; si ravvisa l’inesistenza quando tale riconduzione non sia possibile o, naturalmente, quando la integrazione non sia stata proprio effettuata (Cass. 7 febbraio 2006, n. 2593; Cass. 6 febbraio 2004, n. 2292).

Peraltro, anche in riferimento al processo di primo grado, si è affermato che “Qualora l’ordine di integrazione del contraddittorio nella fase di primo grado del processo, sia stato dalla parte eseguito nel termine fissato, con la consegna in tempo utile all’ufficiale giudiziario degli esemplari dell’atto da notificare, la eventuale nullità della notificazione dell’atto di integrazione, non rende inesistente o nulla la integrazione e non produce quindi l’estinzione del processo” e il giudice fissa un termine perentorio per rinnovare la notificazione. (Cass. 24 marzo 1971, n. 844).

Nella specie, trattandosi di errore materiale nella trascrizione dell’indirizzo del destinatario, che ne ha reso impossibile il perfezionamento, non può neanche propriamente parlarsi di violazione delle norme che disciplinano il procedimento di notificazione.

2.4. In conclusione, il profilo di censura è rigettato in applicazione del seguente principio di di rito: “In tema di integrazione del contraddittorio a norma dell’art. 102 c.p.c., qualora l’integrazione, effettuata nel rispetto del termine perentorio concesso dal giudice, non si sia perfezionata per incompleta trascrizione dell’indirizzo del destinatario, non viene in rilievo l’art. 184 bis c.p.c. (poi art. 153 c.p.c.) – il quale presuppone l’essere la parte incorsa nella decadenza e, quindi, rispetto alla ipotesi rilevante nella specie, il non aver posto in essere l’atto di integrazione o l’aver effettuato un atto di integrazione qualificabile come inesistente – ma è applicabile l’art. 291 c.p.c., trattandosi di un vizio assimilabile alla violazione delle norme che disciplinano il procedimento di notificazione, con conseguente fissazione di un termine perentorio per rinnovare l’integrazione del contraddittorio”.

3. Sotto un secondo profilo, per la verità non collegato alle norme censurate, si sostiene la nullità della notificazione alla Co. (quella rinnovata) perchè il figlio non era convivente, ma presente nell’abitazione solo occasionalmente.

3.1. Il profilo è inammissibile.

La sentenza non si pronuncia su tale questione e nel ricorso non si deduce di averla dedotta con l’appello, con conseguente novità.

Peraltro, sarebbe manifestamente infondato, atteso che “In tema di notificazioni, la consegna dell’atto da notificare a persona di famiglia, secondo il disposto dell’art. 139 c.p.c., non postula necessariamente nè il solo rapporto di parentela – cui è da ritenersi equiparato quello di affinità – nè l’ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell’atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando, all’uopo, sufficiente l’esistenza di un vincolo di parentela o di affinità che giustifichi la presunzione che la persona di famiglia consegnerà l’atto al destinatario stesso; resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo”. (Cass. 15 ottobre 2010, n. 21362).

4. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 101 e 292 c.p.c., e art. 125 disp att. c.p.c..

Rilevato che la riassunzione del processo di appello – interrotto per morte del danneggiato – effettuata impersonalmente nei confronti degli eredi di questo, non era stata notificata dall’appellante Co. all’altro appellato ( E., guidatore) contumace, mentre tale notifica sarebbe stata necessaria per il radicale mutamento della preesistente situazione processuale, i ricorrenti Co. ed E. deducono la nullità del giudizio per violazione del contraddittorio (potendo avere l’appellato contumace interesse a far valere eccezioni processuali da opporre ai nuovi soggetti), che avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio dal giudice.

4.1 Il motivo è inammissibile.

I ricorrenti invocano una violazione processuale senza rispettare l’art. 366 c.p.c., n. 6, non riportando, per la parte di interesse, l’atto processuale di riassunzione che avrebbe omesso tra i destinatari il conducente contumace in appello. Anche considerando che nella sentenza non vi è cenno di tale omessa notifica, affermandosi genericamente che il processo veniva riassunto nei confronti degli eredi del danneggiato, la Corte non è posta in grado di verificare la decisività della censura.

Si consideri, inoltre, che il ricorrente interessato ( E.) pur invocando quella giurisprudenza che da rilievo all’interesse del contumace ad essere informato in presenza di variazioni soggettive del giudizio, si limita a richiamare i motivi di possibile interesse senza indicare specificamente quelli che avrebbe potuto far valere nel processo di appello se fosse stato informato, senza, quindi, indicare l’interesse concreto all’accertamento della eventuale nullità.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate sulla base dei parametri vigenti.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore dei contro ricorrenti, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 13 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2014


Cass. civ. Sez. VI – 3, Sent., (ud. 13-11-2014) 27-11-2014, n. 25215

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6302/2013 proposto da:

G.B. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati RAGOZZINO RENATO, GIULIANA SCARICABAROZZI giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

ALLIANZ SPA, in persona del procuratori elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE “(OMISSIS)”, AZIENDA OSPEDALIERA CTO – CRF (OMISSIS);

– intimate –

avverso la sentenza n. 1476/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO del 21/12/2011, depositata il 13/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/11/2014 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato Renato Ragozzino difensore della ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Giorgio Spadafora difensore della controricorrente che si riporta agli scritti ed insiste per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. G.B. convenne in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale “(OMISSIS)”, già AUSL n. (OMISSIS) di Vercelli, e l’Azienda Ospedaliere C.T.O. – CRF (OMISSIS) e chiese il risarcimento dei danni materiali e non materiali conseguenti alla responsabilità sanitaria dei medici. Il giudizio di primo grado, nel quale l’Azienda Ospedaliera C.T.O. aveva chiamato in manleva l’Allianz spa, si concluse con la condanna della ASL di Vercelli al pagamento di Euro 4.000,00 a titolo di danni morali, nonchè della Azienda ospedaliera al risarcimento a vario titolo per oltre Euro 45 mila, e con l’accoglimento della domanda di manleva.

La Corte di appello di Torino, in parziale riforma della decisione di prime cure, condannò l’ASL di Vercelli al pagamento di quasi Euro 8.000,00, oltre accessori, a titolo di danno biologico temporaneo, escludendo la condanna a tale titolo della Azienda ospedaliera, con conseguente riduzione della manleva; confermò per il resto la decisione (sentenza del 13 settembre 2012).

2. Avverso la suddetta sentenza, la G. propone ricorso per cassazione con unico motivo.

L’Allianz spa resiste con controricorso e deduce preliminarmente l’inammissibilità.

Nelle memorie, presentate dalle parti costituite, viene discusso il profilo della inammissibilità del controricorso della Allianz per essere stato notificato presso la cancelleria della Corte di cassazione, nonostante l’indicazione nel ricorso della posta elettronica certificata (PEC).

Le altre parti, ritualmente intimate, non svolgono difese.

Motivi della decisione
1. Preliminare è l’esame della eccezione di inammissibilità del controricorso, formulata dalla difesa della ricorrente con la memoria illustrativa, sul rilievo che la notificazione dell’atto è stata effettuata presso la cancelleria di questa Corte, e ciò nonostante che nel ricorso fosse indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata.

1.1. L’eccezione non è fondata.

Nel ricorso, gli avvocati – muniti di procura speciale per rappresentare e difendere la parte sia congiuntamente che disgiuntamente – hanno dichiarato “ai sensi degli artt. 136 e 170 c.p.c….di accettare le comunicazioni loro inviate dalla cancelleria all’utenza telefax….ovvero all’indirizzo di posta elettronica certificata……con domicilio eletto a Milano,….presso lo studio dei…difensori”.

Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2, (nel testo introdotto dalla L. n. 183 del 2011, applicabile ratione temporis, trattandosi di ricorso notificato nel marzo 2013) “se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione”.

Quindi, la notificazione del controricorso può essere validamente effettuata presso la cancelleria della Corte di cassazione se manca la elezione del domicilio in Roma da parte del ricorrente e se questi non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata. La domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio consegue solo ove il difensore non abbia indicato l’indirizzo suddetto. Mentre, se tale indicazione sussiste la notificazione del controricorso deve essere effettuata nella forma telematica (Cass. 28 novembre 2013, n. 26696; Sez. Un. n. 10143 del 2012).

Nella specie, è pacifico che la ricorrente non aveva eletto domicilio a Roma e, ritiene il Collegio, che non sia stato indicato in ricorso l’indirizzo di posta elettronica certificata, richiesto dall’art. 366 cit. ai fini delle notificazioni. Infatti il riferimento alla PEC è fatto nell’intestazione del ricorso – peraltro solo in riferimento ad uno dei difensori – ai soli fini delle comunicazioni di cancelleria. E, mentre la indicazione della PEC senza ulteriori specificazioni è idonea a far scattare l’obbligo per il notificante di utilizzare la notificazione in forma telematica, non altrettanto può dirsi nel caso di inequivocabile riferimento alle sole comunicazioni inviate dalla cancelleria.

Consegue che il controricorso, notificato presso la cancelleria di questa Corte sul presupposto della sussistenza di entrambi i requisiti della mancata elezione di domicilio e della mancata indicazione della posta elettronica certificata, va dichiarato ammissibile.

1.2. Deve aggiungersi che, comunque, anche ipotizzando la irritualità della notifica così effettuata, la nullità non potrebbe essere dichiarata stante il raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 3), atteso che il ricorrente ha riconosciuto di aver avuto conoscenza del controricorso (ottenuto via fax dalla cancelleria della Corte di cassazione) (Cass. 18 giugno 2014, n. 13857).

2.Con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 2043 c.c., quale omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di gravame e di discussione tra le parti, costituito dalla mancata liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, quale danno distinto dal danno biologico e dal danno non patrimoniale.

Nella parte esplicativa, la ricorrente/danneggiata richiama gli atti processuali del processo di appello nei quali aveva chiesto la liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, in via autonoma dal danno biologico, che assorbirebbe solo la perdita della capacità lavorativa generica. Sostiene che la Corte di merito, omettendo di esaminare tale profilo di impugnazione, avrebbe violato l’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’”attuale formulazione”, avendo omesso di esaminare un fatto principale costitutivo di un diritto, così non esaminando uno specifico profilo di danno il cui esame era stato sollecitato con l’impugnazione.

Il motivo è inammissibile.

2.1. E’ applicabile ratione temporis l’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato nel 2012, atteso che la sentenza impugnata è stata depositata il 13 settembre 2012.

E, tuttavia, il motivo è inammissibile a prescindere dalla nuova formulazione della norma in argomento.

Di recente, le Sez. Un. hanno affermato il principio secondo cui “Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge”. (24 luglio 2013, n. 17931).

2.2. Nella specie, ai fini della inammissibile invocazione dell’art. 360, n. 5 cit. rileva, non la mancanza del richiamo formale all’art. 112 c.p.c., ma, lo svolgersi di tutta la parte esplicativa del motivo quale mancanza di motivazione sulla censura di appello, con violazione della legge sostanziale (art. 2043 c.c.), che avrebbe imposto la liquidazione della voce di danno da perdita della capacità lavorativa specifica. Argomentazioni che si accompagnano alla totale assenza di ogni riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, la quale costituisce, invece, la peculiarità della violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla domanda.

Ne consegue la indeterminatezza e la mancanza di specificità della censura, con conseguente violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, che consente il ricorso di legittimità solo nell’ambito di una griglia vincolata secondo le previsioni del legislatore.

3. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate sulla base dei parametri vigenti nei confronti della controricorrente.

Non sussistono i presupposti per la liquidazione delle spese nei confronti delle parti che non si sono difese.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della contro ricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 13 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2014


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 17/07/2014) 26/11/2014, n. 25079

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Equitalia Centro spa, quale incorporante Equitalia Emilia Nord spa (già denominata S.E.I.T. Parma spa), in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma Via Monte delle Gioie 13, presso lo studio dell’Avv.to VALENSISE CAROLINA, che la rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente al’l’Avv.to Mara Lodi, in forza di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliato in Roma Viale Giuseppe Mazzini 113, presso lo studio dell’Avv.to PAGNOTTA NICOLA, che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.;

– intimato –

e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente e ricorrente Incidentale –

e sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– ricorrente –

contro

B.B.;

– intimato –

e Equitalia Centro spa, quale incorporante Equitalia Emilia Nord spa (già denominata S.E.I.T. Parma spa), in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma Via Monte delle Gioie 13, presso lo studio dell’Avv.to Carolina Valensise, che la rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’Avv.to Mara Lodi, in forza di procura speciale a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1-62/22/2007 della Commissione Tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, Sezione Staccata di Parma, depositata il 26/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/07/2014 dal Consigliere Dott. Giulia Iofrida;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
La società Equitalia Emilia Nord spa (già denominata S.E.I.T. Parma spa), agente della riscossione, da un lato, e l’Agenzia delle Entrate, dall’altro, propongono separati ricorsi per cassazione, affidati, il primo, ad un motivo, il secondo, a tre motivi, nei confronti, rispettivamente, di B.B., dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (ricorso n. 7121/2009) e di B.B. ed Equitalia Emilia Nord spa (già Seit Parma spa), (ricorso n. 9334/2009), avverso la stessa sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, Sez. Staccata di Parma, n. 162/22/2007, depositata in data 26/02/2008, con la quale – in una controversia concernente lrimpugnazione di una cartella di pagamento, emessa a seguito di controllo formale, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 ter, della dichiarazione dei redditi Modello Unico 2001, in relazione a maggiore IRPEF dovuta dal contribuente B.B., stante il disconoscimento della deducibilità di un importo versato a titolo di assegno divorzile, per l’anno d’imposta 2000 – è stata confermata la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso del contribuente.

Il contribuente aveva impugnato la cartella, eccependo la nullità assoluta della sua notifica (effettuata in data 21/01/2005, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., a mezzo di affissione all’Albo Pretorio del Comune di Parma, residenza anagrafica del medesimo, essendo risultato il destinatario dalla relata dell’ufficiale postale “trasferito”), nonchè, nel merito, l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo per violazione del disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 ter, e carenza del presupposto impositivo.

I giudici della C.T.P. di Parma avevano ritenuto fondata l’eccezione pregiudiziale di nullità assoluta della notifica della cartella esattoriale, effettuata dall’agente per la riscossione. I giudici d’appello, nel respingere gli appelli della SEIT e dell’Agenzia delle Entrate, hanno sostenuto che la notifica della cartella esattoriale, ex art. 140 c.p.c., non poteva ritenersi ritualmente avvenuta e dovesse essere qualificata come “inesistente ed in nessuno modo sanabile”, in quanto, a fronte della restituzione al mittente della raccomandata, contenente l’avviso di affissione all’Albo pretorio del Comune di Parma, con “la dizione “trasferito”, erroneamente appostatavi dall’ufficiale postale” (tanto che, a seguite di ulteriori verifiche, era “risultato che il B.B. non aveva mai variato la propria residenza”), l’agente della riscossione, anzichè rimanere inerte, avrebbe dovuto procedere “alla rinnovazione della notifica” (avendo scelto invece di inoltrare una semplice lettera di sollecito, “regolarmente notificata al contribuente alla stessa residenza”), non essendo il contribuente “senza sua colpa” venuto a conoscenza dell’atto impostivo al fine di poter proporre una tempestiva impugnazione.

Nel ricorso n. 7121/2009, le parti intimate B. ed Agenzia delle Entrate hanno depositato controricorsi. L’Agenzia delle Entrate ha. depositato altresì ricorso incidentale, affidato a tre motivi, cui ha replicato, con controricorso, la ricorrente Equitalia. La Equitalia Centro spa, incorporante Equitalia Emilia Nord, ha pure depositato memoria, ex art. 378 c.p.c..

Nel ricorso n. 9334/2009, ha depositato controricorso la sola Equitalia Emilia Nord spa, ora Equitalia Centro spa.

Motivi della decisione
Vanno preliminarmente riuniti i due ricorsi nn. 7121/2009 e 9334/2004 ed il ricorso incidentale dell’Agenzia delle Entrate, trattandosi di ricorsi proposti avverso la medesima sentenza, ex art. 335 c.p.c..

Sempre in via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto da Equitalia anche nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione passiva, non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nel giudizio di appello svoltosi avanti la C.T.R. della Emilia-Romagna, in data successiva all’I.1,2001 (subentro delle Agenzie fiscali a titolo di successione particolare ex lege nella gestione dei rapporti giuridici tributar pendenti in cui era parte l’Amministrazione statale), con conseguente implicita estromissione della Amministrazione statale ex art. 111 c.p.c., comma 3, (cfr. Cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e 3118).

La ricorrente Equitalia lamenta l’erronea interpretazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, dovendo ritenersi che, in ipotesi di notifica di un atto non processuale, quale la cartella esattoriale, debbano essere salvaguardati, a fronte dell’avvenuta impugnazione da parte del contribuente della cartella di pagamento o di un atto ad essa successivo, gli effetti del comportamento del concessionario per la riscossione, il quale, correttamente, abbia effettuato la notifica del suddetto atto, ex art. 140 c.p.c., all’indirizzo, rimasto invariato, costituente la residenza anagrafica del contribuente, ed abbia successivamente compiuto le formalità, prescritte in assenza temporanea del destinatario, del deposito di un avviso presso la casa comunale e dell’affissione all’albo pretorio.

Ad avviso di Equitalia, infatti, il successivo errore, dell’agente postale nella consegna della raccomandata, contenente l’informativa al destinatario del deposito e dell’affissione suddetti, con indicazione, sulla relata, dell’avvenuto “trasferimento” del destinatario, pur essendo invece corretto ed invariato l’indirizzo, e conseguenti mancato recapito al destinatario e restituzione al Concessionario mittente, integra un vizio comunque sanato dall’impugnazione del contribuente.

L’Agenzia ricorrente lamenta, a sua volta, nel ricorso principale n. 9334/2009 e nel ricorso incidentale al ricorso n. 7121/2009: 1) con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 140 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per avere i giudici della Commissione Tributaria Regionale ritenuto inesistente la notifica della cartella, pur effettuata in conformità al disposto dell’art. 140 c.p.c., e D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, non essendo necessario, ai fini della validità del procedimento notificatorio, che la raccomandata, con la quale viene data comunicazione, al destinatario della notifica, del deposito dell’atto presso la Casa comunale, venga effettivamente ricevuta dal medesimo, essendo necessaria soltanto la sua spedizione presso la residenza anagrafica, lo stesso luogo nel quale l’Ufficiale giudiziario aveva lasciato l’avviso; 2) cori il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 140, 156 e 160 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per avere comunque i giudici d’appello ritenuto addirittura inesistente anzichè nulla detta notifica, pur non essendo stato l’atto notificato in luogo privo di qualsiasi collegamento con il destinatario; 3) con il terzo motivo, sempre ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 ter, D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26, L. n. 212 del 2000, art. 7, dovendo ritenersi, in ogni caso, che la nullità del procedimento notificatorio fosse stata sanata dalla proposizione, da parte del contribuente, del ricorso giurisdizionale, non avendo lo stesso eccepito l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere impositivo.

Tutti i motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

Va premesso che il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, prevede che, nelle fattispecie di cui all’art. 140 c.p.c., (irreperibilità c.d. relativa del destinatario o rifiuto di ricevere la copia nei luoghi di residenza, dimora o domicilio, noti ed esattamente individuati, dovendo altrimenti osservarsi il disposto dell’art. 143 c.p.c.), la notifica della cartella di pagamento si effettui con le modalità fissate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (“lett. e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c., si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione”).

La notifica, secondo l’art. 26 citato, “si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 3 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., disposizione richiamata dall’art. 26 citato, nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione. A seguito di tale sentenza, pertanto, la notificazione effettuata ai sensi di tale disposizione si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione (Cass. 14316/2011).

La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 258/2012, ha dichiarato inoltre l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 3, (corrispondente all’attualmente vigente comma 4), nella parte in cui stabilisce, per L’appunto, che la notificazione della cartella di pagamento “nei casi pxevisti dall’art. 140 c.p.c. … si esegue con le modalità stabilite dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60”, anzichè “nei casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario… si esegue con le modalità stabilite dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, alinea e lett. e)”.

I giudici della Consulta hanno infatti evidenziato che, nell’ipotesi di irreperilpilità meramente “relativa” del destinatario (vale a dire, nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c., come recita il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3), la cartella di pagamento andrebbe notificata, secondo la lettera della disposizione, applicando, in realtà, non l’art. 140 c.p.c., ma le formalità previste per la notificazione degli atti di accertamento a destinatari “assolutamente” irreperibili (lettera e) del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1) e che pertanto, a differenza di quanto previsto per la notifica dell’avviso di accertamento, per la validità della notificazione della cartella, “nonostante che il domicilio fiscale sia noto ed effettivo”, non Sarebbero “necessarie… nè l’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, nè la comunicazione del deposito mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento”, essendo prevista solo l’affissione nell’albo del Comune, secondo modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella (sul modello di quanto previsto dall’art. 143 c.p.c.), con evidente disparità di trattamento di situazioni omologhe e violazione dell’art. 3 Cost..

La Consulta ha quindi ritenuto necessario “restringere” la sfera di applicazione del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea e lett. e), “alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile e, quindi, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, previsto dall’art. 140 c.p.c.”, cosicchè, nei casi di “irreperibilità c.d. relativa” (cioè nei casi di cui all’art. 140 c.p.c.), va invece applicato, con riguardo alla notificazione delle cartelle di pagamento, il disposto dello stesso D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., in forza del quale “per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni del predetto D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60” e, quindi, in base all’interpretazione data,a tale normativa dal diritto vivente, quelle dell’art. 140 c.p.c., cui anche rinvia l’alinea del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1.

Pertanto, le disposizioni sopra richiamate richiedono effettivamente, per la validità della notificazione della cartella di pagamento, effettuata nei casi di irreperibilità c.d. relativa del destinatario, quali disciplinati dall’art. 140 c.p.c., l’inoltrò al destinatario della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la Casa – comunale e la sua effettiva ricezione, non essendo, per tale modalità di notificazione degli atti, sufficiente la sola spedizione.

Il perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., necessita dunque del compimento di tutti gli adempimenti stabiliti da tale norma, con la conseguenza che, in caso di omissione di uno di essi la notificazione è da considerarsi nulla.. La notificazione, è invece inesistente quando essa manchi del tutto ovvero sia stata effettuata in modo assolutamente non previsto dalla legge, come, ad es., nel caso sia avvenuta in un luogo o con riguardo a persona che non abbiano attinenza alcuna (o che non presentino alcun…. riferimento o collegamento) con il destinatario della notificazione stessa, risultando a costui del tutto estranea.

Orbene, nella specie non sono stati effettuati tutti gli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., per il perfezionamento del procedimento notificatorio, atteso che la raccomandata, contenente la notizia del deposito presso la casa comunale dell’atto impositivo (non consegnato al contribuente per una sua irreperibilità c.d.

relativa), a causa di un errore dell’ufficiale postale, il quale apponeva sulla relata la dicitura “trasferito” riferita al destinatario, pur essendone rimasta invariata la residenza, non perveniva nella sfera di conoscenza di quest’ultimo e veniva restituita al mittente.

In definitiva, la notifica della cartella di pagamento è stata effettuata senza il rispetto di tutte le prescrizioni dettate dalla normativa operante nei casi di irreperibilità c.d. relativa del destinatario dell’atto.

E’ stato altresì accertato dai giudici di merito (ed è comunque pacifico) che il B. ha avuto conoscenza del carico tributario iscritto a ruolo (che risultava notificato “in data 20/01/2005, ai sensi dell’art. 140 c.p.c.”, con le modalità sopra descritte) solo nel maggio 2005, a seguito di ricezione di un “sollecito di pagamento” da parte del Concessionario S.E.I.T..

Ora, questa Corte ha già affermato (Cass. 4308/1992; Cass. 11156/1996; Cass. 5100/1997), con riguardo alla notificazione dell’avviso di accertamento in materia di imposte sui redditi, che, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, la notificazione “è ritualmente eseguita mediante deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune – senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del comune di domicilio fiscale – soltanto nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificante deve svolgere nell’ambito del detto comune, in esso non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente; nel caso invece di mancato rinvenimento del contribuente o di altra persona capace e disposta a ricevere l’atto nel luogo di effettiva abitazione o ufficio o azienda del contribuente nel comune di domicilio fiscale, la notificazione và eseguita per intero a norma dell’art. 140 c.p.c., con tutti gli adempimenti ivi prescritti (deposito di copia dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione, spedizione della raccomandata), che sono tutti essenziali per il compimento e la costituzione della stessa fattispecie notificatoria”, con la conseguente “inesistenza” della notificazione “eseguita direttamente a norma dell’art. 140 c.p.c., mediante il solo deposito nella casa comunale ed affissione nel relativo albo, senza che dalla, relata risulti lo svolgimento di ricerche che abbiano accertato la mancanza nel comune dell’effettiva abitazione – o ufficio o azienda del contribuente”.

Risulta pertanto corretta la decisione dei giudici d’appello, in punto di inesistenza della notifica, in quanto effettuata con modalità non conformi allo schema legale tipico.

In ordine poi al profilo, eccepito sia da Equitalia sia dall’Agenzia delle Entrate, relativo all’intervenuta sanatoria del vizio di notificazione della cartella esattoriale, per effetto dell’impugnazione comunque proposta, nel dicembre 2005, dal contribuente, occorre rilevare che, da un lato, non può parlarsi di “raggiungimento dello scopo dell’atto”, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., (alla luce di quanto affermato da queste S.U. nella sentenza del n. 19854 del 2004, relativamente anche alle ipotesi in cui la nullità dell’atto impositivo attenga alla sua notificazione), avendo il B. avuto conoscenza dell’esistenza del ruolo soltanto a seguito della notifica di un successivo e distinto sollecito di pagamento, da parte del concessionario per la riscossione, e che, dall’altro lato, lo stesso Concessionario aveva, in giudizio, eccepito la tardività dell’impugnazione del contribuente, in quanto proposto oltre i termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21.

Al riguardo, questa Corte ha, con consolidato orientamento, affermato che “la nullità della notificazione dell’atto impositivo è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per effetto del raggiungimento del suo scopo, il quale, postulando che alla notifica invalida sia comunque seguita la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad òpera di quest’ultimo, dell’atto invalidamente notificato” (Cass.1238/2014;

Cass. 1088 e 17251/2013; Cass. 15849/2006; Cass. S.U. 19854/2004).

I ricorsi riuniti vanno pertanto respinti.

Le spese processuali, considerate tutte le peculiarità della concreta fattispecie, vanno integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.
La Corte, riunito al ricorso n. 7121/2009 il ricorso incidentale e quello n. 9334/2009, rigetta tutti i ricorsi riuniti; dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2014


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 09-10-2014) 13-11-2014, n. 24260

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – rel. Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

Riscossione Sicilia s.p.a., in persona del legale rapp.te pro tempore, elett.te dom.to in Roma, alla via Tibullo 20, presso lo studio dell’avv. Tarantino Maria, rapp.to e difeso dall’avv. Di Salvo Giovanni, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

B.G., elett.te dom.to in Roma, alla via Arbia 15, presso lo studio dell’avv. Sernicola Maria Rosaria, rapp.to e difeso, unitamente all’avv. D’Asaro Giacomo, giusta procura in atti;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia n. 87/1/2012 depositata il 28/6/2012;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 9/10/2014 dal Dott. Marcello Iacobellis;

Udito l’avv. Di Salvo per la ricorrente e l’avv. D’Asaro per il controricorrente.

Svolgimento del processo
La controversia promossa da B.G. contro Riscossione Sicilia s.p.a. è stata definita con la decisione in epigrafe, recante il rigetto dell’appello proposto dalla Società contro la sentenza della CTP di Palermo n. 41/10/2009 che aveva accolto il ricorso avverso gli avvisi di intimazione n. (OMISSIS).

Il ricorso proposto si articola in unico motivo. Resiste con controricorso il contribuente.

Il relatore ha depositato relazione ex art. 380 bis c.p.c.. Il presidente ha fissato l’udienza del 9/10/2014 per l’adunanza della Corte in Camera di Consiglio. Le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Assume la ricorrente la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. E) e dell’art. 140 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Contrariamente a quanto affermato dalla CTR, la notifica delle cartelle di pagamento ex art. 60 cit – avvenuta nel 2001 e nel 2002 – sarebbe stata rituale, vertendosi in ipotesi di irreperibilità assoluta, come attestato dal certificato di residenza storica rilasciato nel 2008, allegato fin dal primo grado di giudizio.

La censura è infondata. Questa Corte ripetutamente ha affermato (Sez. 5, Sentenza n. 16696 del 03/07/2013; Sez. 5, Sentenza n. 14030 del 27/06/2011) che la notificazione degli avvisi e degli atti tributali impositivi, nel sistema delineato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, va effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perchè questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all’art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perchè risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov’è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune.

Orbene l’affermazione della CTR secondo cui “in ogni caso la procedura disciplinata dalla norma mentovata non esclude la formalità di cui all’art. 140 c.p.c.” non è di per sè sufficiente a determinare la cassazione della decisione sulla base dell’assunto vizio, avendo la CTR altresì affermato che “manca la prova che all’atto della notificazione delle cartelle (2001,2002) fosse già acclarata siffatta posizione del contribuente”.

Tale affermazione risulta conforme a diritto dovendo escludersi che l’attestazione circa l’irreperibilità o il trasferimento in altro comune possa essere fornita dalla parte, nel corso del giudizio, laddove il messo notificatore abbia attestato la sola irreperibilità, senza ulteriore attestazione in ordine alle ricerche compiute “per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune”. Inammissibile è altresì il riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 contenuto nella rubrica della censura non essendo specificato il fatto controverso. Consegue da quanto sopra il rigetto del ricorso.

Le circostanze che caratterizzano la vicenda giustificano la compensazione delle spese. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso compensando tra le parti le spese del giudizio. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2014


Cass. civ., Sez. Unite, Ord., (data ud. 15/07/2014) 06/11/2014, n. 23675

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente di sez. –

Dott. RORDORF Renato – Presidente di sez. –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24468-2012 proposto da:

G.L.P. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato SASSANI BRUNO NICOLA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIA PAJANI, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

STEDA S.P.A., in persona del Presidente pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARZI MASSIMO FILIPPO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE MAIOLINO, SEBASTIANO ARTALE, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento definitivo del TRIBUNALE di UDINE depositato il 24/09/2012, r.g. n. 1555/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

uditi gli avvocati Bruno Nicola SASSANI, Massimo Filippo MARZI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 28.03.2012 Steda s.p.a. ha chiesto al Tribunale di Bassano del Grappa che fosse ingiunto a G.LP. s.r.l. il pagamento della somma di Euro 664.604,81 a titolo di corrispettivo di contratto di appalto, variazioni richieste dal committente e svincolo di ritenute. La società ingiunta ha proposto opposizione chiedendo in riconvenzionale la risoluzione del contratto e la condanna di Steda s.p.a. al risarcimento dei danni per vizi e difetti dell’opera nonchè per ritardo nell’adempimento, domande già proposte dinanzi al Tribunale di Udine con atto di citazione consegnato all’ufficiale giudiziario il 19.03.2012 per la notifica, il cui procedimento si perfezionava con la compiuta giacenza il 7 aprile 2012. Il Tribunale di Udine, con ordinanza del 24 settembre 2012, ritenuta la sussistenza di un rapporto di continenza tra le due cause, declinava la competenza in favore del Tribunale di Bassano del Grappa, identificato come giudice previamente adito sulla base della considerazione che, nelle cause introdotte con citazione, la pendenza della lite è determinata dal momento del perfezionamento della notificazione per il destinatario, mentre nelle cause introdotte con ricorso la lite deve ritenersi pendente dal momento del deposito del ricorso.

G.L.P. s.r.l. ha impugnato la suddetta ordinanza con istanza di regolamento di competenza contestando (col primo motivo) l’omessa applicazione del principio della scissione soggettiva del perfezionamento della notificazione ai fini della litispendenza e della continenza, con violazione degli artt. 39, 149, 156 nonchè art. 643 c.p.c. in relazione agli artt. 25 e 111 Cost. e (col secondo motivo) la competenza del Tribunale di Bassano del Grappa in sede monitoria, condizione necessaria per l’attrazione dinanzi ad esso della causa pendente presso al Tribunale di Udine.

Steda s.p.a. ha resistito ai sensi dell’art. 47 c.p.c. opponendosi all’accoglimento del ricorso. Il requirente Sostituto P.G. ha concluso ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c. per il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie.

La sesta sezione civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 22454 del 1 ottobre 2013, ha invocato – ai sensi dell’art. 374 c.p.c., commi 2 e 3 – l’intervento chiarificatore di queste sezioni unite sulla questione relativa alla individuazione del momento di pendenza della lite, ai fini dell’applicazione del criterio di prevenzione di cui all’art. 39 c.p.c., u.c. con riguardo ai procedimenti introdotti con citazione.

In particolare, nell’ordinanza di rimessione, preso atto che su questione omologa si sono già recentemente pronunciate queste sezioni unite con sentenza n. 9535 del 2013 affermando che la litispendenza con riferimento a procedimento introdotto con citazione coincide col momento di perfezionamento della notificazione del relativo atto per il destinatario, si è ritenuto che “la delicatezza della conseguenza di una simile estensione ed i dubbi….. sulla persuasività di tale generalizzazione ed ancor prima sul presupposto stesso da cui muovono le sezioni unite in ordine alla ricostruzione del significato delle decisioni del giudice delle leggi che hanno sancito il principio della rilevanza dei due distinti momenti” rendano preferibile sollecitare un nuovo intervento delle sezioni unite anche al fine di chiarire: a) se, alla luce degli interventi del legislatore e della Corte costituzionale in materia, l’individuazione del momento di perfezionamento della notifica per il notificante operi solo per impedire una decadenza a suo carico o comunque al fine di valutare la tempestività di un suo adempimento, rilevando invece a tutti gli altri effetti il momento del perfezionamento della notifica per il destinatario (ipotesi nella quale non verrebbe in alcun modo in rilievo la scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio; b) se debba, al contrario, ritenersi rilevante per l’ordinamento in linea generale il momento di perfezionamento della notifica per il notificante tranne che nelle ipotesi di insorgenza, a carico dello stesso notificante o del destinatario, dell’obbligo di osservare un termine o del dovere di ottemperare ad un adempimento ovvero in relazione alla determinazione di conseguenze a carico del destinatario; c) in relazione a quest’ultima ipotesi, che cosa debba intendersi per “conseguenza” a carico del destinatario; d) se, infine, quando il problema della litispendenza e della continenza si ponga, come nella specie, con riguardo ad una domanda introdotta con ricorso monitorio (in relazione alla quale la pendenza del giudizio è collegata al deposito e non presuppone che sia data alcuna conoscenza legale alla controparte) e ad una domanda introdotta con citazione, il rispetto del principio di uguaglianza imponga di adottare la medesima regola anche per la seconda domanda, attribuendo rilievo al momento di perfezionamento della notifica per il notificante.

Motivi della decisione
1. Come rilevato nell’ordinanza interlocutoria della sesta sezione civile, queste sezioni unite (peraltro ribadendo un orientamento chiaramente ed univocamente espresso in precedenza da questa Corte – v. tra le altre cass. n. 9181 del 2006 e cass. n. 27710 del 2005), in riferimento alla omologa questione della individuazione del momento di pendenza della lite ai fini del riparto di giurisdizione, hanno, con sentenza n. 9535 del 2013, affermato che la distinzione tra i diversi momenti del procedimento di notificazione – quello di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario ad opera del notificante e quello di ricezione da parte del destinatario – si impone ogni volta che dall’individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze o altri impedimenti, distintamente a carico dell’una o dell’altra di dette parti, mentre la pendenza della lite, ai fini dell’individuazione del giudice al quale spetta pronunciarsi, non rientra in questo ambito di questioni nè potrebbe, evidentemente, essere diversamente definita dal punto di vista di una parte e da quello dell’altra, con la conseguenza che la litispendenza non può che coincidere col momento in cui il procedimento di notificazione dell’atto introduttivo della causa si è completato, e tale momento necessariamente corrisponde con quello nel quale la notifica si è perfezionata mediante la consegna dell’atto al destinatario o a chi sia comunque abilitato a riceverlo. In tali termini le sezioni unite si sono dunque già espresse (peraltro pochi mesi prima della ordinanza di rimessione in questione) in maniera esplicita ed univoca in ordine alla quasi totalità delle questioni sollevate nella citata ordinanza.

Tanto premesso, il collegio ritiene preliminarmente di evidenziare che la salvaguardia dell’unità e della “stabilità” dell’interpretazione giurisprudenziale (massimamente di quella del giudice di legittimità e, in essa, di quella delle sezioni unite) è ormai da considerare – specie dopo l’intervento del D.Lgs. n. 40 del 2006 e della L. n. 69 del 2009, in particolare con riguardo alla modifica dell’art. 374 c.p.c. ed all’introduzione dell’art. 360 bis – alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche. Non l’unico certo e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di sicuro un criterio di assoluto rilievo.

Occorre dunque, per derogarvi, che vi siano buone ragioni. E, quando si tratta di interpretazione delle norme processuali, occorre che vi siano ottime ragioni, come insegna il “travaglio”che ha caratterizzato negli ultimi anni l’evoluzione giurisprudenziale di queste sezioni unite civili con riguardo all’overruling in materia di interpretazione di norme processuali, posto che, soprattutto in tale ambito, la “conoscenza” delle regole (quindi, a monte, l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità della relativa interpretazione) costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo medesimo.

Certo alla giurisprudenza va riconosciuta una importante funzione di aggiornamento, adattamento e adeguamento delle norme, che può presentare profili innovativi, quindi (nei limiti e nei termini dell’adeguamento suddetto) in certa misura “creativi”, ed indubbiamente la natura interpretativa dell’attività giurisprudenziale si configura come legittimazione costituzionale delle relative espressioni innovative, essendo proprio la differenza tra interpretazione e “mera dichiarazione” (secondo l’utopia illuministica del giudice “bouche de la loi”) ciò che spiega – e giustifica – l’innovazione giurisprudenziale quale connotato proprio – naturale e non eversivo – della giurisdizione, senza determinare, al contempo, confusioni tra quest’ultima e la legislazione.

Ma i problemi reali posti da questo carattere intrinseco all’esercizio della giurisdizione quando esso determina una svolta giurisprudenziale involgono considerazioni di ampio respiro ed impongono “valutazioni di sistema”, specie quando l’interpretazione abbia ad oggetto norme processuali ed il revirement riguardi un precedente, peraltro recente, della Corte di cassazione, e, più precisamente, della più elevata espressione dell’attività nomofilattica considerata dall’ordinamento, cioè le sezioni unite della Corte medesima.

E’ per questo che la “creatività” dell’interpretazione giurisprudenziale deve interpellare il senso di misura e soprattutto il senso di responsabilità dell’interprete, dovendo, al di là delle convinzioni tecnico-giuridiche soggettive dei singoli giudici o dei singoli collegi, essere sempre considerati i parametri della “giustizia” del processo – prima ancora che delle singole regole che Io informano – intesa come valore tendenzialmente condiviso.

Il problema della nomofilachia è in realtà proprio questo:

garantire al sistema giuridico-normativo la possibilità di evolversi, adattarsi, correggersi e al tempo stesso conservare, entro ragionevoli limiti, l’uniformità e la prevedibilità dell’interpretazione, soprattutto con riguardo a quella avente ad oggetto norme strumentali (come quelle processuali o comunque procedimentali).

Ciò non impone automaticamente e necessariamente di ritenere che gli overruling in materia processuale debbano sempre essere evitati o sempre operare per il futuro, ma impone certamente al giudice innanzitutto di valutare con estrema attenzione la sussistenza o meno di buone ragioni per il mutamento di un indirizzo giurisprudenziale e, prima ancora, di individuare quali siano le condizioni legittimanti l’evoluzione interpretativa.

In proposito non esistono formule matematiche. E’, come detto, un problema di equilibrio e misura: di responsabilità.

Ed è proprio su questo piano che la intrinseca “creatività” dell’interpretazione giurisprudenziale, il principio del giusto processo e la funzione nomofilattica del giudice di legittimità si incrociano: il nodo che essi formano tra loro è già il tessuto possibile di un processo che sia, sotto vari profili, innanzitutto ragionevole, per mutuare un aggettivo pregnante utilizzato dal legislatore costituzionale in tema di processo giusto. Perchè si possa procedere ad un revirement giurisprudenziale in materia processuale non è dunque sufficiente che l’interpretazione precedente sia, in ipotesi, ritenuta meno plausibile o meno condivisibile della precedente sul piano letterale, logico e/o sistematico dal collegio chiamato a decidere successivamente su analoga questione, posto che, giova ripetere, l’overruling, soprattutto in materia processuale, non solo incide sull’affidamento dei cittadini in ordine alla portata delle “regole del gioco”, ma, imponendo (in mancanza di valide ragioni) un ulteriore sforzo ermeneutico alla Corte, incide sulla ragionevole durata dei processi e, soprattutto, inflaziona l’intervento nomofilattico depotenziando la relativa funzione, con ulteriore (indiretta) incidenza anche sulla durata dei processi oltre che sulla “affidabilità” del sistema.

Un overruling delle sezioni unite in materia processuale può pertanto essere giustificato solo quando l’interpretazione fornita dal precedente in materia risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa e/o comunque dia luogo (eventualmente anche a seguito di mutamenti intervenuti nella legislazione o nella società) a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”. Venendo al caso di specie, non risulta che (nei mesi intercorsi tra il citato precedente e l’ordinanza di rimessione o comunque tra il medesimo e l’odierna udienza) siano intervenuti il legislatore o la Corte costituzionale a modificare (direttamente o indirettamente) il quadro normativo di riferimento nè comunque risulta – e neppure, peraltro, è stato allegato – che in tale ridotto lasso di tempo si siano prodotti nella società mutamenti politici e/o economici e/o tecnologici tali da determinare un cambiamento nella cultura del processo con particolare riguardo alla disciplina della notificazione imponendo il ripensamento di un orientamento giurisprudenziale espresso, in maniera chiara e netta, non solo più volte dalla Corte,” ma, molto recentemente, proprio dalle stesse sezioni unite chiamate a pronunciarsi oggi nuovamente sul punto. E neppure risulta che il precedente in esame proponga una interpretazione manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali oppure irrazionali ovvero ponga comunque macroscopici problemi di compatibilità col sistema. La vicenda legislativa e giurisprudenziale che ha interessato la disciplina del procedimento di notificazione a decorrere dal lontano 1994 (quando, con la sentenza n. 69, la Corte costituzionale, in tema di notificazione all’estero di un provvedimento di sequestro ante causam, dichiarò l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 142 c.p.c., comma 3, dell’art. 143 c.p.c., comma 3 e dell’art. 680 c.p.c., comma 1 nella parte in cui non prevedevano che la notificazione all’estero del decreto che autorizza il sequestro si perfeziona, ai fini dell’osservanza del prescritto termine, col tempestivo adempimento delle formalità imposte al notificante dalle convenzioni internazionali e dal D.P.R. n. 200 del 1967, artt. 30 e 75) è assai complessa e si è sviluppata in più anni attraverso l’intervento reiterato del giudice costituzionale – con numerose decisioni sia dichiarative della illegittimità costituzionale di alcune norme sia interpretative di rigetto – e del legislatore, il quale, tra l’altro, con L. n. 263 del 2005, è intervenuto (a seguito della sentenza n. 477 del 2002 dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 149 c.p.c. e L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3) a modificare l’art. 149 c.p.c. in tema di notificazione a mezzo del servizio postale.

E’ evidente che in un simile contesto il moltiplicarsi degli interventi della Corte costituzionale (con le inevitabili diverse “sfumature” rinvenibili nelle motivazioni delle relative decisioni) nonchè l’inadeguatezza del richiamato intervento legislativo (eccessivamente “superficiale” rispetto alle problematiche in gioco, come si dirà meglio in prosieguo), imponendo una impegnativa attività ermeneutica, rendano in materia “plausibili” più interpretazioni anche diverse tra loro, e, al contempo, “opinabili” le diverse ricostruzioni possibili.

Peraltro, se si ritiene che non esistono interpretazioni oggettivamente “corrette” se non sotto il profilo del metodo utilizzato per giungere ad esse (ed a prescindere dai referenti assiologici dell’interprete), è proprio in un contesto ermeneutico come quello sopra delineato che emerge la funzionalità della previsione di cui all’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, che, al di là della discutibile formulazione, fornisce l’unico criterio (sia pure meramente formale ed estrinseco) di valutazione della “esattezza” (per mutuare l’infelice terminologia utilizzata nella citata norma) di una interpretazione.

Il presupposto di tale norma – oltre che di numerose disposizioni del codice di rito – è che l’interpretazione della legge espressa dall’organo al quale è attribuito il controllo di legittimità sulle sentenze di altri giudici sia da ritenersi convenzionalmente, se non quella “esatta”, almeno la più “esatta” (possibile) o, se si vuole, la più “giusta” e/o la più “corretta”, e da tale interpretazione non possa perciò prescindersi tutte le volte che venga in discussione il contenuto di una norma nel suo significato “oggettivo” (v., a proposito della c.d. “dottrina del diritto vivente”, tra le altre C.Cost. n. 350 del 1997).

Se dunque la funzione nomofilattica risponde all’esigenza strutturale di stabilire punti fermi o “gerarchie” tra le possibili opzioni ermeneutiche, l’interpretazione della legge fornita dalla Corte di cassazione (e massimamente dalle sezioni unite di essa) va tendenzialmente intesa come una sorta di “oggettivazione convenzionale di significato”, e non potrebbe perciò la stessa Corte di cassazione, in un immutato contesto normativo e culturale di riferimento ed in assenza di macroscopica arbitrarietà, irrazionalità o “ingiustizia” del precedente (ossia in assenza di validi motivi per mutare un orientamento già espresso), rimettere in discussione una questione già esaminata e decisa in nome di una diversa, plausibile ricostruzione e/o della ritenuta opinabilità di quella precedentemente operata dalla stessa Corte, anzi dalle medesime sezioni unite. E’ peraltro da notare che anche recentemente le sezioni unite di questa Corte hanno sottolineato che quando “la formula di un segmento di legge processuale, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile”, e che “soltanto fattori esterni alla formula della disposizione di cui si discute – derivanti da mutamenti intervenuti nell’ambiente processuale in cui la formula continua a vivere, o dall’emersione di valori prima trascurati – possono giustificare l’operazione che consiste nell’attribuire alla disposizione un significato diverso” (cfr. SU n. 10864 del 2011).

2. Fermo tutto quanto sopra esposto, il collegio, anche in relazione alla esigenza – espressa nella ordinanza di rimessione – di chiarezza su alcuni specifici aspetti della questione in esame, ritiene di aggiungere, alla conferma dell’orientamento già recentemente espresso da queste sezioni unite, le considerazioni che seguono, innanzitutto evidenziando che l’opzione ermeneutica fatta propria dalla citata sentenza n. 9535 del 2013 delle sezioni unite è (anche a prescindere da quanto sopra doverosamente precisato) in ogni caso da condividere, tra l’altro perchè, senza sacrificare i diritti costituzionali delle parti nel processo, meglio si presta a rispondere alla fondamentale esigenza che l’interpretazione della norma processuale, nel rispetto dei cittadini e degli operatori del diritto nonchè del principio costituzionale del giusto processo, non indulga, senza stringente ed ineludibile necessità, a scelte interpretative che aumentino il carico di astrattezza e formalismo gravante sul sistema nè imponga ampie ricostruzioni implicanti ingiustificate divaricazioni dalla realtà storico-normativa con l’effetto di rendere il processo più difficilmente comprensibile e le sue regole meno “decifrabili” ed affidabili per i cittadini.

Per meglio chiarire il pensiero che precede occorre considerare che nel codice di rito la notificazione non è prevista come atto istantaneo bensì come il risultato di una sequenza di atti che, pur posti in essere da soggetti diversi, sono nel loro complesso preordinati all’unico scopo di determinare la conoscenza legale dell’atto oggetto di notifica.

Il fenomeno deve dunque essere riguardato come un procedimento che si conclude nel momento in cui viene completata la serie procedimentale prevista, con conseguente possibilità di ritenere in quel momento intervenuta la conoscenza legale dell’atto da notificare, e ciò a prescindere dalla effettiva ricezione e presa di conoscenza del contenuto di esso da parte del destinatario.

Il procedimento di notificazione dunque, in nome di una scelta legislativa imposta dalla necessità di assicurare al processo tempi il più possibile certi riducendo la possibilità, per il destinatario, di sottrarsi alla notificazione (o renderla comunque più difficile), si basa su di una fictio in virtù della quale l’effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario, pur costituendo lo scopo della notificazione, rimane estranea alla sua struttura.

Tuttavia, benchè volto al raggiungimento di una conoscenza “solo” legale, l’iter procedimentale che consente di ritenere raggiunta tale conoscenza presenta determinate caratteristiche oggettive che permettono con certezza di identificare, alla stregua della disciplina codicistica, il momento in cui, completato il procedimento all’uopo previsto, la notificazione può ritenersi oggettivamente, giuridicamente e “storicamente” avvenuta.

Questo è un “fatto” – espressamente considerato dal legislatore – dal quale non è consentito prescindere, se è vero che, quale che sia il significato e la portata che si ritenga di attribuire alla anodina formulazione dell’art. 149 c.p.c., u.c. (ed agli interventi della Corte costituzionale che ne hanno determinato l’introduzione), l’anticipazione del perfezionamento della notifica ad un momento anteriore al completamento dell’iter appositamente previsto non può che essere risolutivamente condizionata al completamento della procedura (e porsi quindi eventualmente soltanto come provvisoria), venendo a “stabilizzarsi” solo se e quando il procedimento notificatorio -siccome minutamente regolamentato dal codice-sia stato effettivamente completato, cioè quando possa ritenersi che la notifica sia “andata a buon fine”, e sia quindi intervenuta la “conoscenza legale” dell’atto.

Le considerazioni che precedono consentono di affermare che il momento di perfezionamento della notifica non può che essere unico, corrispondente a quello identificato dal legislatore (in maniera “storica” e “oggettiva”) con l’effettivo completamento del procedimento all’uopo previsto e con il contemporaneo raggiungimento del relativo scopo (ossia l’intervenuta conoscenza “legale” dell’oggetto di notifica), e perciò di inquadrare – come sarà più chiaro in prosieguo – la vicenda legislativa e giurisprudenziale della c.d. “scissione soggettiva” del momento di perfezionamento della notifica nei termini (e nei limiti) di una fictio iuris ritenuta necessaria a fine di “correggere” alcune conseguenze disfunzionali del sistema di notificazione. In particolare, con riferimento all’art. 149 c.p.c., comma 3 (introdotto dalla L. n. 263 del 2005, art. 2 a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, e prevedente che “la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto”) deve innanzitutto rilevarsi che il momento di perfezionamento della notifica considerato dalla norma in esame per il notificatario coincide esattamente col momento di perfezionamento dell’iter procedimentale previsto dal codice (ossia il momento in cui, compiuta la sequenza di atti previsti, si può dire intervenuta la conoscenza legale dell’atto), pertanto in parte qua la previsione non sembra avere alcuna ragion d’essere e quindi, nonostante la norma risulti strutturata secondo un pleonastico parallelismo tra notificante e destinatario (verosimilmente indotto dalla suggestione riveniente da una predicata “scissione soggettiva” del momento di perfezionamento della notifica), la sua portata precettiva si riduce sostanzialmente ad una fittizia anticipazione del perfezionamento della notifica per il notificante al momento in cui questi ha consegnato il plico all’ufficiale giudiziario.

Pur così precisatane la reale portata innovativa, la norma resta estremamente generica ed impone pertanto una precisazione ricognitiva dei limiti e delle conseguenze di una simile anticipazione “provvisoria” di effetti, dovendo in proposito innanzitutto considerarsi che la previsione in esame, siccome eccezione alla regola secondo la quale gli effetti di un atto si producono quando l’atto interviene nel mondo giuridico, basata su di una fictio iuris che allontana la regola dalla “realtà” del dato storico-oggettivo (sia pure nella convenzionale considerazione normativa) ed introducente nel sistema elementi di incertezza in relazione alla “provvisorietà” della prevista anticipazione, va considerata con attenzione ed interpretata in stretta relazione con le esigenze che ne hanno indotto la formulazione. Giova inoltre evidenziare che l’amplissima e generica previsione della prima parte dell’art. 149 c.p.c., comma 3 (secondo la quale la notifica si perfeziona per il notificante “al momento della consegna dei plico all’ufficiale giudiziario”) non si presta in ogni caso ad una lettura “diffusa” e generalizzante, non fosse altro per gli interrogativi che porrebbe ad esempio in relazione ai c.d. “effetti processuali bilaterali”, ovvero, come nell’ipotesi della litispendenza, comuni ad entrambe le parti della notifica, quindi da prodursi necessariamente in modo identico, anche dal punto di vista temporale, per entrambe le parti.

E’ poi da considerare che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto più volte di precisare che il principio di “scissione” non può operare nei casi in cui il perfezionamento della notifica assuma rilievo non già ai fini dell’osservanza di un termine pendente nei confronti del notificante, bensì al fine di stabilire il dies a quo di un termine successivo del processo a suo carico, in particolare quello della sua costituzione in giudizio, esulando dalla sua ratio, che è quella di tutela del diritto di difesa del notificante, l’anticipazione di incombenti processuali e la creazione di decadenze a carico delle parti (cfr. C.Cost. n. 318 del 2009 e, in precedenza, v. C. cost n. 154 del 2005 e n. 107 del 2004) e che questa Corte di cassazione ha più volte ribadito il principio suddetto con riguardo al termine di costituzione dell’attore in primo grado e in appello, al termine per il deposito del ricorso per cassazione o per la notifica del controricorso ed al termine breve per impugnare (v. tra le altre SU n. 458 del 2005 e cass. numeri 9329 del 2010; 12185 del 2008; 11783 del 2007 e 18087 del 2004).

L’ambito e i limiti della norma in esame vanno pertanto innanzitutto valutati in relazione alle situazioni nelle quali si è palesata l’esigenza di anticipare fittiziamente il momento del perfezionamento della notifica, per verificare le ragioni che hanno indotto tale anticipazione e limitare pertanto la portata della suddetta fictio ai soli casi in cui si rinvengano le medesime ragioni, posto che, quanto più si recide il legame manifesto con le ragioni per cui una regola processuale o una interpretazione giurisprudenziale è sorta, tanto più si moltiplica il formalismo e, con esso, gli “arcana iuris”, ossia le vuote ripetizioni di una ritualità, assolutamente da rifuggire in relazione ad una “norma agendi” quale quella processuale, la cui interpretazione deve tendere il più possibile alla chiarezza, alla comprensibilità ed alla uniformità. In proposito è estremamente significativo il fatto che le numerose sentenze della Corte costituzionale in materia (non solo quelle di accoglimento ed interpretative di rigetto, ma anche quelle in cui il ricorso introduttivo del giudizio di legittimità costituzionale in via principale è stato ritenuto ammissibile proprio in virtù della tempestività della notificazione valutata alla stregua del principio di scissione soggettiva – v. tra le altre c.cost. nn. 300 del 2007;

30 e 250 del 2009 -) traggono tutte origine da eccezioni di tardività della notifica dell’atto introduttivo del giudizio e che quindi il principio della c.d. “scissione soggettiva” sia stato dalla Corte di legittimità enunciato, definito ed applicato al fine di valutare la tempestività degli adempimenti posti a carico del notificante.

Dalle sentenza della Corte costituzionale in materia risulta infatti che esse sono intervenute, ad esempio, in relazione ad ipotesi in cui (v. c. cost. n. 69 del 1994) si è reso necessario evitare che venisse addebitato “al notificante l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso”, ritenendosi (v. c. cost. n. 477 del 2002) “palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere …. dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi”.

Risulta dunque evidente (a prescindere dal fatto – posto in rilievo nell’ordinanza di rimessione – che la citata sentenza n. 477 del 2002 non riporti in dispositivo i limiti e le ragioni della decisione chiaramente esplicitati nella motivazione e che in successive sentenze interpretative la Corte costituzionale utilizzi espressioni in ipotesi suscettibili di indurre interpretazioni “estensive”) che l’anticipazione del momento di conclusione del procedimento di notificazione attraverso la c.d. “scissione soggettiva” nasce come una fictio iuris – peraltro sprovvista di corrispondente consistenza ontologica prenormativa ed in contrasto con una notificazione il cui procedimento per il codice di rito si perfeziona, oggettivamente e storicamente, al momento del completamento dell’iter previsto – utilizzata sostanzialmente come uno strumento in certa misura “restitutorio”, vale a dire come una sorta di rimessione in termini per l’esercizio di diritti di azione/impugnazione incolpevolmente perduti dal notificante. L’anticipazione del momento perfezionativo della notifica si correla perciò all’esigenza di sottrarre il notificante alle conseguenze negative di un procedimento di notificazione conclusosi intempestivamente per circostanze dal medesimo non controllabili e comunque a lui non addebitagli. Ed è in tali confini che nella più volte citata sentenza n. 9535 del 2013 queste sezioni unite hanno circoscritto la “scissione soggettiva” del momento perfezionativo del procedimento notificatorio, limitandola appunto alle ipotesi in cui dalla individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze o altri impedimenti ed escludendo quindi che essa possa valere ad ogni possibile effetto ricavabile dalla disciplina codicistica e segnatamente ai fini della determinazione della prevenzione ai sensi dell’art. 39 c.p.c..

Per contro, la diversa e più ampia ricostruzione sostenuta nel primo motivo del ricorso in esame sarebbe sostenibile solo ove si ritenesse che l’ordinamento abbia attribuito a ciascuna parte processuale un complesso di diritti potestativi connessi alla determinazione dei tempi di intervento di qualunque attività processuale che debba essere compiuta o ricevere impulso dalla parte medesima, ed in particolare abbia riconosciuto alla suddetta parte anche il diritto a che sia esclusivamente e completamente riferibile ad una sua scelta (senza interferenze esterne) ogni conseguenza comunque riconducibile al momento di intervento nel processo di un atto il cui compimento (almeno ne suo impulso iniziale) sia ad essa attribuito.

Questa impostazione richiederebbe però la configurabilità di un processo totalmente e assolutamente dominato, in tutte le sue più minute articolazioni, dal principio dispositivo, esplicantesi in una struttura a catena che colleghi al momento del compimento delle attività di parte – in rapporto a ciascuna di esse e rispetto ad ogni evenienza considerata e disciplinata dal codice in ragione proprio della collocazione di ognuna nella struttura processuale – un complesso di situazioni soggettive a carattere potestativo connesse a corrispondenti opzioni (ed innanzitutto alla “regina” di esse, quella che attiene alla scelta dei tempi – ed eventualmente dei modi – di introduzione del giudizio) riconosciute alle parti medesime e ritenute dall’ordinamento meritevoli di tutela.

La disciplina positiva non autorizza però in alcun modo una simile ipotesi esegetica, non fosse altro perchè, se la disponibilità dei diritti agiti può comportare anche, in certa misura, la “signoria” sui fatti e sulle relative prove nel processo, deve escludersi che possa ritenersi disponibile dalle parti il processo medesimo e i suoi tempi, ed inoltre perchè nel codice di rito i tempi delle attività di parte (e quindi la connessa valutazione della soggettiva determinazione “volitiva” in ordine ai medesimi) vengono in diretta considerazione soltanto in relazione ai termini entro i quali devono o possono essere compiute alcune attività e quindi in relazione ad eventuali preclusioni o decadenze ad essi collegate.

Certamente il momento in cui viene introdotta la lite è considerato dal legislatore ai fini di una serie di effetti – in primis la determinazione della giurisdizione e della competenza, quindi l’individuazione del giudice naturale (e persino – passando dalle norme giuridiche alle disposizioni amministrative – l’individuazione del giudice come persona fisica, ad esempio nel caso in cui all’interno degli uffici giudiziari l’assegnazione automatica delle controversie ai singoli giudici sia determinata sulla base del momento di introduzione della controversia), e certamente su questo momento possono (più o meno, a seconda delle diverse circostanze ipotizzabili, dei diversi tipi di processo considerati dal legislatore e, in particolare, a seconda del diverso atto introduttivo per essi previsto) incidere le parti, tuttavia si tratta di una incidenza “di fatto”, esplicantesi nei termini e nei limiti della corrispondente previsione normativa, senza che, ripetesi, risulti configurabile il riconoscimento di un corrispondente diritto della parte a determinare, esclusivamente sulla base di una propria scelta, senza alcuna interferenza esterna, i suddetti effetti e quindi un corrispondente dovere dell’interprete di “leggere” le norme processuali in guisa da garantire sempre il pieno esercizio di tale diritto.

E peraltro, se è vero che, come ricorda la ricorrente, la Costituzione riconosce alla parte il diritto di non essere distolta dal giudice naturale precostituito per legge, ciò significa soltanto che è riconosciuto alle parti il diritto a che il giudice sia previamente individuato in linea generale ed astratta sulla base delle norme di legge in materia di giurisdizione e competenza, senza che la costituzione, e tantomeno il codice di rito, riconoscano alla parte il diritto di “scegliersi” il giudice naturale ed in particolare riconoscano all’attore in giudizio il diritto di incidere sempre (e per giunta in maniera esclusiva, quindi al di là di ogni possibile interferenza esterna) sull’individuazione del suddetto giudice (nella specie, del giudice preventivamente adito), al di là di quanto non sia espressamente previsto dalla normativa applicabile.

Al contrario, il codice di rito prevede che, come imposto dalla costituzione, detto giudice naturale sia individuato sulla base di una serie di regole predeterminate (non, quindi, della mera volontà della parte), regole che, tra l’altro, sono diverse in relazione ai diversi tipi di processo considerati dal legislatore, a partire dalle differenti modalità di introduzione della lite. Deve pertanto ritenersi che nella “precostituzione” del giudice naturale in ipotesi di continenza di cause (una delle quali introdotta con citazione) il legislatore abbia anche “preconsiderato” il fatto che la notificazione della citazione (come di ogni altro atto processuale) non avviene in maniera istantanea ma solo all’esito di un iter procedimentale al cui compimento cooperano più persone, e nondimeno abbia previsto che la litispendenza è determinata dalla notificazione della citazione, il che significa che non ha attribuito all’attore il diritto di incidere in maniera esclusiva e determinante sulla individuazione del giudice previamente adito e che una maggiore o minore incidenza della opzione temporale della parte in ordine all’avvio del procedimento di notificazione potrebbe perciò, come già evidenziato, venire in considerazione solo come conseguenza di mero fatto delle scelte del legislatore in proposito.

Invero, quando si riferisce alla prevenzione, il legislatore indica un criterio di individuazione della competenza e fa rinvio alle norme sulla litispendenza, eventualmente anche diversificate rispetto ai diversi processi considerati, ma non rimanda certo alla determinazione delle parti nè attribuisce ad esse alcun diritto in proposito nè, ovviamente, fa riferimento ad una “prevenzione” in senso naturalistico, rispetto alla quale gli attori delle cause interessate dalla continenza si pongano come concorrenti in una sorta di “gara” per la determinazione del giudice competente, ai quali garantire condizioni di partenza paritarie, magari anche utilizzando – se necessario allo scopo – una interpretazione che “azzeri” le eventuali differenze previste dal legislatore nella complessiva disciplina di ciascuno dei diversi processi coinvolti, in ipotesi, come nella specie, soggetti a differente regolamentazione quanto ai modi di introduzione della lite. E’ perciò che la determinazione del giudice preventivamente adito effettuata sulla base delle norme che stabiliscono la litispendenza nei vari tipi di processo non può essere considerata – come sembra invece ipotizzato dalla ricorrente – alla stregua di un effetto “pregiudizievole” per la parte che non sia riuscita ad “incidere” su di essa, considerato che l’individuazione del giudice naturale – siccome per legge determinata – non può in sè considerarsi “pregiudizievole” per alcuna delle parti e, soprattutto, come già evidenziato, che non è configurarle un “diritto” delle parti di incidere su detta individuazione, rispetto al quale possa venire in considerazione un eventuale pregiudizio.

La ricostruzione prospettata nel ricorso in esame sembra dunque muovere dall’indimostrato presupposto che l’ordinamento abbia attribuito al notificante il diritto di determinare in maniera esclusiva ogni e qualsiasi conseguenza collegata dal codice di rito alla notificazione e quindi, poichè la notificazione consta di un procedimento che vede l’intervento di diverse persone, sia stato necessario anticipare ad ogni effetto il perfezionamento di essa al compimento dell’unica attività che, nell’ambito del procedimento notificatorio, sia interamente controllabile dal notificante medesimo.

Questo collegio ritiene invece, sulla scorta di tutte le argomentazioni già esposte, che occorra procedere da un presupposto antitetico, in ragione del fatto che, a tacer d’altro, proprio la previsione di una notificazione che si sviluppa attraverso un procedimento comportante l’intervento di più persone esclude l’attribuzione al notificante dei diritto di determinare in maniera esclusiva tutti gli effetti collegati dal codice al compimento della medesima e che, d’altro canto, proprio perchè la notificazione ed il suo perfezionamento non sono completamente governabili dal notificante, è necessario evitare che quest’ultimo subisca conseguenze negative in relazione al mancato rispetto di termini posti a suo carico e connessi al completamento della suddetta notificazione.

3a. Ritenuto dunque, alla stregua di tutto quanto sopra esposto, che deve considerarsi ad ogni effetto come momento di perfezionamento del procedimento di notificazione quello in cui interviene il completamento del relativo iter procedimentale (salva la necessità di anticipare fittiziamente e provvisoriamente tale momento per evitare al notificante eventuali decadenze a lui non addebitabili), occorre ora esaminare se (come prospettato nella ordinanza di rimessione) si renda comunque necessaria una anticipazione di tale momento in relazione alla esigenza di rispettare il principio di “uguaglianza” quando un problema di litispendenza e continenza si ponga, come nella specie, tra due cause rispettivamente introdotte con ricorso monitorio e con citazione.

La questione si presenta logicamente connessa alla prospettazione della ricorrente nell’ultima parte del primo motivo, laddove, denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 643 c.p.c. (prevedente che nel procedimento monitorio la litispendenza si determina – non col deposito del ricorso bensì – con la notificazione alla controparte del ricorso suddetto e del conseguente decreto ingiuntivo), evidenzia che, nel caso in cui si intendesse invece – come ha fatto il Tribunale di Udine – interpretare – alla luce della giurisprudenza di legittimità e della recente modifica dell’art. 39 c.p.c. – la suddetta norma nel senso che in ogni caso nel procedimento monitorio la litispendenza è determinata dal deposito del ricorso, sarebbe per coerenza necessario che la stessa logica fosse applicata alla notificazione della citazione, anticipando pertanto gli effetti di essa al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

In tali termini, l’anticipazione del momento di perfezionamento della procedura di notificazione servirebbe a “correggere” una ipotetica disuguaglianza tra gli attori di due processi legati da un rapporto di continenza, disuguaglianza derivante dalla differente disciplina processuale segnatamente prevista in relazione ai differenti atti introduttivi. In proposito non può non rilevarsi innanzitutto che nella disciplina positiva non esiste un unico modello processuale e che anzi il legislatore – in relazione alle diverse realtà sostanziali ed ai diversi valori coinvolti – ha sempre più differenziato i riti, articolatamente prevedendo tempi e modi diversi non solo di introdurre la lite ma anche di addivenire alla decisione della medesima ed alla relativa esecuzione, nella ovvia consapevolezza che l’effettiva disuguaglianza esiste soltanto a parità di tutte le condizioni date, laddove il disuguale trattamento di situazioni differenti non può che costituire il modo migliore per salvaguardare l’uguaglianza sostanziale, senza che all’interprete sia dato sindacare le scelte assiologiche che presiedono alla discrezionalità esercitata dal legislatore in assenza di palesi situazioni di irragionevolezza o di contrasto con i valori costituzionali, e senza che, d’altro canto, l’interpretazione della disciplina della notificazione possa essere surrettiziamente utilizzata per “azzerare” gli effetti di differenti discipline processuali valutate nella sua legittima discrezionalità dal legislatore in relazione a situazioni sostanziali differenti (nel caso di specie, il ricorso monitorio per il recupero di un credito e l’azione di risoluzione di un contratto con richiesta risarcitoria).

Tanto premesso, e venendo più in particolare al caso in esame, nel quale, come già esposto, ti rispetto del principio di uguaglianza viene invocato in relazione a due processi introdotti con atti diversi (ricorso e citazione), rispetto ai quali esiste un problema di continenza di cause, occorre ancora una volta ribadire che una questione di rispetto dell’uguaglianza si porrebbe solo se si riconoscesse che il codice di rito attribuisce a ciascun attore in giudizio il diritto di decidere senza interferenze esterne quale sia il giudice previamente adito o comunque il giudice naturale della controversia, con conseguente necessità di mettere i due attori in una posizione di partenza “paritaria”, non se invece, come già esplicitato, si esclude una tale eventualità ritenendo che la maggiore o minore incidenza che nei diversi processi l’impulso di parte può avere su tale individuazione sia solo l’effetto indiretto di una differente disciplina processuale che il legislatore ha previsto in relazione ad una legittima valutazione discrezionale dei differenti interessi e valori sostanziali coinvolti nei processi diversamente regolamentati. Deve a fortiori altresì escludersi la configurabilità (almeno nei termini prospettati nell’ultima parte del primo motivo di ricorso) di un problema di “coerenza esegetica” nella individuazione della litispendenza con riguardo a liti sottoposte a diversa disciplina ed introdotte con atti differenti per il solo fatto che le suddette discipline si trovino “a confronto” in ragione della necessità di individuare il giudice preventivamente adito, posto che una simile evenienza, in mancanza di espressa previsione derogatoria, non autorizza l’interprete a (e tantomeno gli impone di) perseguire una coerenza ed una uguaglianza livellatrice che il legislatore non ha inteso realizzare con la disciplina positiva.

3b. Come sopra accennato, nell’ultima parte del motivo in esame la società ricorrente – prima ancora di dolersi di una mancanza di coerenza nell’interpretazione delle norme disciplinanti la litispendenza con riguardo al processo introdotto con ricorso monitorio ed a quello introdotto con citazione – ha innanzitutto contestato la violazione e falsa applicazione dell’art. 638 c.p.c. (prevedente che nel procedimento monitorio la litispendenza si determina – non col deposito del ricorso bensì- con la notificazione alla controparte del ricorso suddetto e del conseguente decreto ingiuntivo) e del novellato art. 39 c.p.c. (prevedente, u.c., in seguito alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2009, che la prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione e dal deposito del ricorso), per avere il giudice di Udine ritenuto che la prevenzione è determinata dal deposito del ricorso e non dalla sua notificazione.

In proposito si osserva che, come peraltro evidenziato dalla medesima ricorrente, già con sentenza n. 20596 del 2007 le sezioni unite di questa Corte hanno argomentatamente affermato che nel caso in cui la parte nei cui confronti è stata chiesta l’emissione di decreto ingiuntivo abbia proposto domanda di accertamento negativo del credito davanti ad un diverso giudice prima che i ricorso ed il decreto ingiuntivo le siano stati notificati, se, in virtù del rapporto di continenza tra le due cause, quella di accertamento negativo si presti ad essere riunita a quella di opposizione, la continenza deve operare nel senso di far retroagire gli effetti della pendenza della controversia introdotta con la domanda di ingiunzione al momento del deposito del relativo ricorso, sempre che la domanda monitoria sia stata formulata davanti a giudice che, alla data della presentazione, era competente a conoscerla.

Occorre altresì evidenziare che la modifica dell’art. 39 c.p.c., u.c. ad opera della L. n. 69 del 2009 non è, a parere di questo giudice, idonea a rimettere in discussione il – condivisibile – principio giurisprudenziale sopra richiamato o ad incidere sulla validità delle argomentate valutazioni espresse nel citato precedente, ma, anzi, viene esplicitamente a confermare le ragioni sistematiche poste dalle sezioni unite a sostegno del principio di diritto sopra riportato. E’ infine da rilevare che questa Corte, con sentenza n. 6511 del 2012, più recentemente, e comunque dopo l’intervento della citata modifica legislativa (anzi anche a cagione della medesima), ha ribadito il principio giurisprudenziale in questione.

Tutto quanto sopra premesso, il collegio, nel confermare l’adesione al principio espresso da SU n. 20596 del 2007 per la ritenuta condivisibilità delle ragioni che lo sostengono e la conservata validità delle medesime anche dopo la modifica dell’art. 39 c.p.c., non può in ogni caso che ribadire quanto precedentemente esposto a proposito dell’esigenza di salvaguardare l’unità e la “stabilità” dell’interpretazione giurisprudenziale in assenza di valide ragioni per abbandonare un indirizzo giurisprudenziale già espresso (proprio dalle sezioni unite) in materia processuale.

4. Col secondo motivo di ricorso G.L.P. s.r.l. contesta la competenza del Tribunale di Bassano del Grappa in sede monitoria (condizione necessaria per l’attrazione dinanzi ad esso della causa pendente dinanzi al Tribunale di Udine), affermando che il credito vantato dalla appaltatrice difettava del requisito della esigibilità, posto che l’art. 6 del Contratto prevede che “I pagamenti relativi ai SAL saranno effettuati entro la fine del mese di calendario corrente successivo alla liquidazione dei SAL stessi e dalla consegna al committente della relativa fattura….” e che “Le parti convengono che i crediti dell’appaltatore saranno ad ogni effetto di legge liquidi ed esigibili solo al verificarsi delle liquidazioni, condizioni e dei termini di cui al comma precedente”, con la conseguenza che solo a seguito dalla consegna al committente della relativa fattura sarebbe divenuto attuale l’obbligo di pagamento di GLP s.r.l. nei confronti della controparte, non potendo, in difetto, l’obbligazione considerarsi “scaduta”. In particolare GLP s.r.l.

precisa che nella specie la fattura è stata spedita il 27 marzo 2012 e ricevuta il 29 marzo 2012, mentre il ricorso è stato proposto il 28 marzo 2012, ossia prima che la fattura fosse ricevuta ed il credito divenisse esigibile, con la conseguenza che nella specie non sarebbe applicabile il criterio di determinazione della competenza territoriale di cui all’art. 20 c.p.c. e art. 1182 c.c..

La censura è infondata.

Per giurisprudenza costante il principio fissato dall’art. 10 c.p.c. in relazione alla competenza per valore (secondo il quale il collegamento tra il giudice e la controversia che questi è chiamato a decidere si determina in base alla domanda) deve ritenersi espressione di una regola generale valevole per tutti i tipi di competenza, quindi anche per la competenza per territorio (v. già cass. nn. 5755 del 1983; 33 del 1990; 789 del 1998; 20177 del 2004 e 11400 del 2006), con la conseguenza che, con riguardo ad obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro, rientrano nella previsione dell’art. 1182 c.p.c., comma 3, quelle che siano come tali indicate dall’attore, mentre il diverso e successivo problema della sussistenza di esse attiene al merito (v., oltre quelle già citate, cass. n. 8121 del 2003). Pertanto, per stabilire quale sia, agli effetti dell’art. 20 c.p.c., l’obbligazione dedotta in giudizio”, il giudice deve limitarsi ad interpretare il contenuto obbiettivo della deductio su cui verte la controversia, prescindendo da ogni indagine sull’esistenza della obbligazione medesima, che attiene alla decisione di merito, e senza che sulla questione possa influire l’eccezione del convenuto che neghi l’esistenza della obbligazione (Cass. n. 9013 de 2005). Alla stregua della elaborazione giurisprudenziale sopra richiamata (condivisibile in quanto costituente coerente applicazione del chiaro disposto del citato art. 10) la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 20 c.p.c. deve dunque essere desunta sulla base della prospettazione attorea, senza che abbiano rilevanza a tal fine le contestazioni formulate dal convenuto e le diverse prospettazioni dei fatti da quest’ultimo avanzate, dovendosi tenere separate le questioni concernenti il merito della causa da quelle relative alla competenza.

Tanto premesso, risulta in atti che Steda s.p.a. ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Bassano del Grappa l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti di GLP s.r.l., pertanto non v’è dubbio che essa abbia prospettato di essere creditrice di una somma di danaro liquida ed esigibile. E’ vero che, secondo la condivisibile giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’unico limite alla rilevanza dei fatti prospettati dall’attore ai fini della determinazione della competenza territoriale può essere rinvenuto nella eventuale prospettazione “artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge” (cfr. cass. nn. 10226 del 2001; 10966 del 2003 e 8189 del 2012), è tuttavia da evidenziare che – sia nel linguaggio comune che in quello giuridico – termini come “artificioso” e “artificio” implicano sempre una specifica attività decettiva, in ogni caso non ravvisabile nè nella generica prospettazione dell’intervenuto avveramento di eventuali condizioni previste nè, tanto meno, nel mero silenzio serbato sull’esistenza di condizioni ovvero sul loro mancato avveramento.

E’ inoltre appena il caso di evidenziare che nella specie la ricorrente si limita a dedurre la non esigibilità del credito, ma non individua nè contesta in proposito una specifica prospettazione “artificiosa” (nel senso sopra descritto) di Steda s.p.a. nel ricorso monitorio proposto dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa.

5. Dall’argomentare che precede discende la reiezione del ricorso. La complessità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2014


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 19/06/2014) 23/10/2014, n. 22510

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29571/2008 proposto da:

A.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 34, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PETRUCCI, rappresentato e difeso dall’avvocato PARACCIANI Enrico giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

VIVAI DELLA MOLINOLA DI PIERA’ SERINALDI SNC (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 515/2008 del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositata il 21/10/2008 R.G.N. 1011/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2014 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato FRANCESCO PETRUCCI per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
A.A. intimava alla società Vivai della Molinella di Pierà Serinaldi s.n.c. precetto di pagamento di Euro 16.610,02, fondato sul Decreto Ingiuntivo n. 95 del 2004, del Tribunale di Fermo, definitivamente esecutivo, oltre interessi moratori e accessori.

La società proponeva opposizione, lamentando che il precetto non contenesse la trascrizione integrale del titolo esecutivo e che esso riportasse illegittimamente anche l’intimazione a pagare spese, interessi ed onorari di un precedente atto di precetto, divenuto inefficace ex art. 481 c.p.c. e spese generali non dovute.

Il Tribunale dell’Aquila, con sentenza n. 515/2008 depositata il 21.10.2008 e notificata il 6.11.2008, accoglieva l’opposizione e dichiarava la nullità del precetto per mancata indicazione della data di notificazione del titolo esecutivo, condannando l’ A. al pagamento delle spese di lite.

A.A. propone ricorso per la cassazione della predetta sentenza articolato in tre motivi.

L’intimata non ha svolto attività difensiva.

Il ricorrente non ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 617 c.p.c.; evidenzia che l’opposizione a precetto proposta dalla società Vivai La Molinella è stata esattamente qualificata dal giudice adito come opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e che pertanto la stessa avrebbe dovuto esser ritenuta tardiva, in quanto il precetto era stato notificato il 16.6.2005 e l’opposizione soltanto il 22.6.2005 (pertanto oltre il termine di cinque giorni pro tempore vigente). Sostiene che al fine del perfezionamento della notifica dell’atto di precetto – e quindi ai fini della decorrenza del termine per proporre opposizione – effettuata con le modalità previste dall’art. 140 c.p.c. – occorreva aver riguardo al completamento delle predette formalità da parte dell’ufficiale giudiziario incaricato (esecuzione del deposito presso la casa comunale, affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione del destinatario e spedizione della raccomandata contenente l’avviso) e non al ricevimento della raccomandata contenente l’avviso di cui all’art. 140 c.p.c., da parte del destinatario, come ha ritenuto il giudice di merito, traendone la conclusione che, essendo stato ricevuta la raccomandata il 17 giugno 2005, l’opposizione agli atti esecutivi depositata il 22.6.2005 dovesse ritenersi tempestiva.

Sottopone alla Corte il seguente quesito: “Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 140 c.p.c., la notificazione si perfeziona solo al momento del ricevimento da parte del destinatario dell’atto contenente l’avviso prescritto dall’art. 140 c.p.c.?”.

Il quesito di diritto, per come è formulato, è totalmente astratto dalla fattispecie concreta ed è pertanto inammissibile. Esso non contiene infatti alcun elemento di raccordo con la fattispecie sottoposta all’esame della Corte ma propone una formulazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo (v. Cass. S.U. n. 6420 del 2008).

Esso inoltre, così come è formulato non è idoneo a sindacare efficacemente la sentenza di merito che, molto sinteticamente, sul punto indicato dice soltanto: “Tale vizio non è stato fatto valere tardivamente, essendo stato il precetto notificato il 17.6.2005 (non v’è prova che sia stato notificato prima; il 16 è avvenuto il deposito presso la casa comunale) e l’opposizione il 22.6.2005”.

Nella sentenza non c’è alcun riferimento espresso alla data in cui sarebbe stata effettuata la spedizione della raccomandata nè c’è una opzione in favore della ricezione piuttosto che alla spedizione della raccomandata contenente l’avviso di notifica del precetto come momento di perfezionamento della notifica stessa. Il giudice di merito quindi non prende alcuna posizione e non affronta neppure ex professo la questione giuridica posta dal ricorrente.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 479, 480 e 654 c.p.c., anche in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto l’opponente avrebbe denunciato che nel precetto mancasse la trascrizione integrale del provvedimento che disponeva l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, mentre il Tribunale dell’Aquila aveva dichiarato la nullità del precetto perchè non recante l’indicazione della data della notifica del titolo esecutivo.

Quindi, in primo luogo, sembrerebbe che egli denunci una mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato piuttosto che una violazione di legge, senza alcun formale riferimento alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Il ricorrente riporta a sostegno della sua tesi vari precedenti di legittimità che affermano, in conformità con l’art. 654 c.p.c., che se il titolo esecutivo è costituito da un decreto ingiuntivo non è necessaria una sua seconda notifica per metterlo in esecuzione (purchè l’atto di precetto rechi alcune indicazioni essenziali) e poi chiede alla Corte se: “Ai fini dell’esecuzione, in caso di notifica di atto di precetto fondato su decreto ingiuntivo definitivamente esecutivo, nell’atto di precetto si deve indicare la data della notificazione del titolo esecutivo e/o si deve trascrivere il provvedimento che ha disposto l’esecutorietà del decreto ingiuntivo”.

Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3 e art. 480 c.p.c., anche in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e sostiene che l’opposizione non poteva essere accolta nè poteva esser dichiarata la nullità del precetto avendo esso raggiunto il suo scopo, che era quello di assegnare al debitore un termine per adempiere l’obbligo risultante dal titolo e scongiurare l’esecuzione ovvero di preannunciare il prossimo inizio dell’azione esecutiva in caso di mancato adempimento. Sostiene inoltre che il precetto conteneva tutti gli elementi idonei a consentire al debitore l’esatta identificazione del titolo posto in esecuzione, come risultava poi anche dal contesto dell’opposizione.

Entrambi i motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè relativi ad una stessa questione, sono infondati.

L’art. 654 c.p.c., consente effettivamente, nel caso che il precetto si riferisca ad un decreto ingiuntivo, di fare a meno di una nuova notificazione del medesimo, essendo sufficiente che nel precetto si indichino le parti e la data della notifica dell’ingiunzione e si menzioni il provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, il tutto per semplificare e velocizzare l’inizio del procedimento esecutivo, evitando una inutile duplicazione della notifica del titolo – già necessariamente avvenuta in precedenza ai fini della decorrenza del termine per la proposizione dell’opposizione – ed integrandola se il titolo al momento della notifica non era ancora munito di esecutività (Cass. n. 12731 del 2007).

A fronte di questa esenzione dall’onere di effettuare una seconda notificazione dello stesso titolo esecutivo, l’indicazione sul precetto della data della notifica del titolo, prevista in ogni caso a pena di nullità dall’art. 480 c.p.c., comma 2, acquista particolare valenza al fine della completa identificazione del titolo in quanto tiene luogo della notificazione del titolo esecutivo stesso. Se essa, come nel caso di specie, non è riportata, si produce una nullità che non può ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo a mezzo della semplice proposizione della opposizione agli atti esecutivi, in quanto equivalente alla nullità del precetto non preceduto dalla notificazione del titolo esecutivo.

A questo proposito, la Corte ha già avuto modo di affermare, infatti, che non è sanabile per raggiungimento dello scopo la nullità del precetto conseguente all’omissione della notificazione del titolo esecutivo a mezzo della proposizione di opposizione: e ciò sia quando venga proposta opposizione ex art. 617 c.p.c., per far valere il vizio della mancata osservanza dell’art. 479 c.p.c., comma 1; sia quando, unitamente a quest’ultima, vengano proposti motivi di opposizione ex art. 615 c.p.c. (in questo senso Cass. 23894/2012).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla sulle spese, in difetto di costituzione dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 19 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2014


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 04/06/2014) 19/09/2014, n. 19738

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21399-2008 proposto da:

P.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato DE MARCO ADA, rappresentato e difeso dall’avvocato ARIGLIANI PIERLUIGI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

SGA S.P.A. (OMISSIS) Società per la Gestione di Attività – in persona del suo Amministratore Delegato e legale rappresentante Avv. V.M. in questo atto rappresentato dal Dott. RAPALLINO LUCA MATTEO – in qualità di Cessionaria dei crediti in blocco della ISV.E.I.MER. S.P.A. in liquidazione, tra i quali quello nei confronti di OFFICINE MECCANICHE SANNITE S.R.L. – Benevento, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIA DE CURTIS, rappresentata e difesa dall’avvocato PAGLIA Antonino giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 893/2008 del TRIBUNALE di BENEVENTO, depositata il 27/05/2008, R.G.N. 2817/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2014 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

udito l’Avvocato ANTONIO PAGLIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
P.R. propose opposizione avverso il precetto notificatogli il 7.10.2003 dalla S.G.A. spa, quale cessionaria di un credito Isveimer, con il quale gli era stato intimato il pagamento della somma di Euro 21.865,77.

La convenuta contestò il fondamento dell’opposizione.

Il tribunale, con sentenza del 27.5.2008, accolse l’opposizione limitatamente alla rideterminazione del tasso d’interesse.

P.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso la S.G.A. spa..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: error in iudicando – falsa applicazione dell’art. 2945 c.c. intervenuta prescrizione del credito.

Il motivo non è fondato.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che la domanda di ammissione al passivo fallimentare attua l’interruzione permanente della prescrizione fino alla data del provvedimento di chiusura del processo esecutivo concorsuale e tale effetto si produce anche nei confronti dei coobbligati solidali del fallito, ai sensi dell’art. 1310 c.c., comma 1 (Cass. 8.4.1992 n. 4304 e successive conformi).

L’interruzione della prescrizione, nel caso in esame, si è realizzata a seguito della domanda di ammissione al passivo della cooobbligata O.M. Officine Meccaniche Sannite srl da parte dell’Isveimer valendo, quindi, anche nei confronti dei condebitori solidali e, quindi, ai sensi dell’art. 1957 c.c., anche nei confronti del fideiussore.

Con il secondo motivo si denuncia violazione norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3: error in iudicando – falsa applicazione dell’art. 1310 c.c.. Il motivo non è fondato.

La disciplina dell’art. 1310 c.c., comma 2, sull’estensibilità dell’interruzione della prescrizione agli altri condebitori solidali, va completata con la disciplina degli effetti della durata dell’interruzione contenuta nell’art. 2945 cod. civ., con la conseguenza che l’azione giudiziaria e la pendenza del relativo processo determinano l’interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti del condebitore rimasto estraneo al giudizio (da ultimo Cass. 21.1.2011 n. 1406).

Inoltre, poichè il precetto è atto non diretto alla instaurazione di un giudizio, nè del processo esecutivo, interrompe la prescrizione senza effetti permanenti, ed il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva sussiste anche nel caso in cui, dopo la sua notificazione, l’intimato abbia proposto opposizione.

Ma, se il creditore opposto si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie un’attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dall’art. 2943 cod. civ., comma 2 sicchè, ai sensi dell’art. 2945 cod. civ., comma 2 la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (Cass. 29.3.2007 n. 7737; v. anche Cass. 29.5.2013 n. 13438).

Ora, nel caso in esame, nell’ambito dell’azione proposta da due dei condebitori I. ed Officine Meccaniche Sannite srl (di cui alla sentenza n. 272/96), la SGA (cessionaria del credito Isveimer) assunse una posizione attiva, in ordine alla quale il tribunale – pur riducendo l’efficacia del precetto opposto – riconobbe l’esistenza del credito vantato. Con il terzo motivo si denuncia violazione norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3: error in iudicando – violazione del combinato disposto dell’art. 479 e dell’art. 480, comma 2 – omessa notifica titolo esecutivo. Il motivo non è fondato.

Invero, la sentenza impugnata sul punto, da atto che ” Per quanto concerne, invece, la contestata notifica del titolo esecutivo, deve rilevarsi come questo sia costituito dall’allegato contratto di mutuo per notar De Napoli del 27.02.1980 n. 8537/983, seguito dall’atto di quietanza a saldo del 30.04.1982, restando in conferenti le sollevate eccezioni riguardanti la mancanza del timbro di congiuntura e di quello attestante la conformità”.

Ora, in tema di esecuzione forzata, il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all’atto ricevuto da notaio, relativamente all’obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l’indicazione degli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva, e non dipende dalla particolare efficacia probatoria dell’atto, ma dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce (Cass. 19.7.2005 n. 15219).

Elementi tutti ricorrenti nella specie senza che alcuna influenza acquisti la mancanza del timbro di congiuntura al quale alcun rilievo riconosce la normativa in materia.

Nè il precedente indicato dal ricorrente (Cass. n. 4738/1992) è predicabile nel caso in esame, posto che si tratta di fattispecie del tutto diversa in cui la copia del titolo esecutivo era stata rilasciata da notaio diverso da quello che aveva rogato l’atto.

Conclusivamente, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di cassazione, il 4 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2014