Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 20-12-2012) 02-05-2013, n. 19054

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPO Ernesto – Presidente –

Dott. CHIEFFI Severo – Consigliere –

Dott. SIOTTO Maria Cristi – rel. Consigliere –

Dott. CORTESE Arturo – rel. Consigliere –

Dott. FIALE Aldo – Consigliere –

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere –

Dott. DAVIGO Piercamillo – Consigliere –

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi proposti da:

1. V.U.A., nato a (OMISSIS);

2. S.B.G., nato in (OMISSIS);

avverso la sentenza del 08/06/2011 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Arturo Cortese;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio per prescrizione nei confronti del S. e il rigetto del ricorso del V.;

uditi per V. gli avvocati COPPI FRANCO e Fabrizio Lemme, e per S. l’avv. Vincenzo Arrigo, che hanno concluso riportandosi ai rispettivi ricorsi e motivi.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 16 aprile 2009 il Tribunale di Roma condannava V.U.A. e S.B.G. alle pene, rispettivamente, di anni due e mesi otto di reclusione, e di mesi dieci di reclusione, in quanto ritenuti responsabili:

– il V., del reato di peculato continuato (capo sub A) di cui all’art. 81 cpv. c.p., e art. 314 c.p., comma 1, perchè, avendo, nella qualità di ambasciatore e capo della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea, il possesso di varie utenze cellulari belghe, le utilizzava, nel periodo compreso fra il settembre 2001 e il dicembre 2003, per l’effettuazione di numerose telefonate di carattere privato, per importi consistenti;

– entrambi, del reato di falso ideologico (capo sub C) di cui agli artt. 110 e 479 c.p., materialmente commesso, su istigazione del V., dal S., nella qualità di cancelliere contabile presso la predetta Rappresentanza, e consistito nella falsa attestazione, in un atto a sua firma intestato alla “Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea”, recante la data del 22 gennaio 2004 e avente ad oggetto un resoconto di spese a carico del V., di aver ricevuto da quest’ultimo, a titolo di conguaglio per le spese non di servizio relative all’anno 2003 per una delle utenze, il rimborso pari alla somma di Euro 11.650,67, che in realtà all’epoca non era ancora avvenuto (in quanto verificatosi quasi tre mesi dopo, ossia il 6 aprile 2004);

– il S., inoltre, del reato di favoreggiamento personale aggravato (capo sub D) di cui all’art. 378 c.p., e art. 61 c.p., n. 9, contestato in relazione alla commissione della condotta delittuosa di falso.

Il Tribunale di Roma, quindi, concesse le attenuanti generiche e unificati i reati ex art. 81 cpv. c.p., condannava il V. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione (così determinata: p.b.

ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: un anno e quattro mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con gli episodi di peculato), con la pena accessoria della interdizione di pari durata dai pubblici uffici, e il S. alla pena di dieci mesi di reclusione (così determinata: p.b. ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: otto mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con il delitto di favoreggiamento).

2. Su appello degli imputati, la Corte di appello di Roma, con sentenza dell’8 giugno 2011, assolveva il S. dal reato di cui al capo sub D (con eliminazione del relativo aumento di pena ex art. 81 c.p., comma 2) perchè il fatto non costituisce reato (mancando la prova che il predetto avesse agito con intenti ulteriori rispetto a quello di salvaguardare le aspettative di carriera del V., evitandogli problemi disciplinari) e riconosceva al V. l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, relativamente al reato di peculato di cui al capo A (venendo in rilievo, a tale effetto, i singoli episodi delittuosi), con conseguente diminuzione a un anno della pena applicata come aumento per la continuazione, confermando, nel resto, la pronuncia di primo grado.

Per la conferma della responsabilità del V. in ordine al delitto di peculato di cui all’art. 314 c.p., comma 1, la Corte di merito si basava sul consolidato e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, nella condotta di indebito utilizzo del telefono d’ufficio da parte del pubblico funzionario, ciò che viene in rilievo agli effetti penali è l’appropriazione delle energie costituite dagli impulsi elettrici, occorrenti per realizzare la comunicazione, entrate a far parte del patrimonio dell’amministrazione.

Secondo la Corte capitolina, all’epoca dei fatti nessuna fonte consentiva al personale degli affari esteri l’utilizzo per fini privati del telefono cellulare assegnato per motivi d’ufficio. In particolare la c.d. direttiva “Frattini” n. 3/2001 subordinava espressamente la possibilità di un tale utilizzo alla esistenza di un contratto c.d. dual billing, idoneo cioè a consentire una fatturazione differenziata per le telefonate private. Nè alcun valore potevano avere, in quanto contrastanti con l’inequivoco tenore della detta direttiva, i chiarimenti ministeriali successivi alla vicenda di causa, secondo i quali, in caso di mancata attivazione del dual billing, le telefonate private potevano ugualmente farsi, senza limiti di spesa, salvo l’obbligo di rimborso, e senza vincoli temporali, da parte del pubblico funzionario. Prassi in tal senso, pur tollerate, erano palesemente illegittime. Nè il caso di specie, per le sue particolarità e per la condotta tenuta dall’imputato, offriva alcun appiglio per ritenerne sussistente la buona fede.

Riguardo al falso, la Corte ne confermava la sussistenza in base alle caratteristiche formali e al chiaro tenore dell’atto, al suo raffronto con l’omologa attestazione datata 6 aprile 2004 e ai rilievi effettuati in sede di ispezione dal 24 al 27 febbraio 2004.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.

3.1. Il V., che ha impugnato la sola condanna per il delitto di peculato, ha formulato i seguenti tre motivi.

a) Erronea applicazione dell’art. 314 c.p., e motivazione apparente, illogica e contraddittoria.

Secondo il ricorrente, nel caso di uso indebito dell’apparecchio cellulare da parte del pubblico ufficiale, non è configurabile il delitto di peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, in quanto i cosiddetti impulsi elettronici non possono essere sussunti nella nozione di cosa mobile suscettibile di appropriazione, perchè, venendo ad esistenza a seguito e per effetto della condotta contestata, non costituiscono entità materiale ad essa preesistente e già nel possesso o nella disponibilità del soggetto agente. Nè varrebbe invocare in contrario la disposizione del capoverso dell’art. 624 c.p., posto che anche in tal caso l’energia sottraibile deve preesistere alla sottrazione. La configurazione dell’impulso elettronico quale possibile oggetto di condotta appropriativa rilevante ai fini del peculato si porrebbe, quindi, in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale e con il divieto di interpretazione analogica.

Richiamando inquadramenti diversi del fenomeno in esame offerti dalla stessa giurisprudenza, comportanti l’opportuna assegnazione della causa alle Sezioni Unite, il ricorrente prospetta che esso potrebbe, al più, sussumersi nella fattispecie dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p., ovvero, sul rilievo dell’indebito utilizzo dell’apparecchio telefonico in quanto tale, in quella del peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2: fattispecie entrambe, peraltro, prescritte.

b) Inosservanza della norma penale di cui al combinato disposto dell’art. 59 c.p., comma 4, e art. 47 c.p., nonchè vizio della motivazione sul mancato riconoscimento dell’esimente putativa del consenso dell’avente diritto.

Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale, pur avendo riconosciuto, sulla base della documentazione prodotta (da ultimo, una nota dello stesso Ministro Frattini sulla possibilità di un rimborso successivo all’erario, consentito senza limitazione di tempi e di costi), l’esistenza di una situazione di tolleranza, da parte dell’amministrazione di appartenenza, costituente una manifestazione almeno tacita, o apparente, di consenso, ha poi erroneamente parlato al riguardo di prassi contra legem, laddove, nel caso di specie, si versa in una ipotesi di errore non sulla legge penale, bensì su atti amministrativi e comportamenti concludenti della pubblica amministrazione.

c) Vizio della motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza della fattispecie di peculato d’uso, perchè la Corte distrettuale avrebbe solo richiamato i precedenti giurisprudenziali, senza rispondere specificamente ai rilievi d’appello relativi al fatto concreto, nel quale l’appropriazione dell’apparecchio sarebbe stata comunque temporanea e con successivo integrale rimborso delle somme addebitate.

3.2. Con motivi nuovi, depositati, con allegati, il 18 maggio 2012, la difesa del V. ha puntualizzato che l’impiego del cellulare per uso privato comporta solo un obbligo di rimborso della telefonata a carico dell’utente, il cui inadempimento integra un illecito di natura civile, in quanto l’utilizzatore delle onde magnetiche – delle quali nessuno ha la disponibilità o la possibilità di appropriarsi – si limita ad usufruire, dietro compenso, di un servizio prestato dalla società concessionaria, con la conseguenza che sull’utente grava un obbligo di tipo civilistico che consiste appunto nel pagamento delle prestazioni godute. Nè potrebbe certamente ritenersi, in tale situazione, la sussistenza del possesso o della disponibilità di denaro altrui anteriormente alla effettuazione delle telefonate: l’amministrazione di riferimento, infatti, paga il complessivo ammontare della fattura presentata periodicamente dalla società concessionaria, restando semplicemente in credito, nei confronti dell’utente, del rimborso dell’importo relativo alle telefonate di natura privata da lui effettuate.

Tale ricostruzione sarebbe in linea con la corretta interpretazione della c.d. “direttiva Frattini” n. 3/2001, e con la riconosciuta prassi, ritenuta ad essa conforme (come da circolare ministeriale n. 1 del 10 febbraio 2005 e nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 13 giugno 2005), di ritenere lecito l’uso per finalità private del cellulare ricevuto per esigenze di servizio anche in caso di mancata stipulazione di un contratto di dual billing, mediante l’adozione di un sistema alternativo di individuazione delle telefonate private, idoneo a caricarne il costo sull’interessato.

E’ stata eccepita, poi, la mancanza di motivazione in ordine alla qualificazione del fatto in termini di peculato d’uso, in quanto la condotta del ricorrente non sarebbe stata mai animata dall’intenzione di appropriarsi di una cosa mobile della p.a.: del resto, qualora si considerasse come oggetto materiale del reato il cellulare di servizio, questo sarebbe sempre rimasto nella disponibilità della pubblica amministrazione, aspetti, questi, sui quali l’impugnata pronuncia cadrebbe in palesi errori di valutazione e carenze motivazionali.

In data 6 luglio 2012 è stata presentata altra memoria difensiva che ripropone il punto della non configurabilità della condotta di peculato ordinario per l’uso personale di telefono mobile del quale si abbia il possesso per ragioni d’ufficio, in ragione delle modalità tecniche di funzionamento dello strumento.

3.3. Il S. ha proposto tre motivi di doglianza relativi al reato di cui al capo sub C:

a) violazione di legge e carenza di motivazione sulla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ex artt. 43 e 479 c.p., non potendosi la stessa concretizzare nella mera immutatio veri;

b) violazione di legge e carenza di motivazione in ordine all’elemento oggettivo, in quanto, da un lato, a fronte dell’ambiguità del termine “provveduto” (da ricollegare al mero resoconto fornito dal V. e non all’avvenuto rimborso delle somme), doveva escludersi la prova certa del falso, e, dall’altro, l’esclusione della fondatezza dell’assunto che nella specie l’atto incriminato fosse un mero pro-memoria era stata basata sulla ritenuta unicità di esso, contrastata dalla documentazione in atti;

c) motivazione contraddittoria e illogica in relazione alla sussistenza dell’elemento psicologico, configurata e ravvisata in origine in maniera congiunta per il delitto di favoreggiamento e per quello di falso, in relazione alla medesima scrittura del 22 gennaio 2004, e poi mantenuta ferma per il solo falso, pur dopo l’esclusione dell’intento di favorire il V. nella sua pendenza giudiziaria, della quale si è escluso che all’epoca il S. fosse a conoscenza.

3.4. Il 2 luglio 2012 la difesa del S. ha depositato motivi aggiunti, riprendendo e sviluppando la tesi della necessità di una componente sostanziale di nocività o inganno per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ex art. 479 c.p. – oltre che per la sua stessa configurabilità oggettiva -, componente certamente da escludere nel caso di specie.

4. Con ordinanza n. 36760 del 18 luglio – 24 settembre 2012 la Sesta Sezione penale, assegnataria del ricorso, dopo aver ricordato l’insegnamento consolidato secondo il quale “il delitto di peculato si configura quando l’appropriazione abusiva ha leso la funzionalità della pubblica amministrazione e ha causato un danno patrimoniale apprezzabile, trattandosi di reato plurioffensivo”, che si realizza con una “condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede e da cui deriva un’estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto”, ha rilevato in particolare, sulla questione dell’utilizzo (anche) a fini privati del telefono assegnato per esigenze d’ufficio, che la giurisprudenza individuò l’atto appropriativo, in un primo tempo, “nell’uso del telefono quale apparato fisico (con la – allora coerente – configurabilità della fattispecie del peculato d’uso, in relazione al carattere momentaneo di detto uso e all’immediata restituzione dell’apparato”), e successivamente, invece, secondo un indirizzo che si è poi consolidato, “nel consumo delle energie costituite dagli impulsi elettronici, o elettrici (…), attraverso i quali si trasmette la voce (impulsi la cui appropriazione non può che essere definitiva, con la conseguente configurabilita del peculato ordinario disciplinato dall’art. 314 c.p., comma 1, e l’irrilevanza dell’eventuale successivo rimborso risarcitorio”).

4.1. Secondo l’ordinanza di rimessione, “la specifica doglianza secondo cui la lettura che individua l’oggetto dell’appropriazione negli impulsi elettronici che consentono la trasmissione della voce si allontana in modo intollerabile dal concetto di entità materiale suscettibile di appropriazione, per accogliere un’interpretazione dell’art. 314 c.p., che, ben oltre il dato letterale, appare in netto contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale e con il divieto di interpretazione analogica, merita un’attenta riflessione, il cui esito può condurre ad un ripensamento delle conclusioni cui questa Corte Suprema è da tempo pervenuta”.

L’interpretazione finora accolta, infatti, riconduce al concetto normativo di “energia che abbia un valore economico”, suscettibile di sottrazione (e quindi di appropriazione), gli “impulsi elettronici”, che in realtà non preesistono all’uso illecito ma sorgono con esso e a sua causa e, inoltre, non esauriscono il costo del “servizio” oggetto del contratto, sul quale incidono in realtà una molteplicità di elementi (infrastrutture, risorse umane e tecniche, ecc.).

Ne discende, ad avviso della Sezione rimettente, la necessità di verificare se in relazione all’uso indebito dell’apparato telefonico non sia più appropriato ricorrere ad altra qualificazione giuridica, quale potrebbe essere “quella dell’abuso d’ufficio (potendosi ravvisare la violazione della disciplina sull’uso del servizio telefonico cellulare e comunque dei principi generali, anche di rilievo costituzionale, di contabilità dello Stato (…), l’ingiusto vantaggio patrimoniale dell’utilizzatore infedele e il danno ingiusto dell’Amministrazione), ovvero quella della truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 1, n. 1 (quando la mancata segnalazione delle telefonate personali, ricorrendo i parametri prima ricordati, sia riconducibile ad una inveritiera dichiarazione)”.

La delicatezza della questione e l’inopportunità di una pronuncia in qualche modo “esplorativa” in direzione contraria all’indirizzo dominante hanno indotto il Collegio della Sesta Sezione a ritenere doverosa la rimessione del processo alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 618 c.p.p..

5. Con decreto in data 1 ottobre 2012 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

6. In data 29 novembre 2012 i difensori del V. hanno presentato un’ulteriore memoria ai sensi degli artt. 121 e 611 c.p.p., riproponendo anzitutto la tesi della insussistenza del reato di peculato.

Al riguardo, si ribadiscono:

a) la assoluta inaccettabilità della sussunzione, nel concetto normativo di “cosa mobile”, dei fenomeni fisici attraverso i quali la voce, previamente codificata in impulsi elettrici, viene trasmessa, tramite onde elettromagnetiche, a distanza: l’operazione tecnica, infatti, avviene con il supporto del gestore telefonico, che non “vende” onde elettromagnetiche appropriagli, ma “eroga” servizi di telefonia mobile;

b) il dato della materiale indisponibilità dell’onda elettromagnetica, sia nel patrimonio del soggetto passivo del reato che del soggetto attivo del reato, anteriormente alla realizzazione della presunta condotta appropriala : l’onda, infatti, viene generata proprio dall’utilizzo, corretto o meno, dell’apparecchio telefonico.

Si sottolinea inoltre che gli addebiti sulle utenze mobili, che avvengono in base alle telefonate effettuate, non sono diretta espressione del valore economico degli impulsi generati durante le conversazioni, in quanto le chiamate fungono solo da criterio di computo degli addebiti medesimi, che sono, per contro, direttamente collegati alla fruizione, da parte dell’utente, di tutta una serie di servizi messi a disposizione dalla compagnia telefonica (ripetitori, personale, infrastrutture, elaboratori informatici, ecc.).

Anche per tale via, dunque, l’impulso elettromagnetico non può ritenersi una “cosa mobile” ai sensi dell’art. 624 c.p.: esso non è valutabile economicamente, mentre è valutabile sul piano economico il servizio di telefonia reso dal gestore all’utente attraverso la complessiva organizzazione che consente la ricezione, lo smistamento e la trasmissione dei segnali elettromagnetici generati con l’apparecchio telefonico.

Più congrua, eventualmente, potrebbe ritenersi la sussunzione del comportamento contestato in altre fattispecie penali, quali quelle di cui agli artt. 323 o 640 c.p..

In ordine al reato di falso, la difesa del V., ricollegandosi ai motivi non personali di impugnazione presentati dal S., pacificamente estensibili ai sensi dell’art. 587 c.p.p., sottolinea anzitutto che difetta nella specie la univoca falsa rappresentazione della realtà. All’annotazione “provveduto”, riportata nell’atto incriminato, in sè comunque non collegabile a uno specifico obbligo di riferire l’effettiva realtà, doveva infatti attribuirsi – anche alla luce dell’ulteriore documentazione acquisita nel dibattimento di primo grado – il corretto significato di “annotato, contabilizzato”, pienamente compatibile con la natura di “mero promemoria, suscettibile di costante aggiornamento” che il redattore stesso intendeva rappresentare, e che, in quanto tale, doveva condurre all’esclusione dell’ipotesi delittuosa in contestazione, potendosi ritenere falso solo ciò che, per come rappresentato, deve ritenersi contrario alla realtà, non consentendo alternative interpretazioni.

Sul piano probatorio, si ribadisce poi la censura, già formulata nei motivi di appello, di omessa valutazione della documentazione – prodotta dal P.m. in corso di istruttoria dibattimentale – che constava di un promemoria di stampo identico a quello oggetto di asserita falsificazione (relativo alle spese sostenute per il precedente anno) e di una ricevuta rilasciata dal cancelliere contabile a fronte dell’effettivo versamento della relativa somma.

Si chiede, conclusivamente, l’annullamento dell’impugnata sentenza di condanna sia in ordine al reato di peculato che a quello di falso ideologico, con l’affermazione del principio per cui, nella condotta di indebito utilizzo dell’utenza cellulare assegnata per ragioni d’ufficio, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, non è ravvisabile il reato di peculato. In subordine, si chiede di riqualificare il fatto contestato, ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen., come reato di peculato d’uso o abuso d’ufficio, ovvero truffa aggravata, dichiarando non doversi procedere per intervenuta estinzione per prescrizione del reato, nonchè di dichiarare l’intervenuta estinzione, per decorso del termine prescrizionale, anche del reato contestato sub C.

Motivi della decisione
1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è “se l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato”.

2. L’approccio e le soluzioni ad essa dati da parte della giurisprudenza sono variati nel tempo.

2.1. Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la condotta in questione integri il reato di peculato d’uso ex art. 314 c.p., comma 2.

Essa, infatti, non realizzerebbe un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli “scatti”), ma un’interversione momentanea del possesso (seguita da restituzione immediata) dell’apparecchio (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi), per la quale non sarebbe necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità e controllo del proprietario, essendo sufficiente che l’agente si comporti nei confronti della cosa medesima, sia pure in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus, realizzando finalità estranee agli interessi del proprietario (Sez. 6, n. 788 del 14/02/2000, Mari, Rv. 217342).

Il percorso giustificativo di tale approdo ermeneutico muove dal rilievo generale (v. Sez. 6, n. 7364 del 1997, Guida, cit.) che, se il pubblico agente possiede in nome e per conto della pubblica amministrazione gli arredi e le attrezzature dell’ufficio nella loro materiale disponibilità proprio in ragione delle sue mansioni, non par dubbio che un’aversione dal loro uso conforme alla destinazione data dalla pubblica amministrazione per il perseguimento del pubblico interesse, con correlativo volgimento a estranei fini di personale vantaggio in un tempo dato e in modi apprezzabili, comporta un’inammissibile interversione del possesso e quindi un’appropriazione. La reversibilità dell’interversione, alias la possibilità di restituire il bene impropriamente utilizzato alla normale destinazione d’uso, e quindi la durata dell’interversione predetta, sono in sè irrilevanti perchè l’uso “momentaneo”, purchè apprezzabile, della cosa e la sua restituzione “immediata”, cioè omisso medio, delimitano appunto e caratterizzano la nuova figura di reato del peculato d’uso rispetto alla fattispecie più grave, e ben più gravemente sanzionata, disciplinata dal comma primo del medesimo art. 314 c.p., nella formula introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 1. Nell’ipotesi in esame, dunque, il reato si realizza non già in relazione alla fruizione di un servizio non dovuto, insuscettibile, per la sua immaterialità, di essere inquadrato nella fattispecie astratta, bensì in relazione all’interversione del possesso correlata all’uso deviato, imprescindibile per fruire di quel servizio, dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità materiale dell’agente. In altri termini, a configurare il reato nel caso in questione è l’esercizio di un possesso a fini propri e, quindi, in nome proprio, che, caratterizzato da un animus rem sibi habendi diverso da quello dovuto, denunzia l’appropriazione di un bene pubblico, destinata a breve durata perchè connotata appunto dal fine di “fare uso momentaneo della cosa” (affidata all’agente in ragione del suo ufficio o servizio), ma pur sempre di rilevanza penale.

2.2. Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giurisprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli estremi del peculato comune. Si osserva in proposito che l’uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione dell’apparecchio telefonico in quanto tale, ma nell’utilizzazione dell’utenza telefonica, e l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato (non già dall’apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì) dall’energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la “cosa mobile altrui”, vi sarebbe da parte dell’intraneus una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo l’uso (di tal che l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’importo delle telefonate può valere solo come ristoro del danno cagionato). In sostanza, il pubblico agente, attraverso l’uso indebito dell’apparecchio telefonico, si approprierebbe delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, Santone, Rv. 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 2002, Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, Menotti, Rv. 218435; Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, Di Maggio, Rv. 217710).

Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate, quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come un’unica condotta (Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, Montana, Rv. 234838; v.

anche, sul punto, Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 2011, Di Maria, Rv. 249201). Sul piano della applicazione concreta possono segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico dall’importo assai elevato (Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, Maggiore e altro, Rv. 236627; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 2005, Aiello, Rv. 231032), ovvero a Paesi esteri per scopi ludici (Sez. 6, n. 21165 del 29/04/2009, G.A.), o comunque personali (Sez. 6, n. 2525 del 04/11/2009, dep. 2010).

Il rigore di questo orientamento giurisprudenziale viene mitigato anche con il rilievo che nel concreto assetto dell’organizzazione pubblica è possibile riscontrare, talora, una sfera di utilizzo della linea telefonica dell’ufficio per l’effettuazione di chiamate personali che non può considerarsi “esulante del tutto dai fini istituzionali” e nella quale, quindi, non si realizza l’evento appropriativo (Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.). Si tratta di quelle situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato da impellenti esigenze di comunicazione privata (durante l’espletamento del servizio), finirebbe – ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l’utenza dell’ufficio – per creare addirittura maggior disagio all’amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio: in questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze personali e il più proficuo perseguimento dei fini pubblici, è la stessa amministrazione ad avere interesse a consentire al dipendente l’uso della linea dell’ufficio per fini privati.

Un preciso e significativo riscontro formale di tale realtà è stato rinvenuto nel decreto del 31 marzo 1994 del Ministro per la Funzione pubblica (G.U., n. 149 del 28 giugno 1994), che, nel definire il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificamente previsto che “in casi eccezionali”, dei quali va informato il dirigente dell’ufficio, il dipendente possa effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’ufficio (v. la prima parte dell’art. 10, comma 5, del D.M. citato): statuizione nella quale, fra l’altro, all’informativa al dirigente dell’ufficio viene attribuita natura di mero adempimento formale, che – al di là delle possibili conseguenze disciplinari della sua violazione – non condiziona l’autonoma e sostanziale “rilevanza derogatoria” del “caso eccezionale”.

Numerose sono le pronunce che hanno fatto applicazione di tali criteri di “temperamento” (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786; Sez. 6, n. 41709 del 19/10/2010, Ermini, Rv. 248798; Sez. 6, n. 24709 del 24/05/2007, Cavaliere; Sez. 6, n. 25273 del 2006, Montana, cit.; Sez. 6, n. 10719 del 31/01/2003, Oriente, Rv. 224864; Sez. 6, n. 7772 del 2003, Russo, cit.; Sez. 6, n. 7347 del 2003, Di Niro, cit.; Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.; Sez. 6, n. 3879 del 2000, Di Maggio, cit.).

2.3. L’orientamento da ultimo illustrato trova seguito anche in relazione all’affine questione del computer in dotazione all’ufficio del pubblico funzionario, utilizzato per navigare in internet su siti non istituzionali (Sez. 6, n. 20326 del 15/04/2008, D’Alfonso). In tal caso non si manca peraltro di sottolineare la necessità di verificare il tipo di convenzione che lega l’ente al gestore del servizio di internet, e cioè se l’ente paghi una somma forfettaria al mese (c.d. tariffa flat), per cui è economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad internet eseguita dall’ufficio (e non vi è danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o se, di contro, l’ente paghi in funzione della durata delle singole connessioni, caso in cui la condotta illegittima del dipendente provocherebbe un immediato danno patrimoniale all’ente (Sez. 6, n. 41709 del 2010, Ermini, cit.).

Distinzione analoga potrebbe evidentemente farsi anche per le tariffe telefoniche. Invero, se con la tariffa “a consumo” ogni scatto in più, effettivamente, non fa altro che aumentare il danno patrimoniale della p.a., dato che ogni telefonata per scopi privati determina un indebito accrescimento di quanto dovuto al gestore telefonico, al contrario con la tariffa c.d. “forfettaria” o “tutto- incluso”, grazie alla quale l’utente corrisponde al gestore telefonico un canone mensile fisso, indipendentemente dalle telefonate e dagli scatti realmente effettuati, non vi sarebbe alcuna forma di deminutio patrimonii, dato che – indipendentemente dalla realizzazione di una o più telefonate a scopi privati – la p.a. pagherebbe al gestore telefonico sempre lo stesso importo predeterminato, a prescindere quindi dal traffico telefonico realizzato.

2.4. Talora l’uso indebito del telefono è stato ricondotto alla fattispecie dell’abuso d’ufficio (v. Sez. 6, n. 20094 del 04/05/2011, Miscia, Rv. 250071, relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che utilizzava l’apparecchio telefax in dotazione dell’ufficio, per procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge), anche se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione della impossibilità di configurare, in tale comportamento, una “violazione di norme di legge o di regolamento”, quale requisito essenziale per l’integrazione del delitto punito dall’art. 323 c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispecie introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n. 234.

Un ulteriore ostacolo alla riconducibilità della condotta in discorso alla fattispecie dell’abuso d’ufficio potrebbe anche ravvisarsi, in determinate situazioni, nella previsione dello svolgimento della condotta stessa “nell’esercizio delle funzioni o del servizio”.

Nell’affine materia dell’utilizzo per scopi privati della navigazione in internet attraverso il computer in dotazione all’ufficio, si è talora fatto ricorso allo schema del delitto di abuso d’ufficio nell’ipotesi in cui il contratto di connessione ad internet stipulato dall’ente preveda una tariffa flat, cioè a costo forfettario (Sez. 6, n. 31688 del 09/04/2008, Cannalire, Rv. 240692; Sez. 6, n. 381 del 2000, Genchi, cit.).

2.5. Per completare la rassegna di giurisprudenza, bisogna anche dar conto di un orientamento, sporadicamente emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib. Sanremo, 19 ottobre 1995, X), che ritiene che l’uso privato del telefono d’ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non potendosi equiparare il semplice “uso” alla “appropriazione”.

Si osserva, a supporto della tesi, che l’uso del telefono da luogo soltanto ad un addebito a carico della pubblica amministrazione delle somme corrispondenti all’entità delle utilizzazioni di volta in volta effettuate, con la conseguenza che parrebbe inopportuno parlare di “appropriazione”. L’oggetto materiale della condotta, infatti, è rappresentato nella specie dal telefono come strumento di utilizzazione dell’utenza telefonica d’ufficio, e, siccome tale apparecchio rimane sempre nella disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la condotta di indebita utilizzazione da parte del pubblico funzionario dell’utenza telefonica intestata all’amministrazione per l’effettuazione di conversazioni personali non può integrare nè gli estremi del peculato comune, nè quelli del peculato d’uso.

In altri termini, viene negata la stessa configurabilità di una condotta di appropriazione, stante il mancato perfezionamento “negativo” della stessa, consistente nell’esclusione totale del proprietario dal rapporto con la cosa.

3. La disamina del panorama dottrinale mostra analoga varietà di vedute, con una sensibile divaricazione di indirizzi interpretativi, connotati, talora, da sostanziali analogie con il ragionamento sotteso al discorso giurisprudenziale, e, in altre occasioni, da una vera e propria originalità di impostazioni sul piano dogmatico.

3.1. Alcuni Autori ritengono sussumibile la fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 314 c.p., comma 1, aderendo sostanzialmente alla tesi accolta dal più rigoroso orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’appropriazione non riguarda l’apparecchio in sè e per sè, ma le energie che danno luogo al colloquio telefonico e che, pertanto, non possono essere mai oggetto di restituzione se non sotto il riflesso del risarcimento del danno provocato alla pubblica amministrazione.

Secondo tale impostazione, al pubblico agente non interessa lo strumento telefonico, ma il servizio che esso rende, che si identifica nella telefonata, e il danno cagionato alla p.a. è costituito dal consumo degli “scatti”, cioè delle energie necessarie per la effettuazione della conversazione.

All’interno dell’orientamento in discorso, e focalizzando maggiormente l’attenzione sui profili economici della fattispecie, si è proposta l’opportunità di una distinzione di carattere preliminare, a seconda che l’amministrazione interessata abbia o meno un piano telefonico a forfait, in modo tale che il numero delle singole telefonate non incida sull’ammontare di spesa.

Nel caso in cui ogni telefonata abbia un singolo costo, sembra infatti ragionevole ritenere che il pubblico agente che impiega indebitamente il telefono d’ufficio debba rispondere di peculato comune, essendosi in sostanza appropriato delle risorse economiche della pubblica amministrazione (di cui disponeva per ragioni d’ufficio) impegnate per il pagamento delle telefonate.

In caso, invece, di contratto telefonico a forfait, l’impiego del telefono d’ufficio per ragioni personali potrà configurare peculato comune, se il pubblico agente ne faccia uso in modo prolungato (impedendo ad es. l’uso ad altri o occupando le linee telefoniche d’ufficio), ovvero peculato d’uso, se l’uso sia momentaneo.

In entrambe le ipotesi considerate, esulerebbero peraltro dalla punibilità le situazioni connotate da episodicità o sporadicità, per difetto del requisito implicito del danno al patrimonio e al buon funzionamento della p.a., ovvero per l’esercizio di un diritto (arg.

ex art. 51 c.p.), espressamente conferito ai pubblici dipendenti dall’art. 10, comma 5, del codice di comportamento approvato con il D.M. 31 marzo 1994.

Nel commentare criticamente l’orientamento giurisprudenziale che non inquadra nel peculato, ma nel reato di abuso d’ufficio, la connessione abusiva ad internet da parte del pubblico ufficiale, altra opinione dottrinale si colloca sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica sopra delineata, rilevando che l’autore della condotta incriminata non farebbe solo un uso momentaneo del computer e della linea telefonica (rectius del modem), ma si approprierebbe delle energie – impulsi elettronici – relative alle connessioni ad internet. Tali energie sarebbero oggetto di un’appropriazione vera e propria da parte dell’agente, con correlativa definitiva perdita per l’amministrazione, non essendone possibile la restituzione.

Muovendo dall’ampiezza del fenomeno dell’utilizzo delle nuove tecnologie sui luoghi di lavoro, pubblici e privati, un’altra posizione dottrinale ritiene che il fatto di impegnare una linea telefonica non per comunicazioni conformi al servizio, ma per frequentare chat line o per sbrigare la propria corrispondenza, può costituire, per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, un’ipotesi di peculato ordinario non solo sotto il profilo dell’appropriazione degli impulsi elettronici veicolati dall’apparecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera di disponibilità della p.a., ma anche sotto quello della sottrazione di risorse lavorative altrimenti impiegabili per il lavoro dovuto.

La qualità ordinaria del peculato si evidenzierebbe così anche per la non restituibilità delle risorse lavorative distratte e reindirizzate verso un impegno extralavorativo: a poco rileverebbe, in questa ottica, che il dipendente utilizzi un sistema non comportante di fatto un aggravio di spesa per il datore di lavoro, poichè egli, oltre a procurarsi un vantaggio lucrativo non spettantegli, certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta la durata della connessione, impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al lavoro.

Analoga soluzione interpretativa sarebbe, sia pur parzialmente, proponibile anche nel settore privato, dove tali comportamenti potrebbero ritenersi sussumibili nell’ambito dello schema descrittivo delineato dall’art. 646 c.p., e art. 61 c.p., n. 11: l’utilizzo inappropriato del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo complesso, durante l’orario di lavoro, costituirebbe infatti una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in questione, che verranno restituiti giocoforza al termine dell’attività, quanto delle risorse ed energie lavorative che altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano state affidate.

3.2. Parte della dottrina ha sottoposto invece a critica stringente la soluzione interpretativa che riconduce alla fattispecie del peculato comune il comportamento del pubblico dipendente che indebitamente utilizzi il telefono dell’ufficio per comunicazioni personali.

Muovendo dal duplice rilievo che, ove il possesso dell’energia dipenda dal possesso del bene da cui essa promana, la configurabilità del peculato va valutata in rapporto non all’energia in quanto tale, bensì alla cosa che la produce, e che il pubblico funzionario, per poter disporre dell’utenza telefonica, deve avere il possesso o la disponibilità dell’apparecchio telefonico, si perviene alla conclusione che l’utilizzo a scopi personali dello stesso, che viene così distratto dalla originaria destinazione, è riconducibile propriamente alla figura del peculato d’uso, nel quale il fatto lesivo è costituito proprio dall’utilizzo non conforme alle finalità istituzionali e volto al conseguimento di un vantaggio personale.

Non varrebbe in contrario l’obiezione che il concetto di restituzione non si attaglierebbe ai casi in cui l’uso del bene avvenga senza la sua fuoriuscita dalla sfera di controllo del legittimo titolare.

Posto infatti che la specifica ratio dell’introduzione della nuova fattispecie del peculato d’uso è quella di evitare un’impropria utilizzazione dei beni della pubblica amministrazione, il concetto di appropriazione momentanea che in esso viene in rilievo appare omologo a quello della distrazione, nella quale non rileva che il bene sia o meno sottratto alla sfera di disponibilità e controllo del legittimo proprietario, ma solo che venga distolto dalla originaria destinazione pubblicistica. La restituzione del bene, in tale ipotesi, consisterebbe nella cessazione dell’uso arbitrario, contrario all’interesse pubblico, e nella “riconduzione” del bene alla sua normale destinazione.

Allo scopo di evitare che la finalità attenuatrice della pena assegnata alla previsione di cui all’art. 314 c.p., comma 2, si converta in una eccessiva dilatazione della responsabilità, si è peraltro rimarcata la necessità che l’uso momentaneo si risolva in un’apprezzabile offesa degli interessi del proprietario del bene, non potendosi dunque ritenere configurabile il reato nelle ipotesi di uso economicamente e funzionalmente non significativo (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3).

Di converso, non basterebbe un uso non momentaneo, ovvero non seguito dall’immediata restituzione della cosa, a far rifluire automaticamente il fatto nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p., comma 1, apparendo comunque assai problematica in tal caso la ravvisabilità del dolo della condotta appropriativa, e residuando piuttosto, nella presenza dei previsti requisiti, la possibilità di una incriminazione della condotta a titolo di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..

3.3. In una prospettiva affine ma non sovrapponibile si muove altro orientamento dottrinale, che, assimilando l’uso indebito del telefono a quello dell’autovettura ed escludendo che l’oggetto della condotta, ricadente palesemente in entrambi i casi sul bene fisico impiegato, possa identificarsi con l’energia in sè e per sè considerata che ne esprime il funzionamento, rileva che non sussiste alcun valido motivo per escludere a priori che l’uso possa costituire, nello schema del novellato art. 314 c.p., una forma di manifestazione della condotta appropriativa, richiedendosi solo, a tal uopo, che la condotta di abuso possessorio si estrinsechi attraverso i due momenti realizzativi dell’espropriazione (ossia, l’estromissione totale – ma non necessariamente definitiva – del legittimo proprietario dal rapporto con la cosa) e dell’impropriazione (ossia, il disconoscimento dell’altrui signoria attraverso atti dominicali incompatibili con l’interesse del vero avente diritto). In presenza di siffatti presupposti, opererebbe come criterio di distinzione “interna” tra il peculato comune e il peculato d’uso l’elemento della definitività dell’esclusione del dominus dal rapporto con la cosa:

l’uso protratto per un tempo limitato e seguito dall’immediata restituzione sarà riconducibile al capoverso dell’art. 314 c.p., mentre quello prolungato o comunque non seguito dalla restituzione della res rientrerà nella più grave fattispecie del peculato comune.

In tale prospettiva ermeneutica, la linea di demarcazione “esterna”, rispetto alla contigua fattispecie di abuso d’ufficio, è segnata dalla completa estromissione del proprietario dal rapporto con il bene medesimo, solo in mancanza della quale, restando inconfigurabile il delitto di peculato, potrà trovare applicazione, nella ricorrenza di tutti gli altri presupposti, la fattispecie di cui all’art. 323 c.p..

3.4. Alla tesi della configurabilità del peculato d’uso, altra posizione dottrinale perviene attraverso un percorso differente, che muove dal rilievo, contrario all’opinione dominante, che oggetto di tale figura di reato non sono solo le cose infungibili ma anche quelle fungibili, come il denaro. La previsione della restituzione della “stessa” cosa, recata dalla norma codicistica, andrebbe infatti letta in relazione alla natura della cosa stessa, nel senso che, in caso di beni infungibili, ne esigerebbe la piena identità fisica, mentre, in caso di beni fungibili, quale il danaro, richiederebbe solo che si tratti di cose della stessa specie e quantità.

Partendo da tale presupposto, si rileva che, quando il pubblico dipendente effettua chiamate personali dal telefono dell’ufficio, non si appropria, definitivamente, delle energie che consentono la trasmissione della voce, e neppure, momentaneamente, del mezzo fisico del telefono, ma si appropria invece, momentaneamente, dell’utenza telefonica pubblica e, più precisamente, delle somme di denaro corrispondenti al costo delle telefonate indebitamente effettuate, che distrae nell’immediato in suo favore, provvedendo poi a rifonderle.

3.5. Una diversa ricostruzione viene suggerita, infine, da quella dottrina, secondo la quale l’uso indebito del telefono pubblico non ha ad oggetto l’impulso elettrico che consente la trasmissione della voce e non realizza alcuna appropriazione di “energia”, ma investe propriamente un “diritto di utenza”, rientrante nel novero dei beni immateriali e, come tale, insuscettibile di apprensione. Con la consegna e la conseguente concessione della facoltà di utilizzo di un apparato telefonico, si trasferisce in sostanza a un soggetto il diritto di usufruire del servizio telefonico. L’oggetto della condotta resta, quindi, il solo uso dell’utenza telefonica e non l’energia che ne permette il funzionamento.

Nella prospettiva in discorso, chi si avvale in modo improprio del telefono in dotazione dell’ufficio, limitandosi solo a disporre abusivamente di un diritto che gli è stato concesso, oltre a non realizzare alcuna appropriazione di energia, non si appropria neppure, agli effetti dell’art. 314 c.p., comma 2, del mezzo fisico del telefono, in quanto non ne sottrae la disponibilità alla pubblica amministrazione, e ciò anche se l’uso indebito avvenga con assiduita e in via continuativa.

La condotta in esame resterebbe poi fuori anche dall’ambito applicativo del diverso reato di abuso d’ufficio, non potendovisi allo stato ravvisare il necessario presupposto della violazione di una norma di legge o di regolamento di carattere precettivo, considerato in particolare che il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (che vietando, all’art. 10, l’uso del cellulare e degli altri beni strumentali per fini privati, viene senz’altro violato dal pubblico agente nell’uso improprio del telefono), non è stato emanato nelle forme previste per i regolamenti governativi dalla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, e dunque non può rientrare fra le “fonti normative” previste dall’art. 323 c.p. (come rilevato anche da Sez. 6, n. 45261 del 24/09/2001, NiCita, Rv. 220935).

Per poter attingere la soglia della sanzionabilità penale, l’uso indebito del telefono dovrebbe assumere modalità e intensità tali da sottrarlo effettivamente e stabilmente alla disponibilità della pubblica amministrazione. In tal caso, si realizzerebbe l’effetto appropriativo nella sua forma più grave delineata nell’art. 314, comma 1.

4. Per risolvere compiutamente la questione sottoposta alla Corte, è indispensabile tracciare, nei limiti di pertinenza, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti del delitto di peculato, nelle due forme previste dall’attuale testo dell’art. 314 c.p..

4.1. Nella sua originaria formulazione, la condotta di peculato si articolava in due forme, l’appropriazione e la distrazione. Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, si è: a) formalmente soppressa l’ipotesi della distrazione a profitto proprio o di altri; b) abrogato il delitto (di cui all’art. 315 c.p.) di malversazione a danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie di peculato); c) introdotto, al comma secondo dell’art. 314, l’ipotesi del peculato d’uso.

La introduzione del peculato d’uso come figura autonomamente disciplinata è stata in particolare spiegata con l’intento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di colmare possibili vuoti di tutela al riguardo.

La riforma del ’90, pur se ha tendenzialmente accentuato l’aspetto del disvalore in sè dell’abuso qualificato e interessato del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non ha sostanzialmente inciso sul carattere plurioffensivo del reato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, in relazione alla duplice tutela del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (sotto i profili della legalità, efficienza, probità e imparzialità) e del patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, Sez., 6, n. 8009 del 10/06/1993, n. 8009, Ferolla, Rv. 194921): plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa, con la conseguenza, in particolare, che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, in presenza della lesione dell’altro interesse, protetto dalla norma, del buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n. 4328 del 02/03/1999, Abate, Rv. 213660).

4.2. Il costante orientamento della giurisprudenza, in conformità al tenore letterale del dato normativo di cui all’art. 314 c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico (Sez. 6, n. 396 del 06/06/1990, Di Salvo), ricomprendendovi, oltre alla detenzione materiale, anche la (mera) disponibilità giuridica della cosa (Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv. 211008), intesa come concreta possibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositivo – derivante dalla sfera di competenza o comunque da prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, anche se in contrasto con norme giuridiche o atti amministrativi -nelle operazioni finalizzate alla concreta apprensione (v. al riguardo Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146).

Anche in dottrina si aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata dalla visione civilistica di possesso ex art. 1140 c.c., ritenendosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici che attribuiscono all’agente pubblico la possibilità di operare sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine tutelato dal diritto ed avviarla indebitamente verso una finalità propria del soggetto attivo.

4.3. Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. L’espressione “cosa mobile” denota ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all’altro.

Secondo la più recente giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati contro il patrimonio, per “cosa mobile” deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che possa essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte.

Alla “cosa”, inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2, “l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico” Da tale ambito si ritengono però generalmente escluse le energie umane, o muscolari, inscindibili dalla persona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.

Il requisito del valore economico – presunto per l’energia elettrica, da dimostrarsi per le altre energie – definisce l’ambito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo le energie che vengono captate dall’uomo, mediante l’apprestamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a fini pratici, distribuite, scambiate, etc.: deve trattarsi, dunque, di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve esservi sia un soggetto che la controlla, sia un soggetto disposto normalmente a versare un corrispettivo per averla in godimento.

Si ritiene in dottrina che l’equiparazione dell’energia alla cosa mobile sussiste solo se l’energia possa venire posseduta separatamente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza, tutte le volte che il possesso dell’energia dipenda e sia inseparabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso di animali, macchinari), la configurabilità del reato deve essere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all’energia; con la conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno, se del caso, i principi validi per il peculato d’uso.

Sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Comiani, Rv. 247270; Sez. 2, n. 36592 del 26/09/2007, Trementozzi, Rv. 237807) si esclude che i beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio, etc.), che patrimoniali (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio, etc.) – possano costituire oggetto di peculato, perchè non sono cose.

Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un diritto.

4.4. La condotta di “appropriazione” identifica il comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario. Essa si articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. “espropriazione”), di indebita alterazione dell’originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. “impropriazione”), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.

Con l’interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare il denaro o la cosa mobile come fossero suoi, compiendo su di essi uno o più atti di disposizione – comportamenti materiali o atti negoziali – che, incompatibili con il titolo del possesso, rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebitamente si attribuisce.

Nell’esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo all’autentico dominus si realizza quella “conversione della cosa a profitto proprio o altrui” che, tradizionalmente indicata come ricompresa nel concetto stesso di appropriazione, non può non emergere anche là dove, come nell’art. 314 c.p., e diversamente da quanto avviene per il delitto di appropriazione indebita (dove, previsto come “ingiusto”, compare quale finalizzazione del dolo specifico), il profitto proprio o altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.

Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione nell’ambito del delitto di peculato – realizzantesi con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus nei confronti della res posseduta in ragione dell’ufficio, che viene, correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio dell’avente diritto – è rimasta invariata anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 86 del 1990 (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194923).

L’espunzione della distrazione dal nuovo testo dell’art. 314 c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei rapporti tra le nozioni di “appropriazione” e “distrazione”.

In giurisprudenza si ritiene che l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 c.p., operata dalla L. n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’area di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato. La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d’ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell’agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 del 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari).

E’ interessante notare che anche in relazione al delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., che non ha mai incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l’opinione che ritiene tale condotta – intesa nel suo significato di “deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall’uso legittimo”- riconducibile sostanzialmente a quella appropriativa (Sez. U, n. 9863 del 28/02/1989, Vita, Rv. 181789; Sez. U, n. 1 del 28/02/1989, Cresti, Rv. 181792; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv. 208059; Sez. 2, n. 2829 del 19/11/1991, Griffa, Rv. 189314; Sez. 2, n. 5523 del 27/02/1991, B.N.L., Rv. 187512).

Discorso analogo, per il delitto di cui all’art. 646 c.p., si fa anche per l’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l’atto compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene (Sez. 2, n. 47665 del 27/11/2009, Cecchini, Rv. 245370; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv. 208059; Sez. 3, n. 3445 del 02/02/1995, Carnovale, Rv. 203402; Sez. 2, n. 2954 del 15/12/1971, dep. 1972, Rv. 120966).

La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p. (il quale, com’è noto, ove aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione del titolo del possesso: Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, Rv. 237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, Rv. 180167), ha, dunque, finito per assumere, con il passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell’appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme di manifestazione sono l’alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione, sia dell’uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile.

4.5. Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente, il peculato d’uso previsto dal comma secondo dell’art. 314, non costituisce un’attenuante del delitto di peculato, bensì una figura del tutto autonoma, per impianto strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I due commi prevedono, pertanto, due diverse ipotesi di reato (Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, Rv. 199187; Sez. 6,, n. 8156 del 29/04/1992, De Bortoli, Rv. 191407).

In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, connotata dalla finalità dell’agente quale elemento specializzante, delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l’uso momentaneo, seguito dall’immediata restituzione della cosa, non integra un’autentica appropriazione, realizzandosi, quest’ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.

Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata da parte della dottrina), l’ipotesi lieve di peculato prevista dal capoverso dell’art. 314 cod. pen. non è configurabile rispetto al denaro (Sez. 6, n. 27528 del 21/05/2009, Severi, Rv. 244531; Sez. 6, n. 3411 del 16/01/2003, Ferrari, Rv. 224060; Sez. 6, n. 8286 del 03/05/1996 Galdi, Rv. 205928) – bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo alternativo solo nell’art. 314, comma 1 -, nè, analogamente, in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe possibile la restituzione della eadem res, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell’integrazione del reato de quo (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194925; Sez. 6, n. 12218 del 17/10/1991, Bulgari, Rv. 189004; in senso contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e, quindi, anche al denaro, Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264).

La nozione di restituzione viene intesa in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264), per la quale tra la cessazione dell’uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l’uso e la restituzione) si pongano in un continuum dell’operato dell’agente: occorre, cioè, che egli, dopo l’uso, non compia altre attività che non siano quelle finalizzate alla restituzione.

Resta fermo poi che l’intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo deve esser presente sin dall’inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d’uso, bensì, sin dall’origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo.

Si ritiene comunque che non integri alcun reato l’utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la condotta non leda la funzionalità dell’ufficio nè causi un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786).

5. Traendo ora le fila dalla esposizione che precede, occorre passare anzitutto a esaminare le tesi che hanno, sotto vari profili, ritenuto di ravvisare nell’uso indebito del telefono d’ufficio da parte del pubblico agente, una ipotesi di peculato ordinario ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1.

5.1. Partendo, al riguardo, dall’indirizzo, oggi dominante in giurisprudenza, che sostiene che con il detto uso si realizza la appropriazione, necessariamente definitiva (non potendosi configurare una restituzione successiva al consumo), delle energie costituite dalle onde elettromagnetiche che permettono la trasmissione della voce, si osserva che esso non è condivisibile.

In primo luogo, infatti, le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell’utente del telefono. E questo perchè non preesistono all’uso dell’apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione. Oltre a ciò, sul piano intrinseco, esse si caratterizzano per il fatto di “propagarsi”, e non si può, quindi, procedere al loro concreto immagazzinamento, funzionale a un impiego pratico misurabile in termini economici, sì da rispondere all’esplicito requisito di cui all’ultima parte dell’art. 624 c.p., comma 2.

E’ noto, del resto, che il costo delle singole chiamate, anche nei contratti a consumo, non è il riflesso diretto delle onde elettromagnetiche attivate, bensì il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di comunicazione gestito, in base alla quale si determina, secondo i parametri del numero e della durata, il prezzo, economicamente congruo, della fruizione del servizio.

Se poi si vuoi vedere nel riferimento alle onde elettromagnetiche un implicito richiamo anche all’energia elettrica (rilevante ex se ai sensi del comma secondo dell’art. 624 c.p.) necessaria ad attivarle, l’esclusione della sua supposta definitiva appropriazione discende dalla considerazione che tale energia viene nella specie in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente connessa al concreto funzionamento dell’apparecchio e non può costituire, quindi (come puntualizzato da accorta dottrina: v. sopra par. 4.3.), diretto, specifico e autonomo oggetto della condotta dell’utente.

5.2. Il rilievo sopra svolto sul costo delle chiamate sollecita l’immediata presa in esame della prospettazione che sposta l’oggetto della ravvisabile appropriazione definitiva, rilevante ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1, dalle energie consumate alle somme al cui esborso l’indebito uso del telefono d’ufficio espone la pubblica amministrazione.

Tale ricostruzione – che sarebbe comunque applicabile alle sole situazioni regolate da tariffe a consumo e non anche a quelle c.d.

“tutto incluso” – non è accettabile, non corrispondendo alla realtà del fenomeno in discorso, in quanto posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo, ed effetto di questa, in cui la p.a. ne sostiene l’onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all’infedele funzionario, nè il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la p.a.

e il gestore di telefonia.

Parimenti inaccettabile è l’opinione che ravvisa l’oggetto dell’appropriazione definitiva nelle stesse energie lavorative che il pubblico agente, con la condotta in discorso, dirotterebbe verso fini difformi da quelli istituzionali. Qui è evidente che si è del tutto fuori dallo schema del rendere “proprio” un qualcosa che solo si possiede, verificandosi al contrario l’inadempimento dell’obbligo di mettere a servizio altrui un qualcosa che è proprio.

6. Occorre ora passare ad esaminare gli ipotizzabili inquadramenti dell’indebito uso del telefono d’ufficio in fattispecie diverse da quella del peculato ordinario.

6.1. Al riguardo, bisogna anzitutto farsi carico della prospettazione, avanzata nell’ordinanza di rimessione, della riconducibilità del fenomeno alla ipotesi della truffa aggravata.

Per la verità, nell’ordinanza si fa riferimento alla eventuale esistenza di una inveritiera dichiarazione, che arricchisce in qualche modo la situazione base di cui ci si sta occupando.

In relazione a questa, la tesi della riconducibilità alla truffa non appare sostenibile. Nella truffa, invero, l’ingiusto profitto è frutto della induzione in errore, laddove, quando il pubblico agente adopera per fini privati il telefono assegnatogli per le esigenze d’ufficio, la realizzazione, da parte sua, di un indebito vantaggio è immediata e non è in sè dipendente dalla induzione in errore di alcuno. Il conseguente danno per l’amministrazione (sussistente peraltro solo nei casi regolati da contratto a consumo) deriva direttamente dal vincolo che la lega al gestore e l’eventuale silenzio del funzionario infedele interviene in relazione a una condotta ormai consumata e che egli non era in radice autorizzato a porre in essere.

6.2. C’è poi da esaminare la questione della riconducibilità dell’uso indebito del telefono d’ufficio alla fattispecie del peculato d’uso, di cui all’art. 314 c.p., comma 2.

A tale quesito deve darsi, ad avviso della Corte, risposta positiva (con conseguente ritorno a quello che era stato l’iniziale orientamento della giurisprudenza).

Si è sopra visto (par. 4.4.) che la nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p., ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente la detiene.

Naturalmente, in quell’ambito, nel quale non è prevista l’ipotesi dell’uso momentaneo, si richiede l’effetto della perdita della cosa stessa da parte dell’avente diritto. Questa conseguenza è chiaramente incompatibile con un uso strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost., n. 2 del 1991) momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell’art. 314 c.p.; il quale, quindi, non potrà mai integrare un’appropriazione, nel senso specifico di cui al primo comma della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.

Si tratta, in altre parole, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua stabile inversione in dominio. La ratio dell’introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione. Ma se così è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie, è giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l’elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del titolo del possesso, che l’agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso fini personali. In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell’utilizzo indebito, in veste di dominus (per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell’altrui maggior diritto. In tale schema ricostruttivo si palesa all’evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, l’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la “restituzione” della cosa si risolverà logicamente nella cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua destinazione normale (come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746).

Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d’uso, è evidente che l’utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio, vi diviene pienamente sussumibile. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall’apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d’ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a..

Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plurioffensività alternativa del delitto di peculato:

v. sopra par. 4.1.) con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”. L’uso del telefono d’ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante.

Considerata, poi, la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile.

Il principio di diritto che si può enucleare da tutto il discorso che precede è il seguente:

“La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio, è sussumibile nel delitto di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2”.

6.3. Discende da quanto sopra che deve ritenersi assorbita la questione della possibilità, prospettata nell’ordinanza di rimessione, di ricondurre il fenomeno dell’uso indebito del telefono della p.a. alla fattispecie dell’abuso d’ufficio. Al di là, infatti, dei problemi concreti che la prospettazione de qua può porre (v.

sopra, paragrafi 2.4. e 3.5.), non c’è dubbio che tale figura, formalmente sussidiaria in relazione ai reati più gravi (in ragione della espressa clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 323 c.p.), è comunque da considerarsi, rispetto al peculato d’uso, punito con identica pena edittale, e contraddistinto dall’elemento specifico dell’appropriazione temporanea di una res, figura di carattere residuale e non concorrente, in quanto avente genericamente ad oggetto il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dalla violazione di norme di legge o di regolamento posta in essere dal pubblico agente nello svolgimento delle funzioni o del servizio (v. in tal senso Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi, n.m.).

7. Esaminando ora, alla luce delle conclusioni come sopra assunte, il fatto come ascritto al V. nel capo A della rubrica, risulta evidente che lo stesso non può integrare il peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, ma appare sussumibile nella fattispecie del peculato d’uso di cui al secondo comma dello stesso articolo. Tale ultimo reato, peraltro, considerata l’epoca della sua commissione (protrattasi non oltre il dicembre 2003), è ormai estinto per il decorso del termine massimo di prescrizione (pur tenendo conto delle sospensioni intervenute).

Alla declaratoria dell’estinzione può peraltro procedersi solo previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare un proscioglimento più favorevole ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.

Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

Non può dubitarsi, alla stregua dei dati di fatto accertati in sede di merito e non contestati, che le telefonate di cui è accusato l’imputato, di contenuto strettamente personale e indirizzate spesso a utenze site fuori del Paese di partenza, hanno determinato, singolarmente prese (secondo il corretto inquadramento e vaglio operato dalla Corte di appello), un danno comunque apprezzabile alla p.a. (in quanto ammontante ad alcune decine di Euro), anche se di speciale tenuità (onde è stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4).

Relativamente ai motivi con cui la difesa ha variamente invocato la sussistenza, nella specie, della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quanto meno a livello putativo, ovvero dell’errore sul fatto, in conseguenza di condotte, omissive e positive, della p.a., che avevano dato luogo a una diffusa prassi di tolleranza del comportamento addebitato al V., deve rilevarsi quanto segue.

Anzitutto, com’è noto, quando i beni oggetto di peculato sono della p.a., nessun soggetto può esprimere un valido consenso esimente.

Circa, poi, la normativa amministrativa regolante, all’epoca dei fatti, l’uso dei cellulari da parte dei pubblici funzionari residenti all’estero, e le risultanze, orali e documentali, relative all’allegata prassi anzidetta, i giudici di merito ne hanno effettuato una disamina analitica, al cui esito, da un lato, hanno affermato con certezza che la disciplina dell’epoca consentiva l’uso dei cellulari per scopi privati solo in caso di contratto dual billing (contemplante, cioè, l’utilizzo di un codice atto a distinguere e ad addebitare separatamente le chiamate non istituzionali), vietandolo conseguentemente in mancanza dell’adozione di detto sistema, e, dall’altro, hanno sottolineato che i sopravvenuti chiarimenti “interpretativi”, in quanto per nulla rispondenti all’univoco contenuto della citata disciplina, rimasta formalmente invariata, e intervenuti comunque successivamente all’epoca dei fatti, non possono costituire base utile per dare positivo sostegno e rilievo alla indicata prassi di tolleranza, che, quindi, essendosi formata in maniera non unanime e in contrasto con la normativa ufficiale vigente, deve considerarsi certamente inidonea a scriminare soggettivamente la condotta di chi, come l’imputato (tenuto, per il suo ruolo, ad avere o prendere precisa cognizione circa la legittimità dei propri comportamenti e ad astenersene in caso di incertezze al riguardo), ha utilizzato sistematicamente i cellulari di servizio per chiamate dal contenuto strettamente privato, omettendo per anni di segnalarle all’amministrazione e corrisponderne il costo.

La descritta motivazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 35813 del 21/06/2007, Bensi, Rv. 237767;

Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, Rv. 229060; Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228; Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, dep. 2001, Aliberti, Rv. 217862; Sez. 6, n. 6776 del 22/03/2000, Fanara, Rv. 216319) e scevra da vizi apprezzabili in questa sede: vizi la cui eventuale sussistenza sarebbe comunque irrilevante al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbe un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perché estinto per prescrizione, con eliminazione della relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p..

8. Venendo ora al reato di falso, ascritto a entrambi gli imputati, va rilevato che lo stesso, come già ricordato in parte narrativa, è stato fatto oggetto di impugnazione solo nel ricorso del S..

Il reato in questione, in quanto commesso (secondo la data riportata sul documento) in data 22 gennaio 2004, risulta estinto, per decorso del termine massimo di prescrizione (di sette anni e mezzo), maggiorato di 120 giorni (per le sospensioni dovute ai due rinvii, per impedimento del difensore, dall’11 novembre 2008 al 12 febbraio 2009 e dal 12 febbraio 2009 al 16 aprile 2009), in data 19 novembre 2011, successiva alla emissione della sentenza impugnata e alla proposizione dei ricorsi.

La declaratoria di tale estinzione, spettante al S., non può peraltro essere estesa anche al V. in forza della regola di estensione di cui all’art. 587 c.p.p., essendosi nei suoi confronti consolidato il giudicato di colpevolezza prima del verificarsi dell’effetto estintivo, venuto a maturazione in ragione del protrarsi del decorso del termine di prescrizione successivamente alla proposizione dei ricorsi (Sez. 2, n. 26708 del 20/05/2009, Borrelli, Rv. 244664; Sez. 6, n. 23251 del 18/03/2003, Cammardella, Rv. 226007; Sez. 1, n. 12369 del 23/10/2000, Russo, Rv. 217393).

Ciò chiarito, deve naturalmente anche qui procedersi alla previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare nei confronti del S. un proscioglimento più favorevole a sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (estensibile in ipotesi sicuramente, ove non basato su motivi personali, anche al V., in forza della ricordata regola di cui all’art. 587 c.p.p.). Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

I motivi proposti in ordine al falso, infatti, vuoi quelli intesi a contestare la natura pubblica attestativa del documento redatto dal S. ovvero la effettiva falsità ideologica del passaggio relativo all’avvenuto rimborso da parte del V., vuoi quelli diretti a contestare la sussistenza di un dolo penalmente rilevante, sono basati, quando non su rilievi di merito, su presunti vizi motivazionali – autonomi o collegati a prospettate letture del diritto sostanziale alternative a quella offerta (in conformità alla dominante giurisprudenza) dai giudici di merito – che, se anche sussistenti, sarebbero comunque irrilevanti al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbero un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del S. in ordine al reato di falso (che resta invece fermo, con la irrogata pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, per il V.), perché estinto per prescrizione.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata dal V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perché estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p., ferma restando la pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di falso.

Annulla senza rinvio la stessa sentenza nei confronti del S. in ordine al reato di falso, perché estinto per prescrizione.

(vedi ORDINANZA di errore in calce allegata con deliberazione 16/04/2013).

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 30-01-2013) 02-04-2013, n. 7985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19784/2009 proposto da:

L.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso lo studio dell’avvocato BELLUCCI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIOLI VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NOCERA UMBRA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato TONELLI ENRICO, rappresentato e difeso dall’avvocato CAFORIO GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 488/2008 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 11/09/2008 R.G.N. 842/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato BELLUCCI MAURIZIO;

udito l’Avvocato TONELLI ENRICO per delega CAFORIO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Perugia, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di L.P., proposta nei confronti del Comune di Nocera Umbra di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità della revoca dell’incarico di responsabile di sezione con conseguente sua reintegrazione nel posto precedentemente occupato e condanna di controparte al risarcimento dei danni.

La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, riteneva, innanzitutto,inammissibile, perché nuova,la domanda diretta ad ottenere l’ordine di cessazione delle attività vessatorie e mobbizzanti in quanto la relativa causa petendi – consistente nell’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo – ed il petitum – ordine di cessazione – non trovavano riscontro nel ricorso introduttivo del giudizio.

La predetta Corte, poi, relativamente alla assunta dequalificazione professionale, conseguente alla allegata privazione di qualsiasi incarico a seguito della revoca della funzione di responsabile di sezione, rilevava che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che gli incarichi erano rimasti “sulla carta” e non avevano avuto esecuzione e che egli era rimasto inoperoso. Viceversa, secondo la Corte territoriale, il L. non aveva assolto a tale onere in quanto la prova articolata non verteva su fatti specifici e rilevanti a quel fine, ma anzi comportava l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto meramente formale degli incarichi.

Nè, infine, riteneva la Corte del merito che gli incarichi assegnati al ricorrente non fossero corrispondenti alla professionalità propria della categoria d’inquadramento.

Avverso questa sentenza il L. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso il Comune intimato.

Motivi della decisione
Con la prima censura il ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione in punto di ritenuta novità del capo della domanda concernente il mobbing. In particolare il L. rileva che prima la Corte del merito asserisce la novità della domanda e, poi, riconosce l’esistenza di una allegazione sullo svuotamento delle mansioni.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, pone il seguente quesito di diritto: “se la richiesta di cessazione di abuso di condotta vessatoria da parte del datore di lavoro costituisce domanda nuova e come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437, comma 2, rispetto alla domanda formulata in primo grado dal lavoratore di accertamento dell’esistenza dell’abuso stesso ai fini della domanda di risarcimento del danno e di reintegra delle effettive funzioni ricoperte prima dell’abuso”.

Le due censure, in quanto strettamente connesse dal punto vista logico e giuridico, vanno trattate unitariamente.

Preliminarmente va dato atto che i motivi di ricorso in esame risultano ex art. 366 bis c.p.c., ammissibili atteso che, contrariamente all’assunto di parte resistente, i relativi quesiti consentono la piena cognizione, e del fatto controverso su cui s’incentra la censura di contraddittorietà della motivazione, e della violazione di leggi dedotta con riferimento anche alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

Tanto premesso rileva la Corte che i motivi sono infondati.

Innanzitutto non vi è contraddittorietà della motivazione in quanto il ricorrente non tiene conto che secondo la Corte del merito il mobbing presuppone l’esistenza, e, quindi, l’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo. E proprio con riferimento a tale ricostruzione del mobbing ritiene che manca nel ricorso di primo grado, qualsiasi allegazione di tal genere e che, pertanto, la relativa domanda – rectius causa petendi – è nuova. In altri termini per la Corte del merito non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento delle mansioni”, occorrendo, ai fini della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, oltre alla considerazione che il petitum – rappresentato nella specie dalla richiesta di un ordine di cessazione della condotta mobizzante – è del tutto nuovo come sottolineato dalla Corte del merito, vi è il rilievo che trattandosi d’interpretazione della domanda che implica un accertamento di fatto, il ricorrente per correttamente investire questa Corte della questione di cui trattasi avrebbe dovuto denunciare l’erronea interpretazione della domanda e non la sola violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2.

Con la terza critica il L., deducendo vizio di motivazione, lamenta la mancata ammissione dell’interrogatorio formale di controparte e della prova articolata.

La censura è infondata.

Invero la Corte del merito ritiene inammissibili i reclamati mezzi istruttori perché non vertenti su fatti specifici e rilevanti, ma anzi comportanti l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto formale degli incarichi conferiti.

Ebbene ritiene il Collegio che effettivamente i capitoli di prova vertono sulla cronistoria degli accademisti e sulla formalità o meno degli incarichi attribuiti al ricorrente. Come tali, quindi, sono irrilevanti – rectius inammissibili – atteso che riguardano circostanze, quali quelle della revoca dell’incarico e dell’attribuzione di nuovo incarico, del tutto pacifiche ovvero attengono alla richiesta di un giudizio circa il contenuto formale o meno dei nuovi incarichi affidati al ricorrente.

Il ricorso, in conclusione, va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-03-2013, n. 7714

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9191/2008 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

I.M.;

– intimato –

sul ricorso 12468/2008 proposto da:

I.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA APPIA NUOVA 251, presso lo studio dell’avvocato SARACINO MARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato VASCELLO LUIGI giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 79/2007 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di FOGGIA, depositata il 17/04/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIDUCCIA che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato SARACINO delega Avvocato VASCELLO che ha chiesto l’accoglimento del ricorso incidentale, udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 79/27/07, depositata il 17.4.07, la Commissione Tributaria Regionale della Puglia accoglieva l’appello proposto da I.M. avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dal contribuente nei confronti delle cartelle di pagamento emesse dall’Agenzia delle Entrate di Foggia, ai fini IRPEF per gli anni 1998 e 1999.

2. La CTR – in riforma della decisione di prime cure – riteneva, invero, invalida la notifica degli avvisi di accertamento prodromici alle cartelle di pagamento impugnate, e – di conseguenza nulli gli atti a valle di detti avvisi, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, – essendo stati gli stessi consegnati nella residenza del destinatario, ma a persona di famiglia non con lui convivente.

3. Per la cassazione della sentenza n. 79/27/07 ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate articolando tre motivi, ai quali il contribuente ha replicato con controricorso, contenente, altresì, ricorso incidentale affidato ad un solo motivo.

Motivi della decisione

1. In via pregiudiziale, rileva la Corte che il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione attiva dell’amministrazione ricorrente. Ed invero, va osservato che, qualora – come nel caso di specie – al giudizio di appello abbia partecipato solo l’Agenzia delle Entrate – succeduta a titolo particolare nel diritto controverso al Ministero delle Finanze nel giudizio di primo grado, ossia in epoca successiva all’1.1.01, data nella quale le Agenzie sono divenute operative in forza del D.Lgs. n. 300 del 1999 – e il contribuente abbia accettato il contraddittorio nei confronti del solo nuovo soggetto processuale, deve ritenersi verificata, ancorché per implicito, l’estromissione del Ministero dal giudizio.

Ne consegue che l’unico soggetto legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale è l’Agenzia delle Entrate; per cui il ricorso proposto dal Ministero deve essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva (cfr., tra le tante, Cass. 24245/04, 6591/08).

2. Premesso quanto precede, va rilevato che, con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

2.1. Si duole, invero, l’Amministrazione del fatto che la CTR abbia erroneamente ammesso, nel giudizio di appello, la produzione di un documento nuovo, ovverosia la dichiarazione scritta resa dal portalettere che aveva provveduto a notificare gli avvisi di accertamento prodromici alle cartelle di pagamento impugnate dal contribuente, ancorché detto documento ben avrebbe potuto essere prodotto nel giudizio di prime cure.

2.2. Il motivo è infondato.

2.2.1. Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti, in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D.Lgs. 546 del 1992, art. 1, comma 2, – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione, di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3, alla produzione di documenti nel secondo grado del giudizio. La materia è – per vero – regolata in via speciale dall’art. 58, comma 2, del citato D.Lgs., che consente alle parti di produrre liberamente documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass. 18907/11), ed a nulla rilevando neppure l’eventuale irritualità della loro produzione in prime cure (Cass. 23616/11, 2019/12).

2.2.2 Ne discende che, nel caso di specie, la mera preesistenza del suindicato documento alla conclusione del giudizio di primo grado, non ne precludeva affatto – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di seconde cure – la successiva produzione nel giudizio di appello.

3. Con il secondo motivo di ricorso, poi, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione del D.Lgs. n. 5466 del 1992, art. 7, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

3.1. La CTR avrebbe, infatti, a parere della ricorrente, illegittimamente ammesso – dando ingresso nel giudizio di secondo grado alla predetta dichiarazione scritta del portalettere, il quale attestava di avere notificato gli avvisi di accertamento alla madre dello I. – una prova testimoniale in palese violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4.

3.2. Il motivo è infondato.

3.2.1. La disposizione succitata vieta – per vero – in un’ottica di semplificazione ed accelerazione del processo, soltanto la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, che assume – in forza delle norme del codice di rito – la qualità di testimone. Tale narrazione, invero, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio (Cass. 903/02, 20032/11), ma – al contempo – richiede un maggiore dispendio di tempo e di attività processuali delle parti.

3.2.2. Di contro, è di piena evidenza che siffatto divieto non può considerarsi operativo per la diversa fonte di prova – connotata da una maggiore immediatezza di percezione del contenuto probatorio da parte del giudicante – costituita dal documento che racchiude le dichiarazioni del terzo. Sul piano generale, invero, tale diversità si rivela anzitutto sotto il profilo materiale e sostanziale, dando vita il documento ad un’entità che, a differenza dell’altra, si concreta in una res cartacea, e non in un soggetto dichiarante.

Trattasi, inoltre, di una fonte di prova diversa dalla testimonianza anche sul piano processuale, essendo la prova documentale soggetta ad una disciplina differenziata da quella della prova testimoniale, poiché finalizzata – a differenza di quest’ ultima, che richiede il compimento delle diverse attività di deduzione, ammissione ed assunzione (art. 244 c.p.c. e ss.) – ad assicurarne esclusivamente la corretta “produzione” nel giudizio, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti (D.Lgs. n. 546 el 1992, art. 24, comma 1, art. 87 disp. att. c.p.c.). Le cennate differenze sostanziali e processuale esistenti tra le due fonti di prova, dunque, ne giustificano ampiamente la differente regolamentazione anche nel processo tributario, nel quale il documento, oltre ad essere producibile – come dianzi detto – anche in appello, si sottrae, altresì, al divieto di utilizzazione anche nel giudizio di primo grado, che concerne esclusivamente la prova testimoniale.

3.2.3. La censura suesposta, pertanto, non può che essere disattesa.

4. Con il terzo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione dell’art. 2700 e.e, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

4.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere – in contrasto con la relata di notifica, facente fede fino a querela di falso ex art. 2700 c.c., – che la notifica degli avvisi di accertamento effettuata ad una persona legata da rapporti di parentela con il destinatario, ossia alla seconda moglie del padre (matrigna) dello I., fosse affetta da nullità. E ciò in base ad una successiva dichiarazione del portalettere del Comune di Pietramonte-corvino, autore della notifica e che in quella occasione rivestiva la qualità di messo notificatore, secondo la quale il plico contenente gli atti impositivi era stato da lui consegnato alla persona suindicata, nella sua residenza diversa da quella dello I., come da certificazione anagrafica allegata agli atti.

4.2. Il motivo è fondato.

4.2.1. Dall’esame degli atti del presente giudizio, invero, risulta acquisito quanto segue.

La relata di notifica degli avvisi di accertamento – prodromici alle cartelle di pagamento impugnate da I.M. – indicava chiaramente che gli atti impositivi erano stati notificati “presso il domicilio del destinatario a mani della madre (rectius, della matrigna)” (v. ricorso per cassazione dello I., pp. 11-12).

Tanto vero che, come esposto nel controricorso dallo stesso contribuente, che ne ha riportato i passi salienti, la decisione di prime cure, emessa dalla CTP di Foggia, rigettava il ricorso dello I., avverso le cartelle di pagamento, sul presupposto che “la consegna del plico, come risulta dalla ricevuta, anche se fatta alla matrigna del ricorrente, è avvenuta presso il domicilio dello stesso”.

Senonché, il contribuente, nel proporre appello avverso tale pronuncia, produceva in giudizio una dichiarazione del medesimo messo notificatore, dalla quale risultava, invece, che – come si desume dall’impugnata sentenza -“lo stesso aveva consegnato il plico presso la residenza della matrigna dello I.M.”.

Siffatta dichiarazione, che contraddice la relata di notifica nel punto essenziale concernente il luogo in cui essa è avvenuta, sarebbe – di contro – diretta, a parere del contribuente, soltanto a “precisare il contenuto della relata”, essendo proveniente dallo stesso autore della notifica, il quale aveva – sempre a suo dire – “evidentemente compilato in modo frettoloso ed impreciso la relata di notifica”.

4.2.2. Orbene, tutto ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che la relata di notifica di un atto, in relazione a circostanze che costituiscano il frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale che l’ha effettuata, è assistita da fede fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c.. Ed invero, poiché l’ufficiale giudiziario esercita pubbliche funzioni, gli atti che attestano le operazioni da lui compiute, il ricevimento delle dichiarazioni resegli ed il contenuto estrinseco delle notizie apprese, sono dotati della fede privilegiata attribuita dall’ordinamento agli atti del pubblico ufficiale (cfr. ex plurimis, Cass. 25860/08, 4193/10). Nel caso concreto, si verte in ipotesi di notifica di avvisi di accertamento, che va eseguita – ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nel testo applicabile ratione temporis – con le modalità di cui all’art. 137 c.p.c. e ss., sia pure con talune particolarità previste dalla stessa norma. Ebbene, dal combinato disposto del predetto art. 60, comma 1, lett. c) – secondo cui “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso a mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” – e dell’art. 139 c.p.c., si evince la sussistenza di uno specifico obbligo del messo notificatore di ricercare il destinatario presso il luogo indicato nell’intestazione del provvedimento impositivo, come sua domicilio fiscale, ovvero come residenza, o sede del suo ufficio o della sua azienda (Cass. 19079/05). Ne discende che – in presenza di un’espressa indicazione di notifica effettuata dal messo comunale presso il domicilio del destinatario, contenuto nella relativa relata – non può non attribuirsi la suddetta efficacia probatoria fino a querela di falso alla relata stessa, quanto al luogo nella quale essa è stata eseguita, ovverosia presso il domicilio del destinatario risultante – come afferma la stessa sentenza impugnata – dagli stessi atti impositivi da notificare (Corso A. Moro n. 77) ed a mani della matrigna, sig.ra M.F.E.. Sicché il fatto che la successiva dichiarazione del messo, indichi un luogo diverso della notifica, corrispondente alla residenza della matrigna dello I., non è in alcun modo idoneo a superare le risultanze della precedente relata. Ed invero, è di tutta evidenza che quest’ultima attesta una circostanza, ossia il rilievo del domicilio del contribuente desumibile dagli stessi atti da notificare ed il compimento della notifica ivi, che – per essere relativa ad attività percettiva del pubblico ufficiale notificatore, è assistita dalla fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c..

4.2.3. Né giova all’odierno resistente, dedurre che la consegnataria del plico, ancorché sua familiare, non fosse con lui convivente, giacché dalla certificazione anagrafica versata in atti risulterebbe che la stessa risiedeva alla via (OMISSIS) dello stesso Comune di (OMISSIS).

Va – per vero – osservato, al riguardo, che l’espressione “persona di famiglia” adoperata dall’art. 139 c.p.c. (applicabile alla notifica degli avvisi di accertamento) va intesa nel senso più ampio, considerato che la stessa norma annovera tra coloro che possono essere destinatari della notifica perfino il portiere ed il vicino di casa che accetti di riceverla (Cass. 615/95). Tale espressione ricomprende, dunque, qualsiasi familiare (anche la matrigna) la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale, essendo determinata da ragioni di, sia pure temporanea, convivenza con il destinatario della notifica; situazione, questa, che può essere presunta sulla base dello stesso fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare (Cass. 24852/06). Deve considerarsi, invero, che è proprio, e soltanto, il vincolo di parentela o di affinità – a prescindere dall’ulteriore requisito della stabile convivenza, peraltro neppure menzionato espressamente dalla norma dell’art. 139 c.p.c. – a giustificare la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario di esso. Di conseguenza, mentre la menzionata disposizione dell’art. 139 c.p.c., non impone affatto all’ufficiale giudiziario procedente di svolgere ricerche in ordine al rapporto di convivenza indicato dalla persona che riceva l’atto (Cass. 6953/06, 322/07, 8306/11), resta a carico di colui che assume di non avere ricevuto l’atto l’onere di provare in concreto la mera occasionalità della presenza, nella propria residenza o domicilio, di detta persona, non essendo sufficiente – all’uopo – la produzione di un certificato anagrafico attestante che il familiare abbia altrove la propria residenza (Cass. 23368/06, 6953/06, 21362/10). E’ di tutta evidenza, infatti, che le risultanza anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo in ordine all’effettiva residenza di una persona nel luogo da esse indicato, come tale destinato a cedere di fronte alla prova – fornita sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti – che la residenza effettiva del destinatario dell’atto sia in un altro luogo (Cass. 26985/09, 5201/12).

4.3. Da tutto quanto suesposto consegue, pertanto, che – a fronte della relata attestante che la notifica era avvenuta nel domicilio del ricorrente ed a mani della matrigna – nessuna rilevanza, in assenza di prove circa l’occasionalità della presenza di tale persona nel luogo suindicato, assume la circostanza che la stessa avesse la residenza anagrafica altrove.

5. L’accoglimento della suesposta censura comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 1, rigetta il ricorso introduttivo proposto dal contribuente.

6. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico del resistente soccombente, nella misura di cui in dispositivo. Concorrono giusti motivi – tenuto conto della peculiarità della vicenda processuale – per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei giudizi di merito, restando, in tal modo, assorbito il motivo di ricorso incidentale proposto dallo I., e concernente il regolamento delle spese del giudizio di appello.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione;

dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze; accoglie il terzo motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, rigettati gli altri; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; dichiara assorbito il ricorso incidentale dello I.; condanna il resistente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00, oltre alle spese prenotate a debito; dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2013


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 12-02-2013) 12-03-2013, n. 6070

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sez. –

Dott. RORDORF Renato – rel. Presidente Sez. –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9074-2009 proposto da:

COMUNE DI AVELLINO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la 67 CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PREZIOSI CLAUDIO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMPAGNIA GENERALI SERVIZI E FINANZA S.P.A., in persona del Presidente pro tempore, nella qualità di successore nel diritto controverso della S.A.S. RAINONE COSTRUZIONI DI VINKO MLADEN & C., elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CASTALDI FILIPPO, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

sul ricorso 12379/2009 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CALATAFIMI 11, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA BULDO, rappresentato e difeso da sè medesimo;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI AVELLINO, RAINONE COSTRUZIONI S.A.S DI VINKO MLADEN & C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4406/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2013 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

uditi gli avvocati Claudio PREZIOSI, Donatella Maria Ines GEROMEL per delega dell’avvocato Filippo Castaidi;

udito il P.M. in persona del’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso r.g. n. 9074/2009 e rimessione di entrambi alla prima sezione civile.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza depositata in cancelleria il 23 dicembre 2008, in parziale riforma di una precedente pronuncia del Tribunale di Avellino, condannò il Comune di Avellino a pagare alla s.a.s. Rainone Costruzioni di Vinko Mladen & C. in liquidazione (d’ora innanzi indicata come Rainone) la somma di Euro 402.649,22, oltre ad interessi, a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di lavori pubblici eseguiti da detta società su incarico dell’ente locale.

La sentenza è stata impugnata dal Comune di Avellino con ricorso per cassazione notificato ai procuratori domiciliatari della Rainone nel giudizio d’appello.

L’ammissibilità del ricorso è stata però contestata dalla Compagnia Generali Servizi e Finanza s.p.a. (in prosieguo indicata come Compagnia Generali), che ha depositato un controricorso nel quale, premesso che il 15 giugno 2005 il credito dedotto in lite le era stato ceduto dalla Rainone, ha fatto presente che quest’ultima società è da considerare estinta sin dal 25 maggio 2007, data in cui è stata cancellata dal registro delle imprese, onde l’impugnazione non avrebbe potuto essere ad essa indirizzata.

Altro ricorso avverso la medesima sentenza della Corte d’appello di Napoli, notificato al Comune di Avellino ed alla società Rainone, è stato proposto dall’avv. R.G., difensore dell’anzidetta società nel giudizio di merito, il quale si è lamentato della mancata distrazione delle spese processuali in suo favore.

Riuniti i due ricorsi, la prima sezione di questa corte, con ordinanza n. 9943 del 2012, ne ha sollecitato la rimessione alle sezioni unite affinchè sia decisa la questione di massima di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società (nella specie una società di persone) venga cancellata dal registro delle imprese.

I ricorsi riuniti sono stati perciò discussi all’odierna udienza dinanzi alle sezioni unite.

Motivi della decisione
1. La corte è chiamata a prendere posizione su un nodo tematico – gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese, dopo la riforma organica del diritto societario attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – in parte già esaminato da alcune sentenze delle sezioni unite nel corso dell’anno 2010. Giova dir subito che non v’è ragione per rimettere qui in discussione i principi in quelle sentenze affermati, dalle quali occorre invece partire, senza ovviamente ripercorrerne l’intero percorso motivazionale ma ricapitolandone brevemente i punti salienti, per cercare di far chiarezza su una serie di ulteriori ricadute derivanti dalla suaccennata riforma del diritto societario.

Con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 le sezioni unite di questa corte hanno ravvisato nelle modifiche apportate dal legislatore al testo dell’art. 2495 c.c. (rispetto alla formulazione del precedente art. 2456, che disciplinava la medesima materia) una valenza innovativa. Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente. Per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dal disposto del novellato art. 10 della legge fallimentare, la stessa regola è apparsa applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto deil’art. 2312 (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324). La situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria.

Ma è bene precisare che tale prova contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perchè ciò condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma societaria. Per superare la presunzione di estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione dal registro. Ed è questa soltanto la situazione alla quale la successiva sentenza n. 4826 del 2010 ha poi ricollegato anche la possibilità che, tanto per le società di persone quanto per le società di capitali, si addivenga anche d’ufficio alla “cancellazione della pregressa cancellazione” (cioè alla rimozione della cancellazione dal registro in precedenza intervenuta), in forza del disposto dell’art. 2191 oc, con la conseguente presunzione che la società non abbia mai cessato medio tempore di operare e di esistere.

2. Ferme tali premesse, si tratta ora di mettere meglio a fuoco le conseguenze che ne possono derivare in ordine ai rapporti, originariamente facenti capo alla società estinta a seguito della cancellazione dal registro, che tuttavia non siano stati definiti nella fase della liquidazione, o perchè li si è trascurati (li si potrebbe allora definire “residui non liquidati”) o perchè solo in seguito se ne è scoperta l’esistenza (li si suole definire “sopravvenienze”).

Converrà farlo tenendo separati, per maggiore chiarezza espositiva, i rapporti passivi, cioè quelli implicanti l’esistenza di obbligazioni gravanti sulla società, dai rapporti attivi, in forza dei quali prima della cancellazione la società poteva vantare diritti; e converrà esaminare anzitutto i profili di diritto sostanziale e poi le conseguenze che se ne debbano trarre sul piano processuale.

3. Il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro.

Il citato art. 2495, comma 2, (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il previgente art. 2456, comma 2) stabilisce, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui; ma di tale ulteriore previsione non occorre qui occuparsi, non essendo stata esercitata azione alcuna contro il liquidatore nella vertenza in esame.

Un’analoga disposizione è dettata, per le società in nome collettivo, dal pure già citato art. 2312, comma 2, salvo che, in tal caso, pur dopo la dissoluzione dell’ente ma coerentemente con le caratteristiche del diverso tipo societario, non opera la limitazione di responsabilità di cui godono i soci di società di capitali. La stessa regola si ripropone per la società in accomandita semplice, ma l’ultrattività dei principi vigenti in pendenza di società fa sì che, anche dopo la cancellazione, l’accomandante risponda solo entro i limiti della sua quota di liquidazione (art. 2324).

Lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo. Se così fosse, si finirebbe col consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui (magari facendo venir meno, di conseguenza, le garanzie, prestate da terzi, che a quei debiti eventualmente accedano), e ciò pare tanto più inammissibile in un contesto normativo nel quale l’art. 2492 c.c., neppure accorda al creditore la legittimazione a proporre reclamo contro il bilancio finale di liquidazione della società debitrice, il cui deposito prelude alla cancellazione. Ipotizzare – come pure si è fatto da taluni – che la volontaria estinzione dell’ente collettivo comporti, perciò, la cessazione della materia del contendere nei giudizi contro di esso pendenti per l’accertamento di debiti sociali tuttora insoddisfatti significherebbe imporre un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori; sacrificio che non verrebbe sanato dalla possibilità di agire nei confronti dei soci, alle condizioni indicate dalla citata disposizione dell’ari:.

2495, se quest’azione fosse concepita come diversa ed autonoma rispetto a quella già intrapresa verso la società, non foss’altro che per la necessità di dover riprendere il giudizio da capo con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare le prove già espletate.

Ma se allora, anche per non vulnerare il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi, è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica.

La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (sembra dubitarne Cass. 13 luglio 2012, n. 11968, ma in base ad una motivazione in buona parte imperniata sulla disposizione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36, comma 3, operante solo nello specifico settore del diritto tributario). Puntualmente autorevole dottrina ha affermato che la responsabilità dei soci trova giustificazione nel “carattere strumentale del soggetto società: venuto meno questo, i soci sono gli effettivi titolari dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto”.

Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in argomento, Cass. 3 aprile 2003, n. 5113). Come, nel caso della persona fisica, la scomparsa del debitore non estingue il debito, ma innesca un meccanismo successorio nell’ambito del quale le ragioni del creditore sono destinate ad essere variamente contemperate con quelle degli eredi, così, quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione (alla quale, a differenza della morte della persona fisica, concorre di regola la sua stessa volontà) non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali.

Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuoi dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in sè certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, nonchè da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno.

Il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo.

Della correttezza della ricostruzione sistematica dell’istituto in termini (almeno lato sensu) successori è d’altronde lo stesso legislatore a fornire un indizio assai significativo, disponendo che la domanda proposta dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci possa essere notificata, entro un anno dalla cancellazione della società dal registro, presso l’ultima sede della medesima società (art. 2495 cit., comma 2, ultima parte). Non interessa qui soffermarsi sulle perplessità che da talune parti sono state solevate quanto all’idoneità di tale disposizione ad assicurare adeguatamente il diritto di difesa dei soci nei cui confronti la domanda sia proposta. Importa notare come il legislatore, inserendo siffatta previsione processuale nel corpo di un articolo del codice civile, si sia palesemente ispirato all’art. 303 c.p.c., comma 2, che consente, entro l’anno dalla morte della parte, di notificare l’atto di riassunzione agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto:

testimonianza evidente di una visione in chiave successoria del meccanismo in forza del quale i soci possono esser chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti della società estinta. Ed è appena il caso di aggiungere che, per ovvie ragioni di coerenza dell’ordinamento, la medesima conseguenza sistematica non potrebbe non esser tratta anche per quel che concerne gli effetti successori della cancellazione dal registro di una società di persone che non abbia liquidato interamente i rapporti pendenti, quantunque a questo tipo di società non si applichi la speciale disposizione del citato art. 2495, comma 2.

4. Meno agevole è individuare la sorte dei residui attivi non liquidati e delle sopravvenienze attive della liquidazione di una società cancellata dal registro, perchè il legislatore ne tace.

4.1. E’ ben possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa (si veda, ad esempio, la fattispecie esaminata da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758); ma ciò può postularsi agevolmente quando si tratti, appunto, di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo. Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle sopravvenienze attive.

4.2. Escluso, per le ragioni già da principio accennate, che l’esistenza di tali residui o sopravveniente sia da sola sufficiente a giustificare la revoca della cancellazione della società dal registro, o che valga altrimenti ad impedire l’estinzione dell’ente collettivo, sono state prospettate tanto l’ipotesi di una successione dei soci, per certi versi analoga a quella che si è visto operare per i residui e le sopravvenienze passive, quanto l’ipotesi che i beni ed i diritti non liquidati vengano a costituire un patrimonio adespota, assimilabile alla figura dell’eredità giacente, per la gestione e la rappresentanza del quale qualunque interessato potrebbe chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale in applicazione analogica dell’art. 528 c.c. e segg..

Quest’ultima soluzione non è però persuasiva. Troppo dissimili appaiono, infatti, i presupposti sui quali riposa l’istituto dell’eredità giacente, e non vi sono ragioni che impongano di ricorrere ad esso in presenza di altre più plausibili ipotesi ricostruttive.

Il subingresso dei soci nei debiti sociali, sia pure entro i limiti e con le modalità cui sopra s’è fatto cenno, suggerisce immediatamente che anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale venga a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione.

5. Occorre ora spostare l’attenzione sul piano processuale, traendo le conseguenze di quanto appena detto.

E’ del tutto ovvio che una società non più esistente, perchè cancellata dal registro delle imprese, non possa validamente intraprendere una causa, nè esservi convenuta (salvo quanto si dirà a proposito del fallimento).

Problemi più complicati si pongono però qualora la cancellazione intervenga a causa già iniziata.

In situazioni di tal fatta questa corte ha già in più occasioni avuto modo di affermare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società estinta (si vedano Cass. 15 aprile 2010, n. 9032; e Cass. 8 ottobre 2010, n. 20878), così come di quella proposta nei suoi nei confronti (Cass. 10 novembre 2010, n. 22830); e si è ritenuto che, nei processi in corso, anche se non siano stati interrotti per mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 c.p.c., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, e, se ritualmente evocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo (Cass. 6 giugno 2012, n. 9110; e Cass. 30 luglio 2012, n. 12796; si veda anche, per un’applicazione di tali principi mediata dalla peculiarità della normativa tributaria, Cass. 5 dicembre 2012, n. 21773).

5.1. Le indicazioni giurisprudenziali cui da ultimo s’è fatto cenno appaiono meritevoli di essere avallate.

L’aver ricondotto la fattispecie ad un fenomeno successorio – sia pure connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società – consente abbastanza agevolmente di ritenere applicabile, quando la cancellazione e la conseguente estinzione della società abbiano avuto luogo in pendenza di una causa di cui la società stessa era parte, la disposizione dell’art. 110 c.p.c. (come già affermato anche da Cass. 6 giugno 2012, n. 9110). Tale disposizione contempla, infatti, non solo la “morte” (come tale riferibile unicamente alle persone fisiche), ma altresì qualsiasi “altra causa” per la quale la parte venga meno, e dunque risulta idonea a ricomprendere anche l’ipotesi dell’estinzione dell’ente collettivo.

Non parrebbe invece altrettanto plausibile, in simile circostanza, invocare il disposto del successivo art. Ili: per la decisiva ragione che il fenomeno successorio di cui si sta parlando non è in alcun modo riconducibile ad un trasferimento tra vivi, o ad un trasferimento mortis causa a titolo particolare che postuli al tempo stesso l’esistenza di un diverso successore universale. Non v’è alcun soggetto diverso dal successore (cioè dai soci) nei cui confronti possa proseguire il processo di cui era parte la società frattanto cancellata dal registro.

Stando così le cose, non v’è motivo per non ritenere applicabili a tale fattispecie le disposizioni dettate dall’art. 299 c.p.c. e segg., in tema di interruzione e di eventuale prosecuzione o riassunzione della causa (così anche Cass. 16 maggio 2012, n. 7676).

La “perdita della capacità di stare in giudizio”, cui dette norme alludono, è infatti inevitabile conseguenza della sopravvenuta estinzione dell’ente collettivo che sia parte in causa; e ricorrono qui tutte le ragioni per le quali il legislatore ha dettato la suaccennata disciplina dell’interruzione e dell’eventuale prosecuzione o riassunzione del giudizio, così da contemperare i diritti processuali del successore della parte venuta meno e quelli della controparte.

Una sola eccezione va segnalata – ma si tratta, appunto, di un’eccezione, come tale destinata ad operare sono nello stretto ambito in cui il legislatore la ha prevista – con riguardo alla disciplina del fallimento. La possibilità, espressamente contemplata dalla L. Fall., art. 10, che una società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione dal registro comporta, necessariamente, che tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi impugnazione continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal registro; ed è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente procedura concorsuale la posizione processuale del fallito sia sempre impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresentava (si veda, in argomento, Cass. 5 novembre 2010, n. 22547). E’ una fictio iuris, che postula come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un soggetto ormai estinto (come del resto accade anche per l’imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte) e dalla quale non si saprebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti processuali diversi.

5.2. Ulteriori interrogativi sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi con la sopravvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese si ponga nel passaggio al grado successivo. Il che può accadere o perchè in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo (o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg.), oppure perchè quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perchè l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione.

Pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, le sezioni unite ritengono che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge, debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa, è principio generale, condiviso dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, quello per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte” (si vedano, tra le altre, Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1760; Cass. 13 maggio 2011, n. 10649; Cass. 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783).

Non appare davvero un onere troppo gravoso – nè tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria – quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. Nè giova qui soffermarsi a discutere del se ed in quale eventuale misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, nè quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente l’atto d’impugnazione.

L’evento estintivo del quale qui si sta parlando, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), non appare quindi ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacchè la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio).

Non ci si nasconde che ad una logica parzialmente difforme sembra rispondere il principio affermato da queste sezioni unite nel caso d’impugnazione proposta nei confronti di società incorporata a seguito di fusione, nel regime anteriore alla riforma societaria del 2003. La sentenza 14 settembre 2010, n. 19509, ha infatti ammesso che, in quel caso, l’impugnazione possa essere validamente notificata al procuratore costituito di una società che nel precedente grado, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si era estinta per incorporazione, qualora l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità giuridica della società mediante la notificazione di esso. Senonchè tale affermazione appare condizionata, in quel caso, dal preliminare diniego dell’effetto processuale interruttivo della fusione e dalla considerazione che, nell’incorporazione per fusione, la società incorporante, già prima della citata novella del 2003, partecipando essa stessa alla fusione, non è mai totalmente distinta dalla parte già costituita, onde quel tipo di operazione dipende interamente dalla volontà degli stessi organi delle due società che ne sono protagoniste, ivi compresa l’incorporante che è destinata a subentrare nella posizione processuale dell’incorporata (nello stesso senso si veda anche la quasi coeva Sez. un. 19 settembre 2010, n. 19698). Ben diverso è il caso dell’estinzione conseguente a cancellazione della società dal registro delle imprese, che certamente può anch’essa dipendere da un atto volontario della parte, ma alla quale non può dirsi partecipe il soggetto (il socio) destinato a succederle nel processo, al quale può essere sì talvolta imputato di aver concorso con la sua volontà a porre la società in liquidazione, ma di regola non certo di averne determinato l’estinzione, a seguito di cancellazione dal registro, nonostante la pendenza di rapporti non ancora definiti.

Sicchè riemergono appieno, in questo caso, le già accennate esigenze di tutela del successore che sono a base tanto dell’istituto dell’interruzione quanto del principio per cui il giudizio d’impugnazione deve esser sempre instaurato nei confronti della “giusta parte”, cui soltanto ormai fa capo il rapporto litigioso.

5.3. In caso di violazione del principio appena ricordato, quando cioè l’impugnazione non sia diretta nei confronti della “giusta parte”, o non provenga da essa, l’impugnazione medesima dev’essere dichiarata inammissibile.

E’ vero che la giurisprudenza di questa corte è apparsa talora incline a ritenere nullo, per errore sull’identità del soggetto (anzichè inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anzichè ai successori (si vedano, ad esempio, Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; e Cass. 8 giugno 2007, n. 13395). Ma tale indicazione appare difficilmente condivisibile, ove si rifletta sul fatto che la nullità, in coerenza con la funzione anche informativa dell’atto introduttivo del giudizio, è contemplata dall’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 2, e art. 164 c.p.c., comma 1, nel caso in cui la lettura di quell’atto evidenzi l’omissione o l’assoluta incertezza degli elementi che occorrono per la corretta identificazione delle parti. Non di questo si tratta nella situazione di cui si sta qui discutendo: perchè, lungi dall’esservi incertezza sull’identità della parte, questa è ben chiara, ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte (la società estinta) diversa da quella (i relativi soci) che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati. Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.

6. Traendo le fila del discorso svolto, in relazione alle questioni per le quali i ricorsi sono stati portati all’esame delle sezioni unite, si possono dunque enunciare i seguenti principi di diritto:

“Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.

“La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e segg., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.” 7. In applicazione di tali principi il ricorso proposto dal Comune di Avellino nei confronti della ormai estinta società Rainone deve essere dichiarato inammissibile.

A diversa conseguenza non può condurre la circostanza che la cessionaria del credito a suo tempo azionato da detta società sia intervenuta nel giudizio di cassazione depositando un controricorso, non essendo tale intervento idoneo a sanare l’originaria inammissibilità del ricorso proposto contro un soggetto non più esistente.

8. Il ricorso dell’avv. R., inammissibile per le medesime ragioni nella parte in cui è rivolto nei confronti dell’ormai estinta società Rainone, lo è anche nella parte in cui è riferito al Comune di Avellino (onde non occorre porsi un problema di eventuale integrazione del contraddittorio in questa sede nei confronti dei soci della Rainone), perchè, in caso di omessa pronuncia sull’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un’espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma (si vedano, in tal senso, Sez. un. 7 luglio 2010, n. 16037; e Cass. 30 gennaio 2012, n. 1301).

9. La novità dei profili giuridici esaminati suggerisce di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La corte dichiara inammissibili entrambi i ricorsi e compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 09-01-2013) 22-02-2013, n. 4559

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. GARRI’ Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1470-2010 proposto da:

G.M. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati OTTORINO BRESSANINI, AGOSTINO CATALANO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

OFFICINA DI PROTESI TRENTO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA ARTURO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALCANOVER FILIPPO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 390/2008 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 02/01/2009 R.G.N. 377/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/01/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato BOCCIA RAIMONDO FRANCO per delega MARESCA ARTURO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 30 luglio 2002, la Corte d’appello di Trento aveva confermato la decisione di primo grado, di accoglimento delle domande di G.M., operaio dipendente della s.p.a. Officine protesi assunto quale invalido al 50%, di annullamento (con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18) del licenziamento per giustificato motivo soggettivo comunicatogli dalla società il 18 novembre 1999, a seguito della contestazione disciplinare di avere tenuto, durante il periodo di assenza per lombo – sciatalgia acuta protrattosi dal 25 al 28 ottobre 1999, un comportamento tale da escludere la sussistenza dello stato di malattia, ovvero, alternativamente, in contrasto con l’obbligo di non pregiudicare il ripristino della piena capacità lavorativa, per essere stato visto esercitare la caccia nelle mattine del 27 e 28 ottobre.

Con sentenza del 2005 n. 7731, questa Corte, accogliendo il ricorso proposto dalla società, aveva rilevato la contraddittorietà sul piano logico della decisione impugnata, “nel recepire acriticamente le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio e i chiarimenti successivamente forniti dal C.T.U…. Da un lato, infatti, il consulente tecnico ha accertato che, rispetto alla lombalgia cronica della quale soffre il ricorrente, episodi di riacutizzazione possono insorgere a seguito di variazioni climatiche ed in particolare a causa del freddo o dell’umidità ovvero a causa di sovraccarichi funzionali della colonna, specie in posture scorrette con o senza movimentazione di carichi; dall’altro ha concluso che dopo la risoluzione dello spasmo muscolare per effetto della terapia e del riposo nei primi due giorni, il ricorrente poteva attendere normalmente alla vita quotidiana ed effettuare pertanto i movimenti riscontrati nelle giornate del 27 e 28 ottobre 1999 (e cioè l’attività di caccia); ed infatti l’attività venatoria posta in essere dal lavoratore non era tale da aggravare apprezzabilmente o da ritardare la guarigione;… Ad avviso di questa Corte… non è chiaro il passaggio logico che ha indotto il giudice di merito ad escludere che l’attività venatoria svolta dal G. sia da considerarsi compatibile con la necessità (per evitare episodi di riacutizzazione della lombalgia cronica) di non esporsi al freddo o all’umidità e di non assumere posture scorrette. In particolare, non risultano adeguatamente valutati nè la particolare postura richiesta per puntare il fucile da caccia e sparare nè la stagione e l’orario in cui tale attività è stata svolta”.

Riassunta la causa avanti alla Corte d’appello di Venezia, quale giudice di rinvio, questa, con sentenza depositata in data 2 gennaio 2009, riformando la decisione di primo grado, ha respinto le domande del G., condannandolo altresì a restituire le somme versategli dalla società in esecuzione della sentenza riformata.

Per la cassazione di tale sentenza propone ora ricorso (notificato il 31 dicembre 2009) G.M. con un unico motivo, che denuncia il vizio di motivazione della sentenza.

La società resiste alle domande con rituale controricorso.

Motivi della decisione
Il ricorso investe il giudizio della Corte territoriale, secondo cui, tenuto conto della lombalgia cronica da cui è affetto il G. e che ne determina una invalidità del 50%, il fatto che nei due giorni indicati, di riposo stabilito dal medico per il recupero fisico a seguito del riacutizzarsi della malattia, questi si fosse recato in un periodo autunnale, di mattina presto (ore 6,15), in una zona di caccia del Trentino per praticarvi per un paio di ore l’attività venatoria da svolgersi da un capanno, avvalendosi di uccelli da richiamo, contrasterebbe, secondo una valutazione da condurre ex ante, alla luce dei criteri di correttezza e buona fede nell’adempimento delle obbligazioni, con l’obbligo del dipendente di non pregiudicare il ripristino della piena capacità lavorativa al termine del periodo di assenza per la malattia.

Il ricorrente sostiene infatti che il giudice di rinvio avrebbe risolto il quesito postogli dal questa Corte – in ordine alla valutazione di potenziale idoneità dell’eventuale esposizione del G. al freddo e all’umidità e dell’effettuazione di manovre proprie della caccia col fucile a determinare episodi di riacutizzazione della lombalgia cronica – con affermazioni apodittiche, affidate alla comune esperienza e assumendo fatti che non corrispondono alla realtà, senza tenere conto delle circostanze di fatto specificatamente dedotte dalla difesa dell’appellato relativamente alla mitezza del clima in autunno nella zona di caccia indicata, all’adeguatezza del vestiario indossato nell’occasione e alla sufficiente climatizzazione all’interno del gabbi otto ove erano situati gli uccelli da richiamo, al fatto che in tale gabbiotto la posizione del G. non sarebbe stata pericolosa per la sua salute, in quanto non statica, mentre il fucile sarebbe stato imbracciato non in maniera continua ma unicamente quando fosse stato scorto un fagiano e in tal caso inserito in un pertugio che fuoriesce dal gabbiotto.

Il ricorso è infondato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, le sentt. nn. 1699/11, 9474/09, 27104/06, 14046/05 e 17128702), l’assenza dal domicilio per lo svolgimento di attività lavorativa o di altro genere da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, secondo una valutazione da compiere ex ante, non solo allorché tale attività esterna sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, ma anche nell’ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del dipendente.

La valutazione circa la natura pregiudizievole di tale attività, costituisce giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità unicamente nel caso in cui dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.

La deduzione con ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce infatti al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della coerenza logico – formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni svolte, in base all’individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e, più recentemente, ex ceteris, Cass., nn. 6288/11, 27162/09, 26825/09 e 15604/07).

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha operato le proprie valutazoni – con riferimento alla situazione di un soggetto che, affetto da lombalgia cronica, si reca a caccia in una fase temporale di recupero da un episodio di riacutizzazione della lombosciatalgia, che imponeva riposo e temperature calde – tenendo conto di acquisizioni di comune esperienza, quale il clima e l’umidità esistenti la mattina presto in autunno inoltrato nella valle del Trentino o la postura che normalmente comporta l’attività venatoria, quantomeno in posizione eretta e statica, sollecitata dal peso del fucile e dai colpi sparati, ma anche di dati risultanti dall’istruttoria relativamente alla situazione dei luoghi (il percorso per recarsi al capanno e il riscaldamento dello stesso) e personali dell’appellato.

Tali valutazioni di fatto sono contrastate dalla difesa del G. col contrapporre ad esse giudizi di fatto diversi, sovente meramente assertivi – come quello relativo alla mitezza del clima autunnale nella zona del roveretano oppure quello riguardante l’adeguatezza del vestiario indossato dal ricorrente – o fondati su di una erronea interpretazione della sentenza – che, ad es., non ha affatto affermato che la caccia abbia comportato la stazione eretta per due ore col fucile imbracciato -, ma comunque fondati sulle medesime circostanze di fatto e massime di esperienza valutate dai giudici di merito, così sostanzialmente chiedendo a questo giudice di legittimità una nuova valutazione di merito dell’intera vicenda processuale, come non appare consentito in questa sede di controllo di legittimità.

Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente va condannato a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo sulla base dei parametri di cui al recente D.M. n. 140 del 2012.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla società le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2013


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 14/02/2013) 20/03/2013, n. 6881

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 924/2007 proposto da:

IMMOBILIARE BONGIOVANNI & CALO’ S.N.C. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona dei Liquidatori pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati MARZO RICCARDO, LEO LANFRANCO, giusta procura a margine del controricorso;

– ricorrente –

contro

P.G. (C.F. (OMISSIS));

– intimato –

avverso la sentenza n. 702/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 04/10/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2013 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per il ricorso infondato, accoglimento del primo motivo, assorbimento degli altri motivi.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 1.04.1989 alla Società Immobiliare di Bongiovanni Luigi e Calò Fernando S.n.c., P. G. adiva il Tribunale di Lecce e premesso che la società convenuta gli aveva conferito il mandato, da lui espletato, di svolgere gli adempimenti necessari al conseguimento di un mutuo fondiario, ne chiedeva la condanna al pagamento della somma di L. 35.000.000, oltre interessi e rivalutazione, quale dovuto compenso, che assumeva convenuto in misura percentuale rispetto al conseguito mutuo.

La società Immobiliare si costituiva in giudizio contestando la pretesa creditoria azionata dal P. e chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarcimento dei danni subiti.

Il giudizio di primo grado, interrotto a seguito del decesso del difensore della società convenuta, veniva riassunto dal P. nei confronti di quest’ultima, in persona dei liquidatori, la quale in tale successiva fase rimaneva contumace.

Con sentenza pubblicata il 23.05.2002 il Tribunale di Lecce accoglieva la domanda del P. e condannava la Società Immobiliare a pagargli la somma di L. 35.000.000, oltre interessi dalla domanda al soddisfo.

La sentenza di primo grado veniva impugnata da entrambe le parti. Con sentenza del 23.06-4.10.2006, la Corte di appello di Lecce dichiarava inammissibili sia il gravame principale della Società Immobiliare che quello incidentale del P.. La Corte territoriale osservava e riteneva che:

– il P. aveva provveduto a notificare l’impugnata sentenza, in uno con il precetto, direttamente alla società appellante e nella sua sede legale;

– la notifica della sentenza di primo grado era ritualmente avvenuta e si era perfezionata il 26.09.2002, con la conseguenza che l’appello introdotto dalla società con atto notificato il 12.02.2003, doveva ritenersi tardivo, rispetto al termine breve di 30 giorni di cui all’art. 325 c.p.c.;

– in particolare la notificazione della sentenza era stata rituale in quanto:

a) effettuata a mezzo posta nei confronti della società in persona del suo rappresentante pro tempore, nella sua sede legale sita alla via (OMISSIS) (come risultante dalla visura in atti e comunque mai contestato), ai sensi dell’art. 145, comma 1, secondo cui la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante legale o alla persona incaricata di ricevere la notificazione o, in mancanza ad altra persona addetta alla sede stessa;

b) l’agente postale aveva svolto tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 giacchè non avendo potuto effettuare il recapito per “assenza” del destinatario, gli aveva inviato la rituale comunicazione di avvenuto deposito Atti Giudiziari, dichiarando che in data 21.09.2002 aveva tentato il recapito e provveduto ad affiggere avviso alla porta della sua azienda in via (OMISSIS): questo con raccomandata restituita al mittente per mancato ritiro;

c) non vi era alcuna necessità di ricorrere all’art. 140 c.p.c., atteso che non era stata mai certificata l’irreperibilità del destinatario ma solo la sua assenza. Avverso questa sentenza, notificatale il 24.10.2006, la Società Immobiliare di Dongiovanni Luigi e Calò Fernando s.n.c. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e notificato il 20.12.2006 al P., che non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
A sostegno del ricorso Società Immobiliare di Dongiovanni Luigi e Calò Fernando s.n.c. denunzia:

1. “Violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8 nella interpretazione additiva resa dalla sentenza della Corte Costituzionale del 23-12-1998 n. 346 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 7 comma di detta norma nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale. (Art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Conclusivamente formula il seguente quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. applicabile ratione temporis “La notifica a mezzo posta della sentenza nella sede di una disciolta società in liquidazione è nulla se il plico è restituito al mittente e non trattenuto in custodia dall’Ufficio Postale anche dopo la scadenza del termine di dieci giorni previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 e se l’attestazione di non curato ritiro è resa sul documento restituito al mittente prima della scadenza del decimo giorno successivo alla data di deposito”.

2. “Violazione e falsa applicazione dell’art. 19, 138, 139, 141 e 145 c.p.c. in relazione agli art. 2308, 2309 e 2310 c.c. (Art. 360 c.p.c., n. 3)”, di nuovo con riguardo alla notificazione a mezzo posta della sentenza di primo grado.

Sostiene che la Corte distrettuale ha errato nel ritenere la regolarità della notifica della sentenza di primo grado, anche se era pacifico che essa fosse stata effettuata a “S.n.c. Bongiovanni &

Calò in persona del legale rappresentante p.t. con sede in (OMISSIS)”. Deduce che dalla relazione di notificazione e dalla ricevuta di ritorno restituita al mittente non si evinceva innanzi tutto l’esatta denominazione della società (mancava la locuzione “Immobiliare”), neppure si evincevano lo stato di liquidazione di essa, il nome di almeno uno dei liquidatori, l’indicazione del numero civico e che, poichè al momento della richiesta notificazione risultava che la società era stata già sciolta, era in liquidazione ed aveva cessato ogni attività nella sede legale di Via (OMISSIS), i soli legittimati a ricevere il plico erano i liquidatori nella loro rispettiva residenza.

Formula i seguenti quesiti:

“In tema di notifiche a società prive di personalità giuridica, è invalida la notifica effettuata nella sede sociale di una società in nome collettivo già disciolta ed in liquidazione, che non sia anche luogo di abitazione o domicilio della persona fisica che, in qualità di liquidatore, rappresenta l’ente”.

“Le notificazioni alle società non aventi personalità giuridica (nella specie, società in nome collettivo) si eseguono ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 2, nella sede indicata dall’art. 19 c.p.c., comma 2, solo se esse vi svolgano attività continuativa. Nel caso l’attività presso la sede sia cessata per essere stata la società già sciolta ed essere in liquidazione, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., u.c., la notificazione deve essere eseguita, ai sensi degli artt. 138, 139, 141 e 149 c.p.c., nella sede di residenza di uno dei liquidatori, se essa risulti dalla pubblicità presso la competente Camera di Commercio”.

“La notifica di una sentenza effettata a mezzo del servizio postale presso la sede legale di una disciolta e disattiva società in nome collettivo in liquidazione, la cui ragione sociale, lo stato di liquidazione ed almeno uno dei liquidatori non siano esattamente indicati, è invalida se il plico non sia stato ritirato da alcuno dei liquidatori o da persona da loro incaricata”.

“La società in nome collettivo in stato di liquidazione non può ritenersi che svolga attività continuativa nella sede sociale perchè lo stato di liquidazione conseguente al già deliberato scioglimento, ne comporta l’implicita inattività”.

“Se la sentenza non sia stata validamente notificata a chi sia il legittimato liquidatore di una disciolta società in nome collettivo in liquidazione, il termine di cui all’art. 325 c.p.c. non decorre, essa non diviene giudicato formale e l’appello proposto dai liquidatori entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c., è ammissibile”.

3. “Violazione e falsa applicazione degli artt. 300 e 305 c.p.c. in relazione agli artt. 2308, 2309, 2310 c.c.. Violazione degli artt. 19, 138, 139, 141 e 145 c.p.c. in relazione agli artt. 2308, 2309 e 2310 c.c.. Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione ai motivi sub 1), sub 2) e sub 3) dell’atto d’appello. (Art. 360 c.p.c., n. 3).”.

Si duole che i giudici d’appello non abbiano rilevato l’estinzione del giudizio di primo grado conseguente alla mancata tempestiva sua riassunzione nel termine semestrale, con riguardo al fatto che all’udienza del 26.03.1996 il difensore della società aveva dichiarato che essa era stata posta in liquidazione con nomina del liquidatore da parte dell’A.G..

Aggiunge che il giudizio era stato dichiarato interrotto non per tale evento, ma solo successivamente, il 22.11.1999, a seguito della morte del difensore della medesima società.

Formula i seguenti quesiti:

“Alla dichiarazione del procuratore relativa alla perdita della capacità della parte costituita di stare in giudizio consegue l’effetto interruttivo del processo per il solo fatto che essa sia resa nella sede e nei modi stabiliti dalla legge, senza necessità che la finalità interruttiva sia manifestata da parte del procuratore”.

“Il termine di sei mesi di cui all’art. 305 c.p.c. utile per la riassunzione decorre dal giorno in cui è avvenuto l’effetto interruttivo conseguente alla dichiarazione della perdita della capacità di stare in giudizio della parte costituita, anche se a questa non sia conseguito un formale provvedimento di interruzione”.

“La notifica dell’atto di riassunzione e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo deve essere effettuata presso la sede di almeno uno dei liquidatori della società in nome collettivo”.

“Se la notifica dell’atto di riassunzione e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo è effettuata presso la sede inattiva di una disciolta società in nome collettivo in liquidazione e non presso la sede di almeno uno dei liquidatori, essa è nulla e priva di alcun effetto ed il processo si estingue per mancata riassunzione se, nel frattempo, sia inutilmente decorso il termine di sei mesi di cui all’art. 305 c.p.c.”.

“La Corte del merito che ingiustamente dichiari inammissibile l’appello, in realtà tempestivamente proposto, senza esaminare la domanda di pronuncia di estinzione del processo per mancata tempestiva riassunzione, viola la norma dell’art. 112 c.p.c.”.

“L’estinzione del processo per mancata tempestiva riassunzione o per la nullità della notifica dell’atto di riassunzione, non dichiarata dal Giudice d’appello, può essere dichiarata, senza rinvio, dalla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., u.c., perchè il processo non poteva essere proseguito a causa la intervenuta estinzione”.

4. “Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione ai motivi 5), 6), 7), 8) di appello, innanzi indicati. Omessa motivazione sui punti decisivi corrispondenti ai suddetti motivi. (Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).”, in riferimento al mancato esame dei suoi motivi di appello contro la sentenza di primo grado, attinenti al merito della lite.

Formula il seguente quesito “Illegittimamente la Corte del merito non esamina i motivi d’appello se, senza fondamento, dichiara l’inammissibilità dell’appello. Sicchè, accolto il motivo del ricorso sull’ingiusta pronuncia d’inammissibilità dell’appello e non dichiarata l’estinzione del processo, il giudice del rinvio dovrà esaminare tutti i motivi d’impugnazione non esaminati dalla Corte del merito”.

Il primo motivo del ricorso è fondato ed al relativo accoglimento segue anche l’assorbimento degli ulteriori tre motivi del medesimo ricorso.

Vero è che la messa in liquidazione della società non comporta la perdita della capacità processuale della medesima ma il passaggio della rappresentanza dagli amministratori al liquidatore, con la conseguenza che la notifica degli atti processuali va effettuata nella sede di tale società e non nella residenza o nel domicilio del rappresentante (cfr tra le altre, Cass. n. 5283 del 1989; in tema cfr anche Cass. SU n. del 4060 del 2010; Cass. n. 12796 del 2012), tuttavia l’impugnata sentenza si dimostra carente nel punto in cui si è concluso per la ritualità dell’attuata notificazione della sentenza di primo grado perfezionatasi il 26.09.2002 in rapporto all’accertato compimento in data 21.09.2002, da parte dell’agente postale, di tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 8 (nel testo, applicabile ratione temporis, precedente le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 174, comma 16) quali anche integrati dall’invio alla destinataria della raccomandata con avviso di ricevimento, resosi necessario dopo la sopravvenuta sentenza d’incostituzionalità n. 346 del 1998 della Corte Costituzionale. La datazione al 26.09.2002 del perfezionamento della notificazione in questione non appare aderente al dettato normativo (L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4) e, quindi, non può legittimare l’avversata conclusione di ritualità di tale notificazione: Rispetto al compimento in data 21.09.2002 delle prescritte formalità, la notificazione avrebbe potuto aversi per eseguita solo dopo il decorso del prescritto termine di compiuta giacenza, pari ad almeno 10 giorni dalla data del deposito del piego nell’ufficio postale, mentre del rispetto di questo ulteriore incombente incidente sulla validità della notificazione, i giudici del merito non risultano avere tenuto e comunque dato conto.

Conclusivamente si deve accogliere il primo motivo del ricorso con assorbimento di tutte le altre censure e cassare l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, cui si demanda anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Lecce, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 11-12-2012) 05-02-2013, n. 2612

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2127/2010 proposto da:

C.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato MENGHINI Mario, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARAPELLE ROBERTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

FIAT GROUP AUTOMOBILES S.P.A. (OMISSIS) (nuova denominazione della FIAT AUTO S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo STUDIO TOFFOLETTO – DE LUCA TAMAJO, rappresentata e difesa dagli avvocati DE LUCA TAMAJO Raffaele, BONAMICO FRANCO, DIRUTIGLIANO DIEGO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 867/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 30/07/2009 R.G.N. 556/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2012 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito l’Avvocato DE MICHELI CINZIA per delega MENGHINI MARIO;

udito l’Avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o. in subordine, rigetto.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 30 luglio 2009 la Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale, ha respinto la domanda di C.T., operaio di terzo livello, volta ad affermare l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Fiat Group Automobiles.

La società datrice di lavoro aveva contestato al lavoratore di essere rimasto assente dal lavoro per malattia per complessivi 14 giorni nel corso dell’anno; di essere stato assente ingiustificato il giorno 18 maggio 2007; di aver svolto durante l’assenza per malattia dal 21 al 25 maggio 2007 attività lavorativa presso un esercizio commerciale di sua proprietà; di essersi nuovamente assentato per malattia il 30 maggio 2007 dopo solo due giorni dalla ripresa del lavoro.

La Corte territoriale ha rilevato che dalla relazione redatta dagli investigatori incaricati dalla Fiat e dalle loro deposizioni testimoniali era risultato con chiarezza che il giorno 25 maggio 2007 il C. era stato visto intento a collaborare nei lavori di ristrutturazione del locale dove a giorni sarebbe stato trasferito l’esercizio commerciale di cui lo stesso era titolare, attività del tutto incompatibile con lo stato di malattia.

La Corte ha osservato che in modo singolare la malattia del lavoratore, lombalgia con dolori agli arti inferiori sebbene il C. fosse dedito con regolarità e con brillanti risultati a gare podistiche, si fosse verificata proprio in concomitanza con i lavori di ristrutturazione del locale. Ha dedotto, altresì, che il lavoratore in sede di libero interrogatorio, nell’illustrare i motivi della sua astensione dal lavoro per malattia dal 21 al 25 maggio, aveva riferito di avere forti cefalee a causa dei denti, sebbene il certificato medico portasse la diversa diagnosi di lombalgia agli arti inferiori.

La Corte territoriale, inoltre, ha riferito, in ordine alle visite domiciliari di controllo effettuate da parte dei medici della Asl che avevano confermato lo stato di malattia, che non erano di ostacolo, ove concorrevano come nella specie circostanze di fatto che inducevano ad escludere l’effettiva esistenza dello stato di malattia, a ritenere accertata la simulazione della malattia e l’ingiustificatezza dell’assenza del lavoratore. Infine la corte ha affermato l’irrilevanza del fatto che il C. aveva collaborato alle attività di ristrutturazione del negozio tra le 7.50 del mattino e le 18 della sera, orario compatibile con il turno di lavoro assegnatogli che era quello notturno fisso dalle 22 alle sei, atteso che il lavoratore non avrebbe potuto dedicarsi di giorno ai lavori di ristrutturazione del negozio se avesse dovuto lavorare durante la notte.

Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione il C. formulando un unico motivo.

Si costituisce la Fiat Group con controricorso. Le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il C. censura la sentenza per violazione degli artt. 2110, 1175, 1375, 2729, 2697 cod. civ., in combinato disposto con gli artt. 115 e 116 c.p.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. Rileva che presupposto indefettibile del licenziamento del lavoratore che svolge attività lavorativa durante un periodo di assenza per malattia è quello della prova dell’effettuazione di attività lavorativa incompatibile con lo stato di malattia tanto da far presumere inesistente la malattia o, comunque, da pregiudicare la guarigione, prova che deve fornire il datore di lavoro e che può essere data anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti; la Corte, invece, aveva dato rilievo a fatti assolutamente e logicamente inveritieri ed irrilevanti.

Censura inoltre la sentenza che non ha dato alcuna rilievo alla circostanza che le malattie del lavoratore erano state confermate dai medici dell’Asl.

Il motivo è infondato. La sentenza impugnata appare adeguatamente motivata, priva di difetti logici o contraddizioni, oltre che immune da errori di diritto, circa l’affermata legittimità del licenziamento intimato dalla Fiat Group Automobiles al C..

11 ricorrente, pur denunciando vizi di violazione di norme, ha omesso di indicare in quale punto la decisione si pone in contrasto con la legge. In realtà con l’unico vizio denunciato il C. si limita a sottoporre all’esame di questa Corte le questioni di merito già valutate e motivate dalla Corte d’Appello senza formulare specifiche censure tese a dimostrare il denunciato contrasto con norme di legge.

Le censure mosse dal ricorrente si limitano a proporre una diversa valutazione dei fatti risolvendosi in una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che “Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione” (Cass n. 2357 del 07/02/2004; n 7846 del 4/4/2006; n 20455 del 21/9/2006; n 27197 del 16/12/2011).

La Corte territoriale, invece, ha esaminato la relazione redatta dagli ispettori incaricati dalla datrice di lavoro nonché i risultati della prova testimoniale pervenendo ad affermare, con valutazione in fatto non censurabile in Cassazione, che il C., assente dal lavoro per malattia nel periodo 21/25 maggio 2007 per “lombalgia con dolore agli arti inferiori”, era stato visto intento a collaborare nei lavori di ristrutturazione del locale dove avrebbe dovuto essere trasferito l’esercizio commerciale di cui lo stesso era titolare. La Corte territoriale ha, poi, esposto che il C. era stato visto scaricare materiale, svolgere lavori sul soffitto del locale stando su una scala, pulire il pavimento, raschiare le vecchie insegne, attività del tutto incompatibili con lo stato di malattia.

La Corte ha, inoltre, valutato la singolare concomitanza della malattia del lavoratore con i lavori di ristrutturazione del locale dove, di lì a pochi giorni, sarebbe stato trasferito il suo esercizio commerciale; la circostanza che il lavoratore nel corso dell’interrogatorio libero aveva indicato quale malattia idonea a giustificare l’assenza nel periodo 21/25 maggio 2007 dolori derivanti dai denti in contrasto con quanto risultante dal certificato medico di “lombalgia agli arti inferiori”; l’irrilevanza ai fini della prova dell’effettività dello stato di malattia, delle visite domiciliari di controllo eseguite dalla ASL che avevano sempre confermato la prognosi, tenuto conto delle circostanze di fatto emerse dall’istruttoria che inducevano ad escludere l’effettiva esistenza dello stato di malattia.

Per le considerazioni che precedono le censure del ricorrente non sono idonee ad invalidare la decisione impugnata con conseguente rigetto del vizio denunciato.

Le spese di causa liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.

P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali alla contro ricorrente liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre accessori di legge, per compensi professionali.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2013


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 22-11-2012) 04-02-2013, n. 2512

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29682/2007 proposto da:

VIRGINIO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato BOURSIER NIUTTA Carlo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati BELLIGOLI GIANPIERO, MURA ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.A.D., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato DEMARTIS Francesco, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 326/2007 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 04/06/2007 R.G.N. 260/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2012 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato ARMENTANO ANTONIO per delega CARLO BOURSIER NIUTTA;

udito l’Avvocato DE MARTIS FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, e ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 6/4/06 il giudice del lavoro del Tribunale di Tempio Pausania, accogliendo la domanda di P.A.D., infortunatosi sul lavoro, accertò la responsabilità della Virginio s.r.l., quale datrice di lavoro, e la condannò al risarcimento del danno biologico e morale, mentre rigettò la domanda di quest’ultima nei confronti della compagnia assicuratrice Reale Mutua, ritenendo che per i suddetti danni non vi era copertura assicurativa.

A seguito di impugnazione principale della Virginio s.r.l. e di impugnazione incidentale del lavoratore, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 23/5 – 4/6/07, ha rigettato il gravame proposto dalla datrice di lavoro ed ha, invece, accolto quello del P., dichiarando che la responsabilità dell’infortunio era da ascrivere anche al preposto B.P., condannandolo in solido con la società al risarcimento del danno, come determinato dal primo giudice, incrementato degli interessi legali, con decorrenza dalla sentenza di primo grado al saldo.

Ha spiegato la Corte che l’accertata violazione delle doverose cautele antinfortunistiche era da addebitare anche alla condotta del preposto B., il quale non aveva verificato i macchinari, aveva costretto i dipendenti a lavorare in condizioni estremamente precarie dal punto di vista della sicurezza e non si era preoccupato di verificare che venissero adottati i dispositivi di sicurezza;

inoltre, la Corte ha ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione dell’azione nei confronti del B., sia perchè sollevata da un terzo, vale a dire la società assicuratrice, sia perché il corso della stessa era stato interrotto con la richiesta risarcitoria nei cinque anni dall’infortunio; infine, i giudici d’appello hanno condiviso la decisione del primo giudice di rigettare la domanda proposta per il danno differenziale nei confronti della società assicuratrice, in quanto la copertura assicurativa concerneva solo i danni rilevanti ai fini del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, e non anche il danno biologico, contemplato dal D.Lgs. n. 38 del 2000, entrato in vigore in epoca successiva alla sottoscrizione della polizza assicurativa che, sotto tale aspetto, era rimasta invariata nel tempo.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Virginio S.r.l., che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso P.A.D..

Entrambe le parti depositano memoria.

Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente, nel sostenere che la polizza assicurativa oggetto di causa le garantiva anche la copertura del danno biologico e morale eventualmente causato ai propri dipendenti, denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento al rigetto della domanda di manleva avanzata nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni s.p.a. e formula, al riguardo, il seguente quesito: “Una polizza assicurativa stipulata dal datore di lavoro a copertura della propria eventuale e residuale responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro (D.P.R. n. 1124 del 1965, ex art. 10) comprende anche i danni biologico e morale senza che sia necessaria una clausola espressa di estensione della garanzia per tali danni. Essi, infatti, rientrano nella nozione di danno in quanto tale e, cioè, di tutte le conseguenze lesive dell’infortunio sulla persona del lavoratore che costituiscono, appunto, oggetto dell’assicurazione”.

Il motivo è infondato.

Invero, si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 16376 del 18/7/2006) che “l’interpretazione delle clausole di un contratto di assicurazione in ordine alla portata ed all’estensione del rischio assicurato rientra tra i compiti del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed assistita da congrua motivazione.

(Nella specie per il periodo sottratto “ratione temporis” al disposto del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 (che ha ricondotto il danno biologico nella copertura assicurativa obbligatoria), la corte di merito aveva ritenuto che l’ambito della copertura assicurativa in caso di infortunio sul lavoro riguardasse unicamente il danno patrimoniale collegato alla riduzione dell’attività lavorativa, e non anche il danno biologico e il danno morale)”.

Si è, altresì, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 7593 del 15/5/2003) che “nella interpretazione della clausola di un contratto di assicurazione, con il quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne il datore di lavoro per quanto questi sia tenuto a pagare a norma del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11, il giudice del merito deve individuare la volontà delle parti, secondo i criteri di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., tenendo presente il contenuto normativo delle disposizioni legali, cui le parti hanno rinviato, al momento della stipula del contratto di assicurazione e, in particolare, ai fini della inclusione nella manleva anche del danno biologico e del danno morale, del fatto che l’art. 10 del citato D.P.R., nel regime anteriore al D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, afferma la responsabilità civile del datore di lavoro per tali componenti del danno sottraendola alla copertura dell’assicurazione antinfortunistica obbligatoria”.

Nel caso in esame rimane, pertanto, insuperata la deduzione della Corte di merito, la quale, con interpretazione ermeneutica corretta e con argomentazione logica, ha ben spiegato che, trattandosi di polizza stipulata precedentemente all’epoca del riconoscimento normativo (D.Lgs. n. 38 del 2000) del danno biologico, il riferimento in essa a quanto l’impresa assicuratrice era tenuta a pagare ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 ed 11, non poteva avere altro significato che quello limitato al tipo di prestazioni allora erogabili, vale a dire quelle riferibili al danno patrimoniale.

2. Col secondo motivo, nel sostenere che l’obbligo datoriale di far osservare le norme per la prevenzione degli infortuni non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, nè il dovere di affiancamento di un preposto, la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento all’art. 2087 c.c.. A conclusione del motivo la medesima formula il seguente quesito di diritto: “In tema di responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio sul lavoro subito da un suo dipendente, l’obbligo del datore stesso di vigilare affinchè siano impediti atti o manovre rischiose del dipendente nello svolgimento del suo lavoro e di controllare l’osservanza da parte dello stesso delle norme di sicurezza e dei mezzi di protezione non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, nè il dovere di affiancare un preposto ad ogni lavoratore impegnato in mansioni richiedenti la prestazione di una sola persona o di organizzare il lavoro in modo da moltiplicare verticalmente i controlli fra i dipendenti, richiedendosi solo una diligenza rapportata in concreto al lavoro da svolgere e cioè all’ubicazione del medesimo, all’esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica della produzione”.

3. Col terzo motivo, nel sostenere la necessità anche di una valutazione del concorso colposo del lavoratore nella verificazione degli infortuni sul lavoro alla luce delle novità legislative introdotte dal D.Lgs. n. 626 del 1994, là ricorrènte deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., proponendo il seguente quesito di diritto: “In caso di infortunio sul lavoro la valutazione della condotta posta in essere da parte del lavoratore, ai fini del riconoscimento del concorso di colpa, deve essere fatta anche alla luce delle novità legislative introdotte con il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che pongono, anche a carico del lavoratore, particolari obblighi attivi in materia di sicurezza sugli ambienti di lavoro e che fanno mutare il ruolo del lavoratore stesso che da soggetto passivo della sicurezza transita al ruolo attivo. Di tale fatto occorre tener conto, con il possibile riconoscimento di un concorso di colpa prevalente da parte del lavoratore nella determinazione dell’infortunio”.

Atteso che le questioni poste col secondo e col terzo motivo di censura comportano la disamina di problematiche giuridiche connesse è opportuna una loro trattazione unitaria.

Entrambi i motivi sono infondati.

Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. Lav. n. 1994 del 13/2/2012) che “il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; pertanto, la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell’iter produttivo del danno imposta dal regime di subordinazione, va addebitata al datore di lavoro, il quale, con l’ordine di eseguire un’incombenza lavorativa pericolosa, determina l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso”.

Si è, altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 4656 del 25/2/2011) che “le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere”.

Orbene, nella fattispecie l’indagine compiuta dalla Corte di merito in maniera esente da vizi di natura logico-giuridica ha consentito di accertare, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo la responsabilità di quest’ultima in ordine al grave infortunio occorso al lavoratore, per effetto del quale il medesimo subì la perdita di un occhio, ma anche un concorso di colpa del preposto B., per cui se ne deduce che correttamente i giudici d’appello sono giunti alla conclusione che nessun elemento di colpa era ravvisabile nel comportamento del lavoratore in merito alla produzione dell’evento lesivo verificatosi in suo danno, dal momento che questi non aveva fatto altro che ubbidire a precise direttive datoriali tramite gli ordini del preposto B..

4. Con l’ultimo motivo è denunziata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c., con riferimento alla sussistenza e risarcibilità del danno morale. In particolare, la ricorrente si duole sia della conferma della condanna risarcitoria, nonostante la eccepita mancanza di prova in merito alla ritenuta sussistenza del danno morale, sia del disposto cumulo degli accessori di legge, asserendo che il credito da danno biologico e morale non costituisce un credito da lavoro per il quale possa applicarsi l’art. 429 c.p.c..

A conclusione del motivo sono posti i seguenti quesiti di diritto:

“Pur essendo il danno morale suscettibile di risarcimento anche a prescindere dall’accertamento di un reato deve essere, comunque, fornita una prova precisa e puntuale in ordine alla sussistenza e all’entità del danno lamentato”. “Il credito del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, volto al risarcimento del danno biologico e morale derivatogli in occasione di un infortunio sul lavoro, non ha natura giuridica di credito di lavoro, trovando nel rapporto di lavoro soltanto l’occasione di contatto sociale che ha determinato la sua insorgenza, ma ha natura di credito risarcitorio; ne consegue che, avendo la sentenza di liquidazione del credito operato la trasformazione di esso, ex art. 2043 c.c., da credito di valore in credito di valuta, dalla data della sentenza e fino al pagamento il danno da ritardo è disciplinato non dall’art. 429 c.p.c., comma 3, ma dall’art. 1224 c.c., che esclude il cumulo tra interessi e rivalutazione”.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, il danno morale, rappresentato dalle inevitabili conseguenze pregiudizievoli scaturite della perdita di un occhio, è stato correttamente ricondotto dalla Corte territoriale alla verificata sussistenza della colpa della datrice di lavoro nella determinazione del sinistro che comportò una tale grave menomazione fisica al proprio dipendente, per cui la medesima non poteva essere esentata dal ristoro effettivo di tutti i danni provocatigli a causa delle sue accertate colpevoli omissioni nel rispetto delle norme antinfortunistiche.

Quanto al secondo rilievo, concernente la dedotta questione del divieto di cumulo degli accessori, si osserva che questa Corte ha già chiarito (Cass. Sez. Lav. n. 14507 dell’1/7/2011) che “la domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall’art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perchè non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dall’art. 429 cod. proc. civ., comma 2. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6”. (conforme a Cass. Sez. Lav. n. 3213 del 18/2/2004).

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

Non va, invece, adottata alcuna statuizione nei confronti della società Reale Mutua Assicurazioni rimasta solo intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nei confronti di P.A.D. nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., 24-01-2013, n. 1668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12 rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

LA GAIA SRL in persona del curatore;

– intimata –

avverso la sentenza n.92/36/07 della Commissione Tributaria regionale del Lazio con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della Commissione Tributaria provinciale di Roma 64/08/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2012 dal Consigliere Dott.ssa Marina Meloni;

udito l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa ZENO Immacolata che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Su ricorso del contribuente La Gaja srl avverso la cartella di pagamento notificata in data 28/1/2003, con cui era stato richiesto il versamento della somma di Euro 1.915.501,79 a titolo di IRPEG, ILOR ed IVA 1996, oltre interessi e sanzioni, si pronunciava la Commissione tributaria provinciale del Lazio con la sentenza nr. 64/08/05 di primo grado la quale dichiarava la nullità della notifica dell’avviso di accertamento. Con sentenza nr.92/36/07 pronunciata in data 23/5/2007 la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava il ricorso in appello proposto dalla Agenzia delle Entrate Ufficio di Roma avverso la predetta sentenza, ritenendo che la notifica effettuata ex art. 140 c.p.c. non poteva essere applicata qualora il destinatario dell’atto fosse una persona giuridica irreperibile.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello con un motivo.

Motivi della decisione

1. Con il primo ed unico motivo l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 145 c.p.c., comma 3 nonchè D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nella parte in cui il giudice territoriale ha affermato che la cartella di pagamento impugnata doveva essere considerata illegittima in quanto non era stata preceduta dalla notifica dell’avviso di accertamento finalizzato a rendere edotto il contribuente dell’oggetto della natura del tributo e dei motivi posti a fondamento della rettifica.

2. Secondo l’appellante occorre considerare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, la notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norma stabilite dagli artt. 137 e segg. c.p.c. con alcune modifiche e che pertanto nella fattispecie erano stati rispettati i principi in quanto la notifica dell’avviso di accertamento era stata effettuata in base all’art. 140 c.p.c. e non in base all’art. 145 c.p.c., comma 3, come erroneamente ritenuto dalla CTR secondo la quale l’art. 140 c.p.c.: era applicabile “solo nei confronti della persona fisica legale rappresentante della società dopo che sia stata esperita nei suoi confronti la notifica e constatata la sua irreperibilità”.

3. Il ricorso è infondato. Infatti, premesso che il messo notificatore aveva dichiarato che all’indirizzo della società La Gaja srl Via (OMISSIS) risultava un negozio chiuso e pertanto aveva depositato l’atto nella casa comunale a norma dell’art. 140 c.p.c. e D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, appare condivisibile l’orientamento espresso nella sentenza di appello dalla CTR di Lazio, secondo la quale, se il destinatario della notifica è una persona giuridica irreperibile, è escluso il ricorso alla proceduta regolata dall’art. 140 c.p.c., che può essere validamente adottata solo nei confronti della persona fisica irreperibile, legale rappresentante della società. In tema di notifiche alla persona giuridica risulta consolidato l’orientamento della Corte secondo il quale, in caso di irreperibilità presso il domicilio fiscale noto, si deve procedere ex art. 145 c.p.c., comma 3 alla notifica dell’atto alla persona fisica che rappresenta l’ente, nella specie il curatore del fallimento, come affermato per esempio in Cass. 5 sezione, nr. 15856 del 7/7/2009 secondo la quale: Gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa, entro l’ambito del domicilio fiscale, secondo la disciplina dell’art. 145 c.p.c., comma 1. Qualora tale modalità risulti impossibile, si applica il successivo terzo comma dell’art. 145 cod. proc. civ., e la notifica dovrà essere eseguita ai sensi degli art. 138, 139 e 141 cod. proc. civ., alla persona fisica che rappresenta l’ente. In caso d’impossibilità di procedere anche secondo questa modalità, la notifica dovrà essere eseguita secondo le forme dell’art. 140 cod. proc. civ., ma se l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente non si trovano nel comune del domicilio fiscale, la notifica dovrà effettuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), e si perfezionerà nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione del prescritto avviso di deposito nell’albo del Comune”. Le considerazioni che precedono inducono al rigetto del ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese stante l’assenza di attività difensiva dell’intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5 sezione civile, il 29 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-10-2012) 10-01-2013, n. 440

Ricordano i giudici, “l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto” e, di conseguenza, “è nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate” dalla norma.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5426-2008 proposto da:

CURATORE FALLIMENTO ITALCASA DI COSTANTINO A. & COSTANTINO M. SNC in persona del Curatore del fallimento, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUCA DELLA ROBBIA 3, presso lo studio dell’avvocato CAPORILLI MARIA ROSARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato MACCARI RAFFAELE con studio in MESSINA VIALE SAN MARTINO 116, (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/2006 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 21/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di avvisi di accertamento per IRPEG ed ILOR relativi agli anni 1995 e 1996 a carico del Fallimento ITALCASA snc di Costantino A. e Costantino M., notificati il 5-11-2001 dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Padova 1 e divenuti definitivi per mancata impugnazione, il Curatore del Fallimento proponeva ricorso dinanzi alla CTP di Padova avverso la cartella di pagamento, con la quale veniva richiesto il pagamento della somma di Euro 417.356,68, per il titolo e per gli anni di cui sopra.

Il ricorrente sosteneva la nullità della cartella per vari motivi e, in particolare, perchè gli avvisi di accertamento, presupposto della cartella stessa, non erano stati ritualmente notificati nel domicilio eletto (studio professionale del Curatore), bensì irregolarmente consegnati a tale O.S., nella sua presunta qualità di portiere dell’abitazione del Curatore.

L’adita CTP accoglieva il ricorso.

In seguito ad appello dell’Ufficio ed appello incidentale del Curatore, la CTR di Venezia, in riforma della sentenza impugnata, rigettava il ricorso proposto dal Curatore avverso la cartella di pagamento.

In motivazione la CTR, in particolare, evidenziava:

che la Italcasa snc era stata dichiarata fallita, sicchè legittimamente l’Ufficio aveva notificato gli avvisi presso la residenza del Curatore;

che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3 e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Curatore, affidato a quattro motivi, cui resisteva l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60 e art. 145 c.p.c., ritenendo che, in base alle su citate norme, l’Ufficio avrebbe potuto notificare gli avvisi di accertamento in questione presso la residenza del Curatore soltanto ove non fosse stato possibile notificarli presso lo studio o domicilio eletto dallo stesso curatore.

Siffatto motivo è infondato Al riguardo va, invero, condiviso il principio già espresso da questa stessa S.C., secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la notifica degli avvisi e degli atti presupposti rispetto alla cartella di pagamento, emessi nei confronti di una società dichiarata fallita, è validamente effettuata presso la residenza anagrafica del curatore fallimentare, anche se questi abbia eletto il domicilio nel suo studio professionale, perchè la disposizione che prevede la “facoltà del contribuente” di eleggere domicilio in luogo diverso dalla residenza anagrafica – il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. d), – non riguarda l’ipotesi della notifica fatta a persona diversa dal contribuente, anche se legittimata a ricevere la notifica” (Cass. 26178/2011), come, nel caso di specie, è il Curatore.

Con il secondo e terzo motivo deduceva, ex art. 360, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia nonchè insufficiente motivazione su un fatto decisivo.

In particolare, rilevava che, in base al su citato art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 la consegna al portiere poteva avvenire solo in mancanza delle persone indicate in ordine tassativo di successione preferenziale nei rispettivi commi 2 dei predetti articoli; di conseguenza il Giudice di merito avrebbe potuto pronunciarsi nel senso della validità della notifica solo previo accertamento (omesso invece nel caso di specie) che dalla relata in atti risultasse che la consegna al portiere era avvenuta esclusivamente in ragione della mancanza dei predetti soggetti; lo stesso Giudice del merito, inoltre, aveva insufficientemente motivato, ritenendo che la qualità di “portiere” si doveva presumere alla luce delle dichiarazioni rese all’ufficiale notificatore, senza tuttavia prendere in considerazione la prova contraria fornita dal ricorrente, e cioè la dichiarazione resa dall’amministratore p.t. del Condominio, dalla quale risultava che O.S. era solo custode (e non “portiere”) dello stabile, senza alcun obbligo di ricevere notifiche o lett. racc..

Detto motivo è fondato.

Va, invero, condiviso il principio ripetuta mente stabilito da questa Corte, secondo cui “in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 cod. proc. civ., comma 2 secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. E’ pertanto nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata (Cass. 8214/2005; conf. 11332/2005; 6101/2006).

La CTR non ha fatto corretto uso di tale principio, avendo affermato che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3, e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile, senza tuttavia avere previamente verificato che l’ufficiale giudiziario, nella sua relata, avesse o meno dato atto, oltre che dell’assenza del destinatario anche dell’effettuazione delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto.

L’accoglimento del detto motivo, comporta l’assorbimento del quarto, con il quale il ricorrente deduceva, ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Giudice d’Appello totalmente trascurato di prendere in considerazione la censura (rivolta direttamente contro la cartella) riguardante la mancata indicazione del responsabile del procedimento.

In conclusione, pertanto, in accoglimento del ricorso, va cassata la gravata sentenza e la causa va rinviata ad altra sezione della CTR di Venezia al fine di decidere la stessa sulla base del su riportato principio di diritto; detta CTR provvedere, inoltre, anche sui compensi di lite.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la impugnata sentenza e rinvia, anche per provvedere sulle spese di lite, alla CTR di Venezia, diversa sezione.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della sez. tributaria, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 30-10-2012) 05-12-2012, n. 21817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 10542/07 proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del suo Direttore Centrale pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., in persona del suo legale rappresentante M.B., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Paridi n. 43, presso lo Studio dell’avv. Francesco D’Ayala Valva, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23/41/06 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, depositata in data 21.2.2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 30.10.2012 dal Consigliere Dott. Ernestino Bruschetta;

udito l’Avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia, per la ricorrente Agenzia delle Entrate, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Francesco D’Ayala Valva, per la controricorrente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso e comunque il suo rigetto;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 215/03/02 depositata in data 12.11.2002 la Commissione Tributaria Regionale della Campania – respinto l’appello proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l.

– confermava la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Benevento n. 49/04/02 depositata in data 2.4.2002 che aveva dichiarata “legittima” la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 emessa dalla Agenzia delle Entrate di Benevento a seguito del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e quest’ultimo ritenuto definitivo perchè correttamente notificato e non tempestivamente opposto.

In particolare la CTR della Campania – rilevato che non era stata proposta querela di falso – considerava incontestabile il contenuto della relata di notifica del “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. E, specificatamente, laddove il messo aveva dato atto che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non era più presso la sede legale di via (OMISSIS) e che per tale ragione si era proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” di via (OMISSIS) a mani di M.G. “addetto” alla ricezione.

In proseguo di lite questa Suprema Corte, con sentenza n. 4377/05 depositata in data 2.3.2005, cassava con rinvio la ridetta decisione n. 215/03/02 della CTR della Campania statuendo il principio per cui la relata di notifica dell’avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 poteva invece contestarsi senza necessità di proporre querela di falso e sia con riguardo alla dichiarazione ivi contenuta di aver proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. e sia con riguardo alla dichiarazione secondo cui M.G. era “addetto” al ricevimento di atti. E, per di qui, la Suprema Corte derivava la conseguenza per cui i ridetti contestati fatti indicati in relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 “avrebbero dovuto essere accertati dal giudice di merito”.

Con sentenza n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006 la Commissione Tributaria Regionale della Campania, definendo il giudizio di rinvio, annullava la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 per cagione la inesistenza della notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. La sentenza del giudice del rinvio, era fondata sulle ragioni appresso:

1. veniva dapprima premesso che, ai fatti indicati in relata di notifica, la Suprema Corte non aveva invero assegnata “alcuna validità”;

2. veniva poi ritenuto che gli “elementi” di prova forniti dalla Agenzia delle Entrate di Benevento circa l’esistenza della sede “effettiva” indicata in relata, come ad es. la presenza di tre linee telefoniche intestate alla contribuente nella sede indicata quale “effettiva” di via (OMISSIS), avevano in realtà la consistenza di semplici “illazioni”;

3. veniva ritenuto, infine, che l’Agenzia delle Entrate di Benevento non aveva fornito “elementi” che potessero far pensare ad un collegamento tra la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. ed il sedicente “addetto” alla ricezione M.G..

Contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006, sentenza appunto terminativa del giudizio di rinvio, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a numero tre motivi.

La contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. resisteva con controricorso, in limine eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione ex adverso.

Motivi della decisione
1. La resistente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., come anticipato in narrativa, ha sotto vari profili preliminarmente eccepita l’inammissibilità dell’avversario ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c. E, nello specifico, perché:

1. il ricorso difettava “del tutto” di “una compiuta e fedele rappresentazione, almeno sinottica e narrativa, della sentenza di cassazione con rinvio”;

2. il ricorso non dava inoltre “conto compiutamente dello svolgimento del processo”;

3. il ricorso non riproduceva “tutta la parte della sentenza del giudice del rinvio concernente la ricostruzione dello svolgimento del processo”.

I plurimi profili della eccepita inammissibilità, ut supra riassunti, possono esser congiuntamente esaminati stante la loro stretta connessione.

L’eccezione è infondata.

Deve in effetti osservarsi che il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, nella sua parte espositiva, ha dato conto con sufficiente chiarezza della vicenda processuale descrivendone sinteticamente come ex lege richiesto ogni suoi fase e grado e gli esiti degli stessi. E cosicchè, anche a mezzo della integrale trascrizione della parte motiva della sentenza sub iudice, ha ricostruito il fatto processuale senza lacune o incertezza. E per tal modo permettendo a questa Suprema Corte l’esercizio nomofilattico su dati fattuali e processuali sicuri e quindi senza necessità di ricerche integrative.

Non si da pertanto luogo a quella assoluta incertezza alla quale solamente devesi far conseguire la sanzione di inammissibilità per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (Cass. 13550/04; Cass. 2432/03).

2. Col primo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394 c.p.c., ed a riguardo deduceva come la CTR della Campania avesse “trasgredito” i compiti commessi dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente e ciò in quanto non era punto vero che la Suprema Corte fosse entrata nel merito negando “validità” di prova al contenuto della relata di notifica e per tal modo esonerando la CTR dal riesaminare le prove che dall’Agenzia delle Entrate di Benevento erano state portate a sostegno della verità dei fatti riportati nella relata di notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. 82351299 IVA 1994 e per il che sottoponeva il quesito: “se violi il principio di diritto affermato e contravvenga ai compiti assegnati dalla sentenza di cassazione il giudice di rinvio che travisi il contenuto di quella pronuncia, erroneamente ritenendo che la denegata attribuzione della fede privilegiata al contenuto intrinseco delle attestazioni dell’Ufficio giudiziario comporti la negazione della legittimità dell’attività da lui svolta”. Con riferimento a questo primo motivo deve peraltro andare precisato che, per causa il travalicare dai poteri processuali assegnati, il giudice del rinvio che non si uniformi ai principi indicati dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente compie un error in procedendo denunciatale à sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. 6441/05; Cass. 17564/04).

Tuttavia deve in proposito andare rammentata la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte per cui, quando sia stato denunciato come error in iudicando ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quello che in realtà sarebbe un error in procedendo, il motivo è da ritenersi lo stesso ammissibile quando sia come qui stato esattamente e chiaramente prospettato il fatto costitutivo dell’errore. E, ciò, sul rilievo per cui in tutte e due i casi trattasi di un vizio di violazione di legge e cosicchè la certa individuazione dell’errore permette l’esercizio nomofilattico (Cass. 19661/06; Cass. 3941/02).

3. Col secondo complesso motivo l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 145 e 148 c.p.c., e artt. 2697, 2699 e 2700 c.c., e oltrechè per insufficiente e illogica motivazione su punti decisivi della controversia ed a riguardo deduceva che la circostanza che il contenuto intrinseco della relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 non fosse assistito da fede pubblica “non escludeva la fede privilegiata di ogni altra attestazione” di fatti avvenuti alla presenza del messo e come ad es. erano sia il mancato rinvenimento della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. presso la sua sede legale e sia le indicazioni ricevute circa la sede “effettiva” e sia le dichiarazioni di M.G. di esser “addetto” alla ricezione degli atti e cosicchè la CTR della Campania avrebbe da qui dovuto ricavare “che la notifica presso la sede dichiarata era risultata impossibile” e che pertanto era di necessità tentare la notifica presso la sede “effettiva” e che “sarebbe stato onere della società dimostrare che la sede fosse stata effettivamente dove la notifica era risultata impossibile” e colla conclusione per cui in mancanza di una tale prova si doveva ritenere che la notifica presso la sede “effettiva” era stata “eseguita correttamente” a mani dell’”addetto” M.G. e per il che venivano formulati i plurimi quesiti:

1. “se abbiano fede privilegiata le affermazioni rese dal messo notificatore nella relata di notifica in merito all’attività compiuta, al mancato rinvenimento della sede della società destinataria dell’atto da notificare all’indirizzo indicato ed alla acquisizione di informazioni attestanti l’avvenuto trasferimento della sede effettiva”;

2. “se può presumersi la veridicità delle dichiarazioni rese al Messo notificatore dalle persone sentite in merito all’avvenuto trasferimento della sede ad altro indirizzo”;

3. “se, nel caso in cui il messo notificatore non abbia rinvenuto all’indirizzo dichiarato la sede della persona giuridica destinataria di un atto ed abbia acquisito notizia del suo trasferimento ad altro indirizzo del suo circondario, sia legittimo l’esperimento della notifica presso la nuova sede, anzichè presso il domicilio del suo legale rappresentante”;

4. “se – in mancanza di prova contraria – debba ritenersi legittima la notifica di un atto effettuata ad una persona giuridica nella sede individuata dal messo notificatore mediante consegna a mani di persona ivi rinvenuta, che si sia dichiarata addetta alla società e capace di riceverlo”.

4. I motivi ut supra riassunti, stante la loro stretta connessione, debbono esser esaminati congiuntamente. I due motivi sono, peraltro, fondati.

In effetti questa Suprema Corte è sempre stata costante nell’insegnamento per cui – se pur è vero che il contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche non possono far fede fino a querela di falso e differentemente ad es. da quanto in relata vien scritto esser avvenuto davanti al ridetto messo notificatore o dalla attività che questi dichiara di aver compiuta – è altresì vero che i ripetuti contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche debbono presumersi veritiere sino a contraria dimostrazione e questa ovviamente da darsi a chi contesta la notifica (Cass. 25860/08; Cass. 12311/07). Una contraria prova, circa la non veridicità del luogo di rinvenimento della sede “effettiva” e della ricezione dell’”addetto”, che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non ha invero allegato. Il giudice a quo, come correttamente denunciato dalla ricorrente Agenzìa delle Entrate, ha quindi violato le regole sul riparto della prova fissate in subiecta materia e ciò allorquando ha onerato l’Ufficio della dimostrazione della realtà della sede “effettiva” e dell’”addetto” alla ricezione della notifica. Fatti la cui contrarietà a verità, seppur dimostrabile senza querela di falso, spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di provare. Il principio di diritto da enunciarsi ex art. 384 c.p.c., comma 1, è pertanto:

“Quando l’ufficiale giudiziario attesti di non avere rinvenuto la Società destinataria della notifica presso la sua sede legale, perchè, secondo quanto appreso, questa aveva la sua sede “effettiva” altrove, e recatosi presso la sede “effettiva” abbia fatta consegna a persona qualificatasi “addetta” alla ricezione per la Società ridetta, le attestazioni in parola sono da ritenersi assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale. Laddove, invece, il contenuto delle notizie apprese circa la sede “effettiva” ed il contenuto della dichiarazione di chi si sia qualificato “addetto” alla ricezione di atti per conto della Società notificata, sono assistiti da presunzioni iuris tantum, che, in assenza di prova contraria, non consentono al giudice di disconoscere la regolarità dell’attività di notificazione”.

4. Col terzo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5, epperò senza indicazione alcuna delle norme assunte come violate o falsamente applicate e soltanto in rubrica indicando i vizi di “omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione” ed a riguardo deduceva “gravi lacune ed incongruenze nella valutazione degli elementi di fatto emersi dai documenti di causa” e particolarmente per aver la Commissione Tributaria Regionale della Campania “prestato nessuna attenzione al fatto che il messo notificatore aveva rinvenuto un altro luogo certamente riferibile alla società” e nel quale dovevasi individuare la “sede effettiva” e tenuto conto che ivi la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. risultava intestataria di utenza telefonica e che sempre ivi chi aveva ricevuta la notifica risultava aver nome identico a quello del legale rappresentante della contribuente e col che la valutazione negativa dei fatti controversi era da intendersi siccome “assai superficiale e perciò illogica”.

Il motivo rimane assorbito.

5. Il giudice a quo in assenza della contraria prova che abbiamo veduto spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di dare – e che invece nemmeno era stata allegata – avrebbe quindi dovuto ritenere correttamente eseguita la notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e col conseguente rigetto del ricorso proposto contro la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994. E, questo, perchè non c’erano altri fatti da accertare ed in quanto erano da ritenersi presunti la sede “effettiva” e la ricezione della notifica da parte dell’”addetto”. Ciò che, in effetti, à sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, consente ora a questa Suprema Corte di statuire nel merito e quindi di pronunciare il rigetto del ricorso avverso la cartella sub iudice.

6. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, mentre nella particolarmente difficoltosa vicenda processuale stanno quei giusti motivi che permettono per il resto di compensare integralmente le spese.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza e decidendo nel merito respinge il ricorso proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994.

Condanna la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. a rimborsare all’Agenzia delle Entrate le spese del presente grado che si liquidano in Euro 15.000,00 per compensi oltre a spese prenotate;

compensa integralmente nel resto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 09-10-2012) 29-11-2012, n. 21253

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9240-2008 proposto da:

D.S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE TOMASSETTI 3, presso lo studio dell’avvocato BRUNI CARLO, rappresentato e difeso dall’avvocato FILEGGI ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SOCIETÀ ITALIANA DISTRIBUZIONE MODERNA S.P.A., (già LA RINASCENTE S.P.A.);

– Intimata –

e sul ricorso 13243-2008 proposto da:

S.I.D.M. S.P.A.,(già LA RINASCENTE S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LUCA DI PAOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.S.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 281/2007 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 27/03/2007 R.G.N. 651/2006;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato FILEGGI ANTONIO;

udito il p.m. in persona dei sostituto procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Pescara, D.S.E. ha chiesto che venisse dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla Società Italiana Distribuzione Moderna spa (già La Rinascente spa), per avere svolto attività lavorativa consistente nel servizio della clientela presso un locale pubblico mentre si trovava in congedo per ragioni di salute, ed ha chiesto altresì la condanna della società convenuta al pagamento di somme dovute a titolo di lavoro straordinario e notturno.

Il Tribunale ha accolto la domanda relativa all’accertamento della illegittimità del licenziamento e ha respinto quella riguardante la pretesa del compenso per lavoro straordinario, con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello dell’Aquila, che ha ritenuto invece la legittimità del licenziamento, rigettando sul punto la domanda del lavoratore, ed ha accolto la domanda relativa al compenso per lavoro straordinario e notturno, condannando la società al pagamento, per questi titoli, della complessiva somma di Euro 40.984,85 (di cui Euro 37.928,55 a titolo di lavoro straordinario diurno e Euro 3.056,30 a titolo di lavoro notturno), oltre rivalutazione e interessi. A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta osservando che il lavoratore era stato sorpreso a svolgere attività di servizio della clientela in un locale pubblico in occasione di due assenze dal lavoro motivate da uno stato di malattia (lombosciatalgia) e che, in tali occasioni, era apparso in condizioni fisiche normali, sì da legittimare l’insorgenza di fondati dubbi circa la stessa esistenza della malattia e giustificare così il recesso del datore di lavoro. Quanto al compenso per lavoro straordinario diurno e notturno, la Corte di merito ha osservato che dalle risultanze istruttorie era emerso che il D.S. aveva svolto settimanalmente numerose ore di lavoro straordinario e, in alcune occasioni, anche un certo numero di ore di lavoro notturno, che dovevano essere compensate con le maggiorazioni previste dalla contrattazione collettiva, a nulla rilevando che il D.S., per la sua funzione di capo reparto, godesse di una certa autonomia operativa riguardo al reparto affidatogli.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione D.S.E. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la SIDM spa, che ha proposto anche ricorso incidentale fondato su due motivi. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente, deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ex art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 “in relazione a consolidati principi giurisprudenziali in materia di svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia”, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che sarebbe assolutamente vietato al lavoratore assente per malattia lo svolgimento di una qualsiasi altra attività lavorativa, a prescindere da ogni valutazione circa la compatibilità tra tale attività lavorativa e la malattia medesima.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione al principio di immutabilità della contestazione disciplinare, nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se la sentenza impugnata abbia violato tale principio laddove ha ritenuto giustificato il licenziamento sotto il profilo, che non formava oggetto di specifica contestazione, del presunto svolgimento di una attività lavorativa idonea a compromettere la guarigione.

3.- Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione degli artt. 414, 164, 244 c.p.c., dell’art. 2697, 2108, 2099, 1241 c.c., art. 36 Cost., nonchè vizio di motivazione, in ordine all’omesso rilievo, da parte della Corte di merito, delle carenze dell’atto introduttivo e dell’inammissibilità dei capitoli di prova articolati dal ricorrente, oltre che per aver disatteso l’eccezione di compensazione formulata in via subordinata dalla società, sostenendo che, sulla base di tali carenze, il giudice d’appello avrebbe dovuto ritenere il ricorso nullo ovvero rigettarlo nel merito, o comunque, in accoglimento della suddetta eccezione, contenere la condanna entro una diversa e più ridotta misura.

4.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2108 c.c., R.D.L. n. 1955 del 1923, art. 3 R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 nonché vizio di motivazione, sostenendo che, in base alle normativa sopra richiamata, non doveva essere riconosciuto al ricorrente, che svolgeva funzioni di capo reparto e non era, quindi, tenuto ad osservare l’orario normale di lavoro, alcun compenso per lavoro straordinario.

5. – I motivi del ricorso principale, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

6.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

7.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

8.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che, nella fattispecie, le modalità dello svolgimento dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto al servizio ai tavoli e alla riscossione alla cassa presso un locale pubblico, in orario notturno) durante l’assenza per malattia erano di per sè sufficienti a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed erano comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato anche l’impegno fisico richiesto dall’espletamento di tale attività.

9.- Tale affermazione risulta in tutto conforme ai principi enunciati in materia da questa Corte e non presuppone affatto l’esistenza di un divieto assoluto, per il lavoratore, di svolgere una qualsiasi altra attività lavorativa durante l’assenza per malattia, prescindendo da ogni valutazione circa la compatibilità tra detta attività e la malattia; nè può ritenersi che la Corte di merito, cosi argomentando, abbia preso in considerazione fatti diversi da quelli che formavano oggetto della contestazione disciplinare, che la contestazione riguardava appunto il fatto di essere stato sorpreso, in più occasioni, a lavorare con mansioni di servizio ai tavoli durante l’assenza per malattia.

10.- Non sussistono, inoltre, i vizi motivazionali denunciati nella seconda parte del secondo motivo, in quanto la decisione impugnata si fonda, in primo luogo, sul rilievo della inidoneità dello stato di malattia ad impedire l’espletamento dell’attività lavorativa e la fondatezza di tale rilievo non può certo ritenersi inficiata per effetto delle indicazioni contenute nella documentazione medica richiamata nel ricorso, che attesta sì l’esistenza di una lomobosciatalgia (esistenza che non viene, peraltro, disconosciuta dal giudice del merito), ma non ha diretta attinenza alla specifica situazione di impedimento dell’attività lavorativa che si sarebbe verificata a carico del D.S. nei periodi di tempo in contestazione.

11.- Le ulteriori osservazioni svolte nell’ultima parte del ricorso si riferiscono al profilo relativo alla idoneità (o meno) del comportamento del lavoratore ad incidere sulla guarigione della malattia e non hanno comunque rilievo decisivo ai fini della prova della effettiva esistenza di uno stato della malattia impeditivo della prestazione lavorativa.

12.- Il ricorso principale non può pertanto trovare accoglimento.

13.- Il primo motivo del ricorso incidentale è in parte infondato e, per la restante parte, assorbito, come si dirà, dall’accoglimento del secondo motivo.

14.- Deve escludersi anzitutto la sussistenza della dedotta violazione degli artt. 414 e 164 c.p.c., posto che, come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 3126/2011, Cass. n. 820/2007, Cass. n. 17076/2004), nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo per mancanza di determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda è ravvisabile solo quando, attraverso l’esame complessivo dell’atto, sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa; ipotesi, questa, che non si riscontra nel caso in esame, posto che, nella specie, le indicazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda hanno consentito alla convenuta di apprestare adeguatamente le proprie difese e al giudice di impostare e svolgere l’attività istruttoria indispensabile ai fini della decisione. Le censure formulate dalla società, d’altra parte, si incentrano in gran parte sulla genericità e sulla inattendibilità degli elementi di fatto indicati nel ricorso a sostegno delle pretese fatte valere, oltre che sulla omessa indicazione di altri elementi che si assumono idonei a modificare o a ridurre tali pretese, ed attengono quindi alla fondatezza della domanda più che alla insufficienza della esposizione degli elementi di fatto su cui questa si fonda, sicchè deve ritenersi che, sotto questo profilo, la valutazione della Corte di merito risulti del tutto immune dalle censure che le sono state mosse, al riguardo, dalla controricorrente.

15.- Anche la censura relativa alla valutazione della idoneità della specificazione dei fatti dedotti nei capitoli di prova, ex art. 244 c.p.c., non può trovare accoglimento, in quanto la parte avrebbe dovuto riportare, in ossequio al principio di autosufficienza, lo specifico contenuto dei capitoli di prova, onde rendere edotta la Corte del modo in cui la prova era stata formulata con il ricorso introduttivo.

16.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve ritenersi fondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che ai fini dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, con conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, il concetto di “personale direttivo” di cui al R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 è comprensivo – come chiarito dal R.D. n. 1955 del 1923, art. 3, n. 2, (regolamento per l’applicazione del citato R.D.L. n. 692 del 1923) – non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì anche, in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, del personale dirigente c.d. minore, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni d’azienda, i capi ufficio e i capi reparto (cfr. ex plurimis Cass. n. 12367/2003), precisando che il personale direttivo, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, ha diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per il medesimo l’orario normale, e tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della prestazione lavorativa ecceda il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e della integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori (cfr. ex plurimis Cass. n. 16050/2004, Cass. n. 13882/2004, Cass. n. 7201/2004, Cass. n. 12301/2003, Cass. n. 11929/2003, Cass. n. 7577/2003).

17.- Nella specie, è pacifico che il D.S. abbia prestato la propria attività lavorativa con la qualifica e le mansioni di capo reparto, qualifica che lo escludeva dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, applicabile, all’epoca, al rapporto di lavoro. Anche la disciplina collettiva (art. 39 c.c.n.l.) escludeva il diritto di direttori tecnici, capi ufficio e capi reparto ad un compenso per lavoro straordinario.

18.- La Corte d’appello ha ritenuto di riconoscere il diritto dell’appellante al compenso per lavoro straordinario – superando così, implicitamente, l’impedimento che derivava al riconoscimento di tale diritto dalle previsioni della disciplina legale e della normativa collettiva – in base alla considerazione che la stessa società aveva riconosciuto al dipendente, facendone menzione nelle buste paga, un compenso per lavoro straordinario, seppure “forfettizzato”.

19.- L’argomentazione non merita condivisione in quanto l’attribuzione di un compenso per lavoro straordinario “forfettizzato”, in presenza di una normativa legale e contrattuale che esclude determinate categorie di lavoratori dall’applicazione della disciplina in tema di limitazioni dell’orario di lavoro, non può assumere, per sè solo, il significato di un riconoscimento, da parte del datore di lavoro, dell’esistenza di una limitazione dell’orario normale, nè del diritto ad un compenso per il lavoro prestato oltre tale limite, ma, se mai, solo quello di un trattamento più favorevole determinato e corrisposto dal datore di lavoro al dipendente, al quale non si applica la disciplina delle limitazioni dell’orario di lavoro, proprio in conseguenza degli svantaggi eventualmente derivanti al lavoratore dalla suddetta esclusione.

20.- In definitiva, alla stregua della disciplina legale e contrattuale delle limitazioni dell’orario di lavoro applicabile al rapporto – e non essendo in questione nella presente controversia, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti, il limite della “ragionevolezza” -, deve escludersi il diritto del ricorrente al compenso per lavoro straordinario.

21.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere pertanto accolto e la sentenza deve essere cassata relativamente alla statuizione con cui la società è stata condannata al pagamento del compenso per lavoro straordinario diurno (ferma restando la statuizione di condanna della medesima società al pagamento della somma di _ 3.056,30 a titolo di compenso per lavoro notturno), con l’assorbimento di ogni altra censura svolta sul punto dalla controricorrente.

22.- Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al pagamento del compenso per lavoro straordinario (diurno).

23.- Avuto riguardo alla peculiarità della materia che ha dato luogo a diverse e contrastanti soluzioni nel corso del giudizio di merito, si ritiene che sussistano giusti motivi per compensare interamente fra le parti anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale, accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, rigettato il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovuta al D.S. la somma liquidata dalla Corte d’appello a titolo di compenso per lavoro straordinario diurno;

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 04-10-2012) 05-11-2012, n. 18921

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3609/2007 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., (già FERROVIE DELLO STATO SOCIETA’ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.M., + ALTRI OMESSI elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO TRIESTE 56/A, presso lo studio dell’avvocato PENNA CLAUDIO, rappresentati e difesi dall’avvocato MARZIALE GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

V.L., + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

avverso la sentenza n. 96/2006 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 23/01/2006 r.g.n. 44814/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.C., + ALTRI OMESSI quali dipendenti della Ferrovie dello Stato spa (oggi Rete Ferroviaria Italiana spa), negli anni ’80 dello scorso secolo erano addetti alle Officine Grandi Riparazioni di (OMISSIS), ove, fino al marzo 1987, venivano effettuate operazioni di rimozione dell’amianto da vagoni ferroviari, mentre successivamente la Società aveva affidato tali operazioni all’esterno, restando in proposito alle Officine il compito di procedere, in un’area dedicata (Zona A ed, eccezionalmente, Zona B), unicamente a lavori di rimozione di eventuali residui di amianto, prima di effettuare le necessarie riparazioni e manutenzioni dei vagoni.

In tale contesto operativo, già nel maggio – giugno 1988, i lavoratori dell’Officina avevano ripetutamele chiesto, anche astenendosi temporaneamente dalle lavorazioni da effettuare a contatto con l’amianto, interventi aziendali di bonifica degli impianti, effettivamente poi realizzati dall’Ente tra il giugno e il novembre del medesimo anno; ritenendo, anche a seguito della conoscenza di un verbale di sopralluogo del 1 dicembre 1988 sugli impianti da parte del medico e dell’ufficiale sanitario delle Ferrovie, che l’ambiente lavorativo non presentasse ancora sufficiente sicurezza per la salute degli addetti, le organizzazioni sindacali interne avevano in data 8 febbraio 1989 riproposto all’Ente Ferrovie dello Stato la richiesta di immediata sospensione del lavoro nei settori ritenuti pericolosi per procedere a più risolutivi interventi; al diniego da parte della parte datoriale, i lavoratori decisero di astenersi dal 14 febbraio 1989, a tempo indeterminato, dalle sole lavorazioni di bonifica dell’amianto, timbrando ogni giorno il cartellino all’entrata e quindi restando in attesa di eventuali richieste di lavori diversi.

Tale situazione si protrasse fino al 31 marzo 1989, data nella quale, anche a seguito di un provvedimento del Pretore di Firenze (intervenuto il 7 marzo 1989 su denuncia di alcuni dipendenti) di immediata chiusura dei capannoni di lavorazione dei rotabili esistenti presso lo stabilimento, con prescrizioni relative ad una serie di modifiche agli impianti e ai sistemi di lavorazione (capannoni poi riaperti su provvedimento del Pretore di Firenze del 21 giugno 1989 – dichiarato dalla Cassazione incompetente in ordine al procedimento penale avviato – e del Pretore di Torre del Greco del 24 giugno 1989), l’astensione cessò.

Poiché la parte datoriale non aveva erogato ai partecipanti all’astensione la retribuzione relativa al periodo 14.2 – 31.3.1989, gli odierni intimati, assumendo di avere, con l’astensione, reagito all’inadempimento della datrice di lavoro in relazione agli obblighi sulla stessa incombenti in materia di sicurezza, adirono il Pretore di Napoli per ottenerne la condanna al pagamento della retribuzione non corrisposta a titolo di risarcimento del danno, originato a loro carico da tale inadempimento.

Il Giudice adito accolse le domande.

Con sentenza del 5.12.2005 – 23.1.2006, il Tribunale di Napoli rigettò il gravame proposto dalla Ferrovie dello Stato spa; pur dando atto che in precedenti procedimenti penali il responsabile delle Officine era stato assolto dal Pretore di Torre del Greco per non aver commesso il fatto dalla imputazione di lesioni colpose ai danni di alcuni dipendenti (sentenza del 6 aprile 1998 n. 117) e prosciolto per amnistia in relazione all’imputazione di violazione delle norme di cui del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, e del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 354, (sentenza del 25 luglio 1990), il Tribunale, soprattutto sulla base dell’analisi di due perizie svolte nell’ambito di quest’ultimo procedimento e acquisite agli atti, rilevò una serie di difetti negli impianti e nell’organizzazione del lavoro afferente alle operazioni di bonifica dall’amianto, ritenuti pericolosi per la salute degli addetti a tali lavorazioni e che, pertanto, avevano giustificato il rifiuto della prestazione nei relativi ambienti lavorativi da parte dei lavoratori, che, in tal modo, avevano reagito all’inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi di cui alle leggi citate e più in generale a quelli nascenti dall’art. 2087 c.c..

Avverso l’anzidetta sentenza resa in grado d’appello, la Rete Ferroviaria Italiana spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

Gli intimati D.C., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonchè per violazione dell’art. 2087 c.c., deducendo che il contenuto dell’obbligazione di cui alla suddetta norma va valutato in relazione alle conoscenze e ai mezzi a disposizione al tempo cui si riferisce il fatto esaminato e che il rispetto di tale obbligo si misura alla stregua delle tecnologie e degli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti e praticati in quel determinato momento storico; la sentenza impugnata avrebbe invece omesso di effettuare tale operazione di storicizzazione dei doveri imprenditoriali, non considerando in maniera adeguata che nel periodo oggetto di causa (anno 1989, quando l’uso dell’amianto non era stato ancora vietato e non erano stati ancora stabiliti i valori limite di tollerabilità nel trattamento dello stesso) le precauzioni adottate dalla Società nella scelta dei macchinari e degli impianti istallati nelle Officine e nella relativa organizzazione del lavoro erano in perfetta sintonia con la legislazione e con le conoscenze scientifiche del tempo, come del resto accertato nella sentenza del Pretore di Torre del Greco del 6 aprile 1998, che aveva testualmente affermato che l’imputato (responsabile dell’Officina) “ha adottato, dal 1982 al 1993, tutte quelle misure antinfortunistiche che l’evoluzione tecnologica ha, nel corso degli anni, consentito di applicare”: il Tribunale, pur citando tale sentenza, non aveva poi tenuto alcun conto delle relative motivazioni, fondando sostanzialmente le proprie valutazioni su rilievi ampiamente estrapolati dalle due perizie svolte nel 1989 su incarico del Pretore di Torre del Greco nell’altro procedimento penale concluso nel 1990, sostanzialmente peraltro ignorando altri preziosi ed importanti elementi emergenti da tali perizie, esprimenti una valutazione positiva in ordine al comportamento delle Ferrovie sul piano considerato (quali i risultati dei campionamenti effettuati; la limitata esposizione alle fibre di amianto per ciascun lavoratore; il fatto che nessuno dei trentasette lavoratori esaminati era risultato affetto da asbestosi; che 17 su 33 lavoratori esposti al rischio presentavano fibre di amianto nell’espettorato, tracce che peraltro avevano presentato anche tre su quattro lavoratori mai addetti ai reparti a rischio); in definitiva, quindi, la valutazione di responsabilità della parte datoriale risultava fondata su semplici presunzioni, non avendo i lavoratori fornito in giudizio elementi sufficienti a provarla.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonché violazione dell’art. 1460 c.c., deducendo che il Tribunale aveva ritenuto legittima l’eccezione di inadempimento formulata dai lavoratori omettendo di accertare se effettivamente ciascuno di essi fosse stato adibito alle lavorazioni ritenute pericolose.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, per avere il Tribunale escluso che in realtà gli odierni intimati avevano posto in essere un’azione di sciopero, operando una ricostruzione solo parziale del loro comportamento nel periodo considerato; secondo la prassi aziendale, infatti, la presenza in azienda veniva certificata non solo dalla timbratura del cartellino all’ingresso, ma anche dalla attestazione di successiva presenza nel reparto di appartenenza; poichè i lavoratori non si erano mai presentati in quei giorni nel reparto di appartenenza per porsi eventualmente a disposizione per l’espletamento di lavori diversi da quelli in cui era implicato l’amianto, la loro astensione collettiva avrebbe dovuto essere qualificata come sciopero e non come reazione al preteso inadempimento della società.

2. In ordine al primo motivo, osserva il Collegio che, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 2491/2008; 644/2005, ambedue in materia di cautele contro il rischio da amianto, anche in anni tra i ’60 e gli ’80 del secolo scorso), la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico; inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell’art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute (cfr, Cass., n. 11664/2006).

La sentenza impugnata non si è discostata da tali principi nella valutazione delle risultanze istruttorie relative ai fatti rappresentati in giudizio a sostegno delle domande e delle eccezioni delle parti; infatti, facendo corretta applicazione della regola per cui compete al giudice di merito la valutazione delle risultanze istruttorie, attingendo a quelle che ritiene più attendibili e idonee a sostenere il proprio convincimento e fornendo al riguardo una motivazione che dia conto della formazione di esso sulla base dell’esame complessivo di tutte le prove (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 898/1999), il Tribunale (che in questa attività valutativa di merito è censurabile in sede di legittimità unicamente per errori evidenti e vizi logici cadenti su di uno snodo decisivo di essa) ha anzitutto tenuto adeguato conto delle considerazioni svolte dal Pretore di Torre del Greco nella sentenza di assoluzione del 1998, valutando come scarsamente rilevanti, nel presente procedimento, gli accertamenti operati in quella sede e posti alla base delle valutazioni del giudice penale, in ragione del fatto che essi erano consistiti in sopralluoghi e analisi della organizzazione aziendale di gran lunga posteriori all’anno 1989, nonché nella elencazione di macchinai acquistati nel tempo dalla Società per predisporre le tutele nel settore in esame, e tenendo poi contro delle perizie ambientale e medico legale svolte nel luglio 1989, in prossimità quindi dell’epoca dei fatti, nell’ambito dell’altro procedimento penale concluso con una sentenza di non doversi procedere per amnistia, che avevano evidenziato gravi difetti soprattutto nella organizzazione del lavoro negli ambienti ove avveniva la bonifica dall’amianto.

Tali difetti attenevano, tra l’altro, all’imperfetto isolamento dei suddetti ambienti, con conseguente possibile dispersione di polveri e fibre di amianto nelle zone circostanti; al difettoso trattamento delle acque di lavaggio del sottocassa; al fatto che le superfici delle pareti della zona deputata alla bonifica avevano una consistenza tale da rendere difficile una loro decontaminazione attraverso gli interventi di pulizia predisposti dalla società, anche nella zona in cui venivano effettuati operazioni di sostituzione dei filtri ed ove quindi potevano trovare sviluppo e dispersione fibre di amianto; alla inidoneità dell’impianto di immissione e di estrazione dell’aria in tale ambiente;

all’inidoneità del casco a evitare l’introduzione di fibre di amianto all’interno di esso.

Pertanto i giudici d’appello hanno valutato che tali perizie dimostravano che nell’Officina di Santa Maria La Bruna, nel periodo in questione, si era creato un rischio ambientale di esposizione ad inalazione di fibre di amianto per tutti i lavoratori dipendenti e tanto sia per la colpevole gestione della zona B, sia per le carenze di tutela nella zona A, coerentemente concludendo nel senso che la Società si era resa inadempiente agli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento da essa stessa dettate in materia di trattamento dell’amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell’evolvere delle conoscenze mediche e dell’adozione da parte della Comunità delle direttive del 1980, del 1982 e del 1983, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto.

In proposito, la ricorrente deduce peraltro che i giudici avrebbero trascurato alcuni elementi delle perizie che militerebbero nel senso della piena adozione da parte della società di misure idonee alla salvaguardia della salute dei lavoratori della officina; tale eccezione è però sostenuta dalla estrapolazione di alcune frasi o parti di frasi dalle perizie, delle quali non è pertanto possibile cogliere completamente il significato, anche alla luce di ciò che di diverso ampiamente riproduce il testo della sentenza impugnata, cosicché deve ritenersi che tali rilievi non siano stati evidentemente ritenuti sufficientemente significativi dal Tribunale nel contesto della integrale lettura delle relazioni peritali.

Deve quindi convenirsi che, esclusa la erroneità della interpretazione dell’art. 2087 cc, le censure formulate con il motivo all’esame non incidono sulla correttezza, sul piano dell’iter logico seguito e della corrispondenza delle argomentazioni alle risultanze istruttorie, delle conclusioni assunte con la sentenza impugnata, onde il motivo va rigettato.

3. La questione svolta con il secondo motivo non risulta trattata nella sentenza impugnata, nè la ricorrente specifica i termini e i modi con cui la stessa sarebbe stata devoluta al Giudice del gravame.

Configurandosi quindi come questione nuova, il secondo motivo deve ritenersi inammissibile.

4. In ordine al terzo motivo deve rilevarsi che il Tribunale ha ritenuto che il comportamento dei lavoratori, che avevano marcato il cartellino di presenza, ma si erano poi rifiutati di lavorare nelle zone a rischio, coincidenti con quelle contrassegnate dalle lett. A e B, esprimesse una giustificata reazione all’altrui inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., implicitamente valutando come irrilevante il fatto che, dopo la timbratura all’orologio marcatempo, i lavoratori medesimi si fossero trattenuti nelle vicinanze, senza recarsi ai singoli reparti di produzione, ma neppure allontanandosi dall’officina.

Trattasi di valutazione che non appare irragionevole, tenuto conto dei motivi dell’iniziativa, indicati dal Tribunale nell’avvenuta conoscenza da parte dei lavoratori del contenuto del verbale di sopralluogo del medico delle F.S. che riportava notizie allarmanti con riguardo a detto luogo di lavoro e del fatto che alcuni dipendenti (evidentemente ritenuti diversi da quelli esposti allo specifico rischio) avevano regolarmente lavorato.

Anche il motivo all’esame non merita quindi accoglimento.

5. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese a favore dei controricorrenti, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; non è luogo a provvedere al riguardo per gli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione in favore dei controricorrenti delle spese di lite, che liquida in Euro 4.040,00 (quattromilaquaranta), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge; nulla sulle spese quanto agli altri intimati.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2012


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 26-09-2012) 18-10-2012, n. 17904

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 763/2008 proposto da:

G.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZIO 9, presso lo studio dell’avvocato BALLA PAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato CIANCIMINO Rino, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

HDI ASSICURAZIONI S.P.A. (OMISSIS), in persona del suo Direttore P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato ROMAGNOLI MAURIZIO, rappresentato e difeso dall’avvocato SCHIFANO Sabina, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

C.G. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 488/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 09/08/2007, R.G.N. N. 1663/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2012 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato MAURIZIO LANIGRA per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. G.G. propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo, depositata il 9.08.2007 e di cui si deduce la notifica in data 6.12.2007, la quale ha confermato quella di primo grado, che, a sua volta, aveva ritenuto il G. e C.G. corresponsabili, nella misura del 50%, del sinistro stradale in lite.

2. Come raccomandato dal Collegio, viene adottata una motivazione in forma semplificata.

3. Dall’esame degli atti, emerge che il ricorrente non ha depositato la copia notificata della sentenza impugnata.

4. Al riguardo, deve confermarsi il principio secondo cui la previsione – di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2 – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente, alleghi (come nella specie) che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con a relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 cod. proc. civ., comma 2, applicabile estensivamente, purchè entro il termine di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione (Cass. S.U. 2009/9005;

nonché Cass. 11376/2010; 25070/2010, ord.).

5. Il ricorso deve perciò essere dichiarato improcedibile. Le spese seguono la soccombenza nel rapporto con la parte costituita. Nulla per le spese nel rapporto con l’altro intimato, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.
Dichiara improcedibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti della Compagnia assicuratrice, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2012


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 19-07-2012) 03-10-2012, n. 16817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GOLDONI Umberto – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 3191/2011 proposto da:

SERIT SICILIA SPA (OMISSIS) – Agente della Riscossione per le Province della Regione Siciliana in persona del Direttore Generale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIBULLO 20, presso lo studio dell’avv. URBANI DANIELE, (avv. MARIA TARANTINO), rappresentata e difesa dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 4, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GEMMA, rappresentata e difesa dall’avvocato CATERINA GIUNTA, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1382/2010 del TRIBUNALE di PALERMO del 9.3.2010, depositata il 18/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/07/2012 dal Consigliere Relatore Dott. MILANA FALASCHI;

udito per la ricorrente l’Avvocato Giovanni Di Salvo che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La SERIT Sicilia s.p.a. – Agente Riscossione Province Regione Siciliana ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello del Tribunale di Palermo del 18 marzo 2010 che nell’ambito del giudizio di opposizione L. n. 689 del 1981, ex art. 22, promosso da G.M. relativo ad ordinanza ingiunzione applicativa di sanzioni amministrative per plurime violazioni del Codice della Strada, ha rigettato il gravame e, per l’effetto, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, di accoglimento dell’opposizione proposta per avere dichiarato la nullità della notifica delle cartelle di pagamento. Il ricorso è affidato ad un unico motivo di impugnazione.

La G. si è costituita con controricorso.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., formulando una proposta per il rigetto del ricorso.

All’udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RITENUTO IN DIRITTO Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con l’unica censura la ricorrente Serit Sicilia s.p.a. denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., per avere i giudici di merito ritenuto non essere state ritualmente notificate alla G. le cartelle di pagamento di cui al preavviso di fermo di beni mobili registrati effettuate con le forme delle notificazioni agli irreperibili, perchè l’Ufficiale giudiziario procedente aveva depositato i plichi presso l’Ufficio nella “Casa del Comune” di (OMISSIS), luogo da considerarsi equipollente alla Casa comunale, attuando una forma di decentramento amministrativo.

La censura è infondata.

E’ incontestato che l’Ufficiale giudiziario addetto ha provveduto alla notifica delle cartelle esattoriali in atti nelle forme di esposte dalla stessa Agenzia di riscossione in ricorso. Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) l’intimata ha eccepito la inesistenza della notifica perchè, come si è detto, il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di via (OMISSIS), che dunque non era la sede ufficiale ma ufficio decentrato del comune di (OMISSIS). Orbene, accertato che via Orsini n. 11 all’epoca delle notifiche non era la sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo della G., recepita integralmente dai giudici di merito.

Infatti anche se a seguito di delibera comunale alla sede di via Orsini n. 11 risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato), è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso l’Ufficio centrale del Comune.

Si deve quindi riconoscere che a via (OMISSIS), quand’anche esistesse un ufficio comunale, questo non può costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Secondo risalente orientamento di questa corte, che appare da condividere, l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente a.1 notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento (non altrimenti sanate) (in tal senso, Cass. 3 febbraio 1993 n. 1321).

La censura mossa alla decisione impugnata è, quindi, infondata per avere la corte di merito applicato in modo corretto l’art. 140 c.p.c.”.

Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni contenute nella relazione di cui sopra, giacchè non è in discussione il potere di decentramento della pubblica amministrazione, come dedotto dalla ricorrente (su cui ha insistito anche nella memoria illustrativa), ma nella specie l’atto amministrativo è intervenuto solo successivamente alla data di notificazione delle infrazioni. Infatti la delibera amministrativa (che peraltro ha disposto il decentramento non presso uffici del Comune, ma nella sede dello stesso ente esattore) in atti reca la data dell’agosto 2006 a fronte della notificazione dell’ordinanza ingiunzione del 3.3.2003.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 900,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione 6 – 2 Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 19 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2012