Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-06-2012) 26-09-2012, n. 16375

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9653/2010 proposto da:

M.M. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati CATALANO Agostino, BRESSANINI CETORINO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

INTERBRENNERO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo Studio dell’avvocato PETRETTI Alessio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTI IVAN, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7/2010 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 29/01/2010 R.G.N. 28/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
M.M. ha impugnato davanti al Tribunale di Trento il licenziamento disciplinare comminatogli dalla società Interbrennero spa, per avere ripetutamente svolto attività lavorativa quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche locali mentre si trovava in congedo per ragioni di salute.

Il Tribunale di Trento ha accolto la domanda con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto la legittimità del licenziamento sia sotto il profilo della proporzionalità tra la sanzione e la condotta illecita sia sotto il profilo della tempestività della contestazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.M. affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Interbrennero spa.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2118 e 2106 c.c., nonchè vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione con la quale il giudice d’appello ha ritenuto la sussistenza del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, evidenziando, da un lato, che non potevano sorgere dubbi circa l’effettività dello stato di malattia e sostenendo, dall’altro, che l’illecito disciplinare, consìstente nello svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, doveva ritenersi temporalmente ristretto, in concreto, ad un solo giorno di lavoro effettivo.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione delle stesse disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata circa la gravità dell’infrazione commessa dal lavoratore, contestando, in particolare, che dalla condotta in questione potesse essere derivato un nocumento di qualsiasi natura all’attività aziendale o che fosse stata fornita la prova della insostituibilità del ricorrente nel l’espletamento delle mansioni a lui affidate.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione delle ridette disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, in relazione alla statuizione con la quale la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente la proporzionalità tra la sanzione e la condotta addebitata al lavoratore, considerata anche l’inesistenza di precedenti disciplinari ed il fatto che l’illecito disciplinare risultava limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo.

4,- Tali motivi, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

5.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi di contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

6.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

7.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che,nella fattispecie, la natura dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche) durante l’assenza per malattia era di per sè sufficiente a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed era comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato che la malattia da cui egli risultava affetto (“cefalea in sinusite frontale riacutizzata”) non era certamente compatibile con lo svolgimento di un’attività che, come quella di sorvegliante di discoteche, richiedeva piena efficienza e prestanza fisica.

8.- Le contrarie affermazioni del ricorrente, secondo cui i giudici d’appello non avrebbero adeguatamente valutato l’esiguità del periodo di effettiva coincidenza tra turni di lavoro, giorni di assenza per malattia e giorni di svolgimento di altra attività lavorativa (periodo che, secondo la prospettazione del ricorrente, dovrebbe ritenersi limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo), nè il fatto che lo stesso ricorrente aveva comunque sempre ripreso regolarmente il suo lavoro, non tengono conto del rilievo correttamente assegnato dalla sentenza impugnata all’incidenza del lavoro di sorvegliante di discoteche sulla completa guarigione della malattia – oltre che del fatto che, ai fini della valutazione di detta incidenza, non può non venire in rilievo il lavoro prestato durante tutto il periodo di malattia, ivi compresi i giorni festivi e quelli in cui non era previsto un turno lavorativo – e si risolvono nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra accennato, alla necessità che lo svolgimento di altra attività lavorativa, valutata in relazione alla natura della malattia e delle mansioni svolte, non pregiudichi o ritardi la guarigione e il rientro in servizio.

9.- Come si è già detto, la valutazione in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione è costituita da un giudizio ex ante, che ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio e prescinde dalla avvenuta o meno tempestiva ripresa del lavoro, sicchè restano irrilevanti le considerazioni svolte al riguardo con il primo e il terzo motivo.

10.- Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso per cassazione, inoltre, l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con le proprie condizioni di salute, ed in particolare con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa – e conseguentemente l’inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative – grava sul dipendente che, durante l’assenza per malattia, sia stato sorpreso a svolgere attività lavorativa a favore di terzi (cfr. ex plurimis Cass. n, 3647/99).

11.- Quanto alle altre censure svolte dal ricorrente in ordine alla gravità dell’infrazione ed alla proporzionalità della sanzione irrogata, è sufficiente ribadire, richiamando quanto già detto in precedenza, che “lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede; e questa violazione giustifica il recesso del datore di lavoro” (così Cass. n. 14046/2005 cit.).

12.- Il ricorso deve essere pertanto respinto con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2012


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-06-2012) 05-09-2012, n. 14865

La Corte Suprema di Cassazione civile, con ordinanza n. 14865 del 5 settembre 2012, ha dichiarato come sia da considerarsi valida la notifica di un atto, indirizzato a una persona giuridica, effettuata a un dipendente della società, il quale in quel momento risulta essere addetto alla sede della società stessa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

COMMERCIALE AUTOMOBILI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via F. Barnabei n. 5, presso l’avv. Gualtieri Cesidio, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Di Ramio Giuseppe, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 giugno 2012 dal Relatore Cons. Dott. Biagio Virgilio.

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“1. La Commerciale Automobili s.r.l., propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata l’inammissibilità del ricorso da questa proposto avverso cartella esattoriale relativa ad IVA, 1RPEG ed IRAP del 1998 contestando la fondatezza della pretesa tributaria sul presupposto della omessa notificazione del prodromico avviso di accertamento.

Il giudice a quo ha ritenuto che la notifica doveva ritenersi validamente eseguita a mani di una impiegata della società e quindi addetta alla sede, come risultava dalla relazione di notificazione (peraltro – ha precisato – la stessa ricorrente definisce la consegnataria una dipendente).

L’Agenzia delle entrate non si è costituita.

2. L’unico motivo di ricorso, con il quale si chiede se “in ipotesi di notifica a persona giuridica, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., la consegna dell’atto ad un qualunque di lei dipendente, senza che consti la previa infruttuosa ricerca del legale rappresentante e, successivamente, della persona incaricata di ricevere le notificazioni, renda la notificazione nulla”, è manifestamente infondato: premesso, infatti, che la norma indicata non richiede affatto la previa ricerca, presso la sede della persona giuridica, del suo legale rappresentante, ai fini della regolarità della notificazione è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventualmente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza; sicchè, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere una sua dipendente, non era neppure addetta alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno, nel senso che la prova dell’insussistenza di un rapporto siffatto non è adempiuto con la sola dimostrazione dell’inesistenza d’un rapporto di lavoro subordinato tra la persona in questione ed il destinatario della notifica, attesa la configurabilità di altri rapporti idonei a conferire la richiesta qualità (Cass. nn. 13935 del 1999, 904 e 7113 del 2001, 19201 del 2003, 12754 del 2005, 16102 del 2007).

3. Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”;

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti (l’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato “atto di costituzione”);

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso deve essere rigettato;

che non v’è luogo a provvedere in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2012


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/04/2012) 27/07/2012, n. 13461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CARIERI SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BENEDETTO CAIROLI 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DAGNINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

SERIT SICILIA SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

Nonchè da:

SERIT SICILIA SPA in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ORAZIO 3, STUDIO MALVAGNA presso lo studio dell’avvocato MARIA TARANTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta delega in calce;

– ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente a ricorso incidentale –

e contro

CARIERI SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 68/2010 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO, depositata il 24/05/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2012 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DAGNINO e DI SALVO, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso, l’Avvocato DI SALVO chiede l’accoglimento del ricorso incidentale con riguardo alle spese, e rigetto del ricorso principale;

udito per il controricorrente l’Avvocato TIDORE, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza n 68/29/2010, depositata il 24.5.2010, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, appellata dall’Agenzia delle entrate, rigettava l’appello proposto dalla società Carieri s.p.a. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.p.A. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo che aveva, invece, accolto il ricorso presentato dalla Carieri s.p.a. avverso la cartella di pagamento per Iva e Irap 2000 e 2001.

La Carieri s.p.a. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:

a) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per l’omessa sottoscrizione autografa della cartella di pagamento che non contiene la firma del rappresentante del Concessionario della riscossione;

b) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla mancata sottoscrizione della cartella di pagamento;

c) violazione falsa applicazione dell’art. 111 Cost. in relazione alla obbligatorietà della sottoscrizione autografa delle cartelle di pagamento;

d) violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per il mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario);

e) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in ordine alla obbligatorietà dell’avviso bonario qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti nella dichiarazione;

f) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla intervenuta decadenza dell’Amministrazione dal potere di iscrizione a ruolo delle somme vantate contro l’atto impugnato, ritenendo applicarsi alla fattispecie il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17 e non l’art. 25 novellato del citato D.P.R., rilevando come la cartella di pagamento avrebbe dovuto essere notificata, relativamente all’anno di imposta 2000, entro il 31/12/2004 e, in relazione all’anno imposta 2001, entro il 31/12/2005.

g) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dovendo essere dichiarato inammissibile l’appello principale con conseguente perdita di efficacia dell’appello incidentale tardivo.

Rilevava, in particolare come l’appello fosse stato proposto dall’Agenzia delle entrate che non aveva interesse processuale a proporre appello, mancando di legittimazione processuale, mentre la Serit Sicilia s.p.a. non ha proposto un proprio mezzo di gravame, ma si era costituita in segreteria con atto di controdeduzioni e non con appello incidentale tardivo che, tutt’al più, avrebbe potuto essere proposto solamente dalla Carieri s.p.a..

h) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della inesistenza o della nullità insanabile della notificazione della cartella;

i) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della nullità della cartella di pagamento per essere la relata di notifica apposta sul frontespizio anzichè in calce alla stessa.

Si sono costituite nel giudizio di legittimità con controricorso l’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.pA, quest’ultima formulando anche ricorso incidentale eccependo violazione di legge in ordine alla omessa motivazione delle spese processuali.

La Carieri s.p.a. presentava memoria.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 27/4/2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
Sono infondati i motivi del ricorso principale.

1) I primi tre motivi di ricorso concernenti, sotto diversi profili, la mancata sottoscrizione autografa della cartella impugnata, vanno trattati congiuntamente, stante la connessione logica.

Non era necessaria, anche con riferimento all’epoca di emanazione del provvedimento, la sottoscrizione della cartella da parte del legale rappresentante della Serit Sicilia s.p.a..

Gli atti tributari privi della sottoscrizione del dirigente responsabile sono sicuramente legittimi a partire dal 1 luglio 2009 D.L. n. 78 del 2009, ex art. 15, comma 7, che prevede: “la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione dalle norme che disciplinano le entrate tributarie erariali amministrate dalle Agenzie fiscali e dall’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto in tutti i casi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati.

Quindi, la firma autografa non è più essere necessaria e può sostituirsi con la mera indicazione del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto (es. il capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1).

Il D.L. n. 79 del 2009, art. 15, comma 7 specifica che “Con provvedimento dei Direttori della Agenzie fiscali e del Direttore generale dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato sono individuati gli atti di cui al comma 7”.

Peraltro anche in precedenza non era elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del legale rappresentante, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promanava, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge” (Corte Cost. 117/2000; cfr Cass. n 4923/2007; Cass. 29/10/2007 n. 22692).

Un primo provvedimento del Direttore dell’Agenzia fiscale risulta emanato in data 2.11.2010 e riguarda liquidazioni, accertamenti e riscossioni e prevede che anche la firma a stampa del funzionario responsabile può sostituire quella autografa per atti prodotti da sistemi informativi automatizzati per attività a carattere seriale, realizzandosi una economia di scala e maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse.

Anche in precedenza, tuttavia, si riteneva che non fosse elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del provvedimento, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promana, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge”. (Cass. 29.10.2007 n. 22692).

Solo nel caso in cui la mancanza di sottoscrizione dell’atto non consente di individuare l’Autorità da cui provenga il provvedimento, ne va pronunciata la nullità, circostanza non sussistente e neanche prospettata nella fattispecie.

2) Il quarto e quinto motivo di ricorso, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Con riferimento al mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario) va rilevato che in tema di riscossione delle imposte, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5, non impone l’obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis ma soltanto “qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”, situazione, quest’ultima, che non ricorre nel caso in cui nella dichiarazione vi sia un mero errore materiale, che è l’ipotesi tipica disciplinata dall’art. 36-bis citato, poichè in tal caso non v’è necessità di chiarire nulla e, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi, non avrebbe indicato quale presupposto di esso l’incertezza riguardante “aspetti rilevanti della dichiarazione”. (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7536 del 31/03/2011, Cass Sez. 5, Sentenza n. 795 del 14/01/2011).

Anche nella fattispecie in esame non vi era, quindi, una necessità di notificare una prodromica comunicazione contenente gli esiti della liquidazione in mancanza di incertezza sull’esito della stessa, non avendo, peraltro, la stessa società contribuente eccepito nulla in ordine alla debenza delle somme iscritte a ruolo.

3) In seguito alla declaratoria, con sentenza n. 280 del 25 luglio 2005, di illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, come modificato dal D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, il legislatore, con la L. 31 luglio 2005, n. 156, al dichiarato “fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione del crediti tributari”, ha aggiunto al D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1, (da essa convertito), tra altri, il comma 5 bis, con cui ha fissato i termini entro i quali deve essere effettuata, a espressa “pena di decadenza”, la “notifica delle … cartelle di pagamento” relative alla “pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni”.

E stato altresì introdotto (n. 2 della lett. b), all’enunciato “fine di conseguire … la necessaria uniformità dei sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto”, il comma 5 ter, con cui si è sostituito il D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36, comma 2, con il seguente:

“in deroga al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1, lett. a), per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento è notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre:

a) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003;

b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001″.

La fattispecie qui esaminata risponde ai canoni, in relazione ai quali la giurisprudenza di questa Corte precedentemente richiamata (cfr Cass. 16826/06, 20384/06, 4255/07, 14861/07, cit.) prevede l’assoggettamento, in via di applicazione retroattiva della norma, allo ius superveniens costituito dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 bis, (convertito in L. n. 156 del 2005, art. 1, comma 5 bis).

Quindi, con riferimento al termine di decadenza per la notifica, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, il D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1 convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156 – emanato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 di declaratoria di incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 -, che ha fissato, al comma 5- bis, i termini di decadenza per la notifica delle cartelle di pagamento relative alla pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni ed ha stabilito all’art. 5-ter, sostituendo il comma 2 del D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36 che per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento debba essere notificata, a pena di decadenza, per le dichiarazioni presentate negli anni 2000 e 2001 (come nel caso di specie) , rispettivamente entro il quinto e quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ha un inequivoco valore transitorio e trova applicazione non solo alle situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore, ma anche a quelle ancora non definite con sentenza passata in giudicato.

Pertanto i termini da osservare, ai fine di non incorrere nella decadenza, per la notifica della cartella di pagamento per le due diverse annualità d’imposta era, per entrambe, il 31/12/2006, termine rispettato essendo la notifica intervenuta, per la stessa ammissione della Carieri s.p.a. in data 10/5/2006.

4) Anche il motivo sub g) è infondato, anche se occorre correggere la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Essendo stato contestato anche il mancato invio dell’avviso bonario, l’Agenzia aveva interesse e quindi legittimazione processuale autonoma alla proposizione del gravame.

Pertanto l’Agenzia delle entrate era legittimata ad impugnare la sentenza, senza che potesse essere opposta la carenza di legittimazione passiva, per le motivazioni dianzi indicate.

La stessa Carieri s.p.a. ha citato in giudizio davanti alla Commissione tributaria provinciale sia l’Agenzia delle entrate che la Serit Italia e, in via generale, non può pretendere di avvantaggiarsi da un presunto errore dalla stessa compiuta, eccependo la carenza di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate dalla stessa evocata in giudizio.

La Commissione regionale ha erroneamente ritenuto, che l’atto “tempestivamente” proposto dalla Serit, ancorchè denominato “controricorso” fosse da qualificare quale appello incidentale tardivo.

La regola dell’art. 334 cod. proc. civ., che consente l’impugnazione incidentale tardiva (ammissibile nei confronti di qualsiasi capo della sentenza impugnata “ex adverso”) trova applicazione solo per l’impugnazione incidentale tardiva in senso stretto, rivolta contro la stessa parte che ha proposto l’impugnazione, e non opera per ogni altra impugnazione spiegata a tutela di un interesse autonomo della parte, non derivante dalla impugnazione della controparte. (Sez. L, Sentenza n. 10291 del 17/05/2005).

Quindi, nella specie, vanno esclusi i presupposti di ammissibilità dell’appello incidentale tardivo proposto dalla Serit Sicilia s.p.a.

rimasta soccombente nel giudizio di primo grado e non intimata nel ricorso principale del soccombente nei confronti di altra parte.

La partecipazione al giudizio di secondo grado della Serit Sicilia s.p.a. appare comunque legittima, potendosi alla stessa attribuire natura di intervento volontario, in forza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 il quale stabilisce che possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio solo i soggetti che, insieme al ricorrente, siano destinatari dell’atto impugnato o parti nel rapporto controverso che avrebbero potuto proporre autonoma impugnazione.

Inoltre l’intervento adesivo dipendente è stato ritenuto ammissibile nel processo tributario e anche in appello, posto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49 dispone che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo terzo, capo primo del libro secondo del c.p.c. escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto” (Cass. 12 gennaio 2012 n. 255) e, a maggior regione deve ritenersi ammissibile anche l’appello adesivo della Serit Sicilia che ha emanato la cartella impugnata.

5) Gli ultimi due motivi di ricorso costituiscono domande nuove, proposte per la prima volta in sede di legittimità, difettando anche dei requisiti dell’autosufficienza, trattandosi di considerazioni generiche, non pertinenti con l’oggetto del giudizio, essendo inidonee le circostanze di fatto evidenziate, mai contestate nei giudizi di merito, ad acclarare la pretesa nullità della notifica dell’atto o della cartella di pagamento.

6) Va accolto il ricorso incidentale della Serit Sicilia S.p.A..

L’intimata eccepisce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione alla compensazione delle spese, dato che, secondo la formulazione dell’art. 92 applicabile ratione temporis (essendo stato il giudizio instaurato dopo l’entrata in vigore della L. n. 263 del 2005), il giudice può compensare le spese tra le parti solo se vi è soccombenza reciproca o se ricorrono altri giusti motivi che devono essere esplicitamente indicati nella motivazione. Nel regime successivo a quello introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a) il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale.

Nella sentenza impugnata non vi è alcuna motivazione in ordine alle ragioni che hanno indotto la commissione alla compensazione delle spese del grado di appello e la cui regolamentazione può essere applicata da questa Corte, trattandosi di violazione di legge, ponendole a carico della Carieri s.p.a., in forza del principio di soccombenza, liquidate come in motivazione.

Anche le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della Carieri s.p.a. in forza del principio di soccombenza e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale della Serit Sicilia s.p.a. e, decidendo nel merito, liquida a favore della Serit Sicilia s.p.a. le spese del giudizio di appello che determina in complessive Euro 9.000,00, di cui Euro 7.000,00 per onorario e Euro 300,00 per spese, oltre accessori di legge. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida a favore della Agenzia delle Entrate in Euro 13.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito e a favore della Serit Sicilia s.p.a. in Euro 13.500,00 per onorari, oltre Euro 100,00 per spese, oltre accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 27 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012


Corte Suprema di Cassazione, civ., sez. VI, n. 13016 del 24.7.2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –
Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24233/2010 proposto da:

Omissis – Agente della Riscossione per le Province di Avellino, Benevento, Bologna, Campobasso, Caserta, Isernia, Napoli, Padova, Rovigo, Salerno e Venezia appartenente al Gruppo Omissis in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 1/A, presso lo studio dell’avvocato Omissis, rappresentata e difesa dall’avvocato  Omissis, giusta procura ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Omissis SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TORTONA 4, presso lo studio degli avvocati Omissis e Omissis, che la rappresentano e difendono, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 166/41/2009 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 26.6.09, depositata il 17/07/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/04/2012 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO VALITUTTI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RAFFAELE CENICCOLA.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte;

– rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“Con sentenza n. 166/41/09, la CTR della Campania rigettava l’appello proposto dall’Omissis s.p.a. avverso la decisione di prime cure, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla Omissis s.r.l. nei confronti della cartella di pagamento, emessa ai fini IRPEF per gli anni di imposta 2000 e 2001. Il giudice di appello riteneva, invero, affetta da nullità la notifica di tali atti, poiché effettuata in (OMISSIS), anziché al n. civico (OMISSIS), corrispondente alla residenza effettiva del legale rappresentante della società.

Avverso la suddetta decisione della CTR della Campania ha proposto ricorso per cassazione la Omissis s.p.a. articolando due motivi, con i quali deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 145 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

L’intimata ha replicato con controricorso.

I due motivi di ricorso – che, attesa la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – si palesano manifestamente fondati.

Ed invero, va osservato che la notificazione degli avvisi di accertamento tributario a soggetti diversi dalle persone fisiche non si sottrae alla regola generale, enunciata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti tributari al contribuente dev’essere fatta nel comune dove quest’ultimo ha il domicilio fiscale.

In riferimento alla notifica di atti alle società commerciali, il necessario coordinamento di tale disciplina con quella di cui all’art. 145 c.p.c., comporta, pertanto, che, in caso d’impossibilità di eseguire la notificazione presso la sede sociale, il criterio sussidiario della notificazione alla persona fisica che la rappresenta è applicabile soltanto se tale persona fisica, oltre ad essere identificata nell’atto, risiede nel comune in cui l’ente ha il suo domicilio fiscale, da individuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58 (Cass. 3618/06, 6325/08).

In caso contrario, non potrà che farsi ricorso al criterio di cui all’art. 60, lett. e) (affissione nell’albo del Comune del luogo un cui la società contribuente ha il domicilio fiscale), puntualmente seguito, nel caso, concreto, dall’amministrazione sia pure in concorso con il tentativo – non riuscito – di notifica presso il domicilio dell’amministratore della società.

Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1″;

– che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

– che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione. Pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, mentre vanno compensate le spese dei gradi di merito.

La Corte Suprema di Cassazione

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; condanna il resistente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.600,00, oltre alle spese generali e accessori di legge; dichiara compensate le spese dei gradi di merito.


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-05-2012) 20-06-2012, n. 10143

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente Sezione –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6269-2009 proposto da:

HAPIMAG ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 151, presso lo studio dell’avvocato ROSATI ANGELO, rappresentata e difesa dall’avvocato NORSCIA ANTONIO per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.T.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1342/2008 della CORTE D’APPELLO de L’AQUILA, depositata il 08/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2012 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

udito l’Avvocato ANTONIO NORSCIA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 15 luglio 2008 la società Hapimag Italia s.r.l. impugnava la sentenza del tribunale di Teramo del 10 – 17 dicembre 2007, che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a I.T., per mancata osservanza della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, sul presupposto che tale recesso si inserisse nell’ambito di un licenziamento collettivo.

Negava di essere soggetta alla disciplina sui licenziamenti collettivi, sia perchè svolgeva un’attività stagionale che, come tale, era esclusa, per espressa previsione della L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 4, da tale disciplina, sia perchè non aveva una consistenza occupazionale superiore a 15 dipendenti, comunque richiesta per l’applicabilità della legge stessa. Ribadiva poi l’esistenza del giustificato motivo oggettivo, giacchè la decisione di non tenere inoperosi lavoratori con contratto a tempo indeterminato per alcuni mesi l’anno e, quindi, di darsi un diverso assetto economico-produttivo, rientrava nel potere dell’imprenditore, insindacabile da parte del giudice.

Sosteneva, infine, di aver fatto richiesta al Centro per l’impiego e all’Agenzia delle entrate per conoscere i redditi dell’appellata dal 2005, e se la stessa si fosse iscritta alle liste di collocamento, riservandosi di produrre la relativa documentazione fino all’udienza.

Resisteva la I., contestando che l’attività svolta dall’appellante fosse stagionale, giacchè, anche dopo la richiesta della relativa licenza, nel 2004, essa aveva continuato a svolgere la propria attività per tutto l’anno solare e con lo stesso numero di dipendenti, mentre all’indomani del licenziamento di tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, aveva riassunto una dipendente sempre a tempo indeterminato. Rilevava che, ai fini della consistenza occupazionale, andavano computati anche i dipendenti con contratto a termine, che non fossero stati assunti per sopperire ad esigenze contingenti ed eccezionali. Quanto poi all’esistenza del giustificato motivo oggettivo, rinviava alla difesa spiegata sul punto in primo grado.

2. La corte d’appello dell’Aquila con sentenza del 18 settembre 2008 – 8 ottobre 2008 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese del grado. In particolare la corte d’appello riteneva che il licenziamento non potesse che qualificarsi come individuale, essendo stato intimato come tale dalla società datrice di lavoro. Riteneva inoltre che la trasformazione in stagionale dell’attività della società, che in precedenza si svolgeva nel corso di tutto l’anno, non costituiva giustificato motivo oggettivo dell’intimato licenziamento per mancanza di nesso di causalità con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. Non teneva conto delle deduzioni della società quanto al requisito numerico perchè fatte in riferimento alla prospettazione del licenziamento collettivo. Nulla poi la società aveva provato quanto all’aliunde perceptum.

3. Avverso questa pronuncia la società propone ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

L’intimata non ha svolto difesa alcuna.

4. La Sezione Lavoro di questa corte, con ordinanza interlocutoria del 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702, ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite ravvisando un contrasto di giurisprudenza in ordine all’interpretazione dell’art. 82 regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37.

In tale ordinanza la Sezione Lavoro pone in rilievo che la società Hapimag Italia s.p.a. ha notificato il ricorso per cassazione a I.T. presso il procuratore domiciliatario costituito in secondo grado, non presso il suo studio (secondo l’indicazione del domicilio data dalla parte nella procura alle liti), ma nella cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila. Trattandosi di procuratore esercente fuori della circoscrizione del tribunale cui era assegnato (il giudizio di appello si è svolto dinanzi alla Corte d’appello dell’Aquila, il procuratore domiciliatario era residente in Atri, circondario di Teramo), deve valutarsi se alla fattispecie trovi applicazione, o no, il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, per il quale il procuratore che esercita il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi in difetto che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

Ricorda l’ordinanza citata che fino ad epoca recente la giurisprudenza (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) ha ritenuto che tale elezione di domicilio ex lege assume rilievo tanto ai fini della notifica della sentenza per il decorso del termine breve per l’impugnazione, che per la notifica dell’atto di impugnazione, rimanendo di contro irrilevante l’indicazione della residenza o anche la elezione del domicilio fatta dalla parte stessa nella procura alle liti, senza che il principio incontri deroghe per il rito del lavoro (Cass., sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001). In prospettiva diversa si pone Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che, partendo da un’interpretazione letterale del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, ritiene che la disposizione da esso denunziata si applica al giudizio di primo grado (come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”) e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la ratio della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione.

5. Fissata la causa all’odierna udienza pubblica innanzi a queste Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. in cui sostiene la ritualità della notifica del ricorso per cassazione fatta presso la cancelleria della Corte d’appello dell’Aquila essendo il difensore della parte intimata domiciliato ex lege presso la cancelleria di quella corte in quanto iscritto nell’albo professionale del tribunale di Teramo e quindi in una circoscrizione diversa da quella in cui aveva sede la corte d’appello.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3. In particolare contesta la ritenuta assenza di nesso causale tra la scelta per la riduzione dell’attività da annuale a stagionate ed il licenziamento intimato.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. e della L. n. 108 del 1990, art. 2. Sostiene la deducibilità di un giudicato esterno formatosi in altra controversia con altri due dipendenti licenziati nelle stesse circostanze. Il giudicato secondo la ricorrente concernerebbe la consistenza occupazionale inferiore a 15 dipendenti con conseguente applicabilità della cosiddetta tutela obbligatoria.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 108 del 1990, art. 1. La sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che il motivo d’appello sulla consistenza occupazionale riguardasse solo l’applicabilità della L. n. 223 del 1991 e non anche il licenziamento individuale.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora violazione della L. n. 108 del 1990, art. 1 con riferimento alla deducibilità dell’aliunde perceptum.

2. Preliminare all’esame del merito del ricorso è la verifica della sua ammissibilità in ragione della ritualità, o no, della sua notifica alla parte intimata presso il suo procuratore in appello, domiciliato ex lege presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila in applicazione dell’art. 82 cit.. Tale verifica implica l’esame della questione di diritto posta nella richiamata ordinanza interlocutoria della sezione lavoro (ord., 15 novembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 702) e che ha ad oggetto l’interpretazione di tale disposizione; questione sulla quale si è radicato il denunciato contrasto di giurisprudenza della cui composizione sono state investite queste sezioni unite.

3. Il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 recante norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore – disposizione questa che, pur essendo risalente nel tempo, è rimasta immutata e tuttora vigente anche dopo l’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940 e delle varie leggi di riforma che si sono succedute nel tempo – prevede che gli avvocati – e, prima della soppressione dell’albo dei procuratori legali L. 24 febbraio 1997, n. 27, ex art. 3, i procuratori – i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati – devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. Ed aggiunge che, in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

L’onere di elezione di domicilio non esclude che comunque – come recita il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 4 – gli avvocati iscritti in un albo possano esercitare la professione davanti a tutte le Corti d’appello ed i Tribunali (nonchè, in passato, alle Preture) della Repubblica. Mentre davanti alla Corte di cassazione (ed altri organi giurisdizionali, quali in particolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti in sede giurisdizionale) il patrocinio può essere assunto soltanto dagli avvocati iscritti nell’apposito albo speciale.

L’art. 82 contiene quindi un duplice riferimento topografico: alla circoscrizione del tribunale e alla sede dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

3.1. Il primo riferimento si raccorda all’albo degli avvocati di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 17 tenuto dal consiglio dell’ordine degli avvocati presso ciascun tribunale, al quale sono iscritti, a domanda, gli avvocati per l’esercizio della professione forense e che presuppone che l’avvocato abbia la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata (art. 26, R.D.L. cit.); cfr. l’art. 31, R.D.L. cit. che prescrive che la domanda per l’iscrizione all’albo degli avvocati è rivolta al Consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori nella cui circoscrizione il richiedente ha la sua residenza. L’art. 10 r.d.l. cit. poi prescrive che l’avvocato debba risiedere nel capoluogo del circondario del Tribunale al quale è assegnato, ma il Presidente del Tribunale, sentito il parere del Consiglio dell’ordine, può autorizzarlo a risiedere in un’altra località del circondario, purchè egli abbia nel capoluogo un ufficio presso un altro procuratore.

L’iscrizione a tale albo deve costantemente sussistere per svolgere l’attività difensiva; la cancellazione dall’albo costituisce tipica sanzione disciplinare (art. 40 r.d.l. cit.).

Alla circoscrizione del tribunale fa riferimento anche il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, art. 6 (sull’esercizio della professione in uno Stato membro dell’UE) che prevede che per l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato, i cittadini degli Stati membri in possesso dei prescritti titoli, sono tenuti ad iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui hanno fissato stabilmente la loro residenza o il loro domicilio professionale. Gli avvocati possono chiedere il trasferimento dell’iscrizione all’albo di altra circoscrizione, anche di un diverso distretto, nella quale intendano fissare la propria residenza (L. 4 marzo 1991, n. 67, art. 6). La perimetrazione del circondario dei singoli tribunali è stata rivista dal D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l’istituzione del giudice unico di primo grado.

3.2. Il secondo riferimento topografico coincide con la sede – e quindi con il comune dove è ubicata la sede – dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.

Quindi l’avvocato che è assegnato a una determinata circoscrizione del tribunale può esercitare innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria che ha sede in quella circoscrizione senza necessità di elezione di domicilio altrove. Ma se quest’ultima ha sede in una diversa circoscrizione, l’avvocato è onerato dell’elezione di domicilio nel luogo sede dell’autorità giudiziaria adita; altrimenti opera ex lege l’elezione di domicilio presso la cancelleria di quella autorità giudiziaria.

Il collegamento topografico posto dall’art. 82 comporta una vicinanza dell’avvocato alla sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio per essere quest’ultima interna al territorio della circoscrizione del tribunale dove è l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato. La finalità è quella di agevolare le comunicazioni e le notificazioni all’avvocato;

finalità questa che è maggiormente evidente se si pensa all’epoca in cui la norma è stata posta e al diverso contesto dei mezzi di comunicazione che la connotava a fronte del progresso tecnologico dell’epoca attuale. Basti considerare che recentemente il D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 48, lett. d), conv., con mod., dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito nel codice di rito l’art. 149- bis sulla notificazione a mezzo di posta elettronica. E prima ancora la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, aveva aggiunto un terzo comma nell’art. 136 c.p.c. che prevede la possibilità delle comunicazioni di cancelleria mediante telefax o posta elettronica.

Pur in questo diverso contesto di comunicazioni e notifiche effettuabili anche in via telematica, la finalità dell’art. 82 è rimasta quella originaria: l’avvocato, in quanto iscritto all’albo del tribunale nella cui circoscrizione ricade la sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio, deve essere “prossimo” a quest’ultima. In difetto di tale prossimità topografica, scatta un onere di elezione di domicilio che, ove disatteso, comporta la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria. La giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 9 marzo 1977, n. 976) ha sottolineato come l’art. 82 mira a rendere più agevoli e sollecite le comunicazioni e notificazioni degli atti processuali.

4. Questa esigenza di prossimità topografica si ritrova anche in altre disposizioni processuali.

L’art. 58 disp. att. c.p.c., con riferimento alla costituzione delle parti nel giudizio innanzi al giudice di pace, prevede che alla parte, che non ha fatto dichiarazione di residenza o elezione di domicilio a norma dell’art. 319 c.p.c., le notificazioni e le comunicazioni durante il procedimento possono essere fatte presso la cancelleria, salvo contrarie disposizioni di legge.

L’art. 366 c.p.c., prima della modifica introdotta dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), (di cui si dirà infra), prevedeva che, se il ricorrente non avesse eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sarebbero state fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.

L’art. 480 c.p.c., prescrive che il precetto deve inoltre contenere, tra l’altro, la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione ed in mancanza le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato e le notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice stesso. Analoghe disposizioni, nel codice di rito, sono contenute nella L. n. 689 del 1981, art. 492 (con riferimento al pignoramento), art. 638 (quanto al procedimento per ingiunzione), art. 660 (relativamente alle intimazioni di licenza o di sfratto) e art. 22 (in tema di opposizione all’ordinanza-ingiunzione prima della novella di cui al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34, comma 1, lett. b)).

Anche nel giudizio amministrativo c’è analogo onere processuale.

L’art. 25 cod. proc. amm. (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, come sostituito dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195, art. 11, lett. e)) prevede che la parte, se non elegge domicilio nel comune sede del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata dove pende il ricorso, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata; e nei giudizi davanti al Consiglio di Stato, la parte, se non elegge domicilio in Roma, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del Consiglio di Stato.

5. Il disposto dell’art. 82 cit. comporta quindi, per l’avvocato che difende in un giudizio innanzi ad un’autorità giudiziaria con sede in una circoscrizione diversa da quella del tribunale presso il quale è l’albo dove egli è iscritto, un onere di elezione di domicilio al fine di assicurare la “prossimità” dell’avvocato per ogni comunicazione o notifica.

La conseguenza del mancato rispetto di tale onere, che ha una connotazione quasi sanzionatoria in senso lato, è l’elezione di domicilio ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria suddetta; ciò che significa in concreto una marcata difficoltà per l’avvocato di avere notizia di comunicazioni e notificazioni fattegli presso la cancelleria, anche se, fin da epoca risalente (Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919), si è precisato che comunque vi è, non già un obbligo, ma solo una facoltà per il notificante di effettuare la notifica presso la cancelleria (cfr. anche Cass., sez. lav., 22 novembre 1995, n. 12064; sez. 2, 4 maggio 2005, n. 9225). Ma se il notificante si avvale di tale facoltà, la notifica è rituale.

Si è quindi dubitato della proporzionalità (e quindi della ragionevolezza: art. 3 Cost., comma 1) di una così radicale conseguenza dell’inosservanza di un onere processuale, nonchè della sua compatibilità con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e, più recentemente, con il canone del giusto processo (art. 111 Cost., comma 1); e la questione è stata più volte portata con incidente di costituzionalità innanzi alla Corte costituzionale.

La quale, dopo aver ritenuto ragioni di inammissibilità della questione, preclusive dell’esame del merito (ord. n. 455 del 1999 e n. 13 del 2006), con una successiva ordinanza (ord. n. 5 del 2007) ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 82 cit., in combinato disposto con l’art. 330 c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.. Ha affermato la Corte che la prescrizione dell’onere di indicazione della residenza o dell’elezione di domicilio nel Comune sede del giudice adito, con i sacrifici che ad essa si correlano, esprime una scelta ragionevole e quindi non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione; mentre tale mancata elezione di domicilio non impedisce nè rende particolarmente gravoso il diritto di difesa, in quanto il difensore ben può con l’ordinaria diligenza informarsi presso il cancelliere, ritirare l’atto e provvedere così alla sua difesa, in quanto detta forma di notificazione, fra l’altro, consegue al mancato adempimento dell’onere imposto al difensore dalle norme impugnate e quindi è a lui imputabile. La Corte ha poi evidenziato che l’operatività della domiciliazione nella cancelleria deriva da una scelta volontaria del difensore, il quale, pur essendo consapevole di esercitare fuori dal circondario in cui è iscritto, ha omesso l’elezione di domicilio; ed ha aggiunto che la parte ha comunque il diritto di chiedere al proprio difensore il risarcimento integrale dei danni patiti, in ragione dell’agire non diligente di quest’ultimo, che non sia venuto a conoscenza del processo di appello e che non abbia conseguentemente apprestato una difesa.

In precedenza la Corte (ord. n. 62 del 1985) aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480 c.p.c., comma 3, nella parte in cui dispone che, ove il precetto non contenga la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante, le notificazioni si eseguono presso la cancelleria del giudice stesso ed il cancelliere non è tenuto a darne notizia alla parte interessata. Parimenti la Corte (ord. n. 231 del 2002) aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, che prevedeva analogo onere di elezione di domicilio, atteso che tale prescrizione “risulta ragionevole e non lesiva del diritto di azione, in quanto funzionale a un più immediato ed agevole espletamento delle formalità della notificazione” (conf. ord. n. 391 del 2007); disposizione questa che però è stata successivamente dichiarata incostituzionale, nel suo quarto e quinto comma, dalla stessa Corte (sent. n. 365 del 2010) proprio in ragione del mutato contesto normativo con la previsione di nuove modalità (e tecniche) di notifica (per questo profilo v. infra).

6. La questione di costituzionalità, di cui si è appena detto, è stata sollevata e decisa nel contesto e sul presupposto dell’interpretazione corrente dell’art. 82 cit..

6.1. La giurisprudenza di questa Corte da una parte, fin da epoca risalente, ha innanzi tutto affermato la permanente vigenza della disposizione anche dopo l’introduzione del nuovo codice di procedura civile del 1940; cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 31 luglio 1954, n. n. 2823, che, interpretando il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, posto in relazione agli artt. 285 e 170 c.p.c., ha affermato che, nella ipotesi in cui il procuratore legalmente esercente ometta di eleggere domicilio nel luogo ove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale è in corso il processo se fuori della circoscrizione del tribunale cui egli è assegnato, devono ritenersi pienamente valide le notificazioni eseguite presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria medesima. Ed ha precisato che l’art. 82 non può ritenersi tacitamente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito (e segnatamente dell’art. 170 c.p.c.), nè delle norme che disciplinano l’iscrizione nell’albo dei procuratori. Conf.

Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919, che ha ribadito la perdurante vigenza dell’art. 82 dato che l’art. 170 c.p.c. – a cui rinvia l’art. 285 c.p.c. per la notificazione della sentenza agli effetti della decorrenza del termine per l’impugnazione – si limita ad indicare soltanto la persona nei cui confronti la notifica deve essere effettuata, senza determinare anche il luogo in cui la notifica deve essere eseguita. Conf. Cass., sez. 2, 23 maggio 1975, n. 2053; sez. 2, 5 agosto 1976, n. 3018.

6.2. D’altra parte la giurisprudenza di questa Corte ha accolto un’interpretazione letterale, come palesata dalla chiara lettera della disposizione: gli avvocati esercenti il proprio ufficio fuori della circoscrizione del tribunale dove, tenuto dal locale consiglio dell’ordine degli avvocati, è l’albo al quale essi sono iscritti, hanno l’onere di domiciliarsi nel comune dove ha sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale svolgono la loro attività difensiva ove tale comune non sia ricompreso nella circoscrizione suddetta. Il riferimento generico all’autorità giudiziaria comprende ogni giudice, sia quello di primo grado che quello dell’impugnazione. Per il giudizio di cassazione l’art. 82 non opera sol perchè l’onere di elezione di domicilio è previsto specificamente dall’art. 366 c.p.c.; ma la disciplina è analoga (salvo quanto si dirà oltre):

l’avvocato, iscritto all’albo speciale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 33, è anch’egli tenuto ad eleggere domicilio nel comune di Roma.

Il riferimento al tribunale, contenuto nell’art. 82, vale ad individuare, non già l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, bensì l’albo professionale al quale l’avvocato è iscritto. L’assegnazione dell’avvocato al tribunale significa null’altro che iscrizione nell’albo professionale tenuto da ciascun ordine circondariale degli avvocati presso ogni tribunale che ha quindi come riferimento territoriale la circoscrizione del tribunale stesso (v. R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 14 che prevede che per ogni Tribunale civile e penale sono costituiti un albo di avvocati e, in passato, un albo di procuratori).

Invece ampio – e nient’affatto limitato al tribunale – è il riferimento all’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso”, sicchè, in disparte le disposizioni speciali quali quelle dettate per il giudizio civile di cassazione dall’art. 366 c.p.p. e ora per il giudizio amministrativo dall’art. 25 cod. proc. amm., la disposizione riguarda anche i giudizi proposti in sede di impugnazione e segnatamente quelli instaurati innanzi alle corti d’appello.

Del resto mentre esistono gli ordini circondariali che provvedono alla tenuta degli albi degli avvocati presso ciascun tribunale, non esiste un albo distrettuale costituito dall’insieme degli albi del circondario compresi nel distretto. Nè l’art. 82 fa in alcun modo riferimento all’insieme degli albi dei circondario compresi nel distretto sia perchè manca un dato testuale da cui ciò possa desumersi, sia perchè quando la legge professionale ha inteso assegnare rilevanza al livello distrettuale, pur in mancanza di un albo distrettuale, lo ha fatto espressamente. L’art. 5 prevedeva, prima della soppressione dell’albo dei procuratori, che i procuratori legali potevano esercitare la professione davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui era compreso l’ordine circondariale presso il quale erano iscritti. Analoga disposizione è tuttora prevista dall’art. 8 per i praticanti procuratori.

Ma nell’art. 82 il livello distrettuale non viene in rilievo.

6.3. Questa giurisprudenza ha trovato ripetute conferme: cfr. Cass., sez. lav., 26 ottobre 1987, n. 7899; sez. 1, 3 aprile 1992, n. 4081;

sez. 1, 17 febbraio 1995, n. 1736. Inoltre in senso conforme: Cass., sez. 2, 23 dicembre 1999, n. 14476; sez. 1, 23 febbraio 2000, n. 2059; sez. 3, 28 luglio 2004, n. 14254; sez. 2, 25 febbraio 2008, n. 4812; sez. 2, 11 marzo 2008, n. 6502; sez. lav., 20 giugno 2008, n. 17005; sez. lav., 23 febbraio 2009, n. 27166; nonchè sia pur solo implicitamente, anche Cass., sez. 2, 11 aprile 2002, n. 5185; sez. 1, 26 ottobre 2007, n. 22542; sez. 3, 7 aprile 2009, n. 8377.

In particolare Cass., sez. 3, 25 maggio 1977, n. 2170, ha poi precisato che la disposizione dell’art. 82 deve essere interpretata nel senso che il luogo di elezione del domicilio deve trovarsi nel comune ove siede l’autorità giudiziaria e non già in un comune diverso, sia pure sito nello stesso circondario; se si verifica quest’ultima ipotesi, il domicilio si intende eletto ex lege nella cancelleria del giudice procedente.

Con riferimento specifico al giudizio d’appello questa Corte (Cass., sez. 2, 15 maggio 1996, n. 4502) ha affermato che il R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – secondo cui il procuratore che si trovi ad esercitare il proprio ufficio in giudizio istituito dinanzi ad un’autorità giudiziaria avente la sede fuori dalla circoscrizione del tribunale al quale è assegnato deve, al momento della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede detta autorità e mantenervelo per tutto il corso del processo e, in caso di mancato adempimento di tale onere, il suo domicilio si intende eletto presso la cancelleria del giudice adito – trova applicazione anche nei giudizi innanzi alle corti di appello, in quanto si riferisce all’attività svolta dal procuratore innanzi a qualsiasi giudice avente sede in luogo non compreso nella circoscrizione del tribunale al quale egli è assegnato, ed opera, altresì, nel caso in cui, in un giudizio pendente innanzi alla corte di appello, a seguito dell’istituzione di un nuovo tribunale (nella specie, quello di Nola operante in forza della L. n. 125 del 1992), il procuratore risulti iscritto all’ordine professionale costituito presso il nuovo tribunale e privo, nella città sede della corte di appello (nell’ipotesi, Napoli), di un domicilio eletto diverso da quello presunto ex art. 82 R.D. cit.; con la conseguenza che, nell’indicata ipotesi, le comunicazioni al predetto procuratore devono ritenersi validamente e ritualmente effettuate presso la cancelleria della corte medesima.

In senso conforme cfr. anche Cass., sez. 6 – 2, 5 maggio 2011, n, 9924; sez. lav., 2 settembre 2010, n. 19001; sez. 3, 19 giugno 2009, n. 14360; sez. 1, 9 maggio, 2002, n. 6692.

Può infine ricordarsi che queste stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20845) hanno affermato che ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – tuttora vigente e non abrogato neanche per implicito dalla L. n. 27 del 1997, artt. 1 e 6 – il procuratore che eserciti il suo ministero fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato deve eleggere domicilio, all’atto di costituirsi in giudizio, nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è in corso il processo, intendendosi, in difetto, che egli abbia eletto domicilio presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.

7. Questo orientamento tradizionale e più volte ripetuto è stato recentemente disatteso da Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che all’opposto ha affermato che il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 – secondo cui i procuratori che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge “fuori della circoscrizione del tribunale” al quale sono assegnati devono, all’atto della costituzione in giudizio, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso e, in mancanza dell’elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” e trova applicazione al giudizio d’appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la rado della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l’onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione; ne consegue che, ove il procuratore sia esercente all’interno del distretto, la notifica della sentenza di primo grado effettuata presso la cancelleria della corte d’appello è inidonea a far decorrere il termine breve di sessanta giorni per l’impugnazione. Successivamente Cass., sez. 2, 12 maggio 2010, n. 11486, ha ritenuto di dover aderire a questo nuovo orientamento limitandosi a ribadire che il richiamato art. 82 si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale”, e trova applicazione al giudizio di appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori dal distretto (conf. da ultimo, Cass., sez. 3, 20 settembre 2011, n. 19125).

8. Il contrasto di giurisprudenza, denunciato dalla Sezione Lavoro con la citata ordinanza di rimessione della questione a queste Sezioni Unite, va risolto ribadendo l’orientamento tradizionale di cui si è finora detto.

L’interpretazione accolta da Cass. n. 13587/2009, che in realtà non costituisce un vero e proprio revirement perchè non si pone in critico confronto con l’opposto orientamento fino ad allora seguito dalla giurisprudenza di questa Corte, offre una lettura dell’art. 82 che contrasta con la sua lettera. Afferma infatti che “la disposizione, facendo riferimento alla “circoscrizione del tribunale” si riferisce evidentemente al giudizio di primo grado.”.

Ma, in disparte il rilievo che il tribunale può essere anche giudice di secondo grado atteso che l’appello nei confronti delle sentenze del giudice di pace è deciso dal tribunale (art. 341 c.p.c.), il riferimento topografico alla “circoscrizione del tribunale” – come già sopra rilevato – vale ad identificare non già l’autorità innanzi alla quale è in corso il giudizio, bensì l’albo professionale al quale è iscritto l’avvocato, albo che è tenuto su base della circoscrizione di ciascun tribunale e non già del distretto della corte d’appello.

Invece per identificare il giudice innanzi al quale è in corso il giudizio l’art. 82 utilizza un termine assai ampio (autorità giudiziaria) che comprende sia il tribunale che la corte d’appello;

ed in tanto non opera per la corte di cassazione perchè è previsto un albo speciale ed una disposizione specifica (art. 366 c.p.c.).

Non può quindi dirsi che l’art. 82 sia stato dettato solo per il giudizio di primo grado.

Inoltre l’orientamento qui disatteso, se da una parte trae dal riferimento alla “circoscrizione del tribunale” una limitazione dell’operatività della regola processuale dettata dall’art. 82, confinandola al solo giudizio di primo grado, d’altra parte però non si limita a negarne l’applicazione al giudizio d’appello, ma per quest’ultimo individua un precetto similare affermando che l’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 sussiste nel caso in cui l’avvocato non sia iscritto in nessun albo professionale di alcuna delle circoscrizioni che compongono il distretto della corte d’appello. Ossia l’art. 82 conterrebbe anche l’ulteriore regola per cui il procuratore iscritto in un distretto di corte d’appello diverso da quello dove ha sede la corte d’appello innanzi alla quale si svolge il giudizio d’appello deve eleggere domicilio nel luogo dove ha sede la corte d’appello presso la quale il giudizio è in corso. Ciò però non è affatto detto dall’art. 82 che non considera l’ipotesi del procuratore che esercita fuori distretto (della corte d’appello), ma solo quella del procuratore che esercita fuori circoscrizione (del tribunale). Per predicare la diversa regola processuale ritenuta dall’orientamento qui disatteso non vi è alcun aggancio testuale nell’art. 82 che, al fine dell’onere di elezione di domicilio, non contiene alcun riferimento al distretto; rilievo che appare insuperabile, tanto più che – come già notato – quando la legge professionale ha ritenuto rilevante la dimensione distrettuale, espressamente l’ha prevista (R.D.L. n. 1578 del 1933, artt. 5 e 8).

Va quindi confermato l’orientamento in precedenza più volte affermato da questa corte, e sopra illustrato, alla stregua del quale deve ritenersi, nella specie, che il ricorso per cassazione sia stato correttamente notificato presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila giacchè il procuratore costituito dalla parte appellata ed attualmente intimata era assegnato alla circoscrizione del tribunale di Teramo nel cui territorio non ricadeva la sede della corte d’appello dell’Aquila. Quindi, ai sensi dell’art. 82 come sopra interpretato, tale procuratore aveva, nel giudizio d’appello, l’onere di eleggere domicilio nella sede dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale si procedeva (L’Aquila). Non avendo ottemperato a tale onere, le notifiche potevano ritualmente essergli fatte presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila; così anche la notifica del ricorso per cassazione.

9. Deve però aggiungersi che l’indirizzo giurisprudenziale, qui disatteso con conferma di quello tradizionale, esprime comunque un comprensibile disagio nel continuare a fare applicazione di una norma processuale “datata”, perchè risalente negli anni, negli stessi termini in cui per lungo tempo è stata interpretata.

Le regole del processo civile però hanno carattere strumentale della tutela dei diritti e la loro interpretazione, rispetto all’evoluzione di questi (ossia delle situazioni sostanziali), è tendenzialmente stabile sicchè la fedeltà ai precedenti (stare decisis), in cui si esprime la funzione nomofilattica di questa Corte, ha una valenza maggiore, così come è in linea di massima giustificato (e tutelabile) l’affidamento che le parti fanno nella stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle regole del processo.

In proposito da una parte queste Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864) hanno elaborato una sorta di principio di precauzione, affermando che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l’interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell’ambiente processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono e consentano, pertanto, l’adozione dell’esegesi da ultimo formatasi.

D’altra parte, da ultimo, si è dato ingresso ad un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo, avendo queste sezioni unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144) ritenuto che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, ove tale “overruling” si connoti del carattere dell’imprevedibilità, si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante “ex post” non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’”overruling” nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo. Si tratta di una limitata applicazione della dottrina del c.d.

prospettive overruling: l’atto processuale compiuto al tempo della precedente giurisprudenza non è travolto da decadenza (o preclusione) sulla base di una nuova giurisprudenza, se connotata da imprevedibilità, la quale, sotto questo limitato aspetto, opera, in un certo senso, solo per il futuro.

Dopo quest’ultimo arresto giurisprudenziale risulta evidenziata la simmetria del profilo diacronico nel parallelismo tra controllo di costituzionalità e sindacato di legittimità.

Da una parte è possibile che una disposizione, oggetto di censura, sia inizialmente legittima e solo nel tempo divenga costituzionalmente illegittima per il mutamento del contesto normativo. La giurisprudenza costituzionale ha infatti elaborato la categoria dell’incostituzionalità sopravvenuta talchè, ricorrendo tale evenienza, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale a partire da una certa data (cfr. da ultimo sent. n. 1 del 2012).

D’altra parte, sul piano del sindacato di legittimità, in particolare di questa Corte, è possibile non di meno ipotizzare che l’interpretazione di una disposizione muti nel tempo in ragione del diverso contesto normativo in cui si innesta e che quindi ci sia parimenti una modulazione diacronica del suo significato precettivo senza che ciò smentisca la natura meramente dichiarativa dell’interpretazione della legge fatta dalla giurisprudenza.

E’ questo il caso dell’art. 82 cit..

10. Deve infatti considerarsi che il quadro normativo in cui va letto l’art. 82 ha subito di recente una significativa evoluzione che rifluisce anche sull’interpretazione della disposizione stessa.

Dapprima il D.L. 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito in L. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito un nuovo articolo – il 149-bis – nella sezione 4 “Delle comunicazioni e delle notificazioni” del libro 1 del codice di procedura civile; articolo, intitolato “Notificazione a mezzo posta elettronica”, che prevede, al comma 1, che, se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo.

Più recentemente il novellato art. 125 c.p.c., nel disciplinare il contenuto e sottoscrizione degli atti di parte, prescrive in generale che il difensore deve indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine. Il periodo “Il difensore deve, altresì, indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax” è stato aggiunto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, lett. a), conv., con mod., dalla L. 14 settembre 2011, n. 148. Successivamente le parole “l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state così sostituite a quelle “il proprio indirizzo di posta elettronica certificata” dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. a). Per espressa previsione dell’art. 25, comma 5, L. cit.: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge” (id est: 1 febbraio 2012 considerato che la legge è entrata in vigore il 1 gennaio 2012: art. 36). Tale prescrizione ha carattere generale e riguarda sia il giudizio di primo grado che quello d’appello. Quanto poi al giudizio di cassazione è stato parallelamente novellato anche l’art. 366 c.p.c. che ora prevede che se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione. Le parole “ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” sono state inserite dalla L. n. 183 del 2011 cit., art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), operante anch’esso decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa. Quindi ora l’avvocato che difende davanti alla Corte di cassazione devesi eleggere domicilio in Roma; ma ha un’alternativa: può indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

Il progressivo mutamento del contesto normativo è poi alla base della sentenza n. 365 del 2010 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 22, commi 4 e 5, “nella parte in cui non prevede, a richiesta dell’opponente, che abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio in un comune diverso da quello dove ha sede il giudice adito, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria”. La L. n. 689 del 1981, art. 22, disposizione ora abrogata, prevedeva che se, nell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, mancava la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio, le notificazioni al ricorrente venivano eseguite mediante deposito in cancelleria.

Analoghe censure di costituzionalità in passato erano state ritenute manifestamente infondate (ord. n. 231 del 2002). Nuovamente investita, la Corte ha tenuto conto proprio del mutato contesto normativo in cui si inseriva l’onere di elezione di domicilio previsto dalla disposizione censurata osservando infatti che, in considerazione dei mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi di comunicazione, il legislatore aveva modificato il quadro normativo riguardante le notificazioni. Ha quindi affermato: “Le recenti modifiche del quadro normativo mostrano un favor del legislatore per modalità semplificate di notificazione, divenute possibili grazie alla diffusione delle comunicazioni elettroniche. Sia lo sviluppo tecnologico e la crescente diffusione di nuove forme di comunicazione, sia l’evoluzione del quadro legislativo, hanno reso irragionevole l’effetto discriminatorio determinato dalla normativa censurata, che contempla il deposito presso la cancelleria quale unico modo per effettuare notificazioni all’opponente che non abbia dichiarato residenza o eletto domicilio nel comune sede del giudice adito nè abbia indicato un suo procuratore. La L. n. 689 del 1981, art. 22, commi 4 e 5, pertanto, viola gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, a richiesta del ricorrente, modi di notificazione ammessi a questo fine dalle norme statali vigenti, alternativi al deposito presso la cancelleria”.

Marginalmente può ricordarsi che la stessa Corte, esercitando il suo potere regolamentare, ha novellato la disposizione che prevedeva per le parti l’onere di elezione di domicilio in Roma (in simmetria con l’art. 366 c.p.c.), lasciando solo l’onere di eleggere domicilio tout court (art. 3, Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

Ed allora – una volta che è divenuto operante in particolare il nuovo art. 125 c.p.c. con la previsione dell’obbligo del difensore di indicare negli atti di parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto) il proprio indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, ciò che consente una modalità semplificata di notificazione (art. 149 bis c.p.c.), talchè l’art. 366 c.p.c., che prescriveva analogo specifico onere di elezione di domicilio per il giudizio di cassazione, ha previsto l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata come modalità alternativa alla domiciliazione – anche l’interpretazione dell’art. 82 cit., in chiave di prospective overrulling (ossia a partire dalla data suddetta – 1 febbraio 2012 – sicchè non rileva ratione temporis nel caso di specie), va riadattata a questo mutato contesto normativo.

Si è infatti venuta a determinare una irragionevolezza intrinseca (giacchè l’introduzione di una modalità di notificazione estremamente agevole, quale quella a mezzo di posta elettronica certificata, viene a soddisfare ex se l’esigenza di semplificazione e rapidità di comunicazioni e notificazioni, quale sottesa all’art. 82, non giustificandosi più, in tal caso, la domiciliazione ex lege in cancelleria), nonchè un’ingiustificata differenziazione (perchè per il giudizio di cassazione l’indicazione in ricorso dell’indirizzo di posta elettronica certificata già esclude la domiciliazione ex lege in cancelleria, mentre nel giudizio d’appello è espressamente previsto ex art. 125 solo l’obbligo di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata). In questo così modificato contesto normativo – che ha già visto un sostanziale overruling anche della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 365 dei 2010, cit., rispetto alle ord. n. 231 del 2002 e n. 391 del 2007, cit.) con l’introduzione, con pronuncia additiva, di modalità alternative all’elezione di domicilio in caso di opposizione ad ordinanza ingiunzione – sarebbe di assai dubbia ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 1) e compatibilità con la garanzia della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) far derivare dalla mancata elezione di domicilio di cui all’art. 82 l’effetto della domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio anche nel caso in cui il difensore abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine; ciò che parimenti soddisfa l’esigenza sottesa all’art. 82 di semplificazione del procedimento di notificazione e comunicazione degli atti.

Occorre allora accedere all’interpretazione adeguatrice affermando che, in simmetria con l’art. 366 c.p.c. e coerentemente alla nuova formulazione dell’art. 125 c.p.c., anche ai sensi dell’art. 82 cit.

all’onere dell’elezione di domicilio si affianca – a partire dall’entrata in vigore delle recenti modifiche delle disposizioni appena citate – la possibilità di indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (che, rispetto alla notifica in cancelleria, è più spedita ed offre una garanzia molto maggiore per l’avvocato destinatario della notifica). L’esigenza di coerenza sistematica e di interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, a partire dalla data suddetta, l’art. 82 cit. debba essere interpretato nel senso che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

11. Quindi conclusivamente – nel comporre il denunciato contrasto di giurisprudenza – può enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Il R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – che prevede che gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, e che in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori dalla circoscrizione cui l’avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo ordine professionale del circondario e quindi anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto ad un ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d’appello, ancorchè appartenente allo stesso distretto della medesima corte d’appello. Tuttavia, dopo l’entrata in vigore delle modifiche degli artt. 366 e 125 c.p.c., apportate rispettivamente dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), e dallo stesso art. 25, comma 1, lett. a), quest’ultimo modificativo a sua volta del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, lett. a), conv. in L. 14 settembre 2011, n. 148, e nel mutato contesto normativo che prevede ora in generale l’obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, si ha che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine”.

12. Verificata l’ammissibilità del ricorso per essere rituale e tempestiva la sua notifica alla parte intimata presso la cancelleria della corte d’appello dell’Aquila, deve passarsi all’esame delle censure che esso muove alla sentenza impugnata.

Il ricorso – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

13. Con valutazione di merito sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria la corte d’appello ha escluso, al fine della valutazione della legittimità dell’Intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il nesso di causalità tra l’avvenuta trasformazione in stagionale dell’attività della società e il recesso dal rapporto.

In particolare, mentre il giudice di primo grado aveva ritenuto la illegittimità del licenziamento argomentando che non era stata adottata la procedura sui licenziamenti collettivi, ricorrendone i presupposti, essendo stati licenziati 11 lavoratori, compresa l’odierna intimata, nell’arco di 120 giorni ed avendo la società una consistenza occupazionale maggiore di 15 dipendenti, la corte d’appello, dopo aver verificato che il licenziamento era stato in realtà intimato alla lavoratrice per giustificato motivo oggettivo e che quindi si trattava di un licenziamento individuale e non già collettivo, ha comunque confermato la valutazione di illegittimità del recesso ritenendo insussistente il giustificato motivo oggettivo allegato dalla società.

La quale, essendosi determinata, nell’esercizio della sua libertà di impresa, a ridimensionare la sua attività (di gestione di villaggi turistici) trasformandola da annuale in stagionale, non era certo tenuta a conservare a tempo pieno tutto il suo personale anche per i mesi dell’anno in cui l’attività era sospesa. Correttamente la corte d’appello ha ritenuto che tale scelta di un diverso assetto economico- produttivo rientrasse nel potere discrezionale dell’imprenditore, non sindacabile in sede giudiziale. Tuttavia tale scelta doveva raccordarsi in concreto con la determinazione datoriale di risolvere il rapporto di lavoro. In proposito più volte questa corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 22 agosto 2007, n. 17887) ha affermato che il licenziamento per motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva è scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicchè essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità. Nel caso di specie – ha ritenuto la corte d’appello con valutazione squisitamente di merito – la ragione fornita dalla società per giustificare il licenziamento era in realtà pretestuosa, perchè la circostanza della trasformazione da annuale in stagionale dell’attività d’impresa non giustificava la risoluzione del rapporto con i lavoratori licenziati, giacchè non solo la società aveva continuato ad utilizzare tutti i lavoratori anche dopo la variazione di attività (la licenza per l’attività stagionale è dell’ottobre 2004, mentre i licenziamenti sono del novembre 2005), ma inoltre, sia pure in un arco di tempo più limitato, la sua attività continuava a svolgersi, per cui la predetta trasformazione avrebbe giustificato l’offerta di una conseguente trasformazione dei rapporti di lavoro in part-time verticale in concomitanza con la delimitazione temporale dell’attività. Ossia – stante il c.d. obbligo di repechage più volte predicato dalla giurisprudenza di questa corte in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro (ex plurimis, Cass., sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7046) – la riduzione dell’attività da annuale a stagionale avrebbe giustificato la corrispondente riduzione del tempo di lavoro, anch’esso da annuale a stagionale.

Corretta quindi (nel senso di non contraddittoria) è l’inferenza deduttiva della corte d’appello che ha ritenuto non sussistere il nesso causale tra la trasformazione dell’attività della società da annuale in stagionale ed il licenziamento di tutti i lavoratori a tempo indeterminato senza che agli stessi venisse offerta, secondo correttezza e buona fede, una diversa modalità d’impiego e segnatamente la trasformazione in lavoro stagionale o part-time verticale.

Il licenziamento pertanto è stato dichiarato illegittimo non perchè la corte d’appello abbia ritenuto censurabile la scelta imprenditoriale, sotto il profilo della congruità ed opportunità, di svolgere un’attività stagionale, scelta che rientrava senz’altro nella discrezionalità della società, ma perchè quella corte, con valutazione di merito ad essa devoluta, ha ritenuto che non vi fosse nesso causale tra la scelta stessa ed il licenziamento della lavoratrice.

14. Parimenti rientra nella valutazione di merito della corte d’appello la ritenuta applicazione del regime di tutela c.d. reale della disciplina limitativa di licenziamenti individuali in ragione della sussistenza del requisito occupazionale (nella specie, occupazione di più di 15 dipendenti); valutazione di fatto peraltro confermativa di quella del giudice di primo grado che, seppur al diverso fine dell’applicabilità del regime di licenziamenti collettivi, parimenti aveva ritenuto sussistere tale requisito occupazionale. Mentre non rileva il giudicato formatosi inter alios in parallele, ma distinte, controversie tra la società ed altri lavoratori anch’essi licenziati nello stesso torno di tempo.

Giova solo ribadire che questa corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 13 marzo 2008, n. 6754) ha più volte affermato che al fine dell’operatività della disciplina riguardante il regime di stabilità reale, il requisito dimensionale dell’impresa in rapporto al numero dei dipendenti occupati, stabilito dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1, deve tenere conto dei lavoratori a tempo parziale in proporzione della sola quota di orario effettivamente svolto e tale modalità di calcolo va applicata, per non incorrere in irragionevoli e quindi costituzionalmente illegittime disparità di trattamento, anche in riferimento a periodi precedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6, che una siffatta regola ha esplicitato. Cfr.

anche Cass., sez. lav., 10 2 febbraio 2004, n. 2546, che, con riferimento proprio alla variabilità del livello occupazionale strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al part-time verticale, ha precisato che il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è quello riferito all’anno. Sicchè, con questa puntualizzazione, devono ritenersi computabili anche i lavoratori a termine o con part-time verticale.

15. Nulla ha provato la società quanto all’aliunde perceptum da conteggiare eventualmente in detrazione rispetto alle spettanze della lavoratrice illegittimamente licenziata.

Va ribadito (Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5532) che il risarcimento dei danni spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, parametrato economicamente dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 alla misura delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito qualora non fosse stato illegittimamente licenziato, può essere diminuito solo se il datore di lavoro assolve all’onere di provare che il lavoratore ha goduto, nel periodo dell’illegittimo licenziamento, di altra retribuzione in una diversa occupazione, che faccia diminuire l’ammontare dei danni subiti a causa del licenziamento (aliunde perceptum).

16. Il ricorso quindi è nel suo complesso infondato.

In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; nulla sulle spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2012


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 27/03/2012) 07/06/2012, n. 9237

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22966-2010 proposto da:

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (c.f. (OMISSIS)), in persona del Curatore dott. L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso l’avvocato VALENZA DINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MENDOLIA STEFANO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L. (C.F. (OMISSIS)), S. SIMEONE HOLDING S.R.L. (C.F. (OMISSIS)), BUSTAFFA EMILIO &

FIGLI S.P.A., S.A.;

– intimati –

nonchè da:

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Liquidatore pro tempore, S.A., anche in proprio e nella qualità di liquidatore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ANTONELLI 9, presso l’avvocato MERLA MICHELE, rappresentati e difesi dall’avvocato VITTORIO DI MARTINO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L., S. SIMEONE HOLDING S.R.L., BUSTAFFA EMILIO & FIGLI S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

FALLIMENTO DELLA LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (c.f. (OMISSIS)), in persona del Curatore dott. L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso l’avvocato VALENZA DINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MENDOLIA STEFANO, giusta procura in calce al ricorso principale e al presente atto;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

LUDOVICO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, FUNETTA S.R.L., S. SIMEONE HOLDING S.R.L., BUSTAFFA EMILIO & FIGLI S.P.A., S.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 695/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 24/08/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/03/2012 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato VALENZA STEFANO, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, rigetto altri ricorsi;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale Società, l’Avvocato MERLA MICHELE, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza 21 gennaio 2010, il Tribunale di Brescia dichiarò il fallimento della Ludovico s.r.l. in liquidazione, accogliendo il ricorso in data 11 settembre 2009 della Società Bustaffa Emilio &

figli s.p.a..

Contro la predetta sentenza proposero reclamo alla Corte d’appello di Brescia Funetta s.r.l., S. Simeone Holding s.r.l., Ludovico s.r.l. in liquidazione e S.A., nella qua qualità di legale rappresentante delle predette società e in proprio, deducendo tra l’altro in particolare la nullità della notifica dell’istanza di fallimento alla società, eseguita con il rito degli irreperibili, di cui all’art. 143 c.p.c..

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza 24 agosto 2010, respinto il motivo di appello sulla competenza, sulla premessa che la sede legale era stata trasferita a (OMISSIS) nonostante la conservazione della sede operativa in provincia di (OMISSIS), ha revocato la dichiarazione di fallimento. Nella sentenza si riferisce che all’udienza pre-fallimentare del 4 novembre 2009 il creditore istante aveva dichiarato che i tentativi fatti per notificare il ricorso alla società nella sua sede legale in (OMISSIS), o presso il suo liquidatore S.A., pure in (OMISSIS) all’indirizzo risultante dal registro delle imprese o al suo indirizzo anagrafico non erano andati a buon fine; che l’istante era stato autorizzato dal giudice alla notifica “con il rito dell’irreperibilità”, e che aveva proceduto alla notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c.; che anteriormente al giudizio lo stesso creditore aveva notificato alla società un decreto ingiuntivo il 13 giugno 2008 nella sua sede in (OMISSIS); che pertanto, per assicurare l’effettiva instaurazione del contraddittorio, il creditore avrebbe dovuto eseguire la notifica del ricorso e del decreto di comparizione della società presso la sua sede effettiva ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c. anche nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo; che, in conformità della giurisprudenza di legittimità, in difetto di ciò la notifica eseguita a norma dell’art. 143 c.c. doveva ritenersi nulla.

3. Per la cassazione di questa sentenza ricorre il fallimento in persona del curatore per quattro motivi, con atto notificato il 30 settembre 2010.

La società resiste con controricorso e ricorso incidentale in punto di competenza. Il fallimento ha depositato controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione
4. I ricorsi principale e incidentale sono stati riuniti.

5. Il ricorso incidentale della società interamente vittoriosa nel giudizio di merito, pur vertendo sulla questione pregiudiziale della competenza, è condizionato, non essendovi poteri d’ufficio della corte a pronunciarsi su un punto già deciso dal giudice di merito, e nascendo l’interesse del ricorrente esclusivamente dall’eventuale accoglimento del ricorso principale, sicchè deve essere esaminato dopo di questo (Cass. Sez. un. 31 ottobre 2007 n. 23019).

6. Con il primo motivo di ricorso si denuncia il vizio di motivazione circa la sede effettiva della società e la conoscenza di essa da parte del creditore istante e del tribunale. Si sostiene che la precedente notificazione del decreto ingiuntivo nella vecchia sede legale non poteva valere a identificare la sede della società dopo che questa aveva trasferito la sede legale a (OMISSIS) da oltre un anno.

Con il secondo motivo si denuncia la falsa applicazione dell’art. 46 c.c.: si deduce che la notificazione degli atti giudiziari nella sede effettiva, anzichè nella sede legale della società costituisce una facoltà per i terzi, e non un obbligo.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 143 c.p.c., norma che deve ritenersi applicabile anche nel procedimento di cui all’art. 15, L. Fall., in caso di negligenza del debitore che impedisca o ritardi le notificazioni. Dai quattro tentativi di notificazione eseguiti era emersa l’irreperibilità della società e del suo amministratore.

Con il quarto motivo si denuncia il vizio di motivazione sulla negligenza del debitore nelle comunicazioni dovute al registro delle imprese e all’anagrafe.

6. Il ricorso è fondato con riguardo alle osservazioni che seguono.

Va premesso che la notifica eseguita con il rito degli irreperibili era stata preceduta, come risulta dagli atti di causa, che questa corte è abilitata ad esaminare direttamente in forza della natura processuale del mezzo d’impugnazione, da quattro tentativi, nessuno dei quali andato a buon fine, presso tre indirizzi diversi: 1-2) in data 1/10/2009 alla società in persona “del liquidatore leg.rap.” in (OMISSIS) (residenza del liquidatore secondo l’iscrizione nel registro delle imprese), e sia il 6/10/2009 presso la sede legale della società in (OMISSIS); 3) il 14/10/2009 ad S.A. nella sua qualità di liquidatore della Ludovico s.r.l. unipersonale in (OMISSIS); il 22/10/2009 allo stesso S. presso la residenza anagrafica in (OMISSIS).

7. Il giudice di merito ha ritenuto che, sebbene i ripetuti tentativi di notificare il ricorso per la dichiarazione di fallimento, con il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, non fossero andati a buon fine, il giudice non potesse autorizzare la notifica “con il rito dell’irreperibilità”, perchè anteriormente al giudizio lo stesso creditore aveva notificato alla società un decreto ingiuntivo il 13 giugno 2008 nella sua sede in (OMISSIS); che pertanto, per assicurare l’effettiva instaurazione del contraddittorio, il creditore avrebbe dovuto eseguire la notifica del ricorso e del decreto di comparizione presso la sede effettiva della società, ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c., anche nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo; che, in conformità della giurisprudenza di legittimità, in difetto di ciò la notifica eseguita a norma dell’art. 143 c.c.. doveva ritenersi nulla. L’assunto non è condivisibile.

8. Si deve osservare che nella fattispecie di causa il decreto ingiuntivo era stato notificato più di un anno prima non già in una sede effettiva, diversa dalla sede legale, bensì nella stessa sede legale della società in (OMISSIS), e che dopo di allora la società aveva trasferito la sua sede legale in (OMISSIS), osservando gli oneri di pubblicità relativi. Non vi era dunque alcuna ragione per la quale si dovesse supporre che, sebbene avesse trasferito la sede legale, la società avesse conservato la vecchia sede legale come sede effettiva.

In tale situazione, il creditore aveva l’onere dì tentare la notificazione nella nuova sede legale, osservando le prescrizioni dell’art. 145 c.p.c.. L’assunto che dovesse essere compiuto un ulteriore tentativo di notificazione alla società ex art. 140 c.p.c. e art. 46 c.c. (nella sede dove era stato notificato l’anno prima il decreto ingiuntivo: ma dell’inconsistenza del riferimento a questo luogo s’è già detto), è stato dal giudice di merito motivato con il richiamo alla sentenza pronunciata da questa corte a Sezioni unite, 4 giugno 2002 n. 8091, quando l’art. 145 c.p.c., nel testo anteriore all’attuale, non prevedeva per le persone giuridiche forme di notificazione equivalenti a quelle previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c. Per supplire a quella lacuna, con il precedente richiamato questa corte affermò il principio che, esaurite le forme di notificazione previste espressamente dall’art. 145 c.p.c., si applicassero gli artt. 140 e 143, precisando, quanto alla notificazione a norma dell’art. 140 c.p.c., che ciò dovesse essere fatto nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell’atto e purchè avesse un indirizzo diverso da quello della sede dell’ente;

oppure, nel caso in cui la persona fisica non fosse indicata nell’atto da notificare, direttamente nei confronti della società.

La soluzione così elaborata dalla giurisprudenza per supplire alla lacuna è stata successivamente, in larga parte, fatta propria dal legislatore, che con la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2 dopo aver modificato l’art. 145 c.p.c., comma 2, ha sostituito il terzo, disponendo che, se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione “alla persona fisica indicata nell’atto, che rappresenta l’ente”, può essere eseguita anche a norma degli artt. “140 o 143”. In base alla nuova disciplina, dunque, il vano esperimento delle forme di notificazione previste nell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 2 consente bensì l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c. per la notificazione alle persone giuridiche. Ciò, tuttavia, con la doppia precisazione che:

1) la notifica è fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente, e non già all’ente in forma impersonale (cfr. Cass. ord. 13 settembre 2011 n. 18762), e 2) le due strade sono alternative, dovendosi seguire quella prevista dall’art. 140 se il recapito della predetta persona fisica è noto, ma sul luogo non si rinvengono persone alle quali consegnare il plico, e quella prevista dall’art. 143, nel caso d’irreperibilità della persona fisica medesima.

Nel caso oggi all’esame della corte, non è controverso che fossero state già tentate senza successo le forme di notificazione previste nell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 2 e in particolare, oltre a quella nella sede legale della società, anche quella alla persona giuridica presso il suo rappresentante legale, sia all’indirizzo risultante dal registro delle imprese e sia a quello risultante dall’anagrafe, sicchè non si poteva procedere se non in base alle forme previste dagli art. 140 e 143, che per quel che s’è detto sono alternative.

La parte, dunque, aveva richiesto informazioni all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) circa il luogo di residenza del signor S., e la risposta, nel confermare l’indirizzo anagrafico, aveva precisato che, tuttavia, “dal 27/10/2008 è stata aperta una procedura di cancellazione per irreperibilità”.

Ricorrevano pertanto i presupposti per la notificazione dell’atto alla società, presso il suo legale rappresentante S.A. con il rito degli irreperibili, in forza del principio di diritto per cui, a norma dell’art. 145 c.p.c., u.c., la notificazione alla persona giuridica, che non sia stato possibile notificare nei modi indicati dai commi precedenti, deve notificarsi presso il suo legale rappresentante, identificato nell’atto, a mezzo posta, a norma dell’art. 140 c.p.c., solo se sia noto il recapito di questi, e a norma dell’art. 143 se la persona fisica che rappresenta l’ente sia irreperibile in base alle ricerche fatte.

L’accoglimento del ricorso principale rende necessario l’esame del ricorso incidentale condizionato. Si deduce che il tribunale di Brescia sarebbe incompetente, perchè la società, trasferendo la sede legale a (OMISSIS), avrebbe conservato la sede effettiva in (OMISSIS), in provincia di (OMISSIS). La tesi non può essere condivisa, essendo basata su mere affermazioni della parte. Dalla premessa che la società avesse in precedenza la sede legale in Rottofreno non discende logicamente che tale sede avrebbe conservato come sede “effettiva”, pur dopo il trasferimento della sede legale in (OMISSIS).

In conclusione il ricorso principale va accolto, e quello incidentale rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e rigetta quello incidentale; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il reclamo proposto contro la sentenza di dichiarazione di fallimento pronunciata il 21 gennaio 2010 dal Tribunale di Brescia.

Condanna i soccombenti al pagamento delle spese liquidate:

per il reclamo, in Euro 2.550,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari e Euro 500,00 per diritti;

e per il giudizio di legittimità in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari;

oltre alle spese generali e aglio accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, il 27 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2012


Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord., (data ud. 21/02/2012) 24/05/2012, n. 8213

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente

Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 127-2010 proposto da:

B.G.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIULIANI ROBERTO giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.R. (OMISSIS), T.V. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GAVORRANO 12, presso lo studio dell’avvocato MARIO GIANNARINI, rappresentati e difesi dall’avvocato PADUA SALVATORE giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 822/2009 del TRIBUNALE di RAGUSA del 30/07/09, depositata il 29/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/02/2012 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;

è presente il P.G. in persona del Dott. SERGIO DEL CORE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
è presente il P.G. in persona del Dott. SERGIO DEL CORE.

Premesso che è stata comunicata alle parti e al P.M. la relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. del seguente tenore: “Con sentenza del 29 settembre 2009 il Tribunale di Ragusa rigettava l’opposizione agli atti esecutivi di B.G. avverso il precetto intimato da T.V. e L.R., proposta per mancanza della procura dichiaratamente conferita al difensore poichè la mancata trascrizione di essa nella copia notificata non è causa di nullità dell’ atto; inoltre perchè anche a voler ritenere che sia stata apposta sull’ originale dopo la notifica del precetto, il suo conferimento ratifica il compimento di esso. Liquidava le spese secondo il principio della soccombenza.

Ricorre B.G.T. per “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto dell’art. 360 c.p.c., comma 3.

Omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla violazione dell’art. 480 c.p.c., comma 4, artt. 479 e 83 c.p.c., art. 225 c.p.c., comma 1, art. 137 c.p.c., comma 2 per nullità del mandato apposto sull’ originale del precetto dopo la sua notifica, potendo tutt’ al più esser conferito con atto separato.

Il motivo è manifestamente infondato poichè la sentenza impugnata si è conformata al principio secondo cui il precetto, pur rientrando tra gli atti di parte il cui contenuto e la cui sottoscrizione sono regolati dall’art. 125 cod. proc. civ., non costituisce “atto introduttivo di un giudizio” contenente una domanda giudiziale, bensì atto preliminare stragiudiziale, che può essere validamente sottoscritto dalla parte oppure da un suo procuratore “ad negotia”.

Ne consegue che, in caso di sottoscrizione del precetto da parte di altro soggetto in rappresentanza del titolare del diritto risultante sul titolo esecutivo, la rappresentanza è sempre di carattere sostanziale, anche se conferita a persona avente la qualità di avvocato, restando conseguentemente irrilevante il difetto di procura sull’originale o sulla copia notificata dell’atto (Cass. 3998/2006).

2- Con il secondo motivo deduce: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 ed omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 350 c.p.c., n. 5 o in relazione all’art. 91 c.p.c.” per esser stata condannata alle spese malgrado il suo diritto di promuovere opposizione agli atti esecutivi entro cinque giorni dalla notifica del precetto per la mancanza di procura nella copia notificata e nell’originale avendone l’ufficiale giudiziario attestato la conformità all’originale e per aver iscritto nei dieci giorni successivi la causa a ruolo come era suo onere si che non aveva dato causa alla lite e non era soccombente.

Il motivo è manifestamente infondato essendo la sentenza impugnata conformata al principio secondo cui il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare diretto riferimento all’esito finale della lite, sicchè è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta. Il ricorso perciò è da respingere”;

rilevato che il P.M. non ha depositato requisitorie e le non parti hanno depositato memorie e che il collegio ha condiviso la relazione ed ha ritenuto che il procedimento di decisione del ricorso si presti ad essere deciso sulla base della stessa, con conseguente inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 360 bis cod. proc. civ.;

ritenuto pertanto che la ricorrente debba esser condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione pari a Euro 1.000 di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2012


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 18-01-2012) 24-04-2012, n. 6472

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente

Dott. BURSESE Gaetan0 Antonio – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere

Dott. MATERA Lina – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13717/2006 proposto da:

M.G. (OMISSIS), G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso lo studio dell’avvocato PELLEGRINO Giovanni, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

B.C., C.M.A., C.C. D.;

– intimati –

sul ricorso 19503/2006 proposto da:

C.M.A. (OMISSIS), B.C. (OMISSIS), C.C.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso lo studio GARDIN, rappresentati e difesi dall’avvocato SARACINO DONATO PANTALEO;

– controricorrenti ricorrenti incidentali –

contro

G.M. (OMISSIS), M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso lo studio dell’avvocato PELLEGRINO GIOVANNI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 144/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 27/02/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/01/2012 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;

udito l’Avvocato Amina L’ABBATE con delega depositata in udienza dell’Avvocato Giovanni PELLEGRINO, difensore dei ricorrenti che ha chiesto di riportarsi agli scritti depositati;

udito l’Avvocato SARACINO, difensore dei resistenti che ha chiesto di riportarsi anch’egli;

udito il P.M., persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 9 luglio 2001 il Tribunale di Lecce, in accoglimento delle domande proposte da C.S. e B.C. nei confronti di G.M. e M.G., condannò i convenuti a demolire la porzione di una costruzione che avevano realizzato a distanza inferiore a sei metri dal confine tra i rispettivi fondi delle parti, nonchè a risarcire agli attori i relativi danni, liquidati in L. 10.000.000.

Impugnata dai soccombenti, la decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Lecce, che con sentenza del 27 febbraio 2006, ferma la condanna alla riduzione in pristino, ha escluso quella al risarcimento dei danni.

G.M. e M.G. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a tre motivi. C.M.A., C.C.D. (eredi di C.S.) e B. C. si sono costituiti con controricorso, formulando a loro volta un motivo di impugnazione in via incidentale, cui G. M. e M.G. hanno opposto un proprio controricorso.

C.M.A., C.C.D. e B. C. hanno presentato una memoria.

Motivi della decisione
In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vengono riunite in un solo processo, in applicazione dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale G.M. e M.G. contestano l’esattezza della distinzione, prospettata nella sentenza impugnata, tra norme di azione e di relazione nell’ambito della disciplina delle distanze tra costruzioni: sostengono che in materia l’unica differenziazione rilevante è tra disposizioni integrative – o non – di quelle dettate dal codice civile.

La censura è inconferente, poiché la tesi di cui si tratta è stata esposta dalla Corte d’appello in linea teorica ed astratta, senza alcuna pratica e concreta influenza sulla decisione, la quale si basa sul rilievo che in effetti G.M. e M.G. avevano violato le prescrizioni del piano regolatore di Lecce, le quali esigono il rispetto di distanze maggiori di quelle stabilite dall’art. 873 c.c., e segg..

Appunto questa affermazione del giudice a quo viene contraddetta con il secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali G. M. e M.G. sostengono che per le strutture aggettanti, come quella da loro realizzata, la regolamentazione locale impone di osservare la distanza non già di sei metri dal confine, ma di tre.

L’assunto non è fondato.

L’art. 4 del regolamento edilizio annesso al piano regolatore del comune di Lecce dispone che la distanza minima dei fabbricati dai confini deve essere misurata “in proiezione orizzontale della superficie coperta”, la quale superficie coperta è definita dall’art. 3 come “la proiezione sul piano orizzontale del massimo ingombro della costruzione sovrastante il piano di campagna, con esclusione dei soli balconi aperti a sbalzo e degli aggetti normali quali pensiline, cornicioni, gronde ed elementi decorativi”. Nessun esonero è dunque previsto per “i bow-windows e le costruzioni in aggetto”, cui si riferisce l’art. 86, il quale è invocato dai ricorrenti nella parte in cui prescrive che per tali manufatti “la distanza in proiezione orizzontale dal confine non deve essere inferiore a m 3,00”. Ma il richiamo a tale disposizione non è pertinente, poiché essa riguarda, come risulta dal contesto in cui è inserita, le strutture pensili che sporgono sul suolo pubblico, sicché le suddette distanze minime sono quelle da rispettare lateralmente, rispetto ai confini con i fondi privati contigui. Se ne ha conferma dall’ulteriore previsione dello stesso art. 86, secondo cui “qualsiasi aggetto, con la sola esclusione delle sporgenze dei tetti o dei cornicioni minori di cm. 70, si considera nei riguardi del distacco minimo tra i fabbricati e della distanza minima dai confini di cui al precedente art. 4”.

Così corretta la motivazione della sentenza impugnata (nella quale l’art. 86 era stato ritenuto inapplicabile nel diverso presupposto che non riguardasse la zona B13, in cui sono ubicati gli immobili in questione) il ricorso principale va rigettato.

Con il motivo addotto a sostegno dell’incidentale C.M. A., C.C.D. e B.C. si dolgono del mancato accoglimento della loro domanda di risarcimento di danni per equivalente pecuniario, che la Corte d’appello ha rigettato osservando che la disposta riduzione in pristino costituiva ristoro in forma specifica del diritto tutelato e che non vi era stata allegazione e prova di una diminuzione patrimoniale economicamente valutabile.

La censura deve essere accolta, alla luce della giurisprudenza di questa Corte richiamata dai ricorrenti incidentali (ribadita, da ultimo, da Cass. 16 dicembre 2010 n. 25475 e Cass. 24 maggio 2011 n. 11382) secondo cui “in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria”.

Rigettato pertanto il ricorso principale e accolto l’incidentale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d’appello di Lecce, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il principale; accoglie l’incidentale; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2012


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 06-03-2012) 28-03-2012, n. 4955

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8793/2010 proposto da:

CASE DI CURA RIUNITE SRL IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA in persona del Commissario Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA GIUNONE REGINA 1, presso lo studio dell’avvocato GROSSO ANDREA CLEMENTE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 117/2009 della COMM.TRIB.REG. di BARI, depositata l’11/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2012 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GROSSO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato DE BELLIS, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso in subordine rimessione alle Sezioni Unite.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 117/8/2009, depositata in data 11/11/2009 la Commissione Tributaria Regionale della Puglia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria di Bari 370/232006 che aveva accolto i ricorsi riuniti proposti dalla Case di Cura Riunite s.r.l., in amministrazione straordinaria, avverso quattro cartelle di pagamento con cui l’ufficio iva di Bari aveva iscritta a ruolo le somme derivanti dalle rettifiche Iva relative agli anni di imposta 1990, 1991, 1992 e 1993, divenute definitiva per mancata impugnazione, ritenendo non validamente notificati i prodromici avvisi di rettifica, effettuati presso il domicilio del commissario straordinario anzichè alla sede della società Rilevava la Commissione Tributaria Regionale la ritualità della notifica dei predetti avvisi prodromici alle impugnate cartelle, effettuate presso il domicilio del commissario straordinario.

Proponeva ricorso per cassazione la società contribuente, affidato a due motivi.

Col primo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 145 c.p.c., commi 1 e 3, del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, art. 1, comma 6, convertito nella L. 3 aprile 1979, n. 95 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censurando la sentenza impugnata per non aver ritenuto applicabile l’art. 145 c.p.c., comma 1, all’epoca vigente, a norma del quale “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza ad altra persona addetta alla sede stessa”, mentre, sulla base di quanto sostenuto dalla ricorrente, avrebbe dovuto procedersi ai sensi del terzo comma del citato articolo (che prevede “se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione alla persona fisica indicata nell’atto, che rappresenta l’ente, può essere eseguita anche a norma degli artt. 140 o 143”) soltanto nel caso in cui non sia possibile eseguire la notificazione nel luogo dianzi indicato. Contestava la sentenza della CTR che aveva ritenuto l’equiparazione del regime di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi alla liquidazione coatta amministrativa, ritenendo erroneamente la notifica effettuata al commissario straordinario presso il suo domicilio valida ed efficace.

Col secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando come la sanatoria disposta del citato art. 156 c.p.c., comma 3, nel caso di impugnazione delle cartelle esattoriali, non possa estendersi agli avvisi di rettifica che costituiscono atti provvedimentali distinti e prodromici rispetto alle cartelle stesse, rilevando lesione delle garanzie previste dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, (statuto dei diritti del contribuente.

Eccepiva, inoltre, che la piena conoscenza degli avvisi di rettifica da parte della società contribuente era stata raggiunta soltanto nel corso del giudizio di primo grado, allorchè l’Agenzia delle entrate aveva effettuato il deposito dei riferiti atti impositivi.

L’Agenzia delle Entrate depositava controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 6.3.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
1) Con riferimento al primo motivo di ricorso, va, preliminarmente, rilevato che dalla data del provvedimento ministeriale che dispone la procedura di amministrazione straordinaria, il commissario si sostituisce agli organi di amministrazione al fine di preservare le prospettive di risanamento economico della società.

Infatti in relazione alla costituzione dei rapporti processuali attinenti ai soggetti sottoposti alla procedura di amministrazione straordinaria si radica la legittimazione processuale, attiva e passiva, nonchè la rappresentanza legale in capo al commissario straordinario che diviene l’esclusivo responsabile della procedura.

Al commissario straordinario compete la gestione dell’impresa, costituendo il centro motore dell’attività della stessa e va, quindi, affermato che la notifica dei predetti avvisi di rettifica Iva, emessi nei confronti di una società posta in Amministrazione straordinaria può anche essere effettuata, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., all’epoca vigente, richiamato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nei confronti della società stessa, non già presso la sua sede legale, bensì presso il domicilio del commissario straordinario. Infatti, similmente a quanto avviene per la liquidazione coatta amministrativa, l’assoggettamento alla procedura di amministrazione straordinaria, pur non determinando la nascita di un soggetto nuovo e diverso e anche se, a differenza della prima procedura, non comporta il venir meno dell’attività di impresa, ha quale effetto l’attribuzione della rappresentanza legale e della legittimazione processuale al commissario straordinario; in tale situazione deve ritenersi che il centro motore dell’attività opera, secondo l’”id quod plerumque accidit”, presso il domicilio del commissario straordinario, sicchè pretendere che la notifica debba essere comunque tentata presso la sede legale costituisce una pura formalità, anche perchè, sovente, l’azienda viene ceduta a terzi.

Il Commissario straordinario, infatti, costituisce il centro motore e il punto di riferimento della società di cui ha la rappresentanza.

Non rileva, ai fini della notifica, la distinzione tra la fase conservativa e liquidatoria della procedura che non potrebbe giustificare regole diverse al procedimento notificatorio, imponendo al notificante un onere ulteriore di verificare la fase in cui si trova la procedura.

Peraltro il D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 9, prevede l’opposizione alla dichiarazione di insolvenza venga notificata anche al Commissario giudiziale, ma non alla società.

Anche sulla scorta di tali considerazioni, al fine di evitare impasse e dubbi interpretetativi, la nuova formulazione dell’art. 145 c.p.c., ancorchè non applicabile ratione temporis, alla fattispecie in esame, ma con valore anche interpretativo, ha previsto due modalità alternative: la consegna dell’atto nella sede della persona giuridica, oppure, qualora vi siano tutte le necessarie indicazioni nell’atto medesimo, la consegna alla persona fisica che rappresenta l’ente, ed in mancanza ai consegnatari legittimati a norma degli artt. 139 e 141.

Specifica, infatti, il novellato art. 145 c.p.c., che la notificazione può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale (Articolo così modificato dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. c), nn. 1, 2 e 3).

Anche nel caso in esame, per le motivazioni già enunciate, ancorchè sotto la vigenza del precedente art. 145 c.p.c., l’ufficiale giudiziario poteva, procedere alla notificazione anche direttamente nella residenza del commissario straordinario.

Il primo motivo va quindi disatteso.

Il secondo motivo rimane assorbito dalla declaratoria di ritualità della notifica al legale rappresentante della procedura di amministrazione straordinaria, senza necessità di far ricorso al principio subordinato previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 156.

Conclusivamente va rigettato il ricorso.

Le spese del grado di giudizio vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali liquidate in complessive Euro 50.000,00 per onorari.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Civile Quinta, il 6 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2012


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-11-2011) 27-02-2012, n. 2959

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7997/2006 proposto da:

JSAY SRL IN PERSONA DELL’AMM.RE UNICO E LEGALE RAPP.TE SIG. S.G. P.I. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL FANTE 2, presso lo studio dell’avvocato PALMERI GIOVANNI, rappresentata e difesa dagli avvocati PETRONE Raffaele, PETRONE LIBERO;

– ricorrente –

contro

B.A.;

– intimato –

sul ricorso 8700/2006 proposto da:

B.A. C.F. (OMISSIS), domiciliato EX LEGE in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato RISPOLI LUIGI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

JSAY SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6301/2005 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 06/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2011 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per la riunione del ricorsi, l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale e l’inammissibilità del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6301/05 il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice d’appello, dichiarava la nullità della notifica della citazione introduttiva del giudizio di primo grado, svoltosi innanzi al giudice di pace di Napoli, promosso dalla Jsay s.r.l. nei confronti di B.A., rimettendo la causa al primo giudice. Osservava, al riguardo, richiamandosi a Cass. S.U. n. 458/05, che sebbene la notifica, effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., fosse completa delle formalità prescritte (deposito dell’atto presso la casa comunale, affissione dell’avviso di deposito e invio di lettera raccomandata a.r.), l’avviso di ricevimento della lettera raccomandata, quantunque allegato all’atto notificato, non recava alcuna indicazione, né del deposito della lettera raccomandata, né delle ragioni di esso, né del periodo di giacenza presso l’ufficio postale prima della restituzione al mittente.

Per la cassazione di detta sentenza ricorre la Jsay s.r.l., con due motivi.

Resiste con controricorso B.A., che propone ricorso incidentale affidato ad un solo motivo.

Motivi della decisione
Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

1. – Con il primo motivo del ricorso principale è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 156 c.p.c. e art. 48 disp. att. c.p.c., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione.

Sostiene, al riguardo, parte ricorrente che il Tribunale ha forzato l’interpretazione dell’art. 140 c.p.c. e, ignorando la norma di cui all’art. 48 disp. att. c.p.c., che specifica il contenuto dell’avviso di cui all’art. 140 c.p.c., ha rilevato disformità del procedimento di notificazione non previste dalla legge e non rilevabili d’ufficio.

2. – Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 345, 346 c.p.c., art. 329 c.p.c., comma 2, per violazione del principio del tantum devolutimi quantum appellatimi e di quello di conversione delle cause di nullità in motivi d’impugnazione, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Il giudice d’appello, si sostiene, ha rilevato d’ufficio un vizio della notifica non oggetto di censura da parte dell’appellante, il quale si era limitato a dedurre che l’avviso era stato affisso al portone d’ingresso dell’edificio condominiale e che non vi era prova dell’avvenuta ricezione della raccomandata.

3. – Il primo motivo è fondato nei termini che seguono e va accolto.

L’ordinanza n. 458/05 delle S.U. di questa Corte, cui espressamente si richiama il giudice a quo, afferma (immutando in parte il pregresso orientamento in materia) che sebbene la notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., si perfezioni con il compimento delle formalità prescritte e, quindi, con la sola spedizione della raccomandata a.r. informativa del deposito dell’atto presso l’ufficio comunale, occorre che l’avviso di ricevimento sia allegato all’atto notificato, per verificare che quest’ultimo sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario. Dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale vi appone quando lo restituisce al mittente può emergere, infatti, che la raccomandata non sia stata consegnata per trasferimento o decesso del destinatario o per qualsivoglia altra causa da cui si desuma che l’atto non è pervenuto nella sfera di conoscibilità di lui, nel qual caso la notificazione è da ritenersi nulla.

Ciò non vuoi significare, però, che a tale principio segua il corollario per cui dall’avviso di ricezione debba risultare precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza di essa presso l’ufficio postale, e che, in definitiva, l’avviso debba contenere, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale. A tale risultato non conduce né la sentenza n. 3/10 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione; né la successiva giurisprudenza che ne è derivata (cfr. Cass. nn. 4748/11 e 7809/10), la quale, come la pronuncia del giudice delle leggi, ha avuto di mira essenzialmente la diversa problematica dell’individuazione del momento in cui si perfeziona la notifica. Se la validità di essa fosse retta, in conclusione, dalle stesse norme previste dalla L. n. 890 del 1982, sulle notificazioni a mezzo del servizio postale, fra l’ipotesi dell’art. 140 e quella dell’art. 149 c.p.c. non intercorrerebbe altra differenza se non un aggravio di forme, a danno della prima, ormai deprivate di giustificazione e sostanzialmente vane, dipendendo l’esito positivo della notifica dall’attività svolta dell’agente postale.

La citata ordinanza delle S.U. va dunque intesa, all’interno del nuovo quadro di riferimento determinato dall’intervento manipolativo della Corte costituzionale, nel senso che l’avviso di ricevimento rileva, con riferimento all’esito della notificazione ex art. 140 c.p.c., in quanto da esso risulti o il trasferimento o il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso.

3.1. – Nel caso di specie, dall’esame degli atti (cui questa Corte ha accesso, trattandosi di verificare un fatto di natura processuale) risulta che l’avviso di ricevimento reca il timbro di compiuta giacenza (presente anche sulla busta di restituzione al destinatario, in raccomandazione, del piego e dell’avviso medesimo), senza indicazione della data di inizio e di fine del deposito, nonché il sigillo dell’ufficio postale in data 7.1.2002 (la spedizione della raccomandata è del 21.12.2001), il che, se da un lato non corrisponde ad una perfetta redazione dell’avviso, dall’altro non evidenzia alcuno degli anzi detti fatti ostativi al perfezionarsi della notifica, che pertanto deve ritenersi regolare.

4. – L’accoglimento del predetto motivo assorbe l’esame sia della seconda censura, sia del ricorso incidentale, che propone il vizio di omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia, relativo alla mancata ammissione dei mezzi di prova dedotti dall’appellante.

5. – Per quanto sopra considerato, la sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Napoli, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Napoli, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2012


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 24/11/2011) 30/12/2011, n. 30753

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

P.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5/2006 della COMM. TRIB. REG. di TORINO, depositata il 16/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/11/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il dr. P.L. – avvocato – propose ricorso alla commissione tributaria provinciale di Torino contro il silenzio- rifiuto serbato dall’amministrazione finanziaria su un’istanza di rimborso dell’Irap versata nel triennio 2001, 2002 e 2003. Notificò il ricorso all’agenzia delle entrate ufficio di Torino (OMISSIS). Il ricorso fu accolto.

Su gravame del suddetto ufficio dell’agenzia delle entrate -che aveva censurato la sentenza per non avere rilevato il difetto di legittimazione di esso ufficio quanto all’Irap attinente all’annualità 2001, essendo per detta annualità territorialmente competente al rimborso l’ufficio di Torino (OMISSIS), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, destinatario della relativa domanda, e per aver ritenuto insussistente il presupposto d’imposta quanto alle restanti annualità – la commissione tributaria regionale del Piemonte ha confermato la statuizione di primo grado.

L’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. L’intimato non ha svolto difese.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo, che denunzia “difetto di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5”, è inammissibile per due ragioni. Da un lato perchè non risulta concluso da idoneo momento di sintesi rappresentativo del c.d. quesito di fatto (vale a dire della specifica individuazione del fatto controverso con riguardo al quale andrebbe affermato il vizio motivazionale). Dall’altro perchè non coerente con la critica ivi esposta. E’ infatti criticata la decisione di merito perchè parametrata a un profilo giuridico (la legittimità o meno della domanda di rimborso presentata a un ufficio incompetente) diverso da quello consegnato al corrispondente motivo di appello (tale essendo quello della eccepita mancanza di legittimazione passiva dell’ufficio di Torino (OMISSIS) dell’agenzia delle entrate). Cosicchè può osservarsi che la critica nulla ha da spartire col vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vizio necessariamente limitato all’argomentazione in fatto, risolvendosi nell’affermazione di esistenza di un’omissione di pronuncia sul motivo di gravame. La quale però andava denunziata secondo il paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 4. 2. – Il secondo motivo, limitatamente all’annualità Irap 2001, deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10, 18 e 19. Si ripropone, in forma di error in iudicando in iure, la questione della eccepita carenza di legittimazione passiva dell’ufficio locale convenuto in giudizio, sul rilievo che la commissione regionale avrebbe errato nel disattendere l’eccezione detta statuendo il rigetto del corrispondente profilo di inammissibilità del ricorso introduttivo.

Giacchè – si sostiene – il ricorso avverso il silenzio-rifiuto sulla domanda di rimborso dell’Irap relativa alla detta annualità, avrebbe dovuto essere proposto – in parte qua – nei confronti dell’ufficio di Torino (OMISSIS) a cui il contribuente aveva correttamente presentato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2, l’istanza di rimborso.

(Notasi sul punto una distonia dei riferimenti conclusivi di pag. 7 del ricorso per cassazione, quanto agli uffici interessati – Torino (OMISSIS) e Torino (OMISSIS) – chiaramente ascrivibile, peraltro, a mero errore materiale.) 3. – Il secondo motivo – concluso da idoneo quesito di diritto – è infondato, ancorchè debba essere corretta, al riguardo, la motivazione della sentenza impugnata. La quale, onde disattendere il gravame nel profilo appena esposto, ha osservato che l’ufficio locale di Torino (OMISSIS) (già destinatario, a sua volta, dell’istanza di rimborso) “poteva, secondo prassi, trasmettere l’istanza ricevuta all’ufficio territorialmente competente”; con ciò avallando l’affermazione che tale era da ritenere l’ufficio di Torino (OMISSIS). Ma ha pure accertato, la sentenza de qua, essere stata l’istanza di rimborso autonomamente presentate anche al citato secondo ufficio, così contraddicendo l’utilità dell’argomento adoperato per respingere la censura. Il punto, portato all’attenzione della commissione regionale, invece, investiva la questione se, formatosi il silenzio-rifiuto sulla detta istanza di rimborso, stante l’inerzia dell’ufficio periferico adito (Torino (OMISSIS)), la vocatio dell’ufficio di Torino (OMISSIS), nel susseguente giudizio di impugnazione del silenzio- rifiuto, investisse o meno la legittimazione processuale passiva dell’agenzia fiscale (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10). Ed è evidente che la risposta al riguardo fornita dal giudice d’appello, facente leva sull’onere di trasmissione dell’istanza all’ufficio competente, non coglie il profilo che rileva.

4. – Ciò stante, è considerazione preliminare che l’accertamento di fatto – vale a dire la circostanza di essere stata comunque l’istanza di rimborso presentata a entrambi gli organi dell’ufficio periferico della competente agenzia delle entrate (Torino (OMISSIS) e Torino (OMISSIS)) – sterilizza la questione, sulla quale pur si registra un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, se la presentazione dell’istanza a un organo incompetente impedisca, o meno, la formazione del provvedimento negativo, anche nella forma del silenzio- rifiuto (al punto da determinare, secondo un indirizzo recentemente ribadito, l’improponibilità del ricorso al giudice tributario per difetto di un provvedimento impugnabile: v. sez. un. n. 11217/1997, cui adde, Cass. n. 14212/2004; Cass. n. 9407/2005, nonchè, di recente, Cass. n. 4037/2010 e Cass. n. 10537/2011; mentre, in senso contrario, Cass. n. 4773/2009; Cass. n. 15180/2009; Cass. n. 2810/2010). Nel senso che, per quanto evidenziato, una simile questione nel presente giudizio non incide, così dispensando il collegio dall’assumere una specifica posizione riguardo al contrasto detto.

5. – Di contro, al quesito di diritto, che compendia il sopra riportato secondo motivo dell’odierno ricorso, devesi fornire risposta negativa, seppure con più precisa spiegazione del passaggio logico essenziale rispetto a quanto trovasi fin qui argomentato dalla giurisprudenza della Corte.

La ragione essenziale si sostanzia nel fatto che l’evocazione in giudizio dell’agenzia delle entrate, per il tramite di ricorso notificato all’una o all’altra delle sue specifiche articolazioni interne (tali essendo i singoli uffici nei quali essa è organizzata a livello periferico, provinciale e non), non incide sulla legittimazione a contraddire dell’agenzia locale. La quale si atteggia, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 come riflesso della qualità di parte del rapporto tributario che viene in considerazione in base all’atto impugnato (ove anche questo risulti assunto in forma di tacito diniego), essendo la legittimazione passiva (id est, la titolarità passiva dell’azione) attribuita all’ufficio che, secondo i casi, ha emanato o (come qui interessa) non ha emanato uno degli atti avverso i quali può essere proposto il ricorso, e che quindi riveste la posizione di controparte del rapporto giuridico azionato. A seguito, infatti, dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 300 del 1999, istitutivo delle agenzie fiscali (la cui operatività discende dal D.M. 28 dicembre 2000, con decorrenza 1.1.2001), e in esito alla soppressione dei centri di servizio (di cui al provv. Ag. Entrate 7.12.2001), le attività già ascritte a codesti organismi (istituiti dalla L. n. 146 del 1980, art. 10 nell’ambito del Ministero delle finanze con specifica competenza, tra l’altro, in ordine alla esecuzione dei rimborsi) sono state attribuite, secondo il criterio della competenza territoriale (vale a dire, in relazione al domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione alla data in cui questa è stata o avrebbe dovuto essere presentata: del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 2), agli uffici locali dell’agenzia delle entrate, per tali dovendosi intendere gli uffici periferici nei quali l’agenzia si manifesta come ente. Non anche, quindi, le singole articolazioni che riflettono la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna.

In tal senso, e con la precisazione appena svolta, può conseguentemente affermarsi il principio di diritto per cui la notifica dell’impugnazione avverso il silenzio-rifiuto, da parte del contribuente, presso un ufficio della locale agenzia delle entrate diverso da quello avrebbe dovuto eseguire il rimborso in base all’istanza all’uopo presentata, non incide sulla validità dell’impugnazione del silenzio-rifiuto medesimo, stante il carattere unitario dell’agenzia delle entrate competente per territorio (l’agenzia locale), e considerata la natura impugnatoria del processo tributario che attribuisce la qualità di parte all’ente-organo (e non alle singole sue articolazioni) che ha emesso, o, in caso di diniego, non ha emesso, l’atto di cui si controverte. E v. infatti, in senso analogo, ancorchè nel non dirimente richiamo al principio di effettività della tutela giurisdizionale rispetto all’impugnazione di un atto impositivo, Cass. n. 29465/2008; Cass. n. 15718/2009; Cass. n. 3727/2010. 6. – Il terzo motivo denunzia, con riguardo alle restanti annualità d’imposta, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4, 8 e art. 2697 c.c.. Si censura la sentenza di merito perchè costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta pagata, fornire la prova della mancanza del relativo presupposto.

Il motivo è inammissibile in relazione al quesito di diritto, che si presenta redatto in termini di astratta interrogazione sulla ripartizione dell’onere della prova in tema di rimborsi dell’Irap;

ripartizione che, in linea di principio, la sentenza di merito non ha negato svolgersi nei termini riferiti dal quesito. Cosicchè la mancanza di ogni riferimento alle caratteristiche della fattispecie concreta impedisce alla Corte di enunciare un conforme principio di diritto idoneo a risolvere la controversia.

7. – Il quarto mezzo denunzia, ancora con riguardo alle suddette residue annualità 2002 e 2003, difetto di motivazione, stante che la commissione si sarebbe limitata a dire che i beni, che pur figuravano a disposizione del contribuente in base alla sua dichiarazione dei redditi, non erano individuati, così da considerare in ragione di ciò comprovata l’inesistenza assoluta di capitali investiti, di beni strumentali e di lavoro altrui. Il quarto mezzo è fondato.

8. – Con apposito motivo d’appello, l’amministrazione, a confutazione della decisione di primo grado circa la mancanza del presupposto dell’autonoma organizzazione dell’attività professionale del contribuente, aveva richiamato le risultanze del quadro RE della dichiarazione dei redditi, evidenziante spese variamente distribuite per quote di ammortamento, acquisti di beni, consumi e altro (in proporzione – 16,52% nel 2001 e 12,84% nel 2002 – assunta come non irrilevante rispetto al totale dei percepiti compensi).

Di contro la commissione regionale ha motivato la decisione di rigetto con l’affermazione che “non sono tuttavia individuati i beni in questione e pertanto si può ritenere, così come indicato dal contribuente, l’inesistenza assoluta di capitali investiti, beni strumentali e di lavoro altrui”. Può osservarsi che una simile motivazione non soddisfa l’onere che il profilo richiedeva, non essendo spiegato perchè la mancata individuazione oggettiva (fisica) dei beni oggetto della esposizione dei riferiti costi sia tale da imporre l’inferenza circa l’inesistenza di capitali investiti e di beni strumentali eccedenti l’ordinaria necessità.

Al riguardo va ribadito il principio che è soggetto passivo dell’Irap chi si avvalga, nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo, di una struttura organizzata in un complesso di fattori che per numero, importanza e valore economico sono suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al suo know- how. Sicchè si può escludere il presupposto di imposta quando il risultato economico trovi ragione esclusivamente nella autorganizzazione del professionista o, comunque, quando l’organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda necessità di coordinamento.

Nondimeno è pacifico che, nel giudizio instaurato per il rimborso dell’imposta che si assume indebitamente pagata, grava sul contribuente l’onere dimostrativo del fatto costitutivo della sua pretesa, e cioè dalla mancanza del presupposto alla base del prelievo fiscale. E, di contro, il giudice del merito può ricercare gli opposti dati di riscontro (del presupposto impositivo) attraverso l’esame della dichiarazione del contribuente, in particolare soffermandosi sul dettaglio riportato nelle pertinenti sezioni del quadro RE (riguardante la determinazione del reddito di lavoro autonomo ai fini Irpef) che specifica la composizione dei costi. Si tratta – come già da questa Corte affermato (v. Cass. n. 13810/2007) – di una regola empirica che facilita l’onere probatorio in un processo caratterizzato da limitazioni istruttorie, quale quello tributario, sostanzialmente incentrato su produzioni documentali.

9. – Conclusivamente, quindi, dichiarata l’inammissibilità del primo e del terzo motivo, e rigettato il secondo, il ricorso va accolto in relazione al solo quarto motivo. L’impugnata sentenza deve essere cassata e la causa rinviata ad altra sezione della medesima commissione regionale, la quale riesaminerà il profilo da ultimo indicato uniformandosi al suesposto principio di diritto.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il terzo motivo; rigetta il secondo; accoglie il quarto; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla commissione tributaria regionale del Piemonte, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 24 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011


Cass. civ. Sez. VI, Ord., (ud. 14-10-2011) 10-11-2011, n. 23459

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

EQUITALIA GERIT s.p.a. – Agente della Riscossione per la Provincia di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. PURI PAOLO ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via XXIV Maggio, n. 43;

– ricorrente –

contro

V.P., rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv. VALCHERA MANLIO ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via del Pozzetto, n. 117;

– controricorrente –

e COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore;

– intimato –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 24942 del 2009, depositata il 1 dicembre 2009 (non notificata);

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 ottobre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

sentito l’Avv. Paolo Puri per la ricorrente;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VIOLA ALFREDO POMPEO, che ha concluso: “nulla osserva”.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 20 aprile 2011, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.: “Con sentenza n. 24942 del 2009 (depositata il 1 dicembre 2009) il Tribunale di Roma accoglieva l’appello proposto da V.P. nei confronti della s.p.a. Equitalia Gerit e del Comune di Roma avverso la sentenza n. 3987/2007 del Giudice di pace di quella stessa città e, in riforma di quest’ultima sentenza, dichiarava la nullità della cartella esattoriale impugnata, condannava la citata Equitalia (subentrata alla MPS) a restituire all’appellante la somma di Euro 251,24 (quale importo corrisposto dal V. in dipendenza di preavviso di fermo amministrativo) e condanna la stessa società, in solido con il Comune di Roma, alla rifusione delle spese dei due gradi di giudizio.

La suddetta s.p.a. Equitalia Gerit ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 6 settembre 2009 e depositato il 20 settembre successivo) nei riguardi della richiamata sentenza di appello (non notificata) formulando tre motivi, evidenziando, in via preliminare, che il ricorso nella sede di legittimità era stato formulato al fine di ottenere l’annullamento della decisione impugnata limitatamente alla disposta sua condanna al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi della controversia. Con il primo motivo ha censurato la sentenza impugnata assumendone la nullità nella parte relativa alla condanna alle spese di giudizio di essa società quale concessionario della riscossione per violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione agli artt. 3, 24 e 24 Cost. (avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Con il secondo motivo la società ricorrente ha censurato la menzionata sentenza del Tribunale capitolino per insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con il terzo motivo la stessa ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza impugnata nella parte relativa alla condanna alle spese del Concessionario della riscossione per violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, degli artt. 201 e 206 C.d.S., e con riferimento all’art. 3 Cost., (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4).

Si è costituito in questa fase con controricorso l’intimato V.P., instando per il rigetto del ricorso, mentre non ha svolto attività difensiva l’altro intimato Comune di Roma.

Ritiene il relatore che sembrano sussistere, nella specie, le condizioni per la ravvisare la manifesta infondatezza del proposto ricorso con riferimento a tutti e tre i motivi formulati.

Si deve, in linea preliminare, rilevare che, con i tre formulati motivi, la società ricorrente, senza avanzare alcuna specifica censura avverso la pronuncia di accoglimento nel merito della domanda del V. da parte del Tribunale di Roma (anche con riguardo alla domanda di restituzione della sanzione indebitamente pagata), ha inteso contestare la legittimità della sua condanna alle spese, in via solidale con il Comune di Roma, sul presupposto della sua erronea ritenuta soccombenza in relazione al motivo per cui l’appello era stato accolto, riferibile ad un comportamento omissivo esclusivo del suddetto Comune.

Con riferimento al primo e al terzo motivo – che possono essere esaminati congiuntamente – si osserva che, sulla scorta dei sei motivi di ricorso dedotti originariamente con il ricorso dinanzi al giudice di pace, era stato richiesto l’annullamento della cartella esattoriale e della relativa ingiunzione di pagamento, sulla scorta di comportamenti asseriti come illegittimi posti in essere sia dal Comune di Roma e che dal Concessionario esattoriale, i quali, perciò, erano stati evocati in giudizio entrambi, ciascuno per il rispettivo titolo e per la conseguente conformazione all’eventuale pronuncia di annullamento domandata, con la loro necessaria partecipazione all’instaurato giudizio. In dipendenza del successivo sviluppo in secondo grado, l’attuale controricorrente aveva proposto anche la domanda restitutoria nei confronti della società Equitalia con riguardo all’importo corrisposto per la sanzione (al fine di evitare il fermo amministrativo) ove ritenuta illegittima, domanda questa che il Tribunale di Roma, con la sentenza impugnata in questa sede, ha accolto nei confronti della suddetta società oltre a quella principale di annullamento della cartella impugnata. Orbene, sulla scorta dell’impostazione della domanda originaria e del contenuto dell’appello in relazione allo svolgimento della vicenda processuale, non può mettersi in dubbio che il concessionario esattoriale fosse legittimato passivo nella introdotta controversia, avendo, peraltro, questa Corte (v. Cass. n. 24154/2007) statuito che, in sede di opposizione a cartella esattoriale, emessa per il pagamento di sanzione amministrativa, è consentito all’intimato, qualora si deduca la mancata notifica del verbale di accertamento dell’infrazione o dell’ordinanza – ingiunzione irrogativa della sanzione, contestare per la prima volta la validità del titolo esecutivo, onde, in tal caso al soggetto esattore deve riconoscersi, insieme all’ente impositore titolare della pretesa contestata, la concorrente legittimazione passiva, con la conseguenza che l’opposizione deve essere proposta anche nei confronti del medesimo esattore, che ha emesso la cartella esattoriale ed al quale va riconosciuto l’interesse a resistere anche per gli innegabili riflessi che un eventuale accoglimento dell’opposizione potrebbe comportare nei rapporti con l’ente, che ha provveduto ad inserire la sanzione nei ruoli trasmessi ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 27, (specificandosi che, trattandosi d’ipotesi di litisconsorzio necessario, la mancata integrazione del contraddittorio può essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo). Alla stregua di tale considerazione e della posizione da riconoscersi alla società concessionaria dei servizio di esattoria, oltre che della condotta dalla medesima tenuta con riguardo all’intrapresa procedura del preavviso di fermo che aveva indotto – pur in pendenza di opposizione giudiziale – il V. a pagare la sanzione, è indubbio, indipendentemente dalla circostanza che la domanda principale di annullamento sia stata accolta per omissioni pregresse riconducibili all’altro convenuto Comune di Roma riferibili alla notificazione del verbale di accertamento, che la società oggi ricorrente abbia comunque resistito al giudizio (adottando anche una condotta extraprocessuale ulteriormente lesiva della sfera giuridica dell’ingiunto), facendo valere ragioni contrarie a quelle del ricorrente in primo grado e poi appellante, risultando specificamente soccombente sulla indicata domanda restitutoria accolta in sede di gravame (indipendentemente dalla correttezza o meno di tale statuizione quanto all’individuazione del soggetto passivamente legittimato, non valutabile in questa sede per effetto della mancata impugnazione sul punto della decisione del Tribunale di Roma). Del resto è risaputo che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 19456/2008 e Cass. n. 20335/2004), la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, per il quale non è esente da onere delle spese la parte che col suo comportamento abbia provocato la necessità del processo, prescindendosi dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dagli specifici motivi di rigetto della loro pretesa, oltre che delle rispettive posizioni processuali assunte da più convenuti ritenuti passivamente legittimati. Alla luce delle argomentazioni che precedono le violazioni dedotte con il primo e terzo motivo non sembrano sussistenti.

Con il secondo motivo risulta prospettato un vizio motivazionale della sentenza impugnata con riferimento alla rilevata soccombenza della società ricorrente ritenuta ingiusta in relazione all’intervenuto accoglimento dell’appello per una condotta omissiva ricollegabile esclusivamente al Comune di Roma.

Come si è già visto, però, la condanna alle spese in via solidale della società concessionaria (odierna ricorrente), disposta in sede di gravame, appare come una logica conseguenza dei principi precedentemente esposti e, quindi, come una conseguenza della condotta processuale ed extraprocessuale della stessa, nonchè quale effetto ineludibile della pronuncia (incontestata sul punto) di condanna della medesima Equitalia Gerit s.p.a. in proprio alla restituzione di quanto indebitamente percetto in virtù dell’illegittima sanzione irrogata al V. e della conseguente esecuzione esattoriale intrapresa in suo danno. Pertanto, avendo il giudice di appello, accolto l’impugnazione nei confronti di entrambi gli appellanti, esso ha fatto corretta applicazione del principio generale della soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c., senza necessità di dover adottare in proposito una specifica motivazione.

Oltretutto, in tema di spese processuali, la giurisprudenza essenzialmente consolidata ha precisato che la, statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea, mentre in ogni altro caso e, in particolare, ove il giudice, pur se in assenza di qualsiasi motivazione, le abbia poste a carico del soccombente, anche disattendendone l’espressa sollecitazione a disporne la compensazione, la statuizione è insindacabile in sede di legittimità, stante l’assenza di un dovere del giudice di motivare il provvedimento adottato, senza che al riguardo siano configurabili dubbi di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 111 Cost..

In definitiva, si riconferma che sembrano emergere le condizioni per procedere nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., ravvisandosi la possibile manifesta infondatezza del ricorso con riferimento a tutti e tre i motivi formulati”.

Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, non cogliendo nel segno le deduzioni reiterate nella memoria difensiva dalla società ricorrente e dal suo difensore in sede di adunanza camerale, dovendosi riconfermare, in relazione alle argomentazioni compiutamente evidenziate nella suddetta relazione, la sussistenza della legittimazione passiva della stessa società concessionaria del servizio esattoriale (come, peraltro, sostenuto dalla più recente giurisprudenza di questa Corte) e l’emergenza della sua soccombenza con riferimento all’oggetto complessivo della controversia e al suo esito finale, culminato nella sentenza di appello con la quale è stata accolta una specifica domanda anche nei confronti della medesima odierna ricorrente;

che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese della presente fase in favore del controricorrente V.P., che si liquidano come in dispositivo, mentre non bisogna adottare alcuna statuizione al riguardo con riferimento alla posizione dell’altro intimato Comune di Roma, non costituitosi in questa fase.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore del controricorrente V.P., che si liquidano in complessivi Euro 500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011


Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., (data ud. 26/05/2011) 13/09/2011, n. 18762

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MARI LUNA s.r.l., fallita, in persona del curatore pro tempore, con domicilio eletto in Roma, via Corridoni n. 15 presso l’Avv. Agnino Paolo, rappresentata e difesa dall’Avv. Miglior Alberto, come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MARI LUNA s.r.l., fallita, in persona del legale rappresentante pro tempore, ANTICA OROLOGERIA CANDIDO OPERTI DEI FRATELLI Candido e Elisabetta OPERTI s.n.c.;

– intimati –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 5/10 VG depositata il 7 aprile 2010;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Zanichelli Vittorio.

Svolgimento del processo
La curatela del fallimento della Mari Luna s.r.l. ricorre per cassazione nei confronti della sentenza in epigrafe con la quale la Corte d’appello ha accolto il reclamo proposto dalla fallita revocando la dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Cagliari il 2 ottobre 2009.

Gli intimati non hanno proposto difese.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
Con la prima censura del primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 145 e 149 c.p.c., L. n. 890 del 1982, artt. 1 e 8 per avere la Corte di merito ritenuto irregolare la notificazione dell’avviso dell’udienza della fase prefallimentare effettuata alla società debitrice dall’ufficiale giudiziario a mezzo posta ai sensi dell’art. 149 c.p.c. e a sua volta dall’ufficiale postale come previsto dell’art. 8 citato e quindi, non avendo trovato alcuna persona idonea a ricevere il plico presso la sede della società, mediante deposito presso l’ufficio postale e avviso con lettera raccomandata (mai ritirata).

La censura non è fondata. L’art. 145 c.p.c. in tema di notificazione degli atti alle persone giuridiche, attualmente vigente e applicabile alla fattispecie, prevede, due modalità alternative da tentarsi prioritariamente: la notificazione nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede;

la notificazione, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale (indicazioni presenti nell’atto di cui si tratta).

Solo nel caso in cui la consegna dell’atto non possa essere effettuata con tali modalità è previsto, sempre che nello stesso risultino l’identità e la qualità della persona fisica che rappresenta l’ente nonchè uno dei luoghi indicati, che la notifica possa essere fatta a quest’ultimo con le modalità di cui all’art. 140 o art. 143.

Risulta dunque evidente dalla lettera della disposizione che allorquando nell’atto sono contenuti gli elementi indicati circa il legale rappresentante la notifica non può essere effettuata alla società con modalità diverse dalla consegna materiale dell’atto ad una delle persone a ciò legittimate e quindi non è consentito procedere con quelle previste dagli artt. 140 o 143, riservate esclusivamente alla notifica al legale rappresentante.

Naturalmente è possibile anche la notifica a mezzo del servizio postale, non essendovi alcuna previsione di legge ostativa, ma il procedimento non può non tener conto della specifica disciplina sopra esaminata, essendo indubitabile che il legislatore ha ritenuto maggiormente probabile che la notifica con modalità diverse dalla consegna a persona legittimata possa raggiungere lo scopo se indirizzata ad una persona fisica investita di particolari responsabilità piuttosto che in relazione ad un luogo dimostratosi scarsamente presidiato.

Ne consegue che la notifica a mezzo posta alla persona giuridica può essere effettuata, se dall’atto risultino gli indicati elementi identificativi del legale rappresentante, soltanto mediante consegna a persone abilitate a ricevere il piego, mentre deve escludersi la possibilità del deposito dell’atto e dei conseguenti avvisi che costituiscono formalità equivalenti alla notificazione ex art. 140 c.p.c..

Poichè nella fattispecie, pur essendo indicati nell’atto da notificare il nominativo e la reperibilità del legale rappresentante, la notificazione alla società è stata effettuata mediante deposito presso l’ufficio postale per assenza di persone legittimate alla ricezione, mentre la notificazione al legale rappresentante non è stata ritualmente effettuata, come ha ritenuto il giudice del merito con statuizione non fatta oggetto di censura, ne consegue la violazione del disposto della L. Fall., art. 15, circa la necessaria notificazione dell’avviso di convocazione al debitore e la nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio, non essendo questi comparso nè messo in condizione di difendersi.

Inammissibile è poi la seconda ragione di censura contenuta nel primo motivo di ricorso dal momento che questa attiene ad un presunto difetto di motivazione ma la circostanza in ordine alla quale la motivazione sarebbe carente e contraddittoria non attiene ad un fatto, essendo pacifiche le modalità con cui la notificazione è avvenuta, ma all’inquadramento delle stesse nell’art. 145 c.p.c. piuttosto che nelle disposizioni sulla notifica a mezzo del servizio che è questione di diritto, come tale non censurabile se non per violazione di legge.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della L. Fall., art. 18, per avere la Corte d’appello, a fronte della ritenuta nullità della notificazione dell’avviso di convocazione, dichiarato la nullità della sentenza invece di effettuare gli accertamenti necessari nel contraddittorio delle parti cui sarebbe stata legittimata in virtù dell’effetto pienamente devolutivo del reclamo e dell’adozione del rito camerale che renderebbe inapplicabili le norme sull’appello.

Il motivo è manifestamente infondato dal momento che, prescindendo da ogni considerazione in ordine alla natura del giudizio camerale di impugnazione, è decisiva la considerazione che, in presenza della fondatezza del reclamo, l’art. 18 impone la revoca della sentenza dichiarativa del fallimento con conseguente cessazione della procedura, senza che siano previste o la rinnovazione degli atti nulli o la regressione al primo giudice. D’altra parte, l’accertata nullità dell’atto introduttivo comporterebbe, in base alle norme sull’impugnazione (art. 354 c.p.c.), non già la pronuncia nel merito ma la rimessione degli atti al primo giudice che, in tema di giudizio per la dichiarazione di fallimento, è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza della Corte con argomenti che ancora possono essere invocati: “La procedura prefallimentare non può paragonarsi ad un processo di cognizione ordinaria, essendo essa di natura inquisitoria, compatibile con la necessaria audizione delle parti, pur nella sommarietà delle prove acquisibili, tra cui quelle rilevabili e attuabili d’ufficio dal giudice. Essa mira ad accertare con celerità e senza cognizione piena la sussistenza attuale dei presupposti per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore: di modo che la conseguente sentenza positiva costituisce essa stessa il punto d’avvio per il giudizio di cognizione ordinaria in ordine a quei medesimi presupposti.

E’ evidente, quindi, che la nullità di essa, pronunciata dalla Corte di Appello, travolge tutti gli atti conseguenziali, ivi inclusi il giudizio di cognizione di 1^ grado, la sentenza relativa ed il giudizio di 2^ grado (art. 159 c.p.c.), mentre non fa neppure salvi situazioni, fatti ed effetti riferibili alla fase “quo ante”, che possano valere come vincoli assoluti per il giudice fallimentare riguardo ad una nuova dichiarazione di fallimento.

Anzi quel giudice, nell’ipotesi di inizio di una nuova fase procedimentale prefallimentare, non può non riferirsi all’attualità delle situazioni su cui fondare l’accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento, dal momento che, da un lato, l’effetto retroattivo della pronuncia della Corte di Appello induce a ritenere la dichiarazione di fallimento “tamquam non esset”, dall’altro, va fatto salvo il principio secondo cui l’accertamento dei presupposti del fallimento va eseguito con riferimento ai fatti ed alle circostanze soggettive ed oggettive esistenti all’epoca della dichiarazione medesima” (così Sez. 1, Sentenza n. 7760 del 1990 in motivazione).

Il ricorso deve dunque essere rigettato. Non si deve provvedere in ordine alle spese in assenza di attività difensiva da parte degli intimati.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2011


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-06-2011) 02-08-2011, n. 16905

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19983/2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

R.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 151/2008 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 4.6.08, depositata il 30/06/2008;

udita la reflazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO TERRUSI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. UMBERTO APICE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
– Ritenuto che è stata depositata, dal consigliere appositamente nominato, la seguente relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.:

“La commissione tributaria regionale della Campania ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’agenzia delle entrate avverso la sentenza della commissione tributaria provinciale di Caserta, n. 263/01/2006, che aveva accolto un ricorso di R.P. avverso un avviso di rettifica e liquidazione di imposta di registro. Ha motivato sul rilievo che l’appellante non aveva provato – allegando copia dell’avviso di ricevimento – il perfezionamento della notificazione dell’atto all’indirizzo del destinatario. Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’agenzia delle entrate, articolando un motivo inteso a denunciare violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3. Premesso che la notifica dell’atto di appello era stata ritualmente eseguita presso il domicilio eletto in primo grado, vi si sostiene che il giudice di merito, non avendo rinvenuto agli atti dell’appello l’originale della cartolina verde attestante la rituale notifica, avrebbe dovuto concedere un termine per il deposito dell’avviso suddetto, necessario per il controllo di ritualità e validità della notificazione.

Il motivo, seppur sorretto da quesito che può ritenersi idoneo in parte qua, sembra manifestamente infondato, dal momento che giustappunto come chiarito dalle sezioni unite di questa Corte (sez. un. n. 627/2008) la mancata produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato notificato per posta non integra un’ipotesi di nullità della notificazione, non essendo, l’avviso detto, elemento costitutivo del procedimento notificatorio. La mancata produzione (o il mancato rinvenimento) rileva ai fini della prova del perfezionamento della notificazione. Consegue che, ove l’appellante non produca, dinanzi alla commissione tributaria regionale, il documento comprovante l’avvenuto perfezionamento della notificazione (fatto pacifico in causa), legittimamente la commissione dichiara l’inammissibilità dell’appello. Nè è tenuta ad accordare d’ufficio all’appellante un termine per integrare la documentazione mancante.

D’altronde non risulta neppure dedotto – in questa sede – che l’appellante, in mancanza della costituzione dell’appellato, abbia fatto richiesta di fruire di un simile termine.

Sulla base delle esposte considerazioni, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio e definito con pronunzia di manifesta infondatezza”;

– che il collegio integralmente condivide le considerazioni di cui alla ripetuta relazione;

– che pertanto il ricorso va rigettato;

– che l’intimato non ha svolto difese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio su relazione del Cons. Dott. Terrusi, il 21 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2011


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 31-03-2011) 14-06-2011, n. 12978

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.R., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso lo studio dell’avvocato TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato MOLTENI GIORGIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 32/2007 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 07/04/2007, r.g.n. 116/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/03/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega MOLTENI GIORGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Poste Italiane s.p.a. adiva il Tribunale di Crema chiedendo che fosse accertata, nei confronti di P.R., la legittimità o meno della sanzione disciplinare, comminata a quest’ultima in data 11 aprile 2005, per essersi rifiutata di svolgere la prestazione lavorativa in sostituzione di un collega assente, secondo il sistema previsto dall’accordo sindacale del 29 aprile 2004. 2. Il Tribunale accoglieva la domanda dichiarando la legittimità della sanzione.

3. Avverso la sentenza del giudice di primo gado, proponeva impugnazione la P. dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia che, con la sentenza n. 32/2007, rigettava il ricorso.

4. Ricorre P.R. per la cassazione della suddetta sentenza del giudice di appello proponendo cinque motivi di impugnazione.

5. Resiste con controricorso Poste Italiane s.p.a.

6. Sia la P. che Poste Italiane hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106, 1175, 1375 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7; vizio di motivazione su di un fatto controverso e decisivo del giudizio.

La ricorrente si duole che la propria audizione sia stata disposta a oltre 62 Km di distanza dalla sede di lavoro e ben oltre l’orario di lavoro, mentre si sarebbe dovuta svolgere, in quanto complementare rispetto all’attività lavorativa, in orario di servizio e nello stesso luogo di lavoro.

Il quesito di diritto, articolato in ordine al suddetto motivo, ha il seguente tenore: se costituisce lesione del diritto di difesa, così come disposto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 l’aver disposto l’audizione in sede disciplinare, richiesta dal dipendente con l’assistenza del rappresentante sindacale, in altro luogo che quello della prestazione lavorativa e distante oltre 62 km da questo e al di fuori dell’orario contrattuale (alle 16, terminando l’orario di lavoro alle 13), sì da rendere estremamente gravoso l’esercizio del diritto stesso.

1.2. Il motivo non è fondato.

Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza n. 5864 del 2010), con orientamento che si intende ribadire, la disposizione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, deve essere interpretata nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte – e, quindi, per iscritto o a voce, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale – con la conseguenza che, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere “sentito a difesa” nel termine previsto dallo stesso art. 7, comma 5, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, pena l’illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare (cfr. ad es., Cass. n. 1661 del 2008; Cass. n. 7848 del 2006; Cass. n. 9066 del 2005; Cass. n. 7006 del 1999; Cass. n. 467 del 1992).

Corollario di tale principio è che la richiesta di audizione del lavoratore, al di fuori dei casi in cui appaia ambigua o incerta, non risulta sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneità difensiva, per essere tale esito, garantito dall’art. 7, comma 2, non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e,quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell’incolpato, con l’espressa previsione dell’impossibilità di applicare qualsiasi sanzione più grave del rimprovero verbale senza che il lavoratore, che ne abbia fatto richiesta, sia sentito a sua discolpa.

In tal contesto, quindi, assume particolare rilievo l’obbligo delle parti di conformare la propria condotta a buona fede e lealtà contrattuale. L’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, nel suo complesso e quindi anche con riguardo ai profili procedurali, dunque, deve essere valutato alla stregua di tali principi.

Nel caso in esame, il giudice di appello, facendo corretta applicazione dei suddetti principi, con motivazione congrua e logica, ha accertato, sulla base dei criteri indicati, che le modalità di luogo ed orario dell’audizione della lavoratrice non avevano leso il diritto di difesa della stessa. La P., ha affermato il giudice di appello, era stata convocata presso l’ufficio del personale di Cremona e non di Milano e dunque in luogo facilmente raggiungibile dalla sua sede di lavoro di (OMISSIS). Inoltre, ha statuito la Corte d’Appello, la condotta datoriale, da valutare in ragione dei suddetti principi di correttezza e buona fede, mancando una previsione legislativa sul punto, appariva legittima tenuto conto che si tratta di una azienda di vaste dimensioni organizzata sul territorio attraverso uffici rispondenti a direzioni diverse, ognuna con una sua competenza quanto ai rapporti con il personale e che la sede presso la quale era stata convocata la dipendente, ossia (OMISSIS), non rendeva in alcun modo particolarmente oneroso alla stessa (e al rappresentante sindacale) l’esercizio del diritto di difesa, che era stato, peraltro, esercitato anche per iscritto.

2. Con il secondo motivo di impugnazione è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 40 Cost., della L. n. 300 del 1970, art. 28, della L. n. 146 del 1990, artt. 1, 2, 4, 12, 13 e 14; vizio di motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Ad avviso della ricorrente, sarebbe stato leso il diritto di sciopero e la disciplina della regolamentazione di esso nei servizi pubblici essenziali. L’unica limitazione al diritto di sciopero riconosciuto dalla Costituzione, è quella prevista per i servizi pubblici essenziali dalla L. n. 146 del 1990, che attribuisce peculiare rilievo, in proposito, alla Commissione di Garanzia, i cui poteri sono stati rafforzati con la L. n. 83 del 2000, che ha attribuito alla stessa un potere di regolamentazione provvisoria. In ragione della delibera 02/37 della Commissione la vicenda in esame rientra nell’ipotesi di sciopero legittimo. Alla Commissione di Garanzia spetta, tra l’altro il compito di deliberare le sanzioni.

In ordine al suddetto motivo di ricorso è stato prospettato il seguente quesito di diritto:

se in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ex L. n. 146 del 1990, ed in particolare in quello dei dipendenti di Poste Italiane, attinente alla libertà di comunicazione, assoggettato alla normativa di regolamentazione, per sciopero deve intendersi ogni forma di azione sindacale comportante una riduzione del servizio tale da determinare un pregiudizio per i diritti degli utenti, ciò valendo anche in caso di astensione collettiva dal lavoro aggiuntivo, così come dedotta in causa, e, in ogni caso, l’esercizio del potere disciplinare relativo all’astensione dal lavoro collettiva è di esclusiva competenza della Commissione di Garanzia che eventualmente prescrive al datore di lavoro la sanzione, con la conseguenza che, nel caso di specie, l’esercizio del potere disciplinare da parte di Poste Italiane è illegittimo.

3. Con il terzo motivo di impugnazione è prospettata insufficiente o contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il fatto controverso e decisivo per il giudizio è lo sciopero oggetto di causa, così come storicamente proclamato ed attuato.

In relazione a ciò, afferma la ricorrente, del tutto erronee sono le seguenti affermazioni della sentenza impugnata. Premesso che il sindacato non ha indetto uno sciopero dal lavoro straordinario, bensì ha proclamato l’astensione da ogni forma di prestazione accessoria, comunque denominata (es. Area Territoriale), come denominata proprio dall’accordo contro cui ha reagito, ed in coerenza con ciò, gli aderenti si sono rifiutati di svolgere quella che, nell’accordo sull’area territoriale, viene definita prestazione aggiuntiva e che Poste Italiane ha definito, nel suo calendario scioperi – per l’utenza “proclamazione sciopero prestazioni accessorie”, l’affermazione della sentenza impugnata sarebbe del tutto incoerente, anche dal punto di vista logico.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione degli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c.; omessa e/o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Espone la ricorrente che manca nella fattispecie in esame la colpa del lavoratore, che costituisce presupposto dell’infrazione disciplinare. Ed infatti, essa ricorrente aveva aderito ad uno sciopero ritualmente comunicato agli organi competenti e reso pubblico da Poste Italiane e, comunque, era estranea al contendere di Poste Italiane sul sistema areola.

Il quesito di diritto è il seguente:

L’astensione dalla prestazione dalla lavorativa ritenuta dallo stesso datore di lavoro sciopero e come tale comunicata pubblicamente, senza alcuna riserva, non può fondare una responsabilità disciplinare da inadempimento, per assenza di qualsivoglia elemento colposo a carico del dipendente.

5. Con il quarto (recte: quinto) motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione: art. 1362 e segg., in relazione all’accordo collettivo 29 luglio 2004, art. 2697 c.c.;

violazione dell’art. 40 Cost., insufficiente e/o contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La P. deduce che non si verte in ipotesi di sciopero su lavoro straordinario (nè delle mansioni), ma della prestazione aggiuntiva.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore:

se, laddove un accordo collettivo contenga una disposizione che obblighi il dipendente a sostituire, oltre la sua prestazione contrattuale già determinata, in quota parte oraria, un collega assente, remunerandolo con una quota di retribuzione inferiore alla maggiorazione per lavoro straordinario, la relativa astensione collettiva da tale prestazione attiene al legittimo esercizio del diritto di sciopero, essendo in ogni caso onere probatorio di chi lo invoca fornire la prova che detta prestazione possa svolgersi nell’ordinario orario di lavoro.

6. Con il sesto motivo di ricorso è sottoposta all’esame della Corte la censura relativa alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., dell’art. 1372 c.c. e segg., dell’art. 2107 c.c.;

del CCNL Poste italiane 11.7.2003; vizio di motivazione.

7. I motivi di impugnazione da 2 a 5 devono essere trattai congiuntamente in ragione della loro intrinseca connessione. Gli stessi non sono fondati.

1 suddetti articolati motivi di ricorso, proposti dalla ricorrente in ordine alla sentenza della Corte d’Appello di Brescia, hanno un punto di chiara intersecazione consistente nelle questioni relative, sotto più profili, alla qualificazione della prestazione lavorativa il cui mancato adempimento ha determinato l’irrogazione della sanzione datoriale.

Pertanto, la Corte è chiamata a stabilire se, in ragione della disciplina in questione, l’astensione dal lavoro oggetto di questa controversia rientri o meno nel concetto di sciopero. Se il comportamento dei lavoratori che hanno aderito all’astensione proclamata da COBAS è una forma di sciopero, la sanzione disciplinare è illegittima e la sua applicazione costituisce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 28, in quanto lo sciopero è un diritto costituzionalmente sancito e il suo esercizio sospende il diritto al corrispettivo economico, ma rende immune il comportamento da sanzioni. Se, al contrario, non è sciopero, il rifiuto della prestazione costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali e l’applicazione della sanzione disciplinare è legittima.

8. Su tale punto, la Corte, condividendolo, richiama il recente orientamento (Cass., sentenze n, 548 del 2011 e n. 547 del 2011) che ha affermato quanto segue.

Non esista una definizione legislativa dello sciopero. I lineamenti del concetto sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle relazioni industriali.

Lo sciopero nei fatti si risolve nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione. Questa mancata esecuzione si estende per una determinata unità di tempo: una giornata di lavoro, più giornate, oppure periodi di tempo inferiori alla giornata, sempre che non si vada oltre quella che viene definita “minima unità tecnico temporale”, al di sotto della quale l’attività lavorativa non ha significato esaurendosi in una erogazione di energie senza scopo.

In tale logica, la giurisprudenza, dopo alcune oscillazioni, riportò entro la nozione di sciopero anche la mancata prestazione del lavoro straordinario (Cass., n. 2480 del 1976).

L’astensione anche in questo caso ha una precisa delimitazione temporale e concerne tutte le attività richieste al lavoratore.

Al contrario, ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere. E il caso del c.d. sciopero delle mansioni, comportamento costantemente ritenuto estraneo al concetto di sciopero e pertanto illegittimo dalla giurisprudenza (Cass., n. 2214 del 1986).

Tanto premesso, questa Corte, nel condividere la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata (sentenze n. 548 del 2011 e n. 547 del 2011), ritiene che il rifiuto di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell’obbligo di sostituzione previsto dal contratto collettivo non è astensione dal lavoro straordinario, nè astensione per un orario delimitato e predefinito, ma è rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute. Situazione assimilabile a quella del c.d. sciopero della mansioni, perchè, all’interno del complesso di attività che il lavoratore è tenuto a svolgere, l’omissione concerne uno specifico di tali obblighi.

L’astensione pertanto non può essere qualificata sciopero e resta un mero inadempimento parziale della prestazione dovuta. Di conseguenza, la sanzione disciplinare non è illegittima e il comportamento datoriale non è antisindacale. Questa conclusione non solo è in linea con le coordinate generali prima tracciate, ma anche con la specifica giurisprudenza di legittimità sull’argomento: Cass. n. 17995 del 2003, concernente il sistema di sostituzioni entro l’ambito della c.d. areola (antecedente dell’area territoriale nell’organizzazione delle Poste), ha affermato che il rifiuto di effettuare la sostituzione del collega assente, è “rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni, legittimamente richiedibili al lavoratore” e “non costituisce esercizio del diritto di sciopero”, con la conseguenza che deve escludersi l’antisindacalità della scelta datoriale di applicare una sanzione disciplinare.

La sentenza da ultimo richiamata (Cass. 17995 del 2003), in particolare, ha affermato che la richiesta di consegna della corrispondenza in zone di recapito diverse da quelle abitualmente assegnate non costituisce, di per sè, richiesta di prestazioni di lavoro straordinario, ma rientra nei poteri riservati al datore di lavoro che conserva la facoltà non solo di strutturare ed organizzare la propria azienda, ma anche quella di stabilire l’orario e di adeguare le prestazioni dei dipendenti in relazione alle esigenze della stessa, ancorchè, ovviamente, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e dalle norme contrattuali vigenti. Del tutto legittima appariva, pertanto, la determinazione della società di prolungare nel tempo il sistema originariamente introdotto previo accordo sindacale per il recapito della corrispondenza nella cosiddetta areola. In caso di impedimento di un portalettere titolare, questa attività si aggiungeva a quella di recapito nella zona assegnata al portalettere individualmente, ed era redistribuita tra i portalettere presenti in servizio. Il riconoscimento di un premio, collegato al raggiungimento dell’obiettivo – smaltimento del corriere – non intendeva compensare una prestazione lavorativa di maggior durata, rispetto all’orario di lavoro ordinario, bensì una prestazione che, pur svolgendosi interamente in detto orario, assumeva necessariamente maggiore intensità e gravosità, ricomprendendo – seppure in parte – il lavoro di competenza di altro lavoratore assente.

Il rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni, legittimamente richiedibili al lavoratore, attuato senza perdita della retribuzione, non costituisce esercizio legittimo del diritto di sciopero e può configurare una responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente.

In conseguenza di ciò, il comportamento tenuto dal datore di lavoro non poteva integrare un comportamento antisindacale.

9. Altre questioni poste dai suddetti motivi di ricorso riguardano il rapporto con le determinazioni della Commissione di garanzia. Si è già detto del perchè l’astensione in esame non costituisce esercizio del diritto di sciopero. Deve aggiungersi, richiamando le già sopra citate pronunce della Corte, che la nozione di sciopero proposta dalla ricorrente non è condivisibile, perchè non può definirsi sciopero ogni astensione sindacale che comporti una riduzione del servizio. Nè, invero, lo sciopero si caratterizza per il fatto che determina un danno per gli utenti. Questo può essere un effetto collaterale, ma non è elemento costitutivo dello sciopero;

molti scioperi non danneggiano gli utenti.

10. La definizione di sciopero proposta dalla ricorrente invero richiama l’espressione usata dalla Commissione di Garanzia nel provvedimento del marzo 2002 (G.U. n. 88 del 2002), che peraltro non si occupa delle astensioni contro l’accordo sulle aree territoriali, che del resto è del 2004, bensì in generale gli scioperi dei dipendenti delle Poste. In ogni caso, tale provvedimento non incide sulla soluzione delle questioni oggetto di questa controversia.

Nel delineare il suo campo di applicazione, la delibera precisa che “la presente disciplina si applica ad ogni forma di azione sindacale, comunque denominata, comportante una riduzione del servizio tale da determinare un pregiudizio per tutti gli utenti”. Ed aggiunge che si applica anche al caso di astensione dal lavoro straordinario.

La Commissione, con tali espressioni, si prefiggeva solo, nella sua ottica specifica, di limitare le conseguenze di azioni sindacali implicanti danni per l’utenza, siano o non siano qualificabili come sciopero. Qualora si tratti di azioni qualificabili come sciopero varranno le esenzioni dal diritto comune dei contratti derivanti dall’art. 40 Cost. Al contrario, in caso di azioni estranee a tale ambito, l’esenzione non opererà e si applicheranno le regole civilistiche ordinarie in materia di inadempimento delle obbligazioni prima esaminate. L’intervento della Commissione di Garanzia non incide su questo ordine di conseguenze, nè, in caso di inadempimento della prestazione non qualificabile come sciopero, incide sul potere disciplinare del datore di lavoro.

11. Correttamente, con argomentazioni interpretative della complessiva disciplina in esame che trovano conferma nei principi sopra enunciati, i quali, attribuiscono alle stesse coerenza di sistema, la Corte d’Appello di Brescia, nella sentenza impugnata, con motivazione congrua ed esente da vizi, ha affermato che la prestazione del portalettere è commisurata sul piano della durata al tempo stimato necessario per il recapito in un determinata area territoriale,secondo criteri puramente statistici di stima della corrispondenza destinata all’area medesima. Pertanto, la stessa è suscettibile di una durata giornaliera e settimanale inferiore o superiore a quella stimata, in ragione del carico di corrispondenza da recapitare, variabile da giorno a giorno, da settimana a settimana, da mese a mese. In ragione di ciò, con l’accordo 29 luglio 2004, necessariamente vincolante per tutti i dipendenti della società, indipendentemente dalla iscrizione ai sindacati stipulanti – in quanto non contenga disposizioni sostanzialmente e globalmente peggiorative per talune categorie di essi – in quanto destinato a regolare uniformemente indivisibili interessi collettivi di tutti i lavoratori (Cass., sentenza n. del 12647 del 2004), le parti firmatarie del CCNL hanno previsto che l’orario di lavoro giornaliero possa essere di mezz’ora superiore o inferiore alle sei ore, e che, fermo restando le 36 ore settimanali, oltre le quali il lavoro diventa straordinario, la società datrice di lavoro ha il potere di chiedere, con il limite di due ore giornaliere e di dieci ore mensili, che i portalettere smaltiscano, ripartendosela, anche la corrispondenza delle aree territoriali coperte da colleghi assenti.

Del tutto congruamente e in conformità alla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, quindi, il giudice di appello ha dato rilievo alla mancata prova, da parte del lavoratore, della circostanza che la prestazione lavorativa in questione costituisse lavoro straordinario ulteriore rispetto alle 36 ore settimanali.

In ragione del suddetto percorso argomentativo, quindi, la Corte d’Appello ha ritenuto la illegittimità del rifiuto di una parte della prestazione dovuta con la conseguente legittimità della applicazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro, nell’impossibilità di scorporare dall’orario di lavoro un tempo corrispondente alla prestazione accessoria negata con riduzione della retribuzione.

Nè è condivisibile la dedotta censura relativa al non avere la Corte d’Appello tenuto conto dell’assenza di colpa del lavoratore. Ed infatti, con motivazione del tutto coerente e che non viola le disposizioni invocate dalla ricorrente, la pronuncia impugnata afferma che l’adesione allo sciopero indetto da COBAS PT non è una circostanza da cui si possa desumere l’assenza di colpa nell’inadempimento, in quanto l’adesione allo sciopero è atto volontario e l’eventuale errore circa la legittimità dell’astensione, è quanto meno ascrivibile a colpa non essendo ignote alla lavoratrice, o comunque, non potendo essere presunte tali in assenza di prova contraria, le circostanze in cui il rifiuto della prestazione in sostituzione veniva posto in essere e le conseguenze dello stesso sul piano dia della organizzazione del lavoro per la datrice sia della impossibilità di procedere a una decurtazione della retribuzione.

12. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile. Ed infatti, in ordine allo stesso non è stato formulato il quesito di diritto secondo quanto previsto dall’art. 366 bis, applicabile ratione temporis, anche con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Ed infatti, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., sentenza n. 4546 del 2009) l’art. 366-bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.

Nel primo caso, ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dicta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

13. In ragione delle argomentazioni svolte, il ricorso deve essere rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 58,00 per esborsi e Euro 2000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 31 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2011