REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –
Dott. TASSONE Stefania – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 8396/2020 R.G. proposto da:
A.A., rappresentato e difeso, in forza di procura in calce al ricorso, dagli avv.ti (Omissis) e (Omissis), elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Fabrizio Gizzi, in Roma, via Oslavia, n. 30;
– ricorrente –
contro
B.B., rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avv. Marco Valentini e domiciliato per legge presso la cancelleria della Corte Suprema di cassazione;
– controricorrente –
nonchè nei confronti di:
VERTI ASSICURAZIONI Spa in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dagli avv.ti Alessandra Vecchi e Monica Callegari, domiciliata per legge presso la cancelleria della Corte Suprema di cassazione;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 432/2020 depositata in data 31 gennaio 2020;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 maggio 2023 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Pepe Alessandro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. A.A. convenne in giudizio B.B. e la Direct Line Insurance Spa al fine di sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del sinistro nel quale era rimasto coinvolto in qualità di trasportato in data 17 agosto 2011.
All’esito della costituzione delle parti convenute, il Tribunale di Forlì rigettò la domanda.
2. La sentenza è stata impugnata dal A.A., il quale ha dedotto che, nel periodo successivo al deposito della sentenza, il computer in uso al difensore era stato “infettato da un virus “Trojan”” e, comunque, che la notifica della sentenza di primo grado doveva considerarsi inesistente.
La Corte d’appello di Bologna ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione perchè tardivamente proposta.
In particolare, ha rilevato che il difensore di B.B. aveva notificato la sentenza di primo grado alle controparti in data 31 agosto 2018 e che, trascorso il termine di cui all’art. 325 c.p.c. senza che fosse stata proposta impugnazione, il successivo 9 ottobre aveva presentato istanza alla cancelleria del Tribunale chiedendo il rilascio dell’attestazione di passaggio in giudicato della sentenza; il difensore del A.A. aveva depositato opposizione al rilascio della certificazione richiesta, proponendo in seguito istanza di rimessione in termini.
I giudici di appello hanno osservato che non poteva prendersi in considerazione, a giustificazione dell’istanza ex art. 153 c.p.c., l’asserita avaria del computer del difensore del A.A., trattandosi di circostanza che, oltre ad essere meramente assertiva, era del tutto irrilevante, in quanto il file si trovava nel server, cosicchè l’avvocato avrebbe potuto scaricarlo utilizzando altri computer o smartphone. Hanno aggiunto che il professionista, resosi conto del problema, avrebbe dovuto diligentemente provvedere ad attivare altro computer per accedere ai siti istituzionali e che l’assenza di una denuncia del reato di cui era rimasto vittima generava una carenza indiziaria che non poteva essere colmata a mezzo delle dichiarazioni a firma del tecnico informatico. Hanno, pure, ritenuto infondata la doglianza afferente il presunto difetto di autenticità della sentenza impugnata per mancanza di “coccardina” e delle relative stringhe a margine della stessa, considerato che il difensore dell’appellato aveva notificato non una semplice copia, ma un duplicato dell’originale della sentenza. Inconsistente, secondo i giudici di appello, era anche l’eccepita inesistenza della notifica, in quanto inoltrata agli indirizzi di posta elettronica certificata risultanti dai pubblici registri.
Difettando, dunque, i presupposti per la rimessione in termini, la Corte ha ritenuto l’appello tardivamente esperito oltre il termine di cui all’art. 325 c.p.c. 3. Avverso la suddetta decisione propone ricorso per cassazione A.A., sulla base di sette motivi.
B.B. e la Verti Assicurazioni Spa (già Direct Line Insurance s.p.a.) resistono con autonomi controricorsi.
4. Per la trattazione del ricorso è stata fissata l’udienza pubblica del 3 aprile 2023, che ha avuto luogo in camera di consiglio, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis,convertito, con modificazioni, in L. 18 dicembre 2020, n. 176, come successivamente prorogato dal D.L. 10 aprile 2021, n. 44, art. 6, comma 1, lett. a), n. 1), convertito con modificazioni in L. 28 maggio 2021, n. 76, nonchè dal D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7, commi 1 e 2, e dal D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, art. 8, comma 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 febbraio 2023, n. 14.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato conclusioni scritte riportate in epigrafe.
Il ricorrente e le parti controricorrenti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente deduce “Manifesta violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 ed in particolare del G.D.P.R: L. n. 5 del 2018 che impone di non lasciare sul server tutti i dati sensibili”.
Sostiene che la posta elettronica certificata degli avv. (Omissis), suoi difensori in primo grado, non avrebbe potuto essere consultata da altro computer diverso da quello di studio, in quanto, al fine di proteggere i dati sensibili, i professionisti potevano consultare le comunicazioni solo mediante l’accesso al client di posta elettronica installato su un computer di studio, ovvero connettendosi da remoto solo al computer di studio; essendo stati tutti i computer di studio, collegati ad un server centrale, infettati dal virus denominato kryptolocker già nel mese di luglio 2018, nè l’avv. (Omissis), nè l’avv. (Omissis) avevano potuto consultare la posta elettronica, essendo andate perdute tutte le comunicazioni, ivi compresa la notifica della sentenza di primo grado.
2. Con il secondo motivo, denunciando “violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.”, il ricorrente censura la decisione gravata nella parte in cui i giudici di merito hanno affermato che non poteva prendersi in considerazione l’avaria al computer del difensore ed assume che nella dichiarazione resa dal tecnico informatico si evidenziava che già in data 23 luglio 2018 il computer della segretaria C.C. era stato infettato, tanto che tutti i file ivi contenuti erano divenuti inutilizzabili, e che, nonostante i numerosi tentativi, alla data del 12 ottobre 2018 non era stato ancora possibile sbloccare i file criptati, essendo necessaria la sostituzione dell’hard disk.
3. Con il terzo motivo, rubricato: “Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e/o erronea applicazione dell’art. 153 c.p.c. e art. 11 Cost. per la sussistenza dei presupposti di rimessione in termini”, il ricorrente ribadisce che con l’atto di appello aveva ben evidenziato che si era trovato nell’impossibilità di ricevere la notifica della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione a causa del virus che aveva colpito il sistema informatico dello studio legale ed aveva allegato anche la dichiarazione del tecnico informatico, D.D., che aveva attestato una aggressione hacker risalente al 23 luglio 2018, evento che sicuramente legittimava la rimessione in termini.
4. Con il quarto motivo, deducendo “nullità ex art. 360 c.p.c., n. 4 della sentenza per mancata ammissione di una c.t.u. percipiente ex artt. 61 e ss. c.p.c.”, il ricorrente lamenta che avrebbe dovuto essere disposta una consulenza tecnica, non avendo il giudice la competenza tecnica per comprendere la natura e gravità del danno arrecato dal virus informatico.
5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce “violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non avere disposto la c.t.u. percipiente”, ribadendo che il consulente tecnico avrebbe potuto controllare i server di studio, i computer dei vari operatori e la tipologia di aggressione informatica che, nell’estate del 2018, aveva danneggiato l’intera rete di dati.
6. Con il sesto motivo, denunciando “error in procedendo et in iudicando e violazione dei principi del giusto ed equo processo ex artt. 6 e 13 della Convenzione di Roma, nonchè dell’art. 47 Carta di Nizza”, il ricorrente lamenta che la mancata ammissione della prova per testi e della c.t.u., ha comportato una lesione al “diritto alla prova”.
7. Con il settimo motivo, rubricato “riproposizione di tutti i motivi (richiamati in epigrafe) d’appello”, il ricorrente reitera tutti i motivi di gravame non esaminati dal giudice d’appello in conseguenza dell’accoglimento dell’eccezione di tardività dell’appello sollevata dalle parti appellate.
8. Il primo motivo che, al di là della erronea indicazione in rubrica, deve intendersi volto a denunciare la violazione del nuovo Codice della Privacy, introdotto dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 è inammissibile per difetto di specificità.
Con l’emanazione del D.Lgs. invocato, in vigore dal 25 maggio 2018, il legislatore italiano ha recepito le disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016, conosciuto con l’acronimo G.D.P.R. (General Data Protection Regulation), relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonchè alla libera circolazione di tali dati.
Dal testo del decreto non è dato rinvenire una disposizione che imponga il divieto di conservazione sul server dei dati personali, essendo soltanto previsto all’art. 5 che i dati personali devono essere a) trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato; b) raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità; c) adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati; d) esatti e, se necessario, aggiornati; devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; i dati personali possono essere conservati per periodi più lunghi a condizione che siano trattati esclusivamente a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, conformemente all’art. 89, paragrafo 1, fatta salva l’attuazione di misure tecniche e organizzative adeguate richieste dal presente regolamento a tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato; f) trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza dei dati personali, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali.
Ne discende che la doglianza in esame, per come illustrata, risulta generica, poichè si fonda su un presunto divieto di conservare i messaggi p.e.c. ed i relativi allegati sul server che non trova riscontro nelle diposizioni normative che si assumono violate, le quali impongono soltanto una adeguata protezione dei dati sensibili mediante l’adozione delle misure tecniche più idonee ad evitare accessi a soggetti non autorizzati a trattarli.
Peraltro, di tale questione non vi è cenno nella sentenza impugnata e, pertanto, la parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, aveva l’onere non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., sez. 6 – 1, 13/06/2018, n. 15430).
Tale onere non è stato assolto dal ricorrente, sebbene dalla sentenza impugnata non è dato evincere che la questione qui svolta fosse stata devoluta al giudice d’appello.
9. Parimenti inammissibile è il secondo motivo.
9.1. A supporto della doglianza il ricorrente assume che la violazione delle disposizioni normative evocate deriverebbe dal fatto che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che il tecnico informatico, D.D., avesse riscontrato l’impossibilità di recuperare i file divenuti inutilizzabili a causa del virus solo a seguito di una verifica effettuata in data 12 ottobre 2018, sebbene dalla dichiarazione proveniente dal tecnico emergesse, al contrario, che già in data 23 luglio 2018 il computer dello studio professionale fosse stato oggetto di aggressione da parte di un hacker e di conseguenza bloccato.
A prescindere da ogni valutazione sul contenuto della dichiarazione a firma del tecnico informatico, ritrascritta in ricorso a pag. 12, la censura non si confronta con il percorso argomentativo su cui il giudice d’appello ha fondato il proprio convincimento.
Infatti, la Corte d’appello ha chiaramente evidenziato la irrilevanza di quanto riferito dal tecnico, ponendo in rilievo che l’impossibilità addotta dal difensore a giustificazione dell’istanza di rimessione in termini si scontrava con la considerazione che “il file si trovava comunque nel server cosicchè l’avvocato poteva scaricarlo utilizzando altre macchine o smartphone, atteso che il virus attacca, come è noto, la Ram della macchina, ma non la possibilità di contattare la rete informatica generale”. In tal modo, sottolineando che l’avvocato, anche a voler ritenere che effettivamente il suo computer avesse subito una aggressione da parte di hacker, avrebbe comunque avuto la possibilità di ricorrere ad altri strumenti di accesso al fine di avere conoscenza delle notifiche inviategli a mezzo posta elettronica certificata.
9.2. Peraltro, la doglianza in esame è inammissibile, perchè non risponde ai paradigmi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. U, 30/09/2020, n. 20867) per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., essendo, a tal fine, necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, non potendosi ravvisare la violazione nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c. (Cass. sez. U, 05/08/2016, n. 16598).
D’altra parte (Cass., sez. U, 27/12/2019, n. 34474; Cass. 19/06/2014, n. 13960), la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass., sez. U, nn. 8053 e 8054 del 2014.
Nel caso di specie, le censure formulate sono palesemente finalizzate a criticare la valutazione delle risultanze istruttorie operata dai giudici di merito.
10. Il terzo motivo è infondato.
Varrà premettere, in linea generale, che le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenze n. 32725/2018 e n. 4135/2019, hanno chiarito che l’istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 153 c.p.c., comma 2, come novellato dalla L. n. 69 del 2009, opera anche con riguardo al termine per proporre impugnazione e richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perchè cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà, che presenti i caratteri dell’assolutezza e non della mera difficoltà (in senso conforme, Cass., sez. 1, 03/12/2020, n. 27726).
Al riguardo, costituisce principio consolidato quello secondo cui, in caso di tardiva proposizione dell’impugnazione, la parte non può invocare la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., quando il ritardo sia dovuto a fatto imputabile al difensore, costituendo la negligenza di quest’ultimo un evento esterno al processo, che attiene alla patologia del rapporto con il professionista rilevante solo ai fini dell’azione di responsabilità nei confronti del medesimo, senza che ciò comporti alcuna violazione dell’art. 6 CEDU, poichè l’inammissibilità dell’impugnazione, che consegue all’inosservanza del termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica (Corte EDU, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia) (Cass., sez. 1, 10/02/2021, n. 3340).
Alla stregua di tali direttive va riconosciuta la correttezza delle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, non potendo, ai fini della rimessione in termini, costituire causa di forza maggiore l’impedimento addotto dal difensore dell’odierno ricorrente.
L’allegato malfunzionamento della rete informatica dello studio professionale, addebitata dal ricorrente ad un virus informatico che avrebbe criptato tutti i dati ed impedito l’accesso all’account di posta elettronica, non consentendo di visionare la notifica della sentenza impugnata, come correttamente rilevato dai giudici di merito, anche ove dimostrato, non sarebbe in ogni caso riconducibile ad un fattore estraneo alla parte, che abbia i caratteri dell’assolutezza e che abbia causato in via esclusiva la tardività dell’impugnazione. Infatti, il file contenente la notifica della sentenza di primo grado, proveniente dal difensore della controparte, essendo conservato nel server del gestore di posta elettronica (nella specie, Microsoft Outlook) fino a quando il destinatario esterno non avesse deciso di scaricarlo o di cancellarlo, ben poteva essere consultato dal difensore del ricorrente tramite l’utilizzo di altro computer, non collegato alla rete informatica dello studio professionale.
Sotto altro profilo, si osserva pure che le denunciate disfunzioni avrebbero potuto essere evitate mediante l’installazione di antivirus, in osservanza delle prescrizioni del D.M. n. 44 del 2011, art. 20 (Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005), che – come già osservato da questa Corte – nel disciplinare i requisiti della casella PEC del soggetto abilitato esterno, impone una serie di obblighi – tra cui quello di dotare il terminale informatico di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza, nonchè di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati, oltre che a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi dal dominio giustizia (Cass., sez. 3, 23/06/2021, n. 17968; Cass., sez. 2, 08/03/2023, n. 6939; Cass., sez. 3, 15/03/2023, n. 7510).
Risulta, in ogni caso, assorbente il rilievo che la sentenza impugnata, come accertato dal giudice d’appello, era stata notificata non solo all’avv. (Omissis), ma anche all’altro difensore, con mandato disgiunto, avv. (Omissis), la quale non risulta dalla sentenza che abbia mai eccepito di non aver ricevuto o di non aver potuto prendere visione della notifica della sentenza.
11. Il quarto ed il quinto motivo, che possono essere congiuntamente esaminati perchè strettamente connessi, sono inammissibili, in quanto, a prescindere da ogni valutazione in merito alla rilevanza e decisività della c.t.u. percipiente, il ricorrente, in violazione del principio di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non ha neppure specificato in quale fase del giudizio sarebbe stata formulata la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio e, comunque, se fosse stata eventualmente reiterata nel giudizio di secondo grado.
12. Inammissibile è pure il sesto motivo per difetto di specificità.
Il ricorrente addebita genericamente alla Corte territoriale di avere violato i principi del giusto ed equo processo, nonchè l’art. 47 della Carta di Nizza, lamentando una lesione al diritto di difesa che sarebbe derivato dalla mancata escussione di testi e dalla mancata ammissione di c.t.u., ma tralascia di specificare sia le richieste istruttorie in concreto formulate, sia la fase del giudizio in cui le stesse sarebbero state avanzate, in tal modo impedendo a questa Corte di poter valutare la doglianza svolta, che risulta del tutto generica.
13. La complessiva infondatezza dei mezzi di ricorso già esaminati non può che comportare l’assorbimento del settimo motivo, con il quale il ricorrente ha riproposto tutti i motivi dedotti in sede di gravame e non esaminati dal giudice d’appello in ragione dell’accoglimento dell’eccezione di tardività dell’appello.
14. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore di B.B., delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.250,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della Verti Assicurazioni Spa delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.250,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 8 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2023