Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-10-2009) 22-10-2009, n. 40727

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAGANO Filiberto – Presidente

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. GALLO Domenico – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

avv. Putzolu Domenico del foro di Tempio Pausania nell’interesse di T.L., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in data 2 maggio 2006;

Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Dott. Domenico Gallo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Giuseppe Febbraro, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

osserva:

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15 novembre 2005, riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L. per i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di sussistenza dell’elemento oggettivo di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti, provvedendo soltanto a ridurre la pena inflitta per riportarla ad equità.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando tre motivi di gravame con i quali deduce:

1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 672 c.p e vizio della motivazione sul punto;

2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata di cui al capo b);

3) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 648 c.p e vizio della motivazione sul punto.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.

Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei presupposti di cui all’art. 572 c.p., la questione è manifestamente infondata. Non v’è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo l’insegnamento di questa Corte: “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647 del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726;

Sez. 6, Sentenza n. 21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv.

236757; nel senso che sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n. 44262 del 08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904).

Per quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo, con le quali si deducono violazione di legge e vizi della motivazione, occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle risultanze processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte di legittimità di muovere critiche, né tantomeno di operare diverse scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto dell’accertamento della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito. E’ il caso di aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell’imputato nella commissione del reato ritenuto a suo carico.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 22-05-2009) 07-09-2009, n. 19315

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. SALVATO Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.V., con domicilio eletto in Roma, Via Monte Santo n. 14 presso gli Avv.ti Sergio Falcone e Pierfrancesco Rina, rappresentato e difeso dall’Avv. RINA Vincenzo, come da procura in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 3 novembre 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 22 maggio 2009 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli;

Viste le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo e il rigetto degli altri.

Svolgimento del processo
M.V. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo iniziato avanti al Tribunale di Napoli nel settembre del 1988 e ancora pendente alla data di presentazione della domanda.

L’Amministrazione non ha svolto difese.

La causa è stata assegnata alla Camera di consiglio essendosi ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso con cui si lamenta che la Corte abbia ritenuto ragionevole una durata di quattro anni per il processo avanti al Tribunale è manifestamente fondato.

Premesso infatti che “La Corte Europea dei diritti dell’uomo, ai cui principi il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado;

da questi parametri il giudice può discostarsi riconoscendo una durata ragionevole maggiore o minore in considerazione della maggiore o minore complessità dei procedimento” (Cassazione civile, sez. 1^, 3 aprile 2008, n. 8521), non appare congrua la motivazione adottata per scostarsi dagli standard, posto che la Corte si è limitata ad accennare alla “natura” del procedimento e alla “istruttoria necessaria” senza minimamente indicare perché l’una e l’altra abbiano comportato un impegno straordinario.

Manifestamente fondato è anche il secondo motivo con cui si lamenta l’insufficiente quantificazione dell’indennizzo per il danno morale conseguente all’ingiustificata durata del processo, liquidato dal giudice del merito in Euro 500,00 in ragione d’anno.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell’indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta – a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 – all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purché in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1340); in particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 Zullo), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie, quali l’entità della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1^, 26 gennaio 2006, n. 1630). A tali principi non si è adeguata la Corte d’appello che ha liquidato un importo notevolmente inferiore senza darsi carico di motivare lo scostamento.

Il terzo motivo con cui si censura la liquidazione delle spese è assorbito, stante la necessità di procedere ad una nuova liquidazione.

Il ricorso deve dunque essere accolto e cassata la sentenza impugnata nei limiti precisati. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la causa può essere decisa nel merito e pertanto, ritenuto che non sussistano motivi per discostarsi dallo standard minimo indicato dalla Corte europea in Euro 1.000,00 in ragione d’anno e che debba tenersi conto solo del periodo di anni tredici eccedente quello ritenuto ragionevole di anni tre e non dell’intera durata del processo (Cassazione civile, sez. 1^, 14 febbraio 2008, n. 3716;

Cassazione civile, sez. 1^, 19 novembre 2007, n. 23844) pendente da sedici anni alla data della domanda, il Ministero della Giustizia deve essere condannato al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda, oltre che delle spese del giudizio di primo grado che si liquidano in complessivi Euro 1.080,00 di cui Euro 480,00 per diritti, Euro 500,00 per onorari e Euro 100,00 per spese.

Tenuto conto dell’accoglimento solo parziale, le spese del giudizio di legittimità possono essere compensata per un mezzo e poste a carico per la differenza dell’Amministrazione.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di M.V. della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda; compensa per un mezzo le spese del giudizio di legittimità e condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro 1.080,00 e del 50% delle spese di questa fase che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 900, di cui Euro 700 per onorari, il tutto oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 27-02-2009) 07-09-2009, n. 19323

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15472-2006 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71, presso lo studio dell’avvocato OCCHIPINTI MARIO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARZOLO RICCARDO, giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

BANCA MONTE dè PASCHI DI SIENA SPA – nella qualità di Concessionaria del Servizio Nazionale di Riscossione per la Provincia di Roma;

– intimata –

avverso la sentenza n. 18392/2005 del GIUDICE DI PACE di ROMA del 12.4.05, depositata il 27/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2009 dal Consigliere Relatore Dott. IPPOLISTO PARZIALE;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Fulvio UCCELLA che ha concluso visto l’art. 375 c.p.c., comma 2, per il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
C.S. impugna la sentenza 18392 del 2005 Giudice di Pace di Roma, pubblicata il 27 aprile 2005, con la quale veniva respinto il suo ricorso avverso la cartella esattoriale n. (OMISSIS) con la quale il Comune di Roma, per il tramite del relativo concessionario del servizio di riscossione, intimava il pagamento di Euro 331,09 per la iscrizione a ruolo di tre sanzioni amministrative mai portate a sua conoscenza. Le raccomandate non erano state recapitate ma erano state restituite “per compiuta giacenza”. In una delle notifiche risultava anche errato il civico o l’interno presso il quale risultava essere stata fatta la ricerca da parte dell’ufficiale notificante.

Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione, ritenendo regolari le notifiche del verbale di accertamento. In particolare osservava che in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario si era provveduto al deposito degli atti presso la casa comunale, dandosi comunicazione di tanto con raccomandata con avviso di ritorno. Tali formalità risultavano degli atti perchè la “compiuta giacenza si riferisce proprio alle raccomandate con ricevuta di ritorno”.

L’odierno ricorrente articola due motivi di ricorso. Resiste con controricorso la parte intimata.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale invia requisitoria scritta nella quale conclude con richiesta di rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Il ricorrente lamenta quanto segue.

Col primo motivo deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento all’art. 140 c.p.c.. Sostiene che la notifica ai sensi dell’art. 140 del c.p.c. si perfeziona con il compimento di tutti gli adempimenti richiesti dalla citata disposizione: deposito dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso di deposito sulla porta dell’abitazione e invio della notizia di tale deposito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso in questione dalla documentazione in atti risultavano dubbi in ordine al luogo nel quale l’ufficiale giudiziario aveva svolto attività prevista dall’art. 140 c.p.c.. La mancata affissione alla porta dell’abitazione del destinatario dell’avviso di deposito della casa comunale rendeva giustificata l’inesistenza della notifica. Inoltre, a giudizio del ricorrente, non è sufficiente il solo invio della raccomandata ma è necessario anche che l’atto di avviso dell’avvenuto deposito pervenga nell’effettiva conoscenza del destinatario.

Con il secondo motivo vengono dedotti vizi di motivazione. Il ricorso è fondato e va accolto.

Il ricorrente aveva dedotto un vizio di notifica dei verbali di infrazione al Codice della Strada, posti a fondamento della cartella esattoriale opposta. A fronte dell’eccepita mancata ricezione dei verbali in questione, il Giudice di Pace ha rilevato che dovevano ritenersi intervenute le relative notificazioni, perchè risultava inviata la raccomandata con la quale si era data notizia al notificando del deposito dell’atto presso il Comune e della tentata precedente notifica presso la sua abitazione per sua (momentanea) irreperibilità. Il Giudice di Pace ha, quindi, implicitamente concluso che ai fini della notifica dell’atto non è necessaria l’allegazione agli atti degli avvisi di ricevimento della predetta raccomandata, soltanto dai quali si sarebbe potuto rilevare l’effettiva conclusione del procedimento notificatorio.

Tale conclusione appare errata, non potendosi prescindere dalla verifica dell’esito del procedimento notificatorio (rilevabile solo dall’avviso di ricevimento) ai fini di considerare regolare (o meno) la notifica del verbale, non potendosi escludere in linea generale che l’avviso di deposito-giacenza dell’atto non sia in effetti pervenuto alla conoscenza dell’interessato, privandolo così della possibilità di tutelare i propri diritti.

A tali conclusioni è sostanzialmente giunta questa Corte, anche per effetto degli interventi della Corte costituzionale sul procedimento notificatorio, seppure con riferimento agli effetti della notifica effettuata per atti processuali, nei quali l’avviso di ricevimento, che conclude il procedimento notificatorio ex art. 140 c.p.c., è (o deve essere) nella disponibilità del notificante con le conseguenze che questa Corte ha tratto in tali situazioni (vedi per tutte Sezioni Unite 2005 n. 458 e successive).

Nel caso in questione occorre osservare che il procedimento notificatorio ha riguardo al verbale per infrazione al Codice della Strada, per le quali restano applicabili le norme processuali civili, in virtù dello specifico richiamo contenuto nell’art. 201 C.d.S., comma 1.

Ai fini, quindi, della successiva emissione della cartella esattoriale è necessario documentare la regolarità della notifica del verbale presupposto, che, se eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non può prescindere dal relativo avviso. Ove questo non risulti, come nella specie, allegato alla cartella esattoriale, in sede di opposizione, nel caso di deduzione della mancata conoscenza del relativo verbale, l’onere della relativa prova non può non far carico che all’Amministrazione nella cui disponibilità esclusiva si trova il documento in questione. Sicchè, il mancato deposito degli avvisi di ricevimento della notifica ex art. 140 c.p.c., se non giustificato, non può che determinare l’assoluta incertezza in ordine alla corretta conclusione del procedimento notificatorio con conseguente accoglimento sul punto del relativo motivo di opposizione.

Nel caso in questione, quindi, il Giudice di Pace avrebbe dovuto rilevare la nullità della notifica di verbali posti a fondamento della cartella esattoriale ed accogliere l’opposizione, posto che, in assenza di notifica valida nel termine di cui all’art. 201 C.d.S., comma 1, ai sensi del comma 5, stesso art. “l’obbligo di pagare la somma dovuta… si estingue”.

Il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato cassato.

Sussistendone i presupposti, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. questa Corte può pronunciare sul . merito, e, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta, annulla la cartella esattoriale opposta.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso, cassa senza rinvio il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta al Giudice di Pace, annulla la cartella esattoriale opposta. Condanna la parte intimata alle spese di giudizio, liquidate in complessivi 400,00 Euro per onorari Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 16/04/2009) 23/07/2009, n. 17281

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere

Dott. LANZILLO Raffaella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24155/2008 proposto da:

A.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ULPIANO 29, presso lo studio dell’avvocato ANTONETTI Marco, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BELLEI GIANNI, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 515/2007 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, SEZIONE DISTACCATA di SASSARI del 31/07/07, depositata il 13/09/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/04/2009 dal Consigliere e Relatore Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato Antonetti Marco, difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO che si riporta alla relazione scritta.

La Corte:

Svolgimento del processo
– Il giorno 18.2.2 009 è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ:

“1.- Con atto di citazione notificato il 21.4.1994 C.M. ha convenuto davanti al Tribunale di Tempio Pausania A. F., chiedendone la condanna al pagamento di L. 21.500.000, a lui promesse tramite scrittura privata (OMISSIS) per il caso di buon fine della vendita di un complesso immobiliare in località (OMISSIS).

Il convenuto è rimasto contumace e il Tribunale ha accolto la domanda, con sentenza n. 331/1999.

L’ A., premesso di avere avuto notizia del giudizio di primo grado solo con la notifica della sentenza del tribunale, avvenuta il 4.6.2004, ha proposto appello con atto notificato il 2.7.2004, deducendo la nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, per nullità della notifica.

Ha resistito l’appellato.

Con sentenza 31 luglio – 13 settembre 2007 n. 515 la Corte di appello di Cagliari ha dichiarato l’appello inammissibile perchè tardivo, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado. Ha ritenuto che la sentenza di primo grado fosse stata notificata all’ A. il 1.6.2004 e che, essendo stata richiesta la notifica dell’atto di appello il 2 luglio successivo, i trenta giorni concessi per l’impugnazione fossero stati superati.

Con atto notificato il 15.10.2008 l’ A. propone due motivi di ricorso per cassazione.

L’intimato non ha presentato difese.

2.- Con il primo motivo, deducendo violazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, in relazione agli art. 325 e 326 cod. proc. civ., il ricorrente afferma che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che la sentenza di primo grado gli fosse stata notificata il 1 giugno 2004.

In tale data gli era stata solo recapitata la comunicazione dell’avvenuto deposito presso l’ufficio postale dell’atto da notificare. L’ufficiale giudiziario infatti, recatosi una prima volta il 31 maggio 2004 presso la sua abitazione per eseguire la notifica della sentenza di primo grado con allegato atto di precetto – notifica richiesta a mezzo posta – non aveva trovato nessuno. Aveva quindi depositato l’atto presso l’ufficio postale, comunicando poi l’avviso del deposito con lettera raccomandata.

A seguito dell’avviso, egli ha ritirato il plico dall’Ufficio postale il 4 giugno successivo – entro il termine di dieci giorni dal deposito – sicchè la notifica era da ritenere perfezionata il 4 giugno e non il 1 giugno, come ha ritenuto la Corte di appello. Il ricorrente richiama a conferma la sentenza 5 marzo 1996 n. 1279 di questa Corte a sezioni unite.

3.- Il motivo è manifestamente fondato.

La notificazione a mezzo posta si perfeziona, nei confronti del destinatario, nel momento in cui il piego raccomandato viene da lui ritirato dall’ufficio postale, ovvero con il decorso dei termini previsti per la compiuta giacenza (Cass. civ. S.U. 12 giugno 1999 n. 321), fermo restando che – per quanto concerne il notificante – a seguito delle sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004 della Corte Costituzionale, la notificazione si perfeziona nel momento della presentazione della richiesta all’Ufficiale giudiziario.

4.- La sentenza impugnata deve essere cassata, in accoglimento del primo motivo, restando assorbito il secondo motivo, dedotto in subordine.

8.- Il ricorso può essere avviato alla trattazione in Camera di consiglio”.

-La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti.

– Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
Il collegio, all’esito dell’esame del ricorso, ha condiviso la soluzione e gli argomenti esposti nella relazione.

– Il primo motivo di ricorso deve essere accolto, restando assorbito il secondo, e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, affinchè decida la controversia uniformandosi al seguente principio di diritto:

“La notificazione a mezzo posta si perfeziona, nei confronti del destinatario, nel momento in cui il piego raccomandato viene da luì ritirato dall’ufficio postale, ovvero con il decorso dei termini previsti per la compiuta giacenza, fermo restando che – per quanto concerne il notificante – a seguito delle sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004 della Corte Costituzionale, la notificazione si perfeziona nel momento della presentazione della richiesta all’Ufficiale giudiziario”.

P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 16 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-06-2009) 15-07-2009, n. 16444

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – rel. Consigliere

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro p.t., e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende in base alla legge;

– ricorrenti –

contro

A.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 10/25/04, depositata il 12.11.2004.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.6.2009 dal relatore Cons. Dott. Giuseppe Vito Antonio Magno;

Udito, per i ricorrenti, l’Avvocato dello Stato Barbara Tidore;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sorrentino Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- Dati del processo.

1.1.- Con ricorso alla commissione tributaria provinciale di Napoli, il signor A.G. impugnò una cartella di pagamento dell’IVA relativa all’anno 1995, dell’importo complessivo di Euro 11.101,68 per imposta, sanzioni ed accessori, emessa a seguito di rettifica divenuta definitiva per mancata impugnazione dell’avviso, asserendo di non avere avuto conoscenza di tale avviso di rettifica, perchè notificato nelle mani di tale C.M., non avente relazioni di parentela o di affinità nè di convivenza con esso contribuente.

1.2.- La sentenza n. 26 del 2004, con cui la commissione adita aveva respinto il ricorso, impugnata dal contribuente, fu riformata, nel contraddittorio delle parti, dalla commissione tributaria regionale con la sentenza indicata in epigrafe, che, in base alla documentazione acquisita, ritenne invalida la notificazione dell’avviso di rettifica, eseguita a mani di persona non avente le enunciate relazioni di affinità e di convivenza col destinatario dell’atto.

1.3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorrono l’amministrazione finanziaria dello Stato e l’agenzia delle entrate, con unico articolato motivo, cui non resiste l’intimato contribuente.

1.4.- La causa, chiamata all’udienza del 1.12.2006 per la discussione davanti a questa suprema corte, fu rinviata a nuovo ruolo in attesa di decisione, da parte delle sezioni unite, sulla questione relativa all’influenza del vizio di notifica dell’atto presupposto sulla validità di quello successivo, impugnato. E’ stata quindi rifissata all’udienza odierna.

2.- Questioni pregiudiziali.

2.1.- Il ricorso proposto dall’amministrazione dell’economia e delle finanze deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione processuale, dal momento che essa – cui è succeduta l’agenzia delle entrate, a far data dal 1.1.2001, anteriore a quella di deposito dell’atto d’appello (17.5.2004) – deve intendersi tacitamente estromessa dal relativo giudizio, svoltosi nei soli confronti dell’agenzia delle entrate, ufficio di S.M. Capua Vetere (Cass, n. 9004/2007); senza pronunzia sulle spese, giacchè l’intimato non propone difese in questo giudizio di cassazione.

3.- Motivo del ricorso.

3.1.- L’agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata, e ne chiede la cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dell’art. 139 c.p.c., D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, e per nullità conseguente ad omessa indicazione delle ragioni di diritto della decisione (violazione dell’art. 36, n. 4, D.Lgs. cit.); in via gradata, per erronea applicazione dell’art. 139, comma 3. 3.1.1.- Sostiene che l’asserita nullità della notificazione dell’avviso di rettifica non sarebbe idonea a giustificare la dichiarata – e peraltro non motivata in diritto – nullità della cartella esattoriale, atto impugnabile solo per vizi propri; essendo determinata dalla mancata notifica dell’atto presupposto non la nullità dell’atto conseguente (cartella), bensì soltanto la possibilità d’impugnazione, unitamente ad essa, dell’atto precedente, asseritamente non notificato.

3.1.2.- In subordine, sostiene la validità – o, al limite, la mera nullità (sanabile), non l’inesistenza – della notifica eseguita a mani di persona che, pur non facendo parte della famiglia del destinatario dell’atto, si trovava nella sua abitazione, quale vicina di casa; incombendo a quest’ultimo l’onere di provare il contrario.

4.- Decisione.

4.1.- Il ricorso è infondato, per le ragioni di seguito esposte, e deve essere rigettato.

Nulla devesi disporre in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, in cui l’intimato non ha svolto difese.

5.- Motivi della decisione.

5.1.- La commissione regionale ha accertato, in base alla documentazione acquisita agli atti, che la notificazione dell’avviso di rettifica, presupposto dell’iscrizione a ruolo e della conseguente emissione della cartella esattoriale, fu eseguita a mani di persona risultata non affine (benchè indicata come nuora nella relata) nè convivente con la famiglia del notificando, perchè abitante in altro appartamento dello stesso condominio.

5.2.- Si osserva, in proposito, che la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., a persona non legata al destinatario da rapporti “di famiglia”, cioè di parentela o di affinità, nè di servizio, quale “addetta alla casa”, è da considerare nulla anche se, come nel caso di specie, tale persona sia trovata nell’abitazione del destinatario (Cass. n. 22879/2006); mentre è stata ritenuta valida la notifica nel diverso caso di non provata convivenza (che può essere presunta), quando però sussista la relazione di parentela o affinità fra il destinatario e la persona che ricevette la notifica (Cass. un. 3902/2004, 18141/2002,9658/2000, 1331/2000).

Nell’ipotesi in esame, la nullità della notifica dipende quindi dall’accentata mancanza sia della relazione di famiglia sia della convivenza.

Nullità che, ovviamente, non può ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo dell’atto, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, non essendo stato impugnato (in termini) tale atto presupposto, bensì la cartella esattoriale conseguente all’iscrizione a ruolo delle somme da esso portate.

5.3.- La censura di violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, (esposta al par. 3.1.1), è pure infondata.

5.3.1.- Come statuito dalle sezioni unite di questa suprema corte con sentenza n. 5791/2008, le cui argomentazioni sono condivise dal collegio, l’omissione della notifica di un atto presupposto – nel caso di specie, l’avviso di rettifica della dichiarazione IVA – costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato, ossia della cartella di pagamento, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata dal rispetto di una sequenza procedimentale di atti, ritualmente notificati, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del contribuente.

5.3.2.- Pertanto, è corretta la pronunzia di annullamento della cartella esattoriale, per effetto d’invalidità della notifica dell’atto presupposto; pronunzia non inficiata dalla mancanza di motivazione in diritto, dovendo a tanto sopperire (nel modo indicato al par. 5.3.1) questo giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, stante la conformità al diritto del dispositivo della sentenza impugnata (S.U. n. 28054/2008; Cass. n. 5595/2003).

6.- Dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile – Tributaria, il 18 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-06-2009) 03-07-2009, n. 15752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M. residente a (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta delega in calce al ricorso, dall’Avv. SALERNO Francesco, elettivamente domiciliato in Roma, Via Ettore Petrolini n. 2 presso lo studio dell’avv. Angela Ludovica Sirignani;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/01/2004, emessa inter partes dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 01, in data 19/10/2004 e depositata il 10 novembre 2004.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04 giugno 2 009 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Viste le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale.

Svolgimento del processo
Il contribuente impugnava in sede giurisdizionale il silenzio rifiuto opposto alla domanda di rimborso dell’Irap degli anni dal 1998 al 2000.

L’adita CTP di Milano accoglieva il ricorso, con decisione che veniva riformata dal Giudice di appello, il quale, invece, riteneva fondato il gravame dell’Agenzia Entrate, e sussistenti i presupposti impositivi.

Con ricorso notificato il 17-20 ottobre 2005, il contribuente ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’Agenzia della Entrate, giusto controricorso notificato il 22.11.2005, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, rigettato, per infondatezza.

Con istanza 23.03.2009, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Motivi della decisione
La Corte:

Visto il ricorso, come sopra notificato, con cui il contribuente censura l’impugnata decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, nonché per vizio di motivazione;

Visto il controricorso dell’Agenzia delle Entrate;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che il ricorso è a ritenersi fondato, sulla base di quanto enunciato dalla Corte di Cassazione in pregresse condivise pronunce, nelle quali è stato affermato il principio secondo cui “a norma del combinato disposto dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata; il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”. (Cass. n. 3680/2007, 3678/2007, n. 3676/2007, n. 3672/2007);

Considerato che i Giudici di appello, ritenendo che l’attività professionale svolta dal contribuente, dovesse considerarsi autonomamente organizzata, in presenza di elementi di supporto, anche minimali, affermando pure, che “solo per quei professionisti sprovvisti totalmente di propria organizzazione difetta il presupposto di applicabilità dell’Irap”, e giungendo, per tale via, a riconoscere l’esistenza dell’autonoma organizzazione, senza, per altro, indicare gli elementi indici dell’autonoma organizzazione quali desumibili dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, hanno fatto malgoverno dei principi desumibili dalle richiamate pronunce;

Considerato, infatti, che la sentenza omette di indicare, verificare e valutare, in concreto, alla stregua del ricordato principio, gli elementi indice dell’autonoma organizzazione, ed in particolare, la natura e consistenza dei beni strumentali e le spese per prestazioni di lavoro dipendente e collaborazioni coordinate e continuative;

elementi che, secondo l’assunto del ricorrente e dei Giudici di primo grado, erano insignificanti e/o inesistenti, ai fini della configurazione di una autonoma organizzazione;

Considerato, altresì, che la CTR, al riguardo sembra non essere andata oltre una apparente motivazione, e che, quindi, sussiste anche il vizio denunciato con il secondo mezzo, essendo principio consolidato quello secondo cui “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 1756/2006, n. 890/2006);

Considerato che la decisione impugnata va, quindi, cassata e, per l’effetto, la causa rinviata ad altra sezione della CTR della Lombardia, perchè proceda al riesame e, quindi, attenendosi ai richiamati principi ed al quadro normativo di riferimento, decida nel merito, ed anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
accoglie il ricorso del contribuente, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Lombardia.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 28/05/2009) 03/07/2009, n. 15718

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30596-2005 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

DELTAFRUTTA SRL in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato LUCISANO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COLOMBO LUIGI, giusta delega a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 77/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositala il 03/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/05/2009 dal Consigliere dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il resistente l’Avvocato COLOMBO, che si riporta agli scritti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e ‘Agenzia delle Entrate ricorrono nei confronti della s.r.l. Deltafrutta (che resiste con controricorso successivamente illustrato da memoria) e avverso la sentenza n. 71/26/05, depositata il 3-10-05, con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Irpef e Ilor per il 1995, la C.T.R. Lombardia, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva accolto solo parzialmente il ricorso della contribuente), accoglieva l’appello della suddetta contribuente, in particolare rilevando che la parte di costi ripresi a tassazione e non annullati dai primi giudici riguardava premi che la società era “costretta” a riconoscere ogni fine anno in base al quantitativo di merce acquistata e che i primi giudici avevano motivato il rigetto del ricorso introduttivo sul punto col rilievo che la società non era stata in grado di produrre contratti di fornitura in cui fosse prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi, senza considerare che il riconoscimento di tali premi è notoriamente una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che fare con grosse aziende ed inoltre che la società aveva “giustificato” i premi contestati con documenti quali fatture e note di accredito.

Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 nonchè difetto assoluto di motivazione, i ricorrenti rilevano che, benchè nelle controdeduzioni fosse stata eccepita l’inammissibilità dell’appello perchè notificato all’Ufficio di Milano (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate e non all’Ufficio Milano (OMISSIS) – che aveva partecipato al giudizio di primo grado ed era in ogni caso l’Ufficio competente, i giudici d’appello avevano deciso il merito senza spendere alcuna motivazione sulla suddetta eccezione.

La censura è infondata.

In particolare, non sussiste il denunciato vizio di violazione di Legge, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), secondo la quale la notifica da parte del contribuente dell’atto di impugnazione – nel caso di specie l’appello – presso un ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente, perchè diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, non comporta nè nullità nè decadenza dell’impugnazione, sia per il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi di inammissibilità, sia, infine, per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (v. Cass. n. 29465 del 2008).

La censura di difetto di motivazione è invece inammissibile.

In proposito, premesso che il difetto di motivazione denunciato, ancorchè assoluto, riguarda la sola questione in esame, e pertanto non è configurabile nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, è sufficiente rilevare che la questione dell’ammissibilità o meno di una impugnazione notificata ad un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente è questione di diritto e che, secondo in costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, quando viene denunciato un difetto di motivazione non riguardante un accertamento in fatto, bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità – investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione (manchevole o inesatta) della sentenza impugnata – è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999).

Col secondo moti vo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 917/8652, art. 75 e art. 115 c.p.c. nonchè dei principi in tema di documentazione delle spese e degli altri componenti negativi ammessi in deduzione, nonchè di fatti notori, oltre che difetto d i motivazione, i ricorrenti rilevano che la necessaria prova delle spese chieste in deduzione deve essere rigorosa e deve riguardare sia l’an che il quantum della spesa, aggiungendo che il fatto notorio comporta una deroga al principio dispositivo e va perciò inteso in senso rigoroso, come tatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non potendo ritenersi rientranti nella nozione di fatto notorio elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o la pratica di determinate situazioni e non potendo in ogni caso il fatto notorio concernere il quantum della spese, che riguarda i singoli contratti e le singole pattuizioni rimesse all’andamento del mercato, alla cd. forza di penetrazione del prodotto, nonchè alla rilevanza commerciale ed economica delle parti contrattuali.

La censura è fondata.

Giova infatti innanzitutto premettere che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora l’ufficio finanziario sostenga il carattere fittizio di determinate operazioni, può limitarsi a contestarne il compimento, gravando sul contribuente, che intenda insistere per la deducibilità dei relativi costi, di fornire la prova della loro effettiva sopportazione (v. tra le altre Cass. n. 21474 del 2004 e n. 6591 del 2008), con la conseguenza che gravava sulla contribuente l’onere di fornire la prova sia della sussistenza che del l’ammontare dei suddetti costi.

Nella specie la suddetta prova non risulta fornita, posto che, come emerge dalla sentenza impugnata, la documentazione in proposito fornita è costituita da non meglio identificate fatture e note di accredito, non certo da contratti, di fornitura in cui sia prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi ed il loro ammontare, mentre, ove anche si volesse ritenere (prescindendo da ogni altra possibile considerazione) provato per tatto notorio che il riconoscimento di tali premi è una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che tare con grosse aziende, mancherebbe in ogni caso la prova del l’ammontare dei suddetti premi.

Con riguardo alla possibilità, per il cedente del bene o il prestatore del servizio, secondo il D.P.R. n. 633 del 1972, di portare in detrazione l’imposta, ai sensi del precedente art. 19, comma 1, registrando la corrispondente variazione d’imposta quando l’operazione commerciale per la quale sia stata emessa fattura veda ridotto il suo ammontare in conseguenza, tra l’altro, di abbuoni o sconti commerciali contrattualmente previsti, a condizione che venga praticato dal contribuente uno sconto sul prezzo di vendita e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia frutto di un accordo, sia esso documentale, verbale e finanche successivo, giova evidenziare che la norma riguarda l’IVA e i cd. sconti, non i premi, come peraltro evidenziato dalla stessa giurisprudenza citata dalla contribuente nella memoria illustrativa, secondo la quale “nessun diritto a detrazione può essere riconosciuto quando nelle riduzioni operate sia ravvisabile la natura di premio di fine anno anzi che di sconto” (v. in termini Cass. n. 5006 del 2007 e v. anche Cass. n. 4770 del 2009.

Alla luce di quanto sopraesposto, il primo motivo deve essere rigettato e il secondo deve essere accolto. La sentenza impugnata devi essere cassata in relazione al motivo accolto con rinvio ad altro giudice che provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-03-2009) 02-07-2009, n. 15525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ESATRI – Esazione Tributi s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa in forza di mandato generale alle liti del 9.9.1999 n. 38925/2584 di repertorio del Notaio Stefano Zanardi di Milano e di delega a margine del ricorso dagli avvocati Bertolotti Maria e dagli avvocati Simona Napolitani e Antonio Spinoso, con domicilio eletto presso lo studio dei secondi in Roma, Viale delle Milizie n. 1;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DI ITALGRUPPI s.a.s. di Pappalardo Banino e C. e del socio accomandatario P.B. in persona del Curatore C. M., elettivamente domiciliato per il giudizio di secondo grado in Lecco, via Cavour n. 52 presso il dott. Marco Barassi.

– resistente non costituita nel presente grado del giudizio –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 42 – n. 16/42/05 pronunciata il 19 gennaio 2005, depositata il 3 febbraio 2005 e notificata il 19 maggio 2005;

udita la relazione del Consigliere Dr. Renato Polichetti;

Viste le conclusioni scritte del P.G. Dott. Ennio Attilio Sepe.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 24.09.2001 la Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso della società Italgruppi s.a.s. di Pappalardo Banino e c. fallita in persona del Curatore fallimentare, avverso gli avvisi di mora, notificati in data 26.06.2000, emessi dalla concessionaria dalla riscossione Esatri s.p.a. in materia di IVA e accessori per gli anni 1992, 1994, 1995 e 1996 per un totale di L. 682.129.637 pari ad attuali Euro 352.290,56.

Tale sentenza veniva appellata dal Curatore fallimentare, autorizzato dal giudice delegato, adducendo la nullità degli avvisi di mora non preceduti da regolare notifica delle cartelle di pagamento cui i suddetti avvisi si riferivano. La Commissione Tributaria Regionale di Milano accoglieva l’appello e per l’effetto annullava i suddetti avvisi di mora.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso innanzi a questa Corte La Esatri s.p.a. deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30 così come modificato dal D.L. 31 dicembre 1996, art. 5, comma 4, lett. B convertito nella L. n. 30 del 1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la predetta norma non prevedeva alcuna sanzione in relazione alla mancata notifica della cartella esattoriale ed essendo sufficiente la sola notifica dell’avviso di mora.

Deduceva, inoltre, la società ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la cartelle esattoriali prodromi che agli avvisi di mora impugnati erano stati effettuati presso la sede della società destinataria degli stessi; in ogni caso doveva trovare applicazione il comma 3 del suddetto articolo che, con il richiamo agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. attribuisce validità alla notifica effettuata a mani di soggetti diversi dal legale rappresentante peraltro elencati solo in modo esemplicativo.: Nel caso di specie la notifica doveva ritenersi valida anche se effettuato non a mani del legale rappresentante. Deduceva infine la società ricorrente la insufficienza e contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Commissione Tributaria Regionale avrebbe operato una erronea equiparazione tra procedimento di riscossione e procedimento esecutivo. Il primo motivo di ricorso è infondato. Come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte: “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (Sez. U, Sentenza n. 5791 del 04/03/2008 (Rv. 602254)).

Ciò vale per l’omessa notifica di avvisi di accertamento effettuati, come nel caso in esame, in epoca anteriore alla riforma introdotta dal D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 (Cass. Sezioni Unite 25.07.2007 n. 16412 Rv. 598269).

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Al riguardo deve essere rilevata la contraddittorietà di tale motivo che equipara il comma 3 del citato art. 145 c.p.c., al comma 1.

La norma in questione infatti stabilisce, al comma 1, che: “La notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.

Solo nel caso in cui la notificazione non possa essere eseguita a norma del comma precedente e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c..

Se dunque la notifica era stata effettuata ai sensi del comma 1 del suddetto articolo, come sostenuto dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la sede della società, la notifica andava eseguita ai soggetti ivi indicati e non certamente come nel caso di specie a persona qualificatasi quale “conoscente del legale rappresentante”.

Il terzo motivo di ricorso è del pari infondato alla luce della giurisprudenza citata in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-05-2009) 22-06-2009, n. 14586

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATTONE Sergio – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SCIPIONI 182, presso lo studio dell’avvocato SANSONI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOGGIO MARZET CARLO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CIME BIANCHE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SORMANO MARCO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 522/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 18/04/2007 R.G.N. 1522/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2009 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ROMANELLI GUIDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 13/18.4.2007 la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale di Biella dell’8.6.2006, impugnata dalle Cime Bianche srl, rigettava la domanda proposta da M.F. per l’annullamento del licenziamento intimatogli il 13.7.2005.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, ai fini della legittimità del licenziamento, rilevava che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, pur solo momentaneo, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui lo stesso aveva la responsabilità, e che ciò era ancor più grave se si considera che il fatto era avvenuto in orario notturno, ove presumibilmente minori erano i controlli dei superiori, senza che potesse avere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di alcun danno alla produzione o la previsione di una più lieve sanzione da parte del contratto collettivo, trattandosi di elencazione meramente esemplificativa e rilevando nella fattispecie la posizione di responsabile del reparto del dipendente.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.F. con quattro motivi. Resiste con controricorso la Cime Bianche s.r.l., illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1 in relazione agli artt. 72 e 74 del CCNL del settore tessile.

In particolare osserva che la corte piemontese, omettendo una lettura sistematica delle indicate disposizioni contrattuali, non ha considerato che, sulla base delle stesse, l’estrema sanzione del licenziamento è prevista come adeguata solo rispetto alla ipotesi di abbandono del posto di lavoro, che determini pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti:

circostanze nella specie non sussistenti, essendosi trattato del momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con permanenza del lavoratore negli stessi locali aziendali, a breve distanza dalla prima e senza alcun danno per la attività produttiva.

Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119 e 2697 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, il ricorrente si duole che la corte territoriale ha adottato la massima sanzione senza alcuna effettiva indagine circa la posizione di responsabilità del dipendente, fatta derivare da documenti inutilizzabili (in quanto relativi a procedimenti disciplinari archiviati) e senza accertare la sua riconducibilità al piano tecnico, più che a quello gerarchico. Con il terzo motivo, il ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119, 2697 e 2727 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, che la corte di merito ha connotato di particolare gravità il comportamento contestato tenendo conto dell’orario in cui l’episodio si è verificato senza, tuttavia, accertare l’effettiva assenza di controlli e l’assoluta occasionalità della presenza del direttore nello stabilimento in orario serale.

Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2106 e 2119 c.c. e art. 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio osservando che la sentenza impugnata, omettendo una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, ha mancato di vagliare la lunga durata del rapporto di lavoro, l’assenza di recidiva e il comportamento successivo stesso del datore di lavoro, il quale si era interessato per reperire al dipendente una nuova occupazione.

I motivi, per la connessione delle argomentazioni e delle problematiche, vanno esaminati congiuntamente e risultano meritevoli di accoglimento nei limiti che saranno oltre specificati.

Deve premettersi, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso (che costituisce il tema controverso essenziale della presente controversia), come la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. n. 14551/2000; Cass. n. 16260/2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sìa in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente soggettivo, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di ogni circostanza utile (in termini soggettivi ed oggettivi) ad apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale.

Solo a queste condizioni, del resto, il principio di proporzionalità risulta in grado di influire sul comportamento degli altri dipendenti senza assumere un valore di “esemplarità” disgiunto dalla misura della responsabilità del dipendente e dalla conseguente realizzazione dell’interesse aziendale in termini proporzionati alla portata della prima, garantendo in tal modo, per come si è detto, la reale eticità del rapporto.

Sulla base di tale configurazione, spetta, pertanto, al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.

In particolare merita di essere ribadito che, se la nozione di giusta causa è nozione legale ed il giudice non è vincolato alle previsioni contrattuali configuranti determinate condotte quali giusta causa di recesso, tuttavia ciò non gli impedisce di far riferimento alle valutazioni che le parti sociali abbiano fatto della gravità di determinate condotte come espressive di criteri di normalità (cfr. Cass. n. 2906/2005), con la conseguenza che il datore di lavoro non potrà in linea di principio (e cioè, in assenza di puntuali controindicazioni in punto di proporzionalità) irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (cfr. Cass. n. 19053/2005).

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. In particolare, la corte piemontese, non operando una valutazione coordinata e unitaria dei dati legalmente rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione, ha assegnato esclusivo ed autosufficiente rilievo alla posizione (peraltro non formalizzata) di responsabilità del dipendente, senza considerare, nell’ambito di un apprezzamento che doveva essere necessariamente globale e non parcellizzato, innanzi tutto le difformi previsioni della contrattazione collettiva, che, enucleate al fine di “garantire un rapporto quanto più definito tra sanzione e mancanza”, hanno tipizzato espressamente il fatto contestato prevedendo, con riferimento allo stesso, le minori sanzioni della sospensione o della multa; previsioni dalle quali la corte di merito non poteva prescindere, specie in un contesto professionale (sicuramente rilevante ai fini della prognosi circa la correttezza del futuro adempimento) caratterizzato da una durata ultraventennale del rapporto e dall’assenza di precedenti sanzioni.

A ciò si aggiunga che, nella ricostruzione dei fatti (sulla quale pure è pesato il rilievo assorbente ed autosufficiente riconosciuto alla posizione di responsabilità del dipendente), i giudici di appello hanno omesso di valutare, anche alla luce delle previsioni contrattuali, se si trattò di vero e proprio abbandono del posto di lavoro, ovvero di momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con trasferimento per un assai breve arco di tempo in locali attigui a quelli ove erano siti gli impianti (e quindi, di sospensione del lavoro), così come si è trascurato di considerare il carattere non preordinato della riunione e l’assoluta assenza di danno per la produzione (sospesa per non più di dieci minuti).

Il che implica che la corte di merito ha operato una valutazione sostanzialmente astratta della vicenda processuale, incapace di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata e la causa rimessa ad altra corte territoriale, la quale, decidendo anche in ordine alle spese, provvederà a nuovo esame da compiersi alla luce del seguente principio di diritto: “In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia”.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Genova.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 13-03-2009) 22-06-2009, n. 14528

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore – Presidente

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 30949/2005 proposto da:

V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI Gina, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

HDI ASSIC SPA, in persona del suo procuratore speciale P. M. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato ARDITI DI CASTELVETERE MICHELE, che la rappresenta e difende in forza di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

S.A., N.M., SARA ASSIC SPA, C.A., C.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4714/2005 del TRIBUNALE di ROMA, Sezione Dodicesima emessa il 04/02/05; depositata il 25/02/2005; R.G.N. 32424/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/03/2009 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- V.A., passeggera sull’autovettura Alfa 75 condotta da C.A. di proprietà di C. M. ed assicurata presso HDI Assicurazioni s.p.a., convenne in giudizio innanzi al giudice di pace N.M., S. A. e Sara s.p.a. (nelle rispettive qualità di conducente, proprietario ed assicuratrice della Lancia Prisma antagonista) chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni alla persona riportati a seguito dello scontro tra le due autovetture, che affermò essersi verificato a (OMISSIS) per colpa esclusiva del conducente della Lancia;

2.- Furono in seguito chiamati in causa i C. e HDI Assicurazioni, dei quali pure l’attrice domandò la condanna.

Nella dichiarata contumacia di S.A. (per quanto in questa sede interessa), con sentenza n. 23810/01 il giudice di pace condannò i primi convenuti ( N., S. e Sara) al risarcimento del 50% dei danni riportati dall’attrice, che propose appello, cui resistettero il S., il N. e HDI Assicurazioni s.p.a..

2.- Con sentenza n. 4714/05 il tribunale di Roma, in accoglimento delle eccezioni dei convenuti, ha dichiarato la V. decaduta dall’appello nei confronti di HDI ex art. 327 c.p.c., comma 1, e, rilevata la nullità della notificazione dell’atto di citazione in primo grado ad S.A., ha rimesso la causa al primo giudice per la rinnovazione della notificazione al medesimo della citazione introduttiva.

3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione V.A. affidandosi a due motivi, cui resiste con controricorso la sola HDI Assicurazioni s.p.a..

Motivi della decisione
1. La società controricorrente prospetta l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che il testo della procura speciale rilasciata al difensore, riportato sulla copia notificata del ricorso, non è, in tale copia, sottoscritto dalla parte che la ha rilasciata, sicchè non sarebbe possibile verificare l’effettiva anteriorità della procura rispetto al momento di proposizione del ricorso.

L’eccezione si presta ad essere considerata infondata alla stregua del principio affermato da Cass., 2.7.2007, n. 14697, secondo la quale, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per Cassazione, pur essendo necessario che il mandato al difensore sia stato rilasciato in data anteriore o coeva alla notificazione del ricorso all’intimato, non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire d’ufficio, attraverso altri elementi, purchè specifici ed univoci, alla certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto. Ed ha ritenuto sufficiente, ai fini della prova dell’anteriorità della procura, l’apposizione della stessa a margine dell’originale dell’atto.

La controcorrente sembra addirittura ipotizzare che colui che rilascia la procura debba apporre, in calce alla stessa, due sottoscrizioni: una sull’originale ed una sulla copia notificata del ricorso. Ma a tanto osta il rilievo che la legge (art. 137 cod. proc. civ., comma 2) impone la notificazione di una “copia” dell’atto (esso solo da sottoscrivere anche dal difensore ex art. 125 cod. proc. civ., comma 1), sicchè l’eccezione si presta ad essere ritenuta infondata alla stregua del principio sopra esposto, in linea con la regola generale – che ormai decisamente connota le decisioni di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass., n. 25727 del 2008) in materia processuale – secondo la quale le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale e in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte, dovendosi escludere che l’ordinamento imponga nullità non collegabili con la tutela di alcun ragionevole interesse processuale delle stesse (art. 156 c.p.c., comma 3).

2.- Col primo motivo di ricorso sono denunciate violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 160 c.p.c., nonchè della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, in relazione alla ritenuta nullità della notificazione dell’atto di citazione di primo grado ad S. A., ravvisata dal tribunale in quanto “l’atto di citazione risulta inviato a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.) presso il domicilio di Vico 2 S. Nicola alla Dogana 15 Napoli (dove peraltro l’atto d’appello è stato regolarmente notificato) e ritirato in data 21.3.2000, non risultando tuttavia nell’avviso di ricevimento alcuna menzione circa la persona (e qualità della stessa) cui il piego veniva consegnato. Di qui l’impossibilità, essendo il S. rimasto contumace in primo grado, di vetrificare la ritualità o meno della notifica ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, con riferimento all’art. 149 c.p.c.”.

Vi si afferma che l’avviso di ricevimento indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, nello spazio riservato al “destinatario o persona delegata” e che Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, ha affermato che la circostanza comporta necessariamente attestazione, facente prova fino a querela di falso, che l’atto è stato consegnato a persona coincidente col destinatario della notificazione; attestazione non superabile dal mero diniego della ricezione dell’atto.

2.1.- Col secondo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 331 c.p.c., per avere il tribunale dichiarato V.A. decaduta dall’appello nei confronti di HDI assicurazioni s.p.a. nell’assunto che, essendo stata la notificazione dell’appello effettuata nel domicilio reale anzichè in quello eletto presso il difensore, la costituzione in appello della HDI avvenuta oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., al solo scopo di eccepire l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado non avesse sanato la nullità, “non ricorrendo l’ipotesi dell’art. 331 c.p.c.”.

Ipotesi che invece ricorreva, vertendosi tra l’altro in un caso di gravame avverso sentenza emessa in causa promossa con azione diretta nei confronti dell’assicuratore per la responsabilità civile ex L. n. 990 del 1969, che contempla un caso di litisconsorzio necessario tra l’assicuratore ed il proprietario del veicolo.

3.- Lo scrutinio del primo motivo, potenzialmente assorbente, induce al rilievo che la sopra citata Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, in fattispecie nella quale era stata eccepita la nullità del procedimento per l’omessa notificazione dell’avviso di discussione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, ha testualmente affermato:

“risulta che la convocazione per l’udienza di discussione è stata notificata alla ricorrente a mezzo del servizio postale e che l’avviso di ricevimento, depositato in atti, indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, ciò comporta l’attestazione, facente prova fino a querela di falso (Cass. 1 marzo 2003, n. 3065), che l’atto è stato consegnato a persona coincidente con il destinatario della notificazione, (indicato come …), e tale attestazione non può essere superata dal mero diniego della ricezione dell’atto”.

L’inequivoco corollario di tale enunciazione – non supportata da motivazione ulteriore rispetto a quella sopra riportata – sarebbe l’enunciazione, nel caso di specie, di un principio del seguente contenuto: “se dall’avviso di ricevimento della notificazione effettuata ex art. 149 c.p.c., a mezzo del servizio postale non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, deve ritenersi che la sottoscrizione illeggibile apposta nello spazio riservato alla firma del ricevente sia stata vergata dallo stesso destinatario, con la conseguenza che la notificazione è valida, non risultando integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 cod. proc. civ.”. Alla stregua di tale principio, la censura dovrebbe essere accolta e la sentenza cassata, in quanto dovrebbe concludersi nel senso che il tribunale abbia errato nel ritenere nulla una notificazione invece regolare.

Senonchè il collegio ritiene che a giustificare tale conclusione possa non rivelarsi sufficiente il rilievo che la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 4, preveda che “quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere seguita …dalla qualità rivestita dal consegnatario” e che, dunque, possa ritenersi a contrario che l’indicazione della qualità non è necessaria quando il ricevente sia il destinatario medesimo; con la conseguenza che, se nulla sia scritto di seguito alla firma, deve aversi per certo che ricevente e destinatario coincidano, appunto fino a querela di falso.

Il modello dell’avviso di ricevimento, che non consta essere stato predisposto dall’amministrazione in difformità dalla normativa che lo contempla, prevede invero ben 10 ipotesi di “ricevente”, con altrettante caselle destinate ad essere barrate dall’agente postale che effettua la consegna: tra tali ipotesi (e tra tali caselle) le prime due concernono proprio il destinatario (persona fisica o giuridica); sicchè, tutte le volte che il modulo risulti compiutamente compilato dall’agente postale, è comunque rivelata la qualità rivestita dal consegnatario, quand’anche egli sia lo stesso destinatario.

Nella specie, nessuna delle caselle risulta barrata.

La soluzione della questione sembra di determinante rilievo, attenendo alla instaurazione del contraddittorio. Appare dunque opportuno disporre che gli atti siano trasmessi al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE dispone la trasmissione degli atti al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 18-03-2009) 19-06-2009, n. 14466

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Presidente

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12061-2008 proposto da:

D.R.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI GINA, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA;

SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO ALESSANDRO, PULLI CLEMENTINA, VALENTE NICOLA, giusta mandato in calce del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1272/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/05/2007 R.G.N. 860/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/03/2009 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;

udito l’Avvocato PULLI CLEMENTINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1272 depositata il 7 maggio 2007, ha rigettato l’appello proposto da D.R.E., quale erede di B.M., avverso la sentenza 1884/05 del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato inammissibile per difetto di valida procura la domanda intesa ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento di interessi e rivalutazione sui ratei di pensione corrisposti in ritardo.

La Corte di Appello ha ritenuto nulla la procura alle liti all’avv. Gina Tralicci perchè rilasciata all’estero ed autenticata dal difensore italiano, mentre avrebbe dovuto essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato Estero ad attribuirle pubblica fede.

Per la cassazione di tale sentenza la sig.ra D.R. ha proposto ricorso con un motivo. L’INPS resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia violazione degli art. 83 c.p.c. e art. 2693 c.c. e si sostiene che quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica devono presumersi avvenuti in Italia. Grava di conseguenza sulla parte che eccepisce che la procura non è stata conferita in Italia l’onere di provare tale fatto.

Il ricorso è fondato.

La Corte di Appello, ha correttamente richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui la procura alle liti rilasciata all’estero non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, ma deve essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato estero (Cass. n. 8867/2003, n. 6776/2004); tuttavia, quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica della sottoscrizione devono presumersi avvenuti nel territorio dello Stato, anche quando il mandante risieda all’estero, in difetto di prova contraria da parte di chi ne contesti la validità (Cass. n. 10485/2002, n. 5840/2007).

Di tali principi, però, la Corte territoriale non ha poi fatto corretta applicazione ritenendo nullo il mandato alle liti sul rilievo che “la procura, e l’atto in cui è contenuta, non contengono alcuna indicazione del luogo ove essa sia stata rilasciata, mentre la D.R. è indicata risiedere stabilmente in (OMISSIS)” e valorizzando la circostanza che la ricorrente non si è presentata a rendere l’interrogatorio di cui agli artt. 420 e 442 c.p.c..

La mancata indicazione nell’atto del luogo in cui la procura alle liti è stata rilasciata, e la firma del mandante autenticata, non costituisce, infatti, circostanza idonea a superare la presunzione di rilascio nel territorio dello Stato, atteso che l’art. 83 c.p.c. non richiede che il difensore, nel certificare l’autenticità della sottoscrizione, indichi anche il luogo in cui tale autenticazione è avvenuta, da presumersi fatta nella circoscrizione giudiziaria al cui Albo il professionista è iscritto.

La mancata presentazione della ricorrente all’udienza per rendere F interrogatorio libero di cui all’art. 420 c.p.c., inoltre, è circostanza che può essere valutata dal giudice ai fini del giudizio di fondatezza o meno della domanda, ma che non influisce certo sulla validità della procura alle liti, non potendo da tale circostanza desumersi che il mandato sia stato rilasciato all’estero.

In mancanza di prova contraria da parte dell’Istituto previdenziale, che ne ha contestata la validità, il giudice di appello non poteva dunque ritenere nulla la procura alle liti rilasciata dalla ricorrente.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio della causa per un nuovo esame alla stessa Corte di Appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-05-2009) 11-06-2009, n. 13510

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 29/2002 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 21/05/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2009 dal Consigliere Dott. MARIO BERTUZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI MASSIMO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
S.M. propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di Roma per l’annullamento della cartella esattoriale che gli intimava il pagamento di una somma a titolo di irpef ed ilor per l’anno 1982, assumendo la nullità dell’atto opposto per non essergli mai stato notificato il presupposto avviso di accertamento di contestazione del maggior reddito.

Il giudice di primo grado respinse il ricorso ma, in sede di gravame, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 29/08/02 del 21.5.2002, riformò la decisione impugnata, ritenendo la cartella illegittima in quanto il pregresso avviso di accertamento era stato invalidamente notificato in data 30.11.1988 presso l’abitazione di (OMISSIS) e ricevuto da persona qualificatasi moglie convivente, mentre dalla documentazione prodotta risultava che il contribuente si era già trasferito, dal (OMISSIS) e non era altresì più convivente con la moglie essendosi separato in data (OMISSIS).

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 7.7.2003, ricorrono, sulla base di un unico motivo, il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate. S.M. non si è costituito.

Motivi della decisione
L’unico motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 139 cod. proc. civ. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto nulla la notificazione dell’avviso di accertamento, senza considerare che essa era stata ricevuta da persona qualificatasi convivente con il destinatario ed era stata effettuata presso l’indirizzo del contribuente risultante dalla sua dichiarazione annuale, dando per contro rilievo alla variazione anagrafica della residenza pur in mancanza della prova che essa fosse srata comunicata all’Ufficio procedente dal Comune interessato.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha dichiarato illegittima la cartella di pagamento impugnata in ragione della ritenuta nullità della notifica dell’avviso di accertamento, rilevando che la stessa, sulla base della documentazione offerta dal ricorrente, era stata eseguita presso il suo vecchio indirizzo e quindi ricevuta da persona che non risultava, all’epoca, più convivente.

La valutazione così effettuata dal giudice di merito – incensurabile in sede di legittimità in ordine all’accertamento delle circostanze di fatto da cui essa muove – appare pienamente rispondente al dettato normativo. Con riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, atteso che esso prescrive che a notificazione degli avvisi deve essere eseguita presso il domicilio fiscale del contribuente, ma stabilisce, nel contempo, che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dall’avvenuta variazione anagrafica (comma 3). In particolare, tale lettura della norma si impone a seguito della sua declaratoria di illegittimità operata dalla sentenza n. 360 del 2003 della Corte costituzionale, che ha espunto l’inciso che condizionava l’efficacia della variazione al decorso del termine di 60 giorni (Cass. n. 26542 del 2008). L’interpretazione di tale disposizione patrocinata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui la variazione dell’indirizzo avrebbe efficacia trascorsi 60 giorni nemmeno dalla variazione anagrafica, quanto dalla successiva comunicazione della stessa da parte del comune all’Ufficio medesimo, appare pertanto del tutto insostenibile alla luce del sopravvenuto (rispetto alla data di proposizione del ricorso) arresto del giudice delle leggi.

Nè può essere condivisa la tesi dell’Amministrazione che, lamentando la violazione dell’art. 139 cod. proc. civ. assume la validità della notifica in discorso per essere stato comunque l’atto ricevuto da persona (il coniuge) qualificatasi convivente. Da tale dichiarazione non può invero trarsi altro che una mera presunzione relativa di convivenza (Cass. n. 1508 del 2005; Cass. n. 4590 del 2000), presunzione, a sua volta, superabile dall’interessato mediante prova contraria, prova che, nella specie, il giudice a quo, con accertamento di fatto non censurabile se non sotto il profilo – qui non sollevato – del difetto di detta motivazione, ha ritenuto assolta in forza della documentazione da cui risultava sia il precedente cambio di indirizzo della residenza anagrafica del contribuente rispetto al luogo in cui era stata eseguita la notificazione, che l’intervenuta separazione personale con il coniuge che aveva ricevuto la notifica.

Il ricorso va pertanto respinto.

Nulla si dispone sulle spese di giudizio, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2009


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 09-06-2009) 24-07-2009, n. 17352

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. SENESE Salvatore – Presidente di sezione

Dott. ELEFANTE Antonio – Presidente di sezione

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. ODDO Massimo – Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14639-2008 proposto da:

COMPAGNIA ELETTRICA ITALIANA S.R.L. (già LIRI ENERGIA S.R.L.) ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. Q. VISCONTI 99, presso lo studio degli avvocati CONTE ERNESTO, CONTE MICHELE, CONTE GIOVANNI BATTISTA, che la rappresentano e difendono, per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI SORA ((OMISSIS)), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato VENCHI ANNA MARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato MAZZENGA DONATO, per procura in calce al controricorso;

CONSORZIO DI BONIFICA N. (OMISSIS) CONCA DI SORA ((OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 9, presso lo studio degli avvocati GUZZO ARCANGELO, MARTINO CLAUDIO, che lo rappresentano e difendono, per procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 90/2007 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 05/06/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2009 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

uditi gli avvocati Ernesto CONTE, Arcangelo GUZZO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’inammissibilità dei primi due motivi, accoglimento del terzo e quarto.

Svolgimento del processo
La Compagnia Elettrica Italiana s.r.l., società incorporante la s.r.l. Liri Energia, titolare di concessioni di derivazione d’acque per l’esercizio di tre centrali idroelettriche (denominate (OMISSIS)), propone ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP), con cui è stato definito l’appello proposto dalla Soc. Liri Energia avverso la sentenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche (TRAP) di Roma, depositata il 10.1.2005, che aveva rigettato la domanda proposta dalla medesima società per ottenere la dichiarazione della illegittimità dalle sottensioni di acqua effettuate dai convenuti Consorzio di Bonifica della Conca di Sora e Comune di Sora dalle sorgenti e dal corso del fiume (OMISSIS), affluente del (OMISSIS), e per il risarcimento del danno o l’attribuzione di un indennizzo in caso di legittimità delle derivazioni.

L’appello è stato dichiarato inammissibile nei confronti del Consorzio di Bonifica ed infondato nei confronti del Comune di Sora.

Infatti il TSAP, premesso che si era in presenza di cause scindibili, ha ritenuto che l’atto di appello era stato notificato, in data 1.3.2006, al Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) Conca di Sora oltre un anno e quarantasei giorni dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado e quindi (pur tenuta presente la sospensione feriale dei termini) oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., applicabile anche al procedimento speciale.

Nel merito il TSAP ha rilevato che il Comune di Sora, nel complesso sorgentizio del fiume (OMISSIS), attingeva acqua da quattro pozzi, di cui due realizzati nel (OMISSIS), con capacità complessiva di 30 litri al secondo, e gli altri due, costruiti nel (OMISSIS), con capacità complessiva di 50 litri al secondo.

Il primo di detti attingimenti doveva ritenersi legittimo. Il TRAP di Roma aveva correttamente presunto la legittimità del prelievo di 30 litri/secondo dai due pozzi costruiti a fine ‘800, per antico uso, ritenuto anteriore al 1884 in riferimento a quanto previsto dal R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 2, T.U. acque. Infatti la costruzione di pozzi nel 1892 dimostrava la presenza già a tale data un uso di acque dall’ente locale, e questa circostanza poteva far presumere utilizzazioni anteriori con diritto acquisito all’attingimento, solo da riconoscersi con atto dichiarativo e non costitutivo (concessione). Osservava anche che in senso favorevole alla presunzione di legittimità di tale utilizzazione dei pozzi poteva richiamarsi il R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 248 prevedente, all’art. 248, che “ogni comune deve essere fornito per uso potabile di acqua pura e di buona qualità”; la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 2, comma 1, – norma abrogata dall’art. 175, lett. u), del codice dell’ambiente (D.Lgs. 30 aprile 2006, n. 152) – che successivamente aveva previsto la priorità dell’uso dell’acqua per il consumo umano, con un principio confermato dall’art. 96, comma 3, del richiamato codice dell’ambiente, che consente l’assentimento di uso delle risorse idriche diverso da quello potabile solo in presenza di adeguate disponibilità delle predette risorse per uso umano.

Sottolineava anche che il favore legislativo per la provvista di risorse di acqua potabile a favore degli enti locali (e ora degli enti acquedottistici) è particolarmente richiamabile quando si è in presenza come nella specie, di prelievi che rientrano nei piani acquedottistici regionali, legalmente approvati dalla stessa autorità che provvede alle concessioni.

Quanto all’attingimento dagli altri due, più recenti pozzi, di cui il giudice di primo grado aveva accertato la non legittimità, il TSAP non ha ritenuto fondate le critiche alla ritenuta mancanza di prova del danno riferibile alla centrale (OMISSIS), la sola che attingeva dal (OMISSIS). Ha ricordato al riguardo che il c.t.u. aveva stimato una perdita complessiva annua di produzione elettrica imputabile a tutte le sottensioni in questione in 112.215 KWh e che di essa solo circa il 62% poteva ritenersi imputabile agli attingimenti effettivamente illeciti, per complessivi 1.585.935 KWh per i dodici anni dal (OMISSIS) oggetto della domanda. Tale quantitativo – ha osservato il TSAP, così come quello annuale, risultava assolutamente esiguo rispetto alle potenzialità produttive delle centrali, e, tenendo anche presente che il concreto esercizio di queste ultime era caratterizzato dal mancato sfruttamento di gran parte delle loro potenzialità rilevate dall’U.T.I.F, (da due terzi alla metà, cioè da circa 42 a 22 milioni di KWh) – mancato sfruttamento riconducibile chiaramente a scelte programmatiche di politica industriale – risultava impossibile stabilire se alla effettiva perdita produttiva concorrevano casualmente anche gli attingimenti illeciti dai pozzi in questione. Ha rilevato anche che la mancata registrazione, e quindi la mancata prova, delle portate effettivamente derivate dagli impianti produttivi, e delle quantità di energia prodotte, non consentiva la verifica dell’incidenza della derivazione operata dal Comune.

Ai quattro motivi di ricorso, di cui i primi due relativi alla posizione del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) Conca di Sora e gli altri due alla posizione del Comune di Sora, questi due enti resistono con separati controricorsi, memorie da parte della ricorrente e del consorzio di bonifica.

Motivi della decisione
1. I primi due motivi si riferiscono alla pronuncia nei confronti del Consorzio di bonifica.

1.1. Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 327 e 330 c.p.c. e del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82. La ricorrente deduce che la notifica dell’atto di appello al Consorzio di bonifica era stata eseguita, entro il termine lungo, presso il domicilio eletto nel processo di primo grado, come risultante dalla relativa comparsa di costituzione del 16.10.1997 nonché dall’intestazione della sentenza di primo grado; che tale domicilio al momento della notificazione era risultato trasferito altrove, di modo che la notifica non si era perfezionata; che si trattava di un caso di mutamento del domicilio eletto presso un luogo diverso dal domicilio del difensore (in quanto il difensore avv. Loreto Antonucci era domiciliato in Roma presso lo studio dell’avv. Bruno Bonanni) e che pertanto tale mutamento avrebbe dovuto essere comunicato alle altre parti del processo. Tenuto anche presente che ai sensi del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 154 “sono sempre valide ad ogni effetto le notificazioni degli atti (…) fatte al procuratore o avvocato legalmente costituito”, si sostiene che la notifica avvenuta nel luogo dove si era trasferito lo studio Bonanni (rinvenuto dopo le opportune ricerche), doveva considerarsi efficace, anche se effettuata dopo il decorso del termine lungo di impugnazione, in applicazione del principio secondo cui in simili circostanze la notifica effettuata presso domicilio indicato impedisce la decadenza (anche se non andata a buon fine).

1.2. Il secondo motivo, deducendo il vizio di omessa motivazione, lamenta il mancato esame delle circostanze specifiche già dedotte nel giudizio di appello in merito alla tempestività della notificazione dell’impugnazione al Consorzio di bonifica.

2. Il ricorso è fondato nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora.

Al riguardo rileva il solo primo motivo poiché in sostanza si fanno valere violazioni di norme sul procedimento e la Cassazione in tal caso ha cognizione diretta anche riguardo all’accertamento del fatto, con la conseguenza che non sono di per sè rilevanti eventuali vizi di motivazione della sentenza impugnata.

3. Dagli atti si evince che in primo grado, davanti al Tribunale regionale delle acque pubbliche con sede presso la Corte d’appello di Roma, il Consorzio di bonifica era rappresentato e difeso dall’avv. Loreto Antonucci, il quale, avendo come è pacifico, il suo domicilio professionale in Sora, aveva eletto domicilio in Roma, unitamente alla parte rappresentata, in via dei Gracchi n. 278, presso lo studio dell’avv. Bruno Bonanni, cioè in sostanza presso quest’ultimo (che nella specie l’elezione di domicilio riguardasse anche il difensore della parte e non solo la parte personalmente risulta implicitamente dal tenore dell’intestazione della comparsa di costituzione, firmata naturalmente dall’avv. Antonucci, prevedente – in conformità a quanto previsto anche nella procura in calce al ricorso avversario – l’elezione di domicilio della parte presso il suo stesso difensore in Roma in via dei Gracchi n. 278 c/o lo studio dell’avv. Bruno Bonanni).

La notifica del ricorso in appello davanti al TSAP venne chiesta il 22.2.2006 e il giorno seguente l’ufficiale giudiziario diede atto della mancata notifica a causa del trasferimento altrove dell’avv. Bonanni. Chiesta il giorno 1.3.2006 la notifica presso il nuovo domicilio dell’avv. Bonanni, nello stesso giorno essa fu eseguita.

Tenuta presente la data di deposito della sentenza impugnata (10.1.2005), il termine lungo andava a scadere il 24.2.2006, sicché l’impugnazione sarebbe tempestiva dando rilievo alla data del 22.2.2006 di originaria richiesta della notificazione, mentre sarebbe tardiva se si desse rilievo alla data di richiesta di notificazione al nuovo indirizzo.

4.1. Negli ultimi anni, come è noto, con riferimento alle notificazioni degli atti processuali e al rispetto dei termini perentori entro cui in numerosi casi le medesime devono essere eseguite, si è dato luogo, nella giurisprudenza di questa Corte, ad interpretazioni dirette a salvaguardare la posizione delle parti che senza loro responsabilità non abbiano conseguito un tempestivo perfezionamento della notificazione. Dopo che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 477/2002 (che si era posta in linea con i principi precedentemente enunciati a proposito delle notificazioni a soggetti residenti all’estero) e del pronto adeguamento della giurisprudenza di questa Corte ai principi ispiratori della giurisprudenza costituzionale (dalla medesima ulteriormente ribaditi con varie pronunce), si era affermato il principio che sia nelle notificazioni a mezzo posta che nelle notificazioni ordinarie l’effetto della notificazione si compie per il notificante, cui sia richiesto il rispetto di determinati termini, fin dalla data della richiesta della notificazione, anche se subordinatamente al successivo perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario, Cass. Sez. Un. n. 10216/2006, in riferimento a un caso in cui la notificazione di un’opposizione a decreto ingiuntivo non si era perfezionata per ragioni non coinvolgenti la responsabilità dell’istante (l’ufficiale giudiziario aveva omesso la notifica dando peso all’errata informazione resa da un terzo circa il trasferimento del destinatario), osservarono che gli stessi principi alla base di tale scissione dei momenti di compimento della notificazione giustificavano una interpretazione costituzionalmente orientata anche nell’ipotesi di incolpevole mancato esito della procedura notificatoria. Si doveva quindi ritenere – ammessa in tal caso una rinnovazione del procedimento notificatorio effettuata con rispetto di un termine che nella specie doveva essere desunto dalla disciplina dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo.

Si sono ricollegate a tale precedente delle Sezioni unite Cass. n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008, le quali in relazione appunto ad ipotesi in cui la notificazione non si era perfezionata per ragioni non implicanti la responsabilità del notificante, hanno ritenuto, in linea con la giurisprudenza sulla scissione dei tempi di perfezionamento della notificazione e nel quadro dei principi desumibili dagli artt. 3 e 24 Cost. e della esigenza di un contemperamento degli interessi delle parti coinvolte, che anche in simili evenienze la notificazione debba ritenersi perfezionata per il notificante alla data della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, qualora la parte, una volta conosciuto il motivo dell’esito negativo della notificazione per causa indipendente dalla sua volontà, abbia operato ai fini di una ripresa in un tempo ragionevole del procedimento notificatorio. Le prime due citate sentenze hanno anche rilevato che l’ipotesi della notificazione dell’atto di impugnazione non era suscettibile di essere ricondotta alle previsioni normative di rimessione in termini o a disposizioni specifiche come l’art. 650 c.p.c.. Si può anche richiamare Cass. n. 7018/2004 che, in relazione a ipotesi analoga relativa alla notificazione del controricorso, aveva già in precedenza ritenuto idonea una notificazione rinnovata, senza tuttavia prevedere l’esigenza di un particolare vincolo di tempestività per la ripresa della procedura notificatoria.

4.2. Da ultimo Cass. Sez. un. n. 3818/2009, nel quadro della adesione agli orientamenti interpretativi secondo cui, nel caso in cui il procedimento di notificazione di un atto di impugnazione non abbia potuto concludersi non per colpa della parte interessata, deve ammettersi, in ossequio dei principi di uguaglianza e di tutela del diritto di difesa di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e della giurisprudenza costituzionale prima richiamata, la riattivabilità del procedimento notificatorio, ha specificamene esaminato la questione relativa alla imputabilità o meno allo stesso istante del mancato perfezionamento della notificazione dell’atto di impugnazione nel caso in cui la parte abbia indicato, per l’esecuzione della notificazione, un indirizzo del procuratore costituito della controparte nel precedente grado di giudizio (o del procuratore domiciliatario), esercente nello stesso circondario a cui sia professionalmente assegnato, diverso da quello effettivo e regolarmente risultante dall’albo professionale. A tale questione le Sezioni unite hanno dato la risposta rigorosa, secondo cui, nel caso di difensore svolgente le sue funzioni nello stesso circondario del tribunale a cui egli sia professionalmente assegnato, è onere della parte interessata ad eseguire la notifica accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio professionale del difensore, con la conseguenza che non può ritenersi giustificata l’indicazione nella richiesta di notificazione di un indirizzo diverso, ancorché eventualmente corrispondente a indicazione fornita dal medesimo difensore nel giudizio non seguita dalla comunicazione nell’ambito del giudizio stesso del successivo mutamento.

4.3. Ma questa specifica valutazione interpretativa non rileva nella specie, dato che la stessa sentenza delle Sezioni unite ora in considerazione ha evidenziato come nel diverso caso di procuratore svolgente le sue funzioni processuali in un circondario diverso da quello di assegnazione, sono le norme professionali (del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 83) a prevedere l’obbligo del medesimo di eleggere un domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso cui il giudizio è in corso e quindi anche di comunicarne i mutamenti (cfr., nell’analogo senso che sussiste l’onere della comunicazione del cambio di indirizzo nell’ipotesi di domicilio “eletto autonomamente”, Cass. n. 19477/2007 e 17086/2008). Nella specie indubbiamente il mutamento vi è stato ed è incontestato che al riguardo nessuna comunicazione era stata fornita. Né può ipotizzarsi che sussistesse un onere di informazione da parte della attuale ricorrente in considerazione della circostanza che il domiciliatario del difensore era a sua volta un avvocato. Infatti, a parte anche il fatto che non è stato dedotto che si trattasse di un avvocato legalmente esercente in Roma, in ogni caso, almeno nei confronti delle controparti, non poteva spiegare alcuna rilevanza una circostanza del genere, in quanto l’elezione di domicilio nel luogo sede dell’ufficio giudiziario può essere compiuta presso qualsiasi soggetto, di cui non assume rilievo l’eventuale qualità professionale.

Nella specie deve quindi considerarsi non imputabile a responsabilità del notificante, ma della controparte, l’iniziale mancato perfezionamento della notificazione.

4.4. Conseguentemente, in adesione agli orientamenti giurisprudenziali in materia e alle relative motivazioni, precedentemente richiamati, nella specie deve ritenersi giustificata una ripresa, o rinnovazione, del procedimento notificatorio, in occasione del quale ci si ricolleghi alla iniziale data di instaurazione del medesimo ai fini del rispetto del termine di decadenza per la proposizione dell’impugnazione.

4.5. E’ opportuno però esaminare se può considerarsi rituale il fatto che la stessa parte notificante di sua iniziativa abbia promosso la ripresa del procedimento notificatorio, chiedendo all’ufficiale giudiziario la notifica al nuovo indirizzo. Infatti la già esaminata sentenza delle Sezioni unite n. 3818/2009 ha ritenuto invece – sia pure in quello che potrebbe essere qualificato come un mero obiter dictum, poichè la decisione è basata sul rilievo che nella specie l’iniziale insuccesso della notificazione era imputabile alla mancata previa individuazione del domicilio professionale del difensore della controparte – che, essendo la riattivazione della notificazione subordinata al perfezionamento dell’impugnazione per il notificante, la stessa debba essere promossa mediante istanza del giudice ad quem di fissazione di un termine perentorio per il completamento della notifica, da depositare, unitamente alla relativa documentazione, nel termine stabilito per la costituzione della parte nel caso di regolare instaurazione del contraddittorio. Nel caso poi, in cui risulterebbe la violazione dei termini di comparizione a favore della controparte, dovrebbe chiedersi un termine perentorio, a norma dell’art. 164 c.p.c., per la rinnovazione dell’impugnazione.

4.6. Al riguardo si ritiene che debba darsi continuità all’orientamento interpretativo di cui a Cass. Sez. Un. n. 10216/2006 e alle sentenze delle sezioni semplici n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008, secondo cui, in caso di interruzione del procedimento notificatorio per ragioni non imputabili all’istante, quest’ultimo ha la facoltà di chiederne la riattivazione al fine di giovarsi, ove concorrano determinati requisiti di tempestività, della data della iniziale richiesta di notificazione, nel quadro della scissione dei momenti di realizzazione della notificazione per il notificante e il destinatario, ai fini del rispetto di termini perentori da parte del primo.

Questa soluzione, innanzitutto, è congrua con la stessa natura dello strumento giuridico a cui si fa riferimento per giustificare la retrodatazione relativa degli effetti della notificazione. In altri termini, se si fa riferimento alla scissione (a taluni fini) degli effetti della notificazione nei confronti dell’istante e del destinatario, valorizzando, rispettivamente, la data iniziale e quella di perfezionamento del procedimento, è logico che debbano essere salvaguardate – almeno per quanto possibile – la continuità e la speditezza del procedimento stesso, ed è chiaro che, invece, tale esigenza sarebbe contraddetta dalla necessità del ricorso al giudice.

Il fatto, poi, che nel corso del procedimento di notificazione insorgano difficoltà, esigenze di ulteriori indagini circa i luoghi in cui il destinatario ha la residenza, il domicilio o la dimora, ecc, è un’evenienza ricorrente e direttamente o indirettamente prevista dalle disposizioni di legge, e lo stesso ufficiale giudiziario può, e dovrebbe, assumere iniziative al riguardo come rilevato dalla giurisprudenza (cfr., per esempio, Cass. n. 12183/2004, 11332/2005, 17453/2006, 2909/2008). In questo quadro appartiene alla fisiologia del procedimento notificatorio anche lo scambio di utili informazioni tra parte istante e ufficiale giudiziario ed è congruo ritenere la sostanziale unità del procedimento quando, dopo che una prima fase del procedimento non abbia avuto positiva conclusione per l’accertata mancata corrispondenza della situazione di fatto a quella indicata dall’istante, quest’ultimo fornisca ulteriori indicazioni ai fini del perfezionamento della notificazione. Naturalmente, anche in relazione a questa prospettazione rimane salva la valutazione circa la imputabilità o meno al richiedente della inesattezza delle iniziali indicazioni, in quanto la giurisprudenza sulla dissociazione dei tempi della notificazione per il richiedente e il destinatario è basata sull’assunto che a detrimento del primo non debbano andare aspetti del procedimento che non siano sotto il suo controllo.

L’interpretazione nel senso che è possibile l’assunzione diretta da parte dell’interessato dell’iniziativa finalizzata al positivo compimento della notificazione corrisponde anche all’esigenza di rispettare la direttiva costituzionale sul giusto processo, secondo cui la legge ne assicura la ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2), essendo evidente che la necessità di una previa costituzione in giudizio per la richiesta di un provvedimento giudiziale sulla rinnovazione della notificazione comporta un rilevante allungamento dei tempi del giudizio, oltre che un appesantimento delle procedure.

Giova anche ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ammette l’iniziativa diretta e preventiva della parte per la rinnovazione di notificazioni affette da profili di nullità, che valga ad anticipare un’iniziativa in tal senso del giudice, pur in questo caso espressamente prevista dall’art. 291 c.p.c. (cfr., ex plurimis, Cass. n. 11623/2003 e 27450/2005).

Inoltre il riferimento ai termini previsti per la costituzione in giudizio della parte, ipotizzato allo scopo di fornire un’indicazione certa riguardo alla tempestività dell’iniziativa che fa seguito all’iniziale insuccesso della notificazione, appare non funzionale anche sotto altri aspetti. Deve rilevarsi infatti che l’esigenza di rispettare un termine perentorio per la notificazione si presenta in giudizio non solo per le impugnazioni, ma anche in svariate situazioni in cui non è applicabile un termine per la costituzione o un altro termine che possa svolgere una funzione analoga. Inoltre, anche rimanendo nel campo delle impugnazioni, nel rito del lavoro la costituzione dell’appellante, mediante il deposito del ricorso, precede la notificazione di quest’ultimo.

Può infine rilevarsi sul punto che, a ben vedere, il preventivo ricorso al giudice non è utile neanche al fine di avere una previa valutazione certa circa la sussistenza delle condizioni per la ripresa del procedimento di notificazione, in quanto si tratterebbe solo di una valutazione preliminare effettuata non in sede decisoria e per di più in assenza del contraddittorio con la controparte interessata.

4.7. Ritenuta ammissibile la diretta iniziativa della parte interessata, quanto alle modalità temporali della stessa l’unico criterio possibile di carattere generale è quello indicato da alcune sentenze precedentemente richiamate (Cass. n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008), secondo cui l’iniziativa per la ripresa del procedimento L notificatorio deve intervenire entro un tempo ragionevole, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie. E tale criterio, considerata la specificità del tipo di difficoltà procedurale incontrata e dello strumento a disposizione per il suo superamento, deve ritenersi applicabile, ove possibile, in relazione ad ogni tipo di termine perentorio entro cui debba avvenire una notificazione.

Ne consegue anche che, nel quadro dell’introduzione di una norma sulla rimessione in termini di carattere generale, e quindi applicabile anche ai termini di impugnazione (art. 153 c.p.c., comma 2, inserito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46), non potrà ritenersi dipendente da causa non imputabile una decadenza che avrebbe potuto essere ovviata mediante il completamento della procedura di notificazione ad iniziativa della parte.

Potrà rimanere salva, invece, la facoltà di richiedere l’intervento del giudice nei casi in cui non sia possibile una semplice (e ragionevolmente tempestiva) ripresa del medesimo procedimento notificatorio ad iniziativa della parte, per particolari circostanze, eventualmente anche collegate all’iter procedimentale entro cui si inserisca la notificazione prevista a pena di decadenza (si pensi, per esempio, alla necessità, menzionata da Cass. Sez. un. n. 3818/2009, cit. di ottenere una nuova fissazione dell’udienza ai fini del rispetto dei termini di comparizione). Rimangono inoltre al di fuori del tema ora trattato gli imprevisti procedurali che coinvolgano non già la conclusione del procedimento notificatorio nei confronti di soggetto già individuato, ma la esatta identificazione della controparte, dando luogo quindi, semmai, ad ipotesi di nullità della citazione (cfr. Cass. Sez. un. n. 19343/2008).

4.8. In conclusione può enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Nel caso in cui la notificazione di un atto processuale da compiere entro un termine perentorio non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere di richiedere la ripresa del procedimento notificatorio, e la conseguente notificazione, ai fini del rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data della iniziale attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie.” 4.9. Nel caso in esame si è già visto come l’iniziale insuccesso della notificazione non può ritenersi imputabile alla società attualmente ricorrente e, senza dubbio, deve ritenersi congruo il molto breve lasso di tempo impiegato al fine di utilmente indirizzare la notificazione. Il fatto che la controparte si sia costituita in giudizio, d’altra parte, rende irrilevante l’ipotesi che la nuova notifica avrebbe potuto essere effettuata anche presso la cancelleria del giudice a quo.

5. successivi motivi si riferiscono al Comune di Sora.

6.1. Il terzo motivo denuncia violazione del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, artt. 2 e 3 e contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo. La società ricorrente, con riferimento al rigetto della domanda nei confronti del Comune di Sora relativamente ai due pozzi con portata di 30 litri/secondo, censura la sentenza sul presupposto che, pur avendo il riconoscimento delle utenze di acqua pubbliche natura dichiarativa, è necessario comunque, ai fini di ritenere la legittimità della derivazione ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, art. 2 un provvedimento di accertamento dell’antico uso (o della pregressa concessione), che nella specie mancava anche perché il Comune era decaduto dal richiederlo, a norma dell’art. 3, R.D. cit.. Né al fine di presumere l’uso legittimo è sufficiente l’evoluzione legislativa richiamata in sentenza sull’impiego potabile delle acque pubbliche. Aggiunge la ricorrente che la motivazione appare contraddittoria, laddove fa derivare dal fatto che i pozzi furono costruiti nel 1892 l’inizio della utilizzazione a prima del 1884, ed erronea, perché a ( norma del R.D. n. 1775 del 1933, art. 2, comma 1, lett. B) l’antico uso che legittima l’attingimento deve essere iniziato trenta anni prima della L. 10 agosto 1884, n. 2644.

La ricorrente formula il seguente quesito: “Viola il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, artt. 2 e 3 l’attribuire la titolarità di un diritto di utenza di acqua pubblica ad un soggetto che sia privo del provvedimento amministrativo di riconoscimento dell’antico uso delle acque pubbliche previsto dall’art. 3 del detto Testo Unico?”. 6.2. Il motivo non merita accoglimento. Al riguardo è opportuno premettere che, ai fini dell’identificazione delle censure in linea di diritto con lo stesso proposte, occorre fare riferimento al conclusivo quesito di diritto, che ha la funzione di consentire la puntuale identificazione della questione di diritto che la parte intende proporre con il ricorso per cassazione, ferma restando la funzione della parte espositiva di illustrare la rilevanza e la fondatezza delle questione (nel senso che l’ammissibilità del motivo è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione, cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., n. 18759 del 2008 e n. 3519 del 2008).

La giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che il riconoscimento amministrativo di un’antica utenza ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, (T.U. acque) ha valore solo dichiarativo e che quindi la sua mancanza non esclude la posizione di vantaggio del singolo utente nei confronti di un altro soggetto (Cass. n. 123/1962). Ha precisato anche che l’esistenza dell’antico uso, a prescindere dal suo successivo riconoscimento, delimita all’origine i diritti derivanti dalle concessioni assentite nel corso del suo esercizio (Cass. Sez. un. n. 486/1974). Nella specie, in applicazione di tali principi, deve ritenersi che correttamente il TSAP, pur in mancanza del riconoscimento nella sede amministrativa dell’antico uso a norma del R.D. n. 1775 del 1933, art. 3 abbia ritenuto, nei rapporti tra Comune di Sora e il soggetto titolare di una successiva concessione, che gli attingimenti conformi all’antico uso non ledessero i diritti del concessionario, necessariamente limitati dal precedente titolo.

Quanto alle ulteriori deduzioni contenute nella esposizione del motivo, deve rilevarsi che l’ipotesi della decadenza del Comune di Sora dalla posizione di vantaggio inerente all’antico uso non è sorretta nè da un riscontro nel quesito di diritto nè da un preciso riferimento alle circostanze di fatto al riguardo rilevanti.

Relativamente, poi alla deduzione di vizi di motivazione, deve rilevarsi che difetta il requisito della “chiara indicazione” previsto dall’art. 366 bis c.p.c., mancando quel momento di sintesi che anche in proposito comunemente è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (e comunque una puntuale indicazione dei termini della ipotizzata contraddittorietà della motivazione, al di fuori di una diversa valutazione degli elementi di fatto). Né possono assumere rilievo prospettazioni di contrarietà della motivazione a principi di diritto, in mancanza di un’idonea formulazione delle relative censure anche in sede di conclusivo quesito di diritto.

7.1. Il quarto motivo denuncia omessa, o insufficiente, o contradditoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Nel censurare la ritenuta carenza di prova di nesso causale tra le sottensioni ritenute illecite e perdite di produzione di energie elettrica da parte della attuale ricorrente, si sostiene l’insufficienza del riferimento al fatto che dalle denunce di produzione presentate all’Ufficio tecnico erariale (UTIF) risultava che gli impianti avevano sfruttato solo una parte modesta della loro potenzialità produttiva. Doveva tenersi presente, infatti, che le centrali idroelettriche ad acqua fluente, come quelle di cui si tratta, non sono in grado di modulare la produzione di energia, ma sono costruite in modo tale da sfruttare tutta l’acqua che in ogni momento sia presente nel fiume, fino al punto nel quale, superata la potenzialità massima degli impianti, l’acqua deve per forza sfiorare per evitare il superamento della portata massima del corso d’acqua concessa all’utente. Ne consegue che non sono ipotizzabili scelte programmatiche di politica industriale atte ad interrompere il nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno.

Si lamenta anche che sia ritenuta la mancanza di prova della produzione effettiva delle centrali, mentre tale prova è stata fornita mediante la produzione delle dichiarazioni rese all’UTIF in epoca non sospetta, dichiarazioni dalla stessa sentenza ritenute utili a provare la scarsa produttività delle centrali rispetto alla loro produttività astratta.

7.2. Anche questo motivo non è fondato.

Le critiche alla motivazione della sentenza impugnata, infatti, sono inficiate dal fatto che è meramente assertiva la tesi secondo cui le centrali in questione, ai fini della produzione di energia elettrica, avrebbero sempre sfruttato, nella misura massima possibile consentita dalla loro configurazione, i flussi d’acqua disponibili, con la conseguenza che ogni sottensione avrebbe avuto una corrispondente incidenza sulla produttività delle stesse centrali. Al riguardo deve in particolare rilevarsi, da un lato, che non risulta plausibile la ragione tecnica al riguardo prospettata e, dall’altro, che il giudice a quo ha, tra l’altro, osservato che il c.t.u. non aveva potuto reperire dati certi sulle portate dei fiumi (OMISSIS) e sugli altri elementi necessari per individuare la misura dell’energia producibile. La ricorrente, d’altra parte, non ha censurato validamente sotto altri profili (per esempio con il riferimento ad elementi di prova circa gli sbocchi industriali o commerciali della sua produzione) la correttezza dell’assunto che l’entità concreta della produzione può nella specie essere dipesa, nella radicale carenza di riscontri probatori, non dalle risorse idriche disponibili ma da scelte imprenditoriali dell’azienda.

8. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora e rigettato nei confronti del Comune di Sora. Pertanto la sentenza deve essere cassata con riguardo solo alla prima di dette parti, con rinvio della causa al TSAP in diversa composizione per l’esame nel merito dell’appello proposto nei confronti di detto Consorzio di bonifica. Al giudice di rinvio si demanda anche la regolazione delle spese di questo grado tra la ricorrente e il Consorzio. Tra la ricorrente e il Comune di Sora le spese vengono compensate in considerazione della particolarità e complessità delle questioni.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso nei confronti del Comune di Sora, con compensazione delle spese. Accoglie il ricorso nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora, cassa conseguentemente la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nelle Sezioni unite civili, il 9 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 17-04-2009) 04-05-2009, n. 10177

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. BERNARDI Sergio – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IL PELLICANO SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO TRIESTE N. 87, presso lo studio dell’avvocato ANTONUCCI ARTURO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNELLI GIANLUCA, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E FINANZE, UFFICIO II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO, UFFICIO DISTRETTUALE II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DISTRETTUALE II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 26/2000 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE, depositata il 15/03/2000;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/2009 dal Consigliere Dott. SERGIO BERNARDI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società a r.l. La Regionale Service impugnava l’avviso di accertamento per Irpef ed ilor 1991 emesso dall’Ufficio II DD di Firenze assumendo, tra l’altro, che ne era nulla la notificazione, avvenuta nel giugno e reiterata nell’agosto del (OMISSIS) presso la residenza dell’amministratore anziché presso la sede legale della società. L’Ufficio opponeva che, prima delle notificazioni al domicilio dell’amministratore, l’avviso era stato ritualmente notificato presso la sede sociale ex art. 140 c.p.c. in data 23.4.1994, ed era divenuto definitivo non essendo stato impugnato nei termini. Sopravvenuta l’iscrizione a ruolo, nel (OMISSIS) la contribuente impugnava anche la cartella di pagamento, perché non preceduta da valida notifica dell’avviso. La Commissione tributaria provinciale riuniva i ricorsi e li accoglieva. Sull’appello dell’Ufficio la CTR affermava per contro la validità della notificazione del 23.4.1994 e dichiarava inammissibili i ricorsi perché tardivi.

La società (ora denominata Il Pellicano s.r.l.) ricorre per la cassazione della sentenza della CTR con un motivo. L’Amministrazione finanziaria non si è difesa.

MOTIVI

Motivi della decisione
La stampiglia in calce all’atto di accertamento prodotto dall’Ufficio recita che esso è stato notificato in data 23 aprile 1994 alla s.r.l. La Regionale Service con sede in via (OMISSIS) “mediante deposito nella Casa Comunale e affissione dell’avviso di deposito all’Albo Pretorio D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e)”. La società contribuente ha sostenuto nei gradi di merito (e sostiene col motivo di ricorso) la nullità di tale notificazione perché i presupposti di applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) non ricorrevano. In temporanea assenza di persona addetta al ritiro, avrebbe dovuto applicarsi l’art. 140 c.p.c., procedendo alla affissione dell’avviso alla porta della azienda e dandosene comunicazione con raccomandata. La CTR ha ritenuto la validità della notificazione affermando che “fra le disposizioni richiamate (dell’art. 140 c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e)) non vi è antinomia, ma complementarietà. Esclusa l’applicabilità dell’art. 143 c.p.c. (art. 60, comma 1, lett. f) è evidente che la lettera e) trova applicazione nei casi disciplinati dall’art. 140 c.p.c. (irreperibilità, incapacità, rifiuto), che presuppone l’effettività della sede o del domicilio e la momentanea irreperibilità di persone idonee a ricevere la notifica, ma in tal caso l’avviso di deposito non deve essere affisso alla porta del notificando come nella generalità dei casi, ma all’albo del comune, come vuole la norma tributaria”.

La ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione delle indicate disposizioni normative, affermando che “contrariamente a quanto ha affermato la Commissione Tributaria Regionale, non vi è alcuna complementarietà tra le suddette norme in quanto esse regolano fattispecie del tutto diverse e non possono essere quindi applicate simultaneamente e in modo coordinato”. Essendo nota la sede, e solo temporaneamente assente persona idonea al ritiro, non avrebbe potuto procedersi D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), come se la contribuente fosse stata irreperibile.

11 motivo è fondato. Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notificazione dell’avviso di accertamento Tributario deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, da dove tuttavia non risulta trasferito; mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), – sostitutivo, per il procedimento tributario, dell’art. 143 cod. proc. civ. – quando il messo notificatore non reperisca il contribuente che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto (v. tra le altre Cass. n. 10189 del 2003, n, 7268 del 2002, n. 10799 del 1999, n. 4587 del 1997). Poichè il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 non esclude l’applicabilità dell’art. 140 c.p.c., e non prevede neppure implicitamente una diversa disciplina per le ipotesi contemplate nella suddetta disposizione del codice, deve invero ritenersi, in virtù del generale richiamo alla disciplina stabilita dall’art. 137 e ss. c.p.c., che nel caso di assenza, incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la notifica vada effettuata, a norma del citato art. 140 c.p.c., seguendo esattamente la procedura ivi indicata (deposito di copia, affissione di avviso di deposito e invio di raccomandata), mentre solo nella diversa ipotesi in cui il contribuente risulti trasferito in luogo sconosciuto, disciplinata nel codice di rito dall’art. 143 c.p.c. – poiché tale norma è stata espressamente esclusa da quelle applicabili – occorre fare riferimento alla disciplina dettata dal D.P.R. citato, citato art. 60, lett. e).

Va dunque accolto il ricorso; cassata la sentenza impugnata e – decidendo nel merito (giacché non sono necessari altri accertamenti di fatto – respinto l’appello proposto avverso la decisione di primo grado.

Ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle fasi di gravame.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e – decidendo nel merito – rigetta l’appello proposto avverso la decisione di primo grado. Dichiara compensate le spese delle fasi di gravame.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 24-02-2009) 21-04-2009, n. 9474

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – rel. Consigliere

Dott. MONACI Stefano – Consigliere

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6496/2006 proposto da:

CLINIC CENTER S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL PARADISO 55, presso lo studio dell’avvocato DELLA CHIESA D’ISASCA FLAMINIA, rappresentato e difeso dall’avvocato RIZZO NUNZIO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SICILIA 235, presso lo studio dell’avvocato DI GIOIA GIULIO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3067/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/07/2005 R.G.N. 8314/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2009 dal Consigliere Dott. DI NUBILA VINCENZO;

udito l’Avvocato RIZZO NUNZIO;

udito l’Avvocato ITALICO PERLINI per delega DI GIOIA GIULIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco, che ha concluso per: accoglimento per due motivi, assorbito il terzo.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato in data 4.12.2002, F.G. M. conveniva dinanzi al Tribunale di Napoli la spa Clinic Center ed esponeva di avere lavorato per la convenuta quale aiuto medico specialista in geriatria dal (OMISSIS), con rapporto di lavoro a tempo parziale di trenta ore settimanali; nel contempo, rivestiva la carica di direttore sanitario del Centro Futura srl., fino al (OMISSIS), circostanza questa nota alla Clinic Center. Dopo un periodo di malattia ((OMISSIS)) aveva ripreso servizio, ma in data (OMISSIS) aveva dovuto nuovamente assentarsi per l’insorgenza di coxoartrosi post-necrotica: pendente un ciclo riabilitativo consigliato in attesa di intervento chirurgico, la società gli contestava alcuni illeciti disciplinari; ricevuta la lettera di giustificazioni, lo licenziava per giusta causa. Egli impugnava il licenziamento e chiedeva la reintegra, in una col risarcimento del danno per avere riportato una crisi ansioso – depressiva a causa di tale licenziamento.

2. Previa costituzione ed opposizione della Clinic Center spa, il Tribunale respingeva la domanda attrice. Proponeva appello l’attore e la Corte di Appello, previa costituzione della convenuta, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, ordinando la reintegra del F. e la corresponsione delle retribuzioni “medio tempore” maturate; non riconosceva invece l’ulteriore danno richiesto dall’attore. Questa, in sintesi, la motivazione della sentenza di appello:

altro giudizio tra le parti, inerente al riconoscimento di mansioni superiori, non ha rilevanza nella presente controversia;

irrilevante è pure la mancata affissione del codice disciplinare, dato che le mancanze addebitate (simulazione dello stato di malattia, avere ritardato la guarigione, avere svolto attività concorrenziale) costituiscono mancanze inerenti ad ogni rapporto di lavoro e non tipiche dell’attività svolta dal datore di lavoro;

lo stato invalidante è accertato dal giudice di primo grado e sul punto la sentenza è passata in giudicato; il F. è stato visto mentre, perdurante la malattia, guidava una motocicletta, si recava al mare e quindi si portava presso il Centro Futura per prestare ivi la propria attività;

viene addebitato all’attore di avere, con tali comportamenti, ritardato la guarigione, ma di ciò non vi è prova; la terapia in acqua era consigliata, non risulta che la guida della motocicletta sia incompatibile col processo di guarigione;

l’attività presso il Centro Futura era nota alla Clinic Center;

essendo il F. assunto a tempo parziale; egli avrebbe potuto richiedere autorizzazione al riguardo, ma nella specie tale autorizzazione non era necessaria in ragione della consapevolezza della Clinic Center, dell’ampia tolleranza al riguardo esercitata ed infine al fatto che, se del caso, doveva essere contestata la mancata richiesta dell’autorizzazione e non la prestazione in sè;

gli ulteriori danni non erano ricollegabili con nesso causale al licenziamento.

3. Ha proposto ricorso per Cassazione la Clinic Center spa, deducendo tre motivi. Resiste con controricorso F.F.M.. La ricorrente ha presentato memoria integrativa.

Motivi della decisione
4. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697, 2730 e 2909 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5: erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto che si sia formato il giudicato interno sul punto inerente alla (insussistente) dimostrazione dello stato di malattia; infatti la parte convenuta, totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, ma poteva limitarsi a riproporre in appello la questione ritenuta assorbita. In ogni caso, l’attività ludica e non, espletata dall’attore durante la presunta malattia, doveva essere ritenuta idonea a dimostrare che il F. ben avrebbe potuto prestare il proprio lavoro anche presso la Clinic Center. Il fatto di avere guidato in più occasioni una moto di grossa cilindrata, di essersi recato al mare a prendere bagni; di avere guidato l’autovettura, di essersi recato presso il Centro Futura, doveva far ritenere sussistente, quanto meno, un’attività dell’attore in contrasto con gli obblighi di cura e riposo, in modo da non compromettere ulteriormente la guarigione.

5. Il motivo è fondato nei limiti di cui “infra”. Si premette che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale, ma può limitarsi a riproporre una questione che il giudice di primo grado abbia ritenuto “assorbita”. Nella specie, il Tribunale ha respinto la tesi della simulazione dello stato di malattia, ma l’ha superata addebitando al lavoratore un comportamento comunque illegittimo. La questione non è stata specificamente riproposta in appello, tanto è vero che la ricorrente richiamava genericamente tutte le deduzioni svolte in primo grado. Devesi pertanto ritenere che lo stato di malattia sia coperto da giudicato.

6. La Corte di Appello ha però ritenuto che i vari comportamenti ascritti al F. non fossero in contrasto coi doveri del dipendente durante il periodo di malattia. Ha perciò ritenuto che il fatto di avere guidato una motocicletta, nonostante la coxo-artrosi dell’anca, di avere preso bagni di mare e di avere comunque prestato una (limitata) attività presso il Centro Futura non fossero idonei a compromettere l’interesse del datore di lavoro ad una pronta guarigione del lavoratore. Quanto affermato dalla Corte di Appello appare in contrasto coi principi più volte affermati da questa Corte di Cassazione in ordine ai doveri del lavoratore durante la malattia.

Si veda al riguardo Cass. 7.6.1995 n. 6399: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore”. 7. Si veda ancora Cass. 1.7.2005 n. 14046: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio)”. 7. Applicando i suddetti principi alla fattispecie in esame si ha che l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono di per sè indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativi del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa.

8. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1362 c.c. e segg., art. 2105 c.c., in relazione agli artt. 14 e 30 del CCNL di settore; della L.R. n. 377 del 1998 e vizio di motivazione: la Corte di Appello ha errato ritenendo che l’attività presso altro centro clinico fosse consentita, sulla base di una infondata interpretazione della norma contrattuale. La norma del CCNL, se intesa nel senso di autorizzare comunque un’attività in favore di terzi, è nulla per contrasto con l’art. 2105 cit.; in ogni caso il F. doveva chiedere l’autorizzazione.

9. Il motivo è infondato. L’argomentazione secondo la quale la norma contrattuale sarebbe nulla per contrasto con norma imperativa è nuova ed inammissibile. In ogni caso, trattandosi di rapporto di lavoro “part time”, la prestazione di ulteriore attività “part time” presso altro centro medico non può essere ritenuta vietata “tout court”. Ma diversa è la “ratio decidendi” della Corte di Appello:

muovendo dall’art. 30 del CCNL, essa ha ritenuto che non sussiste divieto di prestare la propria opera presso terzi in caso di lavoratori a tempo definito, essendo in tal caso sufficiente una richiesta di autorizzazione. Nella specie, come accerta la Corte di Appello, la Clinic Center era da tempo a conoscenza dell’ulteriore attività del F. – per circa dieci ore settimanali – e nulla aveva rilevato al proposito; circostanza questa tale da integrare gli estremi della tolleranza, ovvero da indurre a diversa e più tenue valutazione dell’infrazione nel giudizio di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Il motivo si risolve quindi in una censura in fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità, avendo la Corte di Appello giustificato il proprio convincimento sul punto con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talchè essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità 10. Col terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e vizio di motivazione, per avere la Corte di Appello condannato essa Clinic Center al versamento delle retribuzioni globali di fatto, senza tenere conto dell’”aliunde perceptum” in ragione del rapporto di lavoro presso il Centro Futura.

11. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato. Trattasi infatti di rapporto di lavoro “part time”, onde quanto percepito in conseguenza di una diversa attività lavorativa per un orario di lavoro ulteriore non costituisce “aliunde perceptum” rispetto all’orario praticato presso la Clinic Center. La ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare la sussistenza di una diversa fonte di guadagno, sostitutiva della retribuzione dovuta dalla convenuta.

12. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente al primo motivo del ricorso, che viene accolto, ed il processo va rinviato alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le statuizioni circa le spese. Il principio di diritto è quello indicato al par. n. 7 che precede.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo e il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2009