Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 17-03-2009) 16-04-2009, n. 9004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. GEMELLI Torquato – Presidente Aggiunto

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente Aggiunto

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco M. – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

FALLIMENTO MG MONTAGGI GENERALI, in persona del Curatore pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLLINA 36, presso lo studio dell’avvocato JACONO GAETANO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOSCATO ANGELO, per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COZZOLINO NICOLA e COZZOLINO REMIGIO S.N.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 151/2005 del TRIBUNALE di GELA, depositata il 03/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/03/2009 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE, il quale chiede che le Sezioni unite della Corte, in camera di consiglio, enuncino il principio secondo cui in caso di ricorso ordinario in cassazione – o di istanza di regolamento di competenza – l’obbligo, previsto a pena di improcedibilità dell’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, del deposito da parte del ricorrente della copia autentica della decisione impugnata con la relazione di notifica se questa è avvenuta – o del biglietto di cancelleria di comunicazione del deposito nel caso del regolamento – può essere adempiuto soltanto con il deposito contestuale al ricorso o comunque entro il termine a tal fine previsto dal precedente comma 1; con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Il Fallimento M.G. Montaggi generali s.r.l. ha ottenuto, nei confronti della s.n.c. Cozzolino Nicola e Remigio, decreto ingiuntivo per somma di danaro costituente corrispettivo parziale della costruzione di un’imbarcazione da pesca, al quale s’è opposta l’ingiunta, eccependo, tra l’altro, l’incompetenza territoriale del giudice adito. L’eccezione è stata accolta dal Tribunale di Gela.

Il Fallimento propone istanza di regolamento di competenza notificata il (OMISSIS). La società Cozzolino non si difende nel procedimento. il procuratore Generale ha chiesto, ex art. 375 c.p.c., che il regolamento di competenza sia dichiarato inammissibile, perchè proposto oltre trenta giorni dopo il deposito della sentenza, senza che risulti dimostrato che la comunicazione della sentenza impugnata sia avvenuta il 17 maggio 2005. La ricorrente ha depositato memoria e documenti.

La terza sezione civile della Corte, rilevato sul punto un contrasto di giurisprudenza, con ordinanza del 19 febbraio 2008 ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, rilevando che la ricorrente ha documentato che la comunicazione della sentenza di incompetenza ebbe luogo il 17 maggio 2005, data utile per la proposizione del ricorso; l’elenco dei documenti è stato depositato il 20 novembre 2007; la produzione è stata notificata a controparte, ex art. 372 c.p.c., in data 14 novembre 2007 (come risulta dalla relata depositata il 26 novembre 2007 presso la cancelleria della sezione); chi propone ricorso per regolamento di competenza ha l’onere di depositare, nella cancelleria della Corte di Cassazione, a pena di improcedibilità, il ricorso e i documenti nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto (onere desumibile dal combinato disposto degli artt. 47 e 369 c.p.c.); l’art. 369 c.p.c., n. 2, stabilisce che insieme col ricorso deve essere depositata la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta; in forza dell’art. 372 c.p.c., comma 2, il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti.

Ciò premesso l’ordinanza di rimessione pone il problema se il ritardato deposito del biglietto di cancelleria attestante la data di ricevimento della comunicazione della sentenza di incompetenza possa aver luogo, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., unitamente alla memoria depositata dal ricorrente, previa notifica alla controparte della produzione effettuata. La causa è stata assegnata alle sezioni unite come questione di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione
1. – LA QUESTIONE DI MASSIMA DI PARTICOLARE IMPORTANZA. 1 – Premessa.

La terza sezione civile ha reso tre ordinanze interlocutorie che affrontano il tema dell’improcedibilità del ricorso per cassazione stabilita dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

Più in particolare, due delle ordinanze interlocutorie (la n. 7950 del 27 marzo 2008 e la n. 9302 del 9 aprile 2008) riguardano il caso in cui il ricorrente dichiara nel ricorso che la sentenza impugnata gli è stata notificata in una certa data, ma si limita a depositare la copia autentica della sentenza senza la relazione di notificazione. Nè la copia della sentenza notificata è depositata (con apposito elenco notificato alla controparte) nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, fissato dall’art. 369 c.p.c., comma 1 per il deposito del ricorso stesso nella cancelleria della Corte. La terza ordinanza (n. 4229 del 19 febbraio 2008) pone, poi, lo stesso problema con riferimento al ricorso contenente l’istanza di regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c., per il caso in cui la parte dichiara nel ricorso stesso che la sentenza le è stata comunicata in una certa data, ma omette di depositare, insieme con l’atto d’impugnazione (o, comunque, separatamente, ma nel suddetto termine di venti giorni), il biglietto di cancelleria dal quale risulti che effettivamente la comunicazione è avvenuta in quella data, non consentendo, così, alla Corte di delibare la tempestività del ricorso. In quest’ultimo caso, però, l’ordinanza pone il problema sotto il profilo del contrasto giurisprudenziale, rilevando che al maggioritario orientamento rigoristico si contrappongono sporadici precedenti che hanno ammesso degli equipollenti (sananti) rispetto al deposito della copia autentica della sentenza notificata, quale il reperimento della stessa nel fascicolo d’ufficio o della controparte, oppure la formazione del contraddittorio sul punto. Conviene subito dire che la problematica va trattata congiuntamente (come, peraltro, congiuntamente la trattano le ordinanze di rimessione), sia che si tratti di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., sia che si tratti di ricorso per regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c.. Il disegno codicistico, nella sua struttura fondamentale, appare identico per entrambe (come, peraltro, esplicitamente affermato nel progetto Grandi), nel senso che l’istanza di regolamento di competenza risulta modellata secondo la forma ed i modi del ricorso per cassazione, con la sola riduzione dei termini di proposizione da sessanta a trenta giorni, ma pur sempre con l’imposizione al ricorrente di depositare, nel termine di venti giorni dalla notificazione, “il ricorso con i documenti necessari”. Richiamo, quest’ultimo, che inevitabilmente realizza il collegamento con l’art. 369 c.p.c. ed, in particolare, con l’onere per il ricorrente di depositare (tra l’altro) il biglietto di cancelleria dal quale risulti la data di avvenuta comunicazione del provvedimento impugnato. Il discorso successivo sarà, dunque, articolato in modo comune per entrambi i modelli processuali trattati.

2. – Lo stato della giurisprudenza in ordine agli adempimenti di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

E’ indiscusso che la previsione dell’onere di deposito, a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c., della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione (ove questa sia avvenuta) è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione, della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione; il quale, intervenuta la notificazione della sentenza, può essere fatto valere soltanto con l’osservanza del termine breve, salvaguardandosi, perciò, anche la tutela dell’esigenza pubblicistica del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale. Tuttavia, fin dai primi impatti applicativi di tale norma si sono sviluppati essenzialmente tre filoni giurisprudenziali correlati all’interpretazione della norma ed all’individuazione dei possibili meccanismi di riparazione dell’omissione del deposito dei documenti di cui al suo comma 2:

1) secondo un risalente, rigoroso indirizzo, il mancato deposito (nel richiamato termine) della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla corrispondente relata di notificazione) comportava, in ogni caso, l’improcedibilità del ricorso, la quale andava dichiarata d’ufficio, senza che all’omissione potesse ovviarsi con il successivo deposito di detta copia nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c. e senza che, ai fini dell’esclusione dell’improcedibilità, potesse attribuirsi rilievo al deposito di tale copia effettuato da parte del controricorrente o all’esistenza, agli atti, di copia non autentica della decisione stessa (cfr. Cass. 3 luglio 1971, n. 2076; Cass. 26 febbraio 1980, n. 1333; Cass. 11 settembre 1980, n. 5246; Cass. 20 dicembre 1982, n. 7023; Cass. 12 gennaio 1983, n. 209; v. , altresì, con specifico riferimento all’istanza di regolamento di competenza, Cass. 7 marzo 1968, n. 747; Cass. 6 aprile 1971, n. 997; Cass. 28 gennaio 1972, n. 216; Cass. 19 settembre 1972, n. 2764; Cass. 24 novembre 1972, n. 3448; Cass. 18 maggio 1973, n. 1439; Cass. 22 maggio 1973, n. 1504; Cass. 7 giugno 1974, n. 1704; Cass. 31 luglio 1977, n. 3262; Cass. 20 gennaio 1984, n. 499; Cass. 7 aprile 1987, n. 3372);

2) ad avviso di un altro più liberale orientamento era stato statuito che l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, di copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica) si sarebbe dovuto considerare soddisfatto o quando tale deposito fosse avvenuto contestualmente a quello del ricorso per cassazione, o quando, pur in difetto di tale contestualità, fosse comunque stato effettuato con le modalità fissate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, c.p.c. (cfr. Cass. 8 gennaio 1980, n. 125; Cass. 11 maggio 1981, n. 3121; Cass. 18 gennaio 1982, n. 343; Cass. 23 giugno 1986, n. 4172;

Cass. 4 luglio 1986, n. 4388; Cass. 21 ottobre 1995, n. 10959);

3) secondo un ulteriore indirizzo, schieratosi in una posizione intermedia tra i primi due orientamenti indicati, si sarebbe dovuto ritenere che l’onere del deposito della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla relazione di notificazione), sanzionato a pena di improcedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., era validamente assolto anche se non intervenuto in modo contestuale rispetto al deposito del ricorso stesso, purchè avvenuto nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso mediante le modalità previste dal cit. art. 372 c.p.c., comma 2 (Cass. 11 dicembre 1986, n. 7380; Cass. 19 dicembre 1996, n. 11361).

A dirimere le oscillazioni diffusesi sulla precisata questione intervennero le Sezioni unite, con la sentenza n. 11932 del 25 novembre 1998, la quale stabilì che la disposizione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 non impedisce che il deposito della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione sia effettuato separatamente rispetto al deposito del ricorso (ex art. 372 c.p.c., che consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e che può applicarsi estensivamente anche ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso stesso), purchè nel termine perentorio di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso. La stessa disposizione non consente, però, secondo l’ultimo precedente in commento, di evitare la sanzione dell’improcedibilità mediante equipollenti, quali il deposito da parte del controricorrente di copia della sentenza stessa o l’esistenza della medesima nel fascicolo d’ufficio.

In particolare, la pronunzia delle sezioni unite spiegò che l’indirizzo che ammette quegli equipollenti al deposito non è condivisibile, perchè si pone in inconciliabile contrasto con il dettato dell’art. 369 c.p.c., il quale sancisce l’improcedibilità del ricorso, senza alcuna eccezione, nel caso in cui la copia autentica della sentenza impugnata non sia depositata. Degli altri due indirizzi il più rigoroso è stato ritenuto inaccettabile, giacchè l’obbligo di legge deve ritenersi soddisfatto, sia se il deposito avvenga col ricorso, sia se si verifichi successivamente, purchè nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso stesso alle parti contro le quali esso è proposto (art. 369 c.p.c., comma 1). Lo scopo che si prefigge la norma è, infatti, quello di consentire la verifica della tempestività dell’atto d’impugnazione e la fondatezza dei suoi motivi; la sanzione d’improcedibilità colpisce, perciò, l’inosservanza del termine perentorio e non anche la mancanza di contestualità del ricorso e della decisione impugnata. La norma dell’art. 372 c.p.c., la quale consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso, deve ritenersi estensibile ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso, considerato che l’art. 375 c.p.c., che prevede la pronuncia d’inammissibilità del ricorso in camera di consiglio, include logicamente anche la declaratoria d’improcedibilità. La giurisprudenza sviluppatasi successivamente sul tema si è uniformata, in modo nettamente prevalente, all’indirizzo tracciato dalla menzionata pronuncia delle Sezioni unite (in tal senso si sono orientate, soprattutto, Cass. 28 ottobre 2000, n. 14240; Cass. 30 marzo 2004, n. 6350; Cass. 22 luglio 2004, n. 13679; Cass. 1 ottobre 2004, n. 19654; Cass. 1 marzo 2005, n. 4248; Cass. 10 marzo 2005, n. 5263; Cass. 4 agosto 2005, n. 16375;

Cass. 18 gennaio 2006, n. 888; Cass. 12 febbraio 2007, n. 3008 e Cass. 12 giugno 2007, n. 13705).

In particolare, nel ribadire il principio, Cass. n. 19654 del 2004 ha escluso la rilevanza dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente, ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata, o, ancora, della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

Lo stesso quanto a Cass. n. 888 del 2006, la quale spiega che non è ammesso il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso, la cui ammissibilità condurrebbe a far dipendere la procedibilità del ricorso dal tempo in cui lo stesso è deciso, introducendo nel sistema elementi di alea ed imprevedibilità che sarebbero gravemente pregiudizievoli del principio della certezza del diritto, finendo con il far dipendere il giudizio sull’osservanza delle forme e dei termini, e l’esito stesso del giudizio, da circostanze casuali ed imponderabili. Il termine dell’art. 369 c.p.c., in quanto perentorio, è inoltre improrogabile, e governato dalla regola generale di cui all’art. 153 c.p.c., con la conseguenza che la sanzione dell’improcedibilità non può essere evitata invocando il caso di forza maggiore o fatti imprevedibili non imputabili al ricorrente, essendo la decadenza impedita esclusivamente dall’esercizio del diritto. La conformità della norma in questione ai principi fondamentali dettati dalla Costituzione in relazione alla salvaguardia del diritto di difesa è stata recentemente riaffermata con l’ordinanza n. 22108 del 16 ottobre 2006, in virtù della quale risulta, per l’appunto, ribadito che è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, nella parte in cui stabilisce che il ricorso per cassazione è improcedibile quando il ricorrente non abbia depositato copia autentica del provvedimento impugnato, sollevata in riferimento all’art. 24 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., in quanto la norma mira a garantire, non irragionevolmente, le esigenze di certezza della conformità della copia del provvedimento all’originale, stabilendo un adempimento che non è particolarmente complesso, e non si pone in contrasto con le regole che devono improntare il giusto processo e neppure ostacola apprezzabilmente l’esercizio del diritto di difesa.

Pur in presenza di questo quadro giurisprudenziale, sostanzialmente omogeneo nell’aderire all’indirizzo espresso dalla Sezioni unite con la sentenza n. 11932 del 1998, non sono mancate, nel corso successivo dell’elaborazione giurisprudenziale, delle sporadiche pronunce – evidenziate anche nell’ordinanza di rimessione n. 4229 del 2008 – con le quali è stato ripreso l’orientamento in base al quale può ritenersi legittima la producibilità dei documenti previsti dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, anche oltre il termine previsto dal primo comma della stessa norma, con l’espletamento delle modalità stabilite dall’art. 372 c.p.c., comma 2.

In proposito, con riguardo, ad esempio, all’istanza per regolamento di competenza, l’ordinanza n. 18019 del 17 dicembre 2002 (terza sezione) ha affermato il principio in base al quale “ove il ricorrente non abbia, depositato la copia autentica della ordinanza impugnata con il regolamento di competenza, la relativa istanza non può essere dichiarata, per ciò solo, improcedibile allorchè il fascicolo d’ufficio, tempestivamente richiesto dalla parte al cancelliere dell’ufficio a quo ai sensi dell’art. 47 c.p.c., comma 3, e pervenuto nella cancelleria della Corte di cassazione, contenga l’originale dell’ordinanza impugnata”.

Successivamente, con la più recente sentenza (della sez. tributaria) n. 2452 del 5 febbraio 2007, è stato ritenuto, in riferimento al ricorso in sede di legittimità in generale, che “nel giudizio di cassazione, l’onere, imposto dall’art. 372 c.p.c., comma 2, di notificare alle altre parti l’elenco dei documenti relativi all’ammissibilità del ricorso, che siano stati prodotti successivamente al deposito dello stesso, è inteso a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte, e deve pertanto ritenersi adempiuto qualora risulti che tale contraddittorio è stato comunque assicurato: è conseguentemente ammissibile la produzione all’udienza di discussione della documentazione comprovante l’avvenuta notifica della sentenza di secondo grado, e quindi la decorrenza del termine breve per l’impugnazione, qualora tale produzione sia avvenuta alla presenza del difensore della controparte, intervenuto alla medesima udienza”.

Nella relativa motivazione, con riguardo all’aspetto concernente la ritualità della sopravvenuta produzione della sentenza impugnata all’udienza di discussione, si osserva che l’art. 372 c.p.c. prevede che il deposito della documentazione relativa all’ammissibilità del ricorso possa avvenire indipendentemente dal deposito del ricorso e del controricorso e perciò anche successivamente ad essi. E’ vero che in tal caso la norma citata prevede che la documentazione così prodotta venga notificata mediante elenco alle controparti, ma trattasi evidentemente di previsione intesa a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte e perciò da ritenersi osservata ogni volta che sul punto il contraddittorio risulti essere stato comunque garantito. Nella specie il contraddittorio risultava garantito, posto che la produzione era avvenuta in udienza, alla presenza del difensore di controparte, che nulla aveva eccepito in proposito.

Da ultimo, con sentenza n. 7027 del 14 marzo 2008, la Sezione lavoro, pronunciandosi in generale sulla questione in esame, ha operato una distinzione tra gli effetti della mancata produzione della sola sentenza impugnata e quelli conseguenti all’omessa tempestiva allegazione congiunta della relata di notificazione, stabilendo che la sanzione dell’improcedibilità del ricorso per cassazione prevista dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, trova applicazione soltanto in riferimento alla prescrizione principale concernente l’onere di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e non già rispetto alla ulteriore prescrizione di dettaglio riguardante la produzione della copia con la relazione di notificazione. Secondo la sentenza in commento, ad escludere l’applicazione della sanzione di improcedibilità rispetto alla ipotesi da ultimo menzionata militano plurime ragioni di ordine sistematico e segnatamente: a) la sanzione non sarebbe comunque idonea a garantire il perseguimento dello scopo di consentire la verifica d’ufficio della mancata formazione della cosa giudicata, essendo a tal fine funzionale soltanto l’esplicazione del contraddittorio; b) essa verrebbe irrogata, di regola, proprio quando la verifica del rispetto del termine breve di impugnazione sarebbe consentita dalla produzione della sentenza con la relata di notificazione ad iniziativa del controricorrente; d) ove il ricorrente indichi soltanto, senza documentarla, la data di notificazione della sentenza, non sarebbe ragionevole attribuire rilievo a tale dichiarazione soltanto per la parte pregiudizievole al ricorrente medesimo; c) nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la sanzione risulterebbe priva di giustificazione giacché, da un lato, la relazione di notificazione non evidenzia affatto la data di perfezionamento della medesima e, dall’altro, la parte destinataria dell’atto non è in possesso, in genere, di un’esauriente ed inequivoca prova documentale di tale data, la cui produzione non è comunque prevista da alcuna norma.

3. – Le ordinanze interlocutorie della terza sezione civile. Tornando alle ordinanze interlocutorie della terza sezione civile, esse si fanno carico di riassumere il percorso giurisprudenziale seguito in quest’ultimo decennio dalla materia in trattazione, evidenziano contrasti o mere distonie emerse nel dibattito, per proporre (soprattutto le due riguardanti il ricorso per cassazione in generale) uno sforzo evolutivo che, in estrema sintesi, dia della improcedibilità una lettura che non faccia del dettato dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, un’altra forma d’inammissibilità e la consideri, invece, una prescrizione ordinata a consentire la prova dell’inammissibilità, sì da trovare integrazione nella norma dell’art. 372 c.p.c., alla stessa stregua di quanto è stato di recente affermato dalle Sezioni unite in ordine alla prova del completamento del procedimento di notificazione (Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627).

Più in particolare, le ordinanze osservano che la funzione della norma è quella di consentire alla Corte, nel momento in cui si tratta di decidere sul ricorso, di stabilire se il ricorrente abbia rispettato, oltre al termine di decadenza di cui all’art. 327 c.p.c., anche il termine di cui all’art. 325 c.p.c., che decorre dalla data in cui la sentenza è notificata e se dunque il ricorso, quando è stato proposto, poteva esserlo o la sentenza era già passata in giudicato. La disposizione detterebbe cioè una norma sul procedimento, che ha una natura strumentale, quella di consentire di verificare se il dovere della Corte di pronunciarsi sul fondo del ricorso è stato reso operante, perché è stata osservata una della serie delle altre norme che dettano le condizioni di ammissibilità originaria del ricorso, in particolare quella sui termini della impugnazione (tant’è che la sanzione che la norma descrive come “improcedibilità” non va applicata, nonostante la avvenuta notificazione della sentenza e la mancata produzione della copia notificata, quante volte il ricorso è proposto nello spazio di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza).

L’improcedibilità sanzionata dalla disposizione processuale in questione potrebbe essere, dunque, intesa – secondo le ordinanze in commento – in due modi: a) la si potrebbe dire una variante verbale dell’inammissibilità (ossia, il legislatore avrebbe inteso imporre la stessa sanzione per la mancata osservanza sia delle condizioni di ammissibilità del ricorso, che vanno osservate nel momento in cui è esso è proposto, sia delle forme imposte a fini di prova di quelle condizioni e la diversa nomenclatura sarebbe in sostanza dovuta ad una preoccupazione di tipo descrittivo, perché il secondo ordine di regole riguarda non il momento in cui il ricorso è proposto, ma il momento in cui va depositato); b) le si potrebbe attribuire, invece, un diverso valore, quello per cui nel momento in cui si tratta di decidere sul fondo del ricorso, la Corte non può procedere oltre nel suo esame, se non sia posta in condizione di verificare se un ricorso, in ipotesi ammissibile, lo sia effettivamente.

L’inosservanza del termine entro il quale va data prova delle condizioni di ammissibilità del ricorso descritte nella norma (ed in particolare di quella che si considera) diverrebbe, allora, rilevante nella fase di decisione del ricorso e la funzione strumentale della norma (di consentire la verifica del rispetto di date condizioni di ammissibilità) permetterebbe di dare rilievo a modalità alternative di accertamento.

Aggiungono le ordinanze che, per come la disposizione è formulata, la norma non impone al ricorrente di dichiarare, nel ricorso, a pena di inammissibilità, se la sentenza gli è stata notificata, ma solo, ed a pena di improcedibilità, di depositare la sentenza con la relazione di notificazione, se questa sia avvenuta. Di qui il possibile verificarsi di una serie di situazioni definite paradossali: a) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata, sebbene lo sia stata, e non la produce; l’altra parte non solleva questione circa l’ammissibilità, perché il termine per l’impugnazione è stato rispettato, nè pone la questione dell’improcedibilità per mancato deposito della copia della sentenza notificata;

il rilievo di ufficio dell’improcedibilità e l’applicazione della sanzione sarebbero in questo caso impedite dall’atteggiamento processuale della parte che ne potrebbe profittare; b) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata e non la produce; l’altra parte, che lo allega, ha l’onere di dimostrare che la sentenza è stata notificata; la sentenza notificata è prodotta e ne risulta che il termine per l’impugnazione è stato rispettato: se risultasse il contrario il ricorso sarebbe da dichiarare inammissibile; se si attribuisce in questo caso rilievo al fatto in sè che il ricorrente non ha depositato la copia nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1, si perverrebbe al risultato paradossale che si deve considerare la Corte impedita dall’esame del fondo del ricorso, nel momento stesso in cui è messa in grado di riscontrare che è ammissibile; c) la parte, che non vi è tenuta, dichiara che la sentenza le è stata notificata in una certa data, perchè la sentenza le è stata notificata, e intende far constare che il termine per la impugnazione è stato rispettato; l’altra parte, perchè non è in condizioni di provare il contrario non lo contesta;

l’applicazione della sanzione di improcedibilità è resa qui possibile dal fatto che il ricorrente confessa che la sentenza gli è stata notificata e perciò dal fatto che è possibile alla Corte rilevare di ufficio che la prescrizione imposta dall’art. 369 c.p.c. non è stata osservata; singolare situazione processuale, in cui le parti concordano sul fatto che la sentenza è stata notificata in data rispetto alla quale il successivo ricorso è tempestivo, che riceve un trattamento diverso da quello in cui lo stesso consenso si forma sul fatto che non sia stata notificata o il ricorso sia tempestivo rispetto alla data in cui lo è stata e le parti sono talmente d’accordo sul punto che ne tacciono. Come sarebbe paradossale che (in modo non diverso da quanto accade nel caso b) la Corte debba risultare impedita dall’esaminare il fondo del ricorso nel momento stesso in cui la parte dimostra la ammissibilità del ricorso, producendo la copia notificata, in risposta al preannunzio della sanzione di improcedibilità, che avrà dovuto esserle fatto con la relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., applicabile al caso della dichiarazione di improcedibilità, non diversamente che al caso della, dichiarazione di inammissibilità (ambedue da comprendersi nella previsione di cui all’art. 375 c.p.c., n. 2, nel testo riformulato, come prima in base all’art. 138 disp. att.).

4. – La dottrina.

In dottrina, a fronte di autori che esaltano il carattere perentorio del termine fissato dall’art. 369 c.p.c. e la conseguente impossibilità di convalidare ogni atto intervenuto dopo la sua scadenza ed altri che escludono qualsiasi interferenza tra gli artt. 372 e 369 c.p.c. (così da negare pure la possibilità del deposito della sentenza impugnata separatamente dal ricorso e nel termine dell’art. 369 c.p.c., comma 1), altri, più recentemente, hanno aderito ad una ricostruzione meno rigida, individuando degli spazi di operatività di una possibile sanatoria dell’omissione riconducibile al mancato deposito tempestivo della copia autentica della decisione impugnata corredata della relata di notificazione, per come prescritto dal cit. art. 369 c.p.c.. E’ proprio questa dottrina che, nel fornire supporto alle ordinanze interlocutorie in commento, sostiene l’applicabilità alla specifica disciplina del ricorso per cassazione del generalissimo principio di strumentalità delle forme, con tutti i suoi corollari, ivi inclusa la generale sanabilità delle inosservanze di forme per raggiungimento dello scopo (consentire la verifica della tempestività del ricorso e la fondatezza dei suoi motivi). Ecco, dunque, che non sarebbe possibile individuare alcuna ragione sostanziale, riconducibile alle funzioni della Corte (o del p.m.), che imponga di anticipare tassativamente al momento del deposito del ricorso, o comunque nel termine per il deposito del ricorso stesso, la copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica, se avvenuta); per l’altro, che se tale copia autentica è stata depositata dal controricorrente o è inserita nel fascicolo d’ufficio, la Corte sarebbe perfettamente in grado, al momento della decisione (e il pubblico ministero al momento in cui deve esprimere le proprie conclusioni), di valutare la tempestività dell’impugnazione e la fondatezza dei motivi di ricorso, proprio come avrebbe fatto in ipotesi di deposito tempestivo da parte del ricorrente. Insomma, il deposito da parte del controricorrente e/o la presenza della sentenza nel fascicolo d’ufficio opererebbero come causa di sanatoria dell’improcedibilità per raggiungimento dello scopo dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, relativamente alle funzioni della Corte e del pubblico ministero.

5. – La soluzione della questione.

Dalla disamina che s’è svolta in precedenza appare evidente che intorno alla questione dibattuta si scontrano due grandi linee di pensiero: una che riconosce nel processo e nelle sue forme una funzione eminentemente pubblicistica, tesa a dettare regole che ne consentano l’ordinato svolgimento e che, come tali, non ammettono equipollenti e non sono disponibili dalle parti; un’altra, sostanzialistica, che guarda allo scopo della regola, alla strumentalità delle forme e, dunque, alla possibilità di sanarne gli effetti sanzionatori nel caso in cui quello scopo sia stato comunque raggiunto, oppure la relativa violazione non risulti contestata dalla parte che ne abbia interesse.

Non v’è dubbio che l’improcedibilità è una sanzione, certamente grave, stabilita dalla legge processuale nel caso in cui il contendente non assolva ad un onere che gli è imposto perché il processo prosegua. La parte è investita del potere di far procedere la propria azione, purché lo faccia secondo determinate modalità ed in determinati termini. Scaduti questi, il potere cessa e scatta la sanzione. Sul punto è imprescindibile il collegamento con l’art. 387 c.p.c., il quale sancisce che il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto “anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge”. Neppure v’è dubbio che la lettera della disposizione normativa della quale s’è finora discusso non offre spazi interpretativi. L’art. 369 c.p.c. sanziona con l’improcedibilità il tardivo deposito del ricorso, così come sanziona “sempre a pena d’improcedibilità” (la frase è significativa della continuazione di un unico discorso) il mancato deposito di una serie di atti, tra i quali il decreto di concessione del gratuito patrocinio, la copia autentica del provvedimento impugnato con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta, la procura, se questa è conferita con atto separato rispetto al ricorso, gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda. Con un deciso stacco, non è, invece, richiesto a pena di improcedibilità il deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte.

Il discorso sull’improcedibilità del ricorso per cassazione non può dunque prescindere dall’intero contesto in cui essa è sancita, dovendo riguardare tutte le ipotesi previste dalla disposizione normativa e non solo quella del n. 2, comma 2. Una prima riflessione proviene dalla risposta che fornì la Corte costituzionale (sent. n. 471 del 1992) quando questa stessa S.C. le rimise il giudizio di costituzionalità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 dubitando della ragionevolezza della prescrizione di un termine perentorio per il deposito della procura speciale e stimando la correlata sanzione d’improcedibilità sproporzionata rispetto ad un onere che, sebbene legato da un rapporto di necessaria funzionalità rispetto al processo, costituiva pur sempre una formalità non finalizzata al perseguimento di un interesse connesso con la tutela di valori essenziali o comunque equivalenti a quello sacrificato. In quell’occasione il giudice delle leggi dichiarò inammissibile la questione di costituzionalità, sul rilievo che il giudice remittente, chiedendo di superare la perentorietà del termine previsto dall’art. 369 c.p.c., finiva in sostanza per domandare una pronunzia di tipo additivo, comportante la possibilità di applicare sanatorie al mancato o tardivo deposito della procura speciale, così introducendo nel processo innovazioni di carattere politico che solo al legislatore è consentito apportare.

Ed, infatti, il legislatore, ove riconosca la sussistenza in concreto di uno specifico interesse pubblico che ne giustifichi l’adozione, può legittimamente imporre all’esercizio di facoltà e di poteri processuali limitazioni temporali immutabili ed irreversibili, per il fatto che i termini perentori, cui sono connaturati i caratteri dell’improrogabilità e dell’insanabilità, tendono a garantire, oltre alla fondamentale esigenza di giustizia relativa alla celerità o alla speditezza dei processi, un’effettiva parità dei diritti delle parti in causa mediante il contemperamento dell’esercizio dei rispettivi diritti di difesa. Tendono a garantire, soprattutto, la certezza del giudicato.

Sembra al collegio che medesimo discorso debba farsi riguardo all’ipotesi dell’art. 369 c.p., comma 2, n. 2 (della cui legittimità costituzionale, come s’è già visto in precedenza, questa Corte non ha in passato dubitato).

Un discorso che, per altro verso, non può prescindere dalla specialissima caratteristica del giudizio di cassazione, dal suo rilievo costituzionale, dalla sua assoluta differenza rispetto ai giudizi di merito, dalla speciale procura della quale deve essere munito il difensore, dagli speciali motivi di impugnazione nei quali deve articolarsi il ricorso introduttivo, dalle speciali pronunzie attraverso cui la Corte si esprime. Non può omettersi di considerare che il fine del giudizio di cassazione è la nomofilachia (come esplicitamente rimarcato dalle recenti riforme legislative), che il caso concreto sottoposto al giudizio di legittimità non è altro che un’occasione perché la Corte enunci il principio di diritto ed eserciti così il suo potere regolatore. Come pure non deve essere trascurato il carattere altamente tecnico del dibattito instaurato con il ricorso, tant’è che il recente legislatore ha introdotto l’onere per il ricorrente di formulare quesiti di diritto a pena d’inammissibilità.

In quest’ottica, appare affatto ragionevole che il legislatore abbia imposto delle regole rigide a chi intende innescare un siffatto tipo di processo, che – si badi – dopo la fase introduttiva, retta dalle poche regole sulla procedibilità, si svolge tutto in maniera officiosa.

Tra queste regole v’è, appunto, quella che assegna al ricorrente l’onere di depositare in termine la sentenza impugnata con la relazione di notificazione, se questa v’è stata. Non è in discussione che la disposizione abbia lo scopo di consentire alla Corte di verificare la tempestività del ricorso e, dunque, un requisito d’ammissibilità. Sicuramente, se il ricorso o l’istanza di regolamento di competenza fossero proposti nel termine rispettivo di sessanta o di trenta giorni dal deposito del provvedimento impugnato neppure si porrebbe il problema del deposito del provvedimento stesso notificato o del biglietto di cancelleria da cui evincersi la relativa comunicazione. Così come neppure si pone il problema nel caso in cui il ricorrente non dichiari affatto che la sentenza gli è stata notificata e non la produca (in tal modo intendendo avvalersi del termine lungo per impugnare) e la controparte nulla eccepisca in merito.

Tuttavia, la circostanza che lo scopo della disposizione possa essere raggiunto anche in altri modi (attraverso gli equipollenti dei quali s’è ampiamente detto in precedenza) o che esso possa essere soddisfatto dalla mancata contestazione della controparte non può portare all’estrema conseguenza di disattivare la precisa ed in equivoca regola del rito.

Non c’è regola che non abbia un suo scopo e se non l’avesse sarebbe incostituzionale in quanto irragionevole, discriminatoria, impeditiva del giusto processo e della giustizia sostanziale. Qui il problema non è lo scopo (indiscusso), il problema sono i tempi. Ossia, v’è da chiedersi perché il legislatore abbia ristretto nei venti giorni un onere di deposito di atti che servono per verificare l’ammissibilità del ricorso; ammissibilità che potrebbe essere verificata anche dopo quel termine, prima della discussione, all’esito della discussione, al momento della decisione.

La risposta la si è già data in precedenza: perché quello di cassazione è un giudizio diverso e speciale rispetto a quello di primo e secondo grado, denotato da celerità, da semplicità, da quasi totale officiosità.

D’altronde, una volta scardinata la regola dell’improcedibilità, bisognerebbe ipotizzare l’uso senza tempo dello strumento dell’art. 372 c.p.c., oppure rimettere il gioco nelle mani del contraddittore.

Ma non solo, si potrebbe giungere ad estendere il dettato dell’art. 182 c.p.c. ed immaginare che il deposito degli atti possa essere effettuato dietro invito del giudice anche dopo l’inizio della discussione, se non addirittura al termine dell’udienza, attraverso l’emissione di un’ordinanza interlocutoria che rimetta la parte in termine per il deposito.

Tutto questo, l’estensione di forme di sanatoria all’art. 369 c.p.c. rimesse all’autonomia delle parti o all’intervento collaborativo del giudice, è immaginabile ed è possibile. Si possono eliminare tutte le cause d’improcedibilità o distinguere tra quelle sanzionate con termine perentorio e quelle sanabili, si può pensare al provvedimento di sanatoria in camera di consiglio o in udienza, si può fissare un termine finale per l’esercizio del potere giudiziale di regolarizzazione. Però, tutto questo può farlo solo il legislatore, perché – come ebbe a dire la già citata sentenza costituzionale – significa modificare l’attuale ruolo del giudice di legittimità ed, inoltre, scegliere discrezionalmente tra un’estrema molteplicità di modalità d’attuazione.

Se ci si pone in quest’ottica, appare chiaro che l’improcedibilità non è una “variante verbale dell’inammissibilità” (come ipotizzano due delle ordinanze interlocutorie in commento), non è una sorta di tagliola tesa dal legislatore al ricorrente, ma è la sanzione per la mancata osservanza di una regola imposta ai fini della prova delle condizioni di ammissibilità. Prova che il legislatore vuole che sia sin dall’inizio fornita dal ricorrente, in maniera da porre subito la Corte nella possibilità di delibare, anche mediante l’apposito procedimento camerale predisposto, l’ammissibilità del ricorso.

Se ci si pone in quest’ottica, i risultati ai quali si può pervenire attraverso l’applicazione del dettato normativo non sono affatto paradossali (ossia delle conclusioni che, per la contrarietà con le previsioni, appaiono sorprendenti ed incredibili) ma l’ovvia conseguenza sanzionatoria di un comportamento contrario ad una regola d’accesso (peraltro neppure estremamente gravosa) che il legislatore ha ritenuto appropriata al tipo di processo. E che il processo per cassazione richieda dei meccanismi selettivi d’accesso che ne favoriscano il rapido esito è una preoccupazione che tuttora affligge il legislatore, il quale di recente è intervenuto (ed in questi giorni si sta nuovamente adoperando) per introdurre nuovi sistemi filtranti. Neppure questa lettura della norma potrebbe dirsi contraria ai principi del giusto processo, costituzionalizzati dall’art. ili Cost. (come adombra una delle ordinanze di rimessione), posto che il giusto processo è quello “regolato dalla legge” e che, se per un verso deve tendere il più possibile al conseguimento di una giustizia sostanziale, per altro verso deve svolgersi in termini ragionevoli, per rispettare i quali è indispensabile porre preclusioni ed oneri a carico delle parti. Il principio di ragionevole durata del processo è stato definito “asse portante” (Cass. sez. un. n. 24883 del 2008, sulla nuova lettura dell’art. 37 c.p.c.) nella lettura delle norme processuali, che, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro interpretativo e costituzionale rispetto a quelle disposizioni del rito le quali – rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione del “diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita, oggetto della loro contesa” (v. Corte Cost. n. 77 del 2007 cit.) – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all’altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive, nè da esigenze repressive o di altro genere. E non v’è dubbio che procrastinare fino al momento della discussione (o anche dopo) la produzione di atti utili all’indagine sull’ammissibilità, che la parte, invece, avrebbe potuto sin dall’inizio mettere a disposizione del giudice, senza sforzi particolarmente gravosi, comporta un inutile e dannoso rallentamento della procedura, senza per nulla, dall’altro verso, comprimere garanzie difensive o impedire il conseguimento di una risposta in ordine alla contesa.

Allora, ammettere equipollenti al tempestivo deposito contraddirebbe la previsione dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, quale adempimento che deve essere eseguito entro il termine per il deposito del ricorso, in funzione dell’ordinato e celere svolgimento del giudizio di cassazione ed, inoltre, metterebbe la sorte del giudizio di cassazione nelle mani del controricorrente, dalla cui decisione di produzione della suddetta copia con la relata dipenderebbe la procedibilità. Nè, in riferimento ai suddetti equipollenti, potrebbe giustificarsi l’esclusione della sanzione di improcedibilità sulla base del principio del raggiungimento dello scopo della previsione dell’indicata produzione, cioè considerandosi che diviene possibile la valutazione della tempestività dell’impugnazione. A tale applicazione di uno dei principi regolatori della disciplina generale delle nullità formali osta, infatti, la circostanza che l’adempimento dell’onere del deposito della copia con la relata di notifica è assoggettato, come si è detto, al termine di deposito del ricorso e, pertanto, lo scopo della previsione di tale onere (da identificarsi nella messa a disposizione della Corte di cassazione della copia della sentenza con la relata entro quel termine) non potrebbe apparire raggiunto per effetto del deposito avvenuto con il controricorso dell’intimato della copia con detta relata o della sua presenza nel fascicolo d’ufficio, collocandosi detti eventi dopo la scadenza di quel termine.

Un’ultima annotazione riguarda l’invito, fatto da due delle ordinanze di rimessione in commento, ad applicare alla fattispecie in trattazione gli stessi principi affermati dalla recente Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627, in tema di produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c. La sentenza ha ritenuto che questa produzione è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio e ne ha fatto derivare che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal primo comma della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della Corte in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2.

Il collegio ritiene che il richiamo a questa diversa vicenda non sia conferente. Infatti, in caso di notifica a mezzo posta, il deposito dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato rappresenta l’unica prova dell’effettivo compimento del procedimento notificatorio del ricorso e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio.

Come tale serve a dimostrare l’ammissibilità del ricorso e l’art. 372 c.p.c. stabilisce che “il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso”, laddove, invece, l’art. 369 c.p.c. assegna al ricorrente (a pena d’improcedibilità) l’onere di depositare (tra l’altro) la copia della sentenza notificata “insieme col ricorso”. Ecco perchè, nel primo caso, le sezioni unite hanno ritenuto che la produzione possa avvenire fino all’udienza di discussione e che l’omessa notifica dell’elenco di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2, integri una violazione di carattere meramente formale, cui non consegue la inutilizzabilità del documento.

Si tratta, dunque, di due vicende affatto differenti che non possono soggiacere allo stesso trattamento.

In conclusione e riepilogando quanto finora detto, le sezioni unite intendono confermare la decisione alla quale pervennero già con la sentenza n. 11932 del 1998, che offre la soluzione più equilibrata per regolare la vicenda; e, dunque, il riscontro dell’osservanza, da parte della Corte di cassazione, si atteggia, evidentemente, in maniera diversa, secondo che la parte ricorrente alleghi espressamente (enunciando la circostanza nel ricorso) oppure implicitamente (producendo copia autentica della sentenza impugnata, recante la relata di notificazione idonea ai fini del decorso del termine per l’impugnazione) che la sentenza, contro cui ricorre, sia stata notificata; oppure non formuli alcuna allegazione.

Nel primo caso, (fermo che non pone problemi l’allegazione implicita, atteso che essa soddisfa senz’altro il precetto legislativo), l’allegazione espressa del ricorrente determina a suo carico l’onere (in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, citato n. 2 ed in ottemperanza alla regola di giudizio sull’onere della prova, applicata alla dimostrazione dei presupposti e delle condizioni di regolarità del processo) di depositare la copia autentica della sentenza con la relata di notificazione, unitamente al ricorso (o anche – a norma dell’art. 372 c.p.c., comma 2, applicabile estensivamente ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso – separatamente, ma comunque entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c.). Ove tale produzione non avvenga, la sanzione della improcedibilità non è eludibile, non solo per effetto della mancata contestazione da parte dell’intimato che abbia resistito al ricorso, ma anche attraverso equipollenti, come il deposito di una copia con la relata di notifica da parte del controricorrente o come la circostanza che nel fascicolo d’ufficio trasmesso dal giudice a quo risulti inserita una copia con detta relata.

Nell’ipotesi di mancata allegazione da parte del ricorrente del fatto dell’avvenuta la notificazione della sentenza impugnata e di produzione soltanto della copia autentica della sentenza stessa, la Corte di cassazione deve, invece, ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il termine lungo ed il suo potere di riscontro della tempestività di detto esercizio si accentrerà su tale verifica.

Qualora, tuttavia, o per eccezione dell’unica o di alcuna delle parti controricorrenti (che rilevino che, invece, era avvenuta la notificazione e producano la copia della sentenza con la relata della stessa) o, anche in difetto di tale eccezione, sulla base dell’esame delle produzioni delle parti (cioè sia del ricorrente, sia di parti controricorrenti) o anche dello stesso fascicolo d’ufficio, la Corte riscontri che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno dell’esercizio del diritto di impugnazione rispetto al termine breve decorrente da quella notificazione, essa deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere di deposito della copia notificata della sentenza e dichiarare la improcedibilità del ricorso (rilievo che precede quello dell’eventuale inammissibilità dell’impugnazione, eccepita o meno che sia, per l’intempestività del ricorso in relazione al termine breve dalla notificazione decorso). Per questi ultimi concetti, cfr. soprattutto la già citata Cass. n. 19654 del 2004.

Tutte le ragioni sopra esposte possono essere opportunamente adeguate al ricorso per regolamento di competenza, per quanto già affermato in precedenza sub I.1.. Sicché, posto che l’art. 47 c.p.c., nel sancire che, nel termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del ricorso, la parte che propone l’istanza di regolamento “deve depositare nella cancelleria il ricorso con i documenti necessari”, fa inequivoco riferimento all’art. 369 c.p.c., bisogna ritenere che, a pena d’improcedibilità, la stessa parte, al fine di consentire alla Corte di verificare la tempestività dell’impugnazione, debba depositare il biglietto di cancelleria insieme con il ricorso, oppure con le modalità indicate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, ma pur sempre nel termine di venti giorni stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

In sintesi, possono essere enucleati i seguenti principi:

– Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte di cassazione deve ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo e procedere all’accertamento della sua osservanza. Tuttavia, qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere del deposito della copia notificata della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità del ricorso per cassazione precede quello dell’eventuale sua inammissibilità;

– La previsione – di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitatile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2 applicabile estensivamente, purchè entro il termine, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

In tema di ricorso per regolamento di competenza, l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, unitamente alla copia autentica della sentenza impugnata, del biglietto di cancelleria da cui desumere la tempestività della proposizione dell’istanza di regolamento (obbligo fissato, a pena di improcedibilità, dal combinato disposto dell’art. 47 c.p.c. e dell’art. 369 c.p.c., comma 2) può essere soddisfatto o mediante il deposito del predetto documento contestualmente a quello del ricorso per cassazione (come previsto, per l’appunto, dall’art. 369 c.p.c. citato, comma 2) oppure attraverso le modalità previste dall’art. 372 c.p.c., comma 2 (deposito e notifica mediante elenco alle altre parti), purché nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

Il ricorso per regolamento di competenza nella specie proposto deve essere, dunque, dichiarato improcedibile, siccome il biglietto di cancelleria non è stato depositato né insieme con il ricorso, né, separatamente, nel termine di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1.

La mancata difesa della parte intimata esime la Corte dal provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2009


Cass. pen. Sez. II, (ud. 12-12-2008) 13-03-2009, n. 11131

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Giuseppe Maria – Presidente

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. CAMMINO Matilde – Consigliere

Dott. RENZO Michele – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.F.E. n. (OMISSIS);

avverso l’ordinanza emessa in data 7 maggio 2008 dal Tribunale di Cosenza;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Matilde Cammino;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, Sost. Proc. Gen. Dott. STABILE Carmine, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

sentito il difensore avv. COSCARELLA Giovanni del foro di Cosenza che rinuncia al ricorso nella parte riflettente il sequestro delle autovetture perchè dissequestrate e per la restante parte chiede l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

L.F.E., legale rappresentante della Spees Control, ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in data 7 maggio 2008 del Tribunale di Cosenza con la quale era stata rigettata la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso in data 10 aprile 2008 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola e avente ad oggetto sette autovetture e tutti gli apparecchi di rilevamento della velocità (autovelox) di proprietà dell’impresa individuale Speed Control, beni utilizzati per l’attività di rilevazione della velocità dei veicoli in transito nei comuni di (OMISSIS).

Detta attività, secondo la tesi accusatoria, era intenzionalmente preordinata a trarre in inganno gli automobilisti, in contrasto con lo spirito della normativa in materia diretta a prevenire incidenti più che a reprimere.

Secondo il Tribunale, l’attuale formulazione dell’art. 142 C.d.S. (modif., dal D.L. 3 agosto 2007, n. 117, conv. dalla L. n. 160 del 2007) prevede che le postazioni di controllo debbano essere segnalate e ben visibili. Anche la circolare 3 agosto 2007 del ministero dell’Interno prescrive la segnalazione almeno 400 metri prima del punto in cui l’apparecchio di rilevamento della velocità era collocato. Il D.M. 15 agosto 2007 e la Circolare Ministeriale 8 ottobre 2007 ribadivano l’esigenza di segnalare le postazioni di controllo con adeguato anticipo e in modo da garantirne il tempestivo avvistamento. Dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria risultava invece che, nei tre comuni calabresi per i quali la Speed Control era titolare della concessione per il noleggio delle apparecchiature autovelox, le apparecchiature in questione erano state ben occultate in autovetture spesso di proprietà del titolare il quale, ricevendo un compenso parametrato su ogni verbale di infrazione per il quale era riscossa la relativa sanzione, era interessato ad incrementare le riscossioni. Veniva pertanto ritenuto sussistente il reato di truffa, mentre il periculum in mora era individuato nei prevedibili ulteriori esborsi illegittimi da parte degli automobilisti sulla base di un rilevamento automatico della velocità così organizzato.

Con il ricorso presentato dal L. tramite il suo difensore si deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonchè la totale mancanza di motivazione in ordine al fumus commissi delicti, affermato nell’ordinanza impugnata senza tener conto delle risultanze processuali e della documentazione prodotta dalla difesa e omettendo qualunque indagine sull’elemento psicologico del reato ipotizzato.

Il ricorso è inammissibile.

In relazione al sequestro delle autovetture, restituite con provvedimento del 29 giugno 2008, il difensore all’odierna udienza ha formalmente rinunciato al ricorso così manifestando il venir meno dell’interesse da parte del ricorrente. Le deduzioni difensive comunque nel loro complesso sono generiche e manifestamente infondate.

Va infatti premesso che – secondo quanto affermato più volte da questa Corte, anche a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 29 maggio 2008 n. 25932, Ivanov; 28 gennaio 2004 n. 5876, p.c. Ferrazzi in proc. Bevilacqua; 28 maggio 2003 n. 25080, Pellegrino) – il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322 bis e 324 c.p.p. in materia di sequestro preventivo e di sequestro probatorio (in quest’ultimo caso per effetto del rinvio operato dall’art. 257 c.p.p. all’art. 324 c.p.p.) può essere proposto esclusivamente per il vizio di violazione di legge, comprendente sia l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c) sia il difetto di motivazione che si traduca, a sua volta, in una violazione della legge processuale (art. 125 c.p.p., comma 3) perché l’apparato argomentativo manchi completamente o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di ragionevolezza che consentano di rendere comprensibile l’iter logico posto a fondamento del provvedimento impugnato (motivazione meramente apparente).

Il ricorrente nel caso di specie si duole dell’omessa valutazione da parte del giudice di merito delle censure articolate con la richiesta di riesame e della documentazione difensiva, senza tuttavia indicarne specificamente, sia pure in modo sommario, il contenuto, al fine di consentire l’individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità. Il ricorso sotto questo profilo è inammissibile in quanto, non autosufficiente, essendo privo della precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica. Requisito indispensabile dei motivi di impugnazione è infatti la specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame (Cass. sez. 6, 19 dicembre 2006 n. 21858, Tagliente, sez. 5, 9 dicembre 1998 n. 2896, La Mantia; Sez. unite 11 novembre 1994 n. 21).

Alla Corte è peraltro preclusa in tema di sequestro preventivo una valutazione che possa risolversi in un’anticipata decisione della questione di merito e quindi una verifica in concreto della fondatezza della tesi accusatoria. Il sindacato sulle condizioni di legittimità della misura cautelare reale si realizza infatti attraverso una delibazione sommaria della congruità degli elementi rappresentati in cui, senza prescindere dalle concrete risultanze processuali e dalle contestazioni difensive (Cass. sez. 4, 29 gennaio 2007 n. 10979, Veronese; sez. 1, 19 dicembre 2003 n. 1885, Cantoni;

sez. 2, 21 ottobre 2003 n. 47402, Di Gioia; sez. 3, 11 giugno 2002 n. 36538, Pianelli; sez. 6, 3 marzo 1998 n. 731, Campo; Sez. Un. 20 novembre 1996 n. 23, Bassi), possono rilevare eventuali difformità tra fattispecie legale e fattispecie reale solo se ravvisabili ictu oculi.

Entro questi limiti la Corte ritiene che nell’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame – contrariamente a quanto affermato nel ricorso – sia pervenuto ad affermare la sussistenza del fumus del reato di truffa attraverso un percorso argomentativo immune da vizi logici e giuridici, all’esito di un’approfondita analisi della normativa in materia di rilevamento della velocità dei veicoli attraverso postazioni di controllo sulla rete stradale e di un circostanziato esame dei concreti risultati delle indagini di polizia giudiziaria, senza peraltro trascurare le argomentazioni della difesa del L. e la documentazione dalla stessa prodotta (come si desume dalla menzione della fotografia prodotta dalla difesa e riguardante la segnalazione della postazione mobile di rilevamento della velocità nel Comune di (OMISSIS)).

Quanto all’elemento psicologico del reato di truffa, la Corte osserva che il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall’accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’agente o della sussistenza dell’elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all’adozione della misura cautelare reale (Cass. sez. 14 aprile 2006 n. 15298, Bonura; sez. 1, 9 luglio 1999 n. 2762, Faustini; sez. 3, 5 maggio 1994 n. 1428, Menietti).

Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 22-01-2009) 26-02-2009, n. 4622

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10461/2002 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato TACCHI VENTURI PIER CESARE, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 229/2000 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA, depositata il 26/02/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/01/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato D’AYALA VALVA, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo del ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo
Il sig. B.S. ha impugnato due avvisi di accertamento con i quali il competente ufficio finanziario ha rettificato la dichiarazione dei redditi della Dolciaria del Garba srl, riferita all’esercizio 1989, della quale il B. è stato amministratore fino al (OMISSIS), ed ha conseguentemente contestato che in relazione al maggior reddito accertato non erano state effettuate e versate le ritenute di acconto sugli utili distribuiti ai soci della società, a ristretta base partecipativa.

A sostegno dell’originario ricorso, il contribuente eccepiva vizi di motivazione degli atti impugnati, illegittimità delle pretese fiscali avanzate nei confronti di un ex legale rappresentante e infondatezza nel merito delle pretese stesse.

La commissione tributaria provinciale, previa riunione dei ricorsi, ha rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione del B., sollevata dall’ufficio, sul rilievo che in quanto destinatario degli atti il contribuente era legittimato ad impugnarli; nel merito, ha accolto il ricorso ritenendo illegittimo l’accertamento effettuato con metodo induttivo.

L’ufficio ha impugnato la decisione di primo grado riproponendo l’eccezione di difetto di legittimazione del B., deducendo tra l’altro che l’ex legale rappresentante della società poteva contestare soltanto il la sussistenza del vincolo dell’obbligazione solidale per il pagamento delle sopratasse e delle pene pecuniarie previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6.

La commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’ufficio ritenendo che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti in contestazione, essendo estraneo alla compagine sociale, che è il soggetto passivo d’imposta: avrebbe potuto far valere eventualmente questa sua estraneità in sede di riscossione.

Avverso quest’ultima decisione ricorre il contribuente con cinque motivi.

L’amministrazione finanziaria dello Stato resiste con controricorso, insistendo nel prospettare la tesi della carenza di legittimazione del B., al quale gli avvisi sarebbero stati notificati “solo per conoscenza… per le sole implicazioni penali ed amministrative” (v. p. 1 dell’odierno ricorso).

Motivi della decisione
Il ricorso appare fondato in relazione al terzo motivo, assorbiti tutti gli altri motivi, fatta eccezione per il primo, che è infondato.

Infatti, con il primo motivo di ricorso viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, anche sotto il profilo della omessa pronuncia, in quanto la CTR non avrebbe tenuto conto della eccezione di inammissibilità dell’appello dell’ufficio, per mancanza di motivi specifici di impugnazione. Tale censura appare infondata, oltre ad essere formulata in maniera ambigua. In ogni caso, dalla lettura dei brani riportati nel ricorso odierno (p. 5) emerge con chiarezza che i motivi posti a sostegno dell’appello non erano generici, risultando incentrati sulla questione della violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, che è il tema sul quale, in particolare, si è sviluppata la vicenda processuale. D’altra parte, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel processo tributario, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza” (Cass. 1224/2007).

Quanto alla censura di omessa pronuncia, la sentenza impugnata si dilunga proprio sulla questione della legittimazione processuale del B., sul merito della quale è incentrato il terzo fondato motivo di ricorso, che va esaminato con precedenza su tutti gli altri.

Con il terzo motivo, infatti, il ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6, perchè erroneamente la CTR ha ritenuto che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti notificatigli, perchè da questi non poteva derivargli alcun pregiudizio.

Giova preliminarmente chiarire che trattasi di avvisi di accertamento notificati il 21.11.1997, vale a dire prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, (operante dal 1 aprile 1998, ai sensi dell’art. 29, dello stesso D.Lgs.) che ha abrogato il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98.

Nel merito, la censura appare fondata. Non è affatto vero che la notifica degli avvisi di accertamento era un atto “indifferente” per il contribuente, tanto più se, come osserva l’Ufficio, l’accertamento notificato alla società era divenuto definitivo. La stessa amministrazione ricorrente riconosce che gli avvisi contestati sono stati notificati al B. per le implicazioni penali ed amministrative. La difesa del contribuente, che all’epoca dei fatti era l’amministratore della società, non può essere limitata al solo profilo della sussistenza del vincolo della obbligazione solidale degli effetti sanzionatori, come erroneamente scrive la CTR, ma può e deve essere estesa a tutti i profili che attengono alla sussistenza delle violazioni contestate, che sono il presupposto dei profili sanzionatori. Il “palo” può difendersi dall’accusa del concorso in furto sia dimostrando di non aver svolto tale ruolo di “sentinella”, ma anche dimostrando che il furto non si è verificato.

Il fatto che l’avviso di accertamento non sia stato impugnato da chi aveva la rappresentanza della società quando è stato notificato il relativo atto dimostra che una efficace tutela giudiziaria del B. non può che essere affidata alla sua iniziativa “a tutto campo” rispetto ad atti impositivi che gli andavano comunque notificati. D’altra parte, o il B. veniva chiamato in giudizio come litisconsorte necessario o comunque avrebbe potuto poi formulare tutte le eccezioni utili alla sua difesa, di merito e di rito, rispetto alle contestazioni fiscali anche in sede di riscossione. La mancata impugnazione dell’avviso notificato alla società non lo vincola in alcun modo sul piano delle conseguenze sanzionatorie. Così come non lo avrebbe vincolato l’eventuale giudicato formatosi nei confronti dei destinatari dell’atto di accertamento diretto alla società, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato. D’altra parte, se il B. non avesse impugnato gli atti notificatigli, facendoli diventare definitivi, non avrebbe potuto poi impugnare gli atti successivi, come ad esempio l’iscrizione a ruolo, se non per vizi propri (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3).

In definitiva, l’ufficio non può notificare a proprio piacimento atti impositivi assumendo che siano privi di effetti giuridici e pretendere che il contribuente se ne stia tranquillo “tanto non accade nulla”. Ogni atto giuridico produce effetti e se un atto viene definito inutile dallo stesso emittente c’è da chiedersi (a parte i dubbi legittimi sulla sanità mentale e/o idoneità professionale delle persone fisiche responsabili di tali comportamenti) perchè sia stato adottato e notificato, fermo restando gli effetti di danno che può comunque produrre nella sfera giuridica del destinatario, a prescindere dalle intenzioni dell’emittente (in un caso come quello in esame, ad esempio, è evidente che il destinatario degli atti ha la necessità di rivolgersi ad un professionista per verificare se e quali effetti possa produrre un atto definito “innocuo” dalla controparte, anche se poi in ipotesi l’atto si riveli effettivamente innocuo, contrariamente a quanto avvenuto nella specie).

Tutte le altre censure attengono al merito della vicenda e sono quindi assorbite, dovendo eventualmente essere esaminate dal giudice del rinvio.

Conseguentemente, il ricorso va accolto in relazione al terzo motivo, rigettato il primo ed assorbiti gli altri, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice di merito, per il giudizio di appello. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il terzo, assorbiti tutti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale del Veneto.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2009


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 06-02-2009) 25-02-2009, n. 4587

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

P.B., P.A., G.F., S.L., rappresentati e difesi, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

successivamente, in corso di causa: P.B. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 28 ottobre 2005 (Notaio Giancarlo Mazza di Roma, rep. n. 52341), dagli Avv. Diego Corapi e Vittorio Cappuccini, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, Via Flaminia, n. 318; P.A. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 14 aprile 2005 (Notaio Giulia Ardissone di Torino, rep. n. 8803), dagli Avv. Giuseppe Celona e Andrea Manzi, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, Via Federico Confalonieri, n. 5; G. F. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 13 marzo 2006 (Notaio Pietro Mazza di Roma, rep. N. 104133), dall’Avv. Mario Nuzzo, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via Cassiodoro, n. 9;

– ricorrenti –

contro

S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote della S.r.l.

Hotel Villaggio S.T.: SI.LI. Ved. B., + ALTRI OMESSI e, per loro nome e conto, G.I., nonché G.I. in proprio, rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv. DANOVI Remo e Francesco Giorgianni, elettivamente domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, Via Sistina, n. 42;

– controricorrenti –

e sul ricorso proposto da:

S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote dalla S.r.l.

Hotel Villaggio Santa Teresa, come sopra elencati, e per loro nome e conto G.I., nonché G.I. personalmente, rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv. Remo Danovi e Francesco Giorgianni, elettivamente domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, Via Sistina, n. 42;

– ricorrenti in via incidentale –

contro

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro pro tempore; CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante pro tempore; P.B., P.A., G.F. e S.L.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 2841 depositata il 21 ottobre 2003.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza Pubblica del 6 febbraio 2009 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

uditi, per i ricorrenti, l’Avvocato dello Stato Salvatorelli e gli Avv. Nuzzo, Cappuccini e Celona, e, per i controricorrenti e ricorrenti incidentali, l’Avv. Giorgianni;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’estinzione dei giudizi nei confronti delle parti che hanno depositato gli atti di rinuncia, per l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale, per il rigetto del resto e del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
1.- In data 21 luglio 1983 veniva pubblicato, mediante deposito presso la CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, il prospetto informativo (a norma del D.L. 8 aprile 1974, n. 95, art. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 giugno 1974, n. 216, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 12) relativo all’offerta al pubblico della sottoscrizione di titoli atipici afferenti l’operazione “Hotel Villaggio Santa Teresa” (d’ora in poi, anche HVST).

I proponenti l’operazione – le socc. S. p.a., Hotel Villaggio S.T. a r.l., Istituto Fiduciario L. a r.l., Istituto Fiduciario L. Servizi a r.l. – precisavano che intendevano collocare presso il pubblico, e per l’intero capitale sociale (L. 44 miliardi), le quote della soc. HVST (che deteneva il capitale della s.p.a. S. Grandi Alberghi, proprietaria del complesso immobiliare-villaggio turistico sito in (OMISSIS)) e che le quote sarebbero state acquistate mediante mandato, e con successiva intestazione fiduciaria, alla soc. Istituto Fiduciario L. Procedutosi a massiccia sottoscrizione di quote nei mesi successivi, ed all’esito di ripetute notizie di stampa su irregolarità nell’esercizio delle attività finanziarie da parte delle società promotrici, il Tribunale di Milano, con sentenze in data 7 maggio 1985 e 13 dicembre 1985, dichiarava il fallimento delle soc. IFL (poi posta in liquidazione coatta amministrativa), IFL Servizi e S. Grandi Alberghi, nel mentre era posta in liquidazione la soc. HVST. Con atto di citazione notificato in data 8-9 maggio 1987 un primo gruppo di sottoscrittori delle quote della soc. HVST ( G.I. ed altri quattro) conveniva innanzi al Tribunale di Milano i componenti pro tempore della CONSOB e due suoi funzionari ( P. B., M.V., P.A., S.L., G.F.), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti per effetto della indebita autorizzazione alla operazione data dalla CONSOB il (OMISSIS), a cagione della quale essi avevano proceduto all’acquisto da IFL delle quote della HVST. Con atto in data 10 luglio 1987, quindi, intervenivano in giudizio G.I., F.G., G.E., nella qualità di procuratori speciali di S.R. e di altri numerosi sottoscrittori, che, del pari, chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni. Gli attori lamentavano, tra l’altro, che il prospetto informativo depositato presso la CONSOB era assolutamente carente di veridicità, posto che all’epoca del deposito il capitale della soc. HVST ammontava non già a L. 44 miliardi ma a soli L. 20 milioni, e che, pur dopo le successive delibere di aumento e pur dopo la loro esecuzione, il capitale, al 31 dicembre 1983, ammontava a L. 22 miliardi; che – come noto ai commissari CONSOB – la S., che avrebbe dovuto cedere ad HVST la partecipazione nella soc. S. Grandi Alberghi, tal partecipazione non aveva neanche essa ancora acquisito; che il valore del bene era infinitamente inferiore al capitale di L. 44 miliardi e la stessa stampa, appena nel settembre 1983, già aveva riferito di preoccupanti iniziative.

Nella resistenza dei convenuti e dei terzi chiamati in causa – Ministero del Tesoro e CONSOB -, il Tribunale di Milano con sentenza pubblicata l’11 marzo 1996 rigettava tutte le domande.

2. – La sentenza era impugnata da S.R. e dagli altri sottoscrittori (e per essi dal procuratore speciale G.I., anche in proprio).

2.1. – Nel contraddittorio con tutti gli appellati, l’adita Corte di Milano, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 13 novembre 1998, rigettava l’appello.

La Corte territoriale affermava che:

– nell’esame della sussistenza e rilevanza degli addebiti denunciati non aveva alcun effetto di vincolo la sentenza penale con la quale il giudice istruttore del Tribunale di Milano aveva dichiarato non doversi procedere per amnistia nei confronti degli imputati G. F., S.L. e P.A., posto che, ai sensi dell’art. 28 abrogato cod. proc. pen., l’efficacia vincolante della statuizione agli effetti civili sarebbe potuta derivare solo da sentenze di condanna o di assoluzione, non anche di proscioglimento per amnistia.

Restava però indubbia la possibilità di tenere conto degli atti penali, pur nella piena facoltà di rivalutarli;

– quanto ai poteri della CONSOB all’epoca dei fatti di causa, doveva escludersi qualsiasi potestà di tale organo di indagare sulla veridicità dei fatti dichiarati nel prospetto illustrativo (e in particolare sulla convenienza economica della proposta operazione);

– la CONSOB aveva fatto inserire nel prospetto la duplice avvertenza secondo cui l’adempimento di pubblicazione del prospetto stesso non conteneva alcun giudizio di convenienza della Commissione sull’investimento e la veridicità e completezza dei dati erano esclusiva responsabilità dei redattori del prospetto: in tal modo la CONSOB aveva adempiuto all’onere di mettere gli investitori sull’avviso quanto ai limiti (legali) dell’indagine di essa Commissione sulla operazione sollecitata con il prospetto. E se tale contegno non esonerava la Commissione dalle conseguenze di proprie condotte dolose o gravemente colpose, certamente rendeva più rigorosa l’esigenza di prova del comportamento inadempiente addebitato;

– le gravi inesattezze contenute nel prospetto non avevano potuto avere un ruolo decisivo nella causazione del danno, perché: (a) nello stesso prospetto erano dichiarate modalità di attuazione dell’aumento di capitale tali da far emergere agli occhi dei sottoscrittori la inidoneità informativa, al proposito, dei dati dichiarati; (b) gli eventi indicati inesattamente (nel (OMISSIS)) ebbero poi a verificarsi entro il (OMISSIS); (c) le perdite subite dai sottoscrittori non erano derivate da inesattezze del prospetto bensì dalla differenza tra il valore unitario della quota sottoscritta (L. 10.000) e il valore unitario effettivo (stimato in L. 5.810); (d) il valore immobiliare effettivo dell’operazione finiva per coincidere con quanto (circa L. 30 miliardi) da S. comunicato a CONSOB il (OMISSIS), sicché dalla non correttezza dell’informazione non poteva discendere alcuna omissione informativa della Commissione; il danno subito era collegato al fatto che il canone del complesso immobiliare non poteva affatto rappresentare una componente attiva dell’operazione, dato che il relativo credito (circostanza del tutto sottaciuta) era stato ceduto alla BNL, sicché il complesso immobiliare non poteva – per tal ragione – generare a breve termine proventi di sorta: e tanto attestava bensì le gravi responsabilità dei promotori dell’iniziativa ma escludeva qualsiasi responsabilità a carico della CONSOB, che non aveva alcun potere di rivedere le stime immobiliari;

– le successive notizie di stampa sul carattere “avventuroso” dell’investimento, lungi dal consentire alla CONSOB alcun intervento a posteriori, che la legge all’epoca non autorizzava, stante anche il carattere discrezionale dei poteri di cui al D.L. n. 95 del 1974, art. 3, lett. b e c, e art. 4, come modificato dalla L. n. 77 del 1983, tal intervento finivano per rendere affatto inutile: infatti da nuove comunicazioni CONSOB il pubblico non avrebbe ricevuto protezione maggiore di quella già assicurata dallo stesso clamore della vicenda.

3. – Per la cassazione di tale sentenza S.R. e gli altri sottoscrittori di quote (e per essi il procuratore speciale G.I., anche in proprio) proponevano ricorso, con atto notificato il 18 novembre 1999, affidato a cinque motivi.

3.1. – La Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3132 del 3 marzo 2001, ha rigettato il primo motivo di ricorso, ha accolto il secondo e, per quanto di ragione, il terzo, quarto e quinto motivo; ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Più in particolare:

(a) ha rigettato il (primo) motivo con cui era stata prospettata l’efficacia vincolante in sede civile delle statuizioni (di responsabilità dei commissari e funzionari CONSOB) contenute nella sentenza del giudice istruttore del Tribunale di Milano che ebbe a dichiarare non doversi procedere a carico dei predetti per amnistia;

(b) nell’accogliere il secondo motivo di ricorso, ha affermato che in base alla normativa vigente nel (OMISSIS) la CONSOB aveva la potestà di controllare la veridicità dei dati contenuti nella comunicazione predisposta dai promotori dell’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici e nel relativo prospetto informativo, nonché quella di intervenire, una volta accertata la loro falsità o incompletezza, con iniziative istruttorie, integrative e repressive;

(c) ha statuito, quanto al terzo motivo, che è irrilevante la dichiarazione, fatta apporre in testa e in calce al prospetto informativo, con cui la CONSOB aveva inteso autoesonerarsi dalla responsabilità per danni derivanti dall’inosservanza dell’obbligo di controllare la veridicità e la completezza dei dati in esso riportati;

(d) nel dichiarare in parte fondata la censura contenuta nel quarto motivo del ricorso, ha affermato che la pronuncia impugnata, indagando sulla causalità tra condotta omissiva e danno patito, aveva finito per negarla sulla base di rilievi afferenti la mera quantificazione del danno, senza interrogarsi – con specifico riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni – sulla possibilità che l’uso dei poteri conferitile dalla legge avrebbe dovuto indurre la CONSOB a far pubblicare sul prospetto, previa le menzionate iniziative ed integrazioni, solo notizie veridiche (nel (OMISSIS)) ovvero, ed in caso di non ottemperanza alle proprie iniziative, a non autorizzarne affatto la pubblicazione.

Avrebbe quindi dovuto il giudice d’appello scrutinare la pretesa causalità, pur nella difficoltà della valutazione e con l’uso di ogni potere assegnato al giudice del merito, ma facendo applicazione dei principi in tema di concorso di cause statuiti dall’art. 41 cod. pen., ed applicabili anche a regolare la causalità nell’illecito extracontrattuale; ed avrebbe poi dovuto formulare prognosi sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB. E solo ove avesse dato al relativo quesito risposta positiva – concludendo nel senso della presumibile esclusione di questa o quella sottoscrizione “dannosa”, per effetto del tempestivo esercizio delle potestà di legge – avrebbe dovuto spostare l’attenzione dalla responsabilità degli organi (scrutinandone la condotta “colposa” alla stregua delle indicazioni dianzi formulate) alla specifica ed individuale responsabilità dei componenti o dipendenti;

(e) in ordine al quinto motivo, ha statuito che la circostanza che i potenziali investitori, in epoca successiva alla pubblicazione del prospetto informativo contenente dati inesatti ed incompleti, avessero avuto contezza dei rischi connessi all’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici, per effetto delle notizie diffuse dalla stampa circa il carattere “avventuroso” dell’investimento in atto, non esimeva la CONSOB dall’attivare i suoi poteri e, quindi, non valeva nemmeno ad esonerare da responsabilità nei confronti dei sottoscrittori per i danni derivanti dall’omesso intervento, mentre poteva essere valutata ai fini dell’eventuale concorso del fatto colposo dei danneggiati.

5. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 21 ottobre 2003, la Corte d’appello di Milano, pronunciando in sede di rinvio, ha – per quanto qui rileva – condannato in solido la CONSOB, il Ministero dell’economia e delle finanze (succeduto al Ministero del Tesoro), P.B., P.A., S.L. e G.F. a pagare agli appellanti la somma complessiva di Euro 6.301.291,63 (pari a L. 12.201.001.950), suddivisa tra gli stessi appellanti secondo quanto risultante dai singoli certificati prodotti, oltre interessi legali dalle singole sottoscrizioni, ed ha regolato le spese delle varie fasi del giudizio secondo il principio di soccombenza.

5.1. – Secondo il giudice del rinvio, la falsità di rilevanti informazioni contenute nel prospetto era facilmente accertabile dall’esame della documentazione allegata nonché in base agli elementi di sospetto evidenziati anche dagli organi di stampa.

Emergendo dagli stessi atti depositati la falsità delle notizie contenute nel prospetto illustrativo dell’operazione, la Commissione ha illegittimamente omesso di attivare, in base alla normativa esistente, l’attività ispettiva e di vigilanza, alla quale era obbligata al fine di garantire la trasparenza del mercato e la protezione del risparmio, valore costituzionalmente tutelato, che nella fattispecie trovava realizzazione attraverso la chiarezza, completezza e veridicità dell’informazione al pubblico.

In ordine al nesso di causalità materiale intercorrente tra il comportamento omissivo colposo della CONSOB, concretatosi nell’omissione di vigilanza, ed il danno subito dai sottoscrittori, la Corte ambrosiana ha rilevato che il tempestivo e corretto esercizio dei poteri di vigilanza della Commissione avrebbe dissuaso gli investitori dall’operazione, orientandoli verso altre forme di investimento, nell’ambito della medesima percentuale di rischio.

Difatti – ha osservato quel Collegio – gli investitori hanno sottoscritto le quote anche e soprattutto in base alle informazioni pubblicate nel prospetto, facendo affidamento sulla veridicità delle stesse, passate al vaglio della vigilanza della CONSOB; essi non avrebbero acquistato tali quote, il cui valore effettivo, all’epoca della sottoscrizione, risultava quasi dimezzato rispetto al valore nominale, ove avessero saputo che: (a) il capitale sociale ammontava a L. 20 milioni anziché a L. 44 miliardi; (b) il valore patrimoniale del bene, indicato nel prospetto in L. 44 miliardi, era notevolmente inferiore; (c) i proponenti, all’epoca, non erano ancora proprietari del bene; (d) dal prezzo di acquisto avrebbero dovuto essere detratti i mutui gravanti sulla società; (e) il credito per il canone di affitto era stato ceduto alla BNL, rendendo l’investimento privo di redditività. Anche un investitore con notevole propensione al rischio si sarebbe rivolto verso altre forme di investimento, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione.

Secondo la Corte di Milano, il rapporto causale è ulteriormente rafforzato dal potere della Commissione di vietare l’operazione in presenza di gravi anomalie e inesattezze del prospetto informativo.

Ove tale potere fosse stato correttamente esercitato, l’operazione di sottoscrizione non avrebbe avuto neanche inizio e non avrebbe, quindi, causato alcun danno ai risparmiatori-investitori.

Il giudice del rinvio ha escluso che vi sia spazio per una responsabilità concorrente degli investitori, ai quali non è possibile richiedere una attività di verifica e di controllo della veridicità delle informazioni contenute nel prospetto, essendo detta attività espressamente demandata alla CONSOB, organo istituzionalmente preposto a tale compito. Né le allarmistiche notizie di stampa, non smentite dalla Commissione, avrebbero potuto indurre gli investitori ad effettuare accertamenti e controlli sulla veridicità delle stesse, in quanto era proprio la CONSOB a doversi attivare per controllare l’infondatezza o meno di tali notizie giornalistiche e il mancato intervento della Commissione può, al contrario, avere avuto l’effetto di tranquillizzare i risparmiatori sulla infondatezza delle notizie di stampa.

Il danno sopportato da ciascun sottoscrittore è stato ritenuto pari al prezzo pagato per l’acquisto della quota, mentre è stato escluso che il valore della quota possa decurtarsi della somma pari alla differenza tra il valore nominale e il valore effettivo della quota all’epoca dell’investimento, in quanto i sottoscrittori non avrebbero acquistato le relative quote di valore inferiore al prezzo nominale ed in mancanza di prospettive serie di futuri utili.

Sull’importo liquidato la Corte d’appello ha riconosciuto la debenza degli interessi legali, con decorrenza dalle singole sottoscrizioni, mentre ha escluso il danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c.c., venendo in considerazione nella specie un “debito non suscettibile di automatica rivalutazione” e nulla essendo stato provato (o anche solo allegato) “che valga a dimostrare, o a far presumere l’esistenza di un maggiore danno”. “Invero, quest’ultimo, derivante dalla svalutazione monetaria, spetterà non automaticamente, ma in virtù dell’onere di allegazione e prova dei presupposti di fatto su cui fondare il giudizio, anche solo presuntivo, che il tempestivo pagamento avrebbe evitato al creditore le conseguenze depauperative legate al fenomeno inflattivo”.

Premesso che “la responsabilità della P.A. per fatti di suoi funzionari e dipendenti, i quali abbiano agito nell’ambito dei compiti ad essi affidati e non per fini propri, è una responsabilità diretta, identificandosi nei funzionari e dipendenti gli organi attraverso i quali lo Stato e gli enti pubblici agiscono, onde la loro azione è azione dell’ente, che ne risponde in modo immediato”, la Corte d’appello ha ritenuto la responsabilità della CONSOB estensibile anche ai funzionari ed esperti CONSOB che hanno contribuito, con il loro comportamento omissivo colposo, a provocare il danno agli investitori : una responsabilità “nei rapporti coi danneggiati … solidale ed illimitata … solamente nei rapporti interni essendo possibile una graduazione delle rispettive colpe in relazione alla diversa incidenza causale del danno”.

La Corte territoriale ha considerato tutti i funzionari ed esperti della CONSOB chiamati in causa, ad eccezione del solo M.V., “solidalmente responsabili, quali componenti dell’organo collegiale, avendo avuto a disposizione la documentazione inerente al prospetto informativo da cui avrebbero dovuto rendersi conto della falsità dello stesso ed avendo, invece, approvato il prospetto, senza porre in essere le opportune e dovute attività di controllo e vigilanza”.

In particolare, la Corte d’appello ha addebitato al P.B. di essere stato presente alle riunioni della CONSOB in cui venne discusso ed approvato il prospetto, senza disporre alcuna attività di verifica e controllo. A tale riguardo, è stata valorizzata la dichiarazione resa dallo stesso P.B. – nell’interrogatorio in data 12 dicembre 1987 davanti alla 3^ Sezione del Tribunale di Milano – in cui si afferma che, nella seduta del (OMISSIS), era stata letta davanti a tutti i commissari CONSOB la lettera in data (OMISSIS), a firma dell’amministratore unico della S. Dott. C., in cui si evidenziava che l’operazione di acquisto delle azioni della S. Grandi Alberghi era ancora in corso di perfezionamento.

Relativamente ai convenuti G.F., S.L. e P. A., la rispettiva responsabilità è desumibile, secondo la Corte d’appello, dalle stesse risultanze della sentenza istruttoria con cui nei loro confronti venne applicata l’amnistia.

6. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, notificata il 7 gennaio 2004, hanno proposto ricorso, congiuntamente, il Ministero dell’economia e delle finanze, la CONSOB, nonché P. B., P.A., G.F. e S.L., con atto notificato il 4-10 marzo 2008, sulla base di sei motivi.

Hanno resistito, con controricorso, S.R. e gli altri 897 sottoscrittori di quote della S.r.l. Hotel Villaggio Santa Teresa indicati in epigrafe, e per loro nome e conto G.I., nonché G.I. personalmente, proponendo, a loro volta, ricorso incidentale, affidato ad un motivo.

Successivamente, con atto depositato il 30 maggio 2005, il Ministero dell’economia e delle finanze e la CONSOB hanno rinunciato al ricorso per cassazione e, con lo stesso atto, S.R. e gli altri sottoscrittori HVST hanno rinunciato, nei soli confronti del Ministero e della Commissione, al proprio controricorso con ricorso incidentale, con reciproca accettazione e con compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.

In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie illustrative: il Ministero dell’economia e delle finanze con la CONSOB e S. L.; G.F.; P.A.; i sottoscrittori HVST.

Motivi della decisione
1. – Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti, a norma dell’art. 335 cod. proc. civ., essendo entrambe le impugnazioni relative alla stessa sentenza.

2. – Con atto in data 11 aprile 2005, depositato in cancelleria il 30 maggio 2005, i ricorrenti principali Ministero dell’economia e delle finanze e CONSOB, da una parte, ed i controricorrenti e ricorrenti incidentali S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote HVST e, per loro nome e conto, G.I., nonché G. I. in proprio, dall’altra, hanno comunicato di essersi accordati per una composizione bonaria della controversia ed hanno rinunciato, rispettivamente, al ricorso principale e, nei soli confronti del Ministero e della CONSOB, al controricorso e al ricorso incidentale, con reciproca accettazione e con compensazione delle spese del grado.

Essendo la rinuncia conforme a quanto prescritto dall’art. 390 cod. proc. civ., deve dichiararsi l’estinzione del giudizio promosso con il ricorso principale del Ministero e della CONSOB e del giudizio promosso, nei confronti del Ministero e della CONSOB, con il ricorso incidentale di S.R. ed altri.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, avendo le altre parti aderito personalmente alle rinunce.

3. – Restano, pertanto, da esaminare il ricorso principale di P. B., P.A., S.L. e G.F. ed il ricorso incidentale promosso nei confronti di costoro da S. R. e dagli altri 897 sottoscrittori di quote HVST, e per loro nome e conto, da G.I., nonché da G.I. personalmente.

4. – È, però, preliminare l’esame della eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai sottoscrittori HVST controricorrenti sul presupposto della giuridica inesistenza o nullità della notificazione o comunque tardività della stessa rispetto al termine di legge per impugnare.

4.1. – A sostegno della eccezione, i controricorrenti osservano che:

i ricorrenti per cassazione hanno chiesto ed ottenuto l’autorizzazione alla notifica ex art. 150 cod. proc. civ. e art. 50 disp. att. cod. proc. civ., e, a fronte di tale istanza, è stata autorizzata la notifica per pubblici proclami a S.R. quale destinatario della notificazione nelle forme ordinarie e nei confronti degli altri destinatari per pubblici proclami nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dei medesimi in (OMISSIS);

– la notificazione ex art. 150 cod. proc. civ., pur essendo costituita da una pluralità eterogenea di atti, si connota giuridicamente come un unico ed invisibile procedimento, destinato a realizzarsi soltanto con il compimento di tutti i singoli atti che lo compongono e a perfezionarsi solo nel momento in cui viene posto in essere l’atto finale al quale le precedenti attività risultano preordinate; in particolare, il legislatore ricollega l’effetto giuridico della conoscenza legale dell’atto notificato unicamente all’avvenuto deposito, da parte dell’ufficiale giudiziario e nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede, di una copia dell’atto notificato e dei documenti attestanti l’avvenuto espletamento degli altri atti di cui si compone il procedimento di notificazione per pubblici proclami;

– nella specie non sono state effettuate le pubblicazioni sulla Gazzetta Ufficiale e sul foglio degli annunzi legali delle province in cui risiedono la maggior parte dei destinatari, e comunque presso la cancelleria della Corte di Cassazione non è stato depositato alcun documento in proposito;

– il termine perentorio di sessanta giorni per proporre il ricorso era destinato a scadere l’8 marzo 2004 (essendo il 7 marzo domenica), ma solo in data 10 marzo 2004 è stata notificata nel domicilio eletto dai sottoscrittori HVST una copia del ricorso in Cassazione a S.R. e per esso al procuratore speciale G.I., ed altra copia agli altri sottoscrittori sempre in persona del procuratore speciale G.I.;

– non risultando effettuata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e nel foglio degli annunzi legali, gli atti processuali posti in essere dai ricorrenti, mancando alcune delle formalità previste dall’art. 150 cod. proc. civ., e dal provvedimento autorizzativo, non sarebbero neppure giuridicamente ascrivibili alla fattispecie della notificazione per pubblici proclami.

4.2. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata.

Risultano dagli atti le seguenti circostanze:

– che il Primo Presidente della Corte di Cassazione – nel provvedere sull’istanza con la quale l’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell’economia e delle Finanze e degli altri ricorrenti, chiedeva di essere autorizzata a notificare il ricorso per cassazione avverso la sentenza in data 21 ottobre 2003 della Corte d’appello di Milano nelle forme ordinate dal giudice, ai sensi dell’art. 151 cod. proc. civ., ovvero, in subordine, per pubblici proclami, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ. – ha, con Decreto 23 febbraio 2004, “designato S.R. quale destinatario della notificazione nelle forme ordinarie ed autorizzato, nei confronti degli altri destinatari, la notificazione per pubblici proclami nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dai medesimi in (OMISSIS)”;

– che affidato l’atto all’ufficiale giudiziario in data 4 marzo 2004 – nei confronti di S.R. (e, per suo nome e conto, di G.I.) la notifica del ricorso per cassazione è avvenuta a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 cod. proc. civ., mediante spedizione, il 5 marzo 2004, della copia del ricorso in piego raccomandato con avviso di ricevimento;

– che nei confronti del predetto S.R. il procedimento notificatorio si è perfezionato il successivo 10 marzo con la consegna del plico nel domicilio eletto.

Ciò stando, la notificazione del ricorso per cassazione nei confronti dello S.R. deve ritenersi rituale e tempestiva.

Rituale, perché – contrariamente a quanto prospettato dalla difesa dei controricorrenti – la norma dell’art. 150 cod. proc. civ., là dove indica il perfezionamento della notificazione per pubblici proclami, rispetto ai destinatari, nel momento in cui l’ufficiale giudiziario deposita, presso la cancelleria del giudice davanti al quale si procede, una copia dell’atto con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta (formalità nella specie non rispettata), non trova applicazione rispetto al destinatario per il quale il giudice abbia stabilito, con il decreto di autorizzazione, che la notificazione debba essere eseguita nei modi ordinari.

Tempestiva, perché, per pacifica giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. Un., 26 luglio 2004, n. 13970), in tema di notificazioni a mezzo del servizio postale, a seguito della sentenza della Corte Costituzione n. 477 del 2002 – dichiarativa della illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedeva che la notificazione di atti a mezzo posta si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario – la notifica del ricorso per Cassazione – anche nel regime, ratione temporis applicabile, anteriore alla nuova disciplina dell’art. 149 cod. proc. civ., comma 3, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. e) – si intende perfezionata, per il notificante, alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario: e nel caso che ci occupa tale consegna è avvenuta in data anteriore all’8 marzo 2004, come si ricava sia dal timbro apposto dall’ufficiale giudiziario sull’atto da notificare (Cass., Sez. Un., 20 giugno 2007, n. 14294) recante il numero cronologico e la data del 4 marzo 2004, sia, ulteriormente, dalla spedizione del piego raccomandato ad opera dello stesso ufficiale giudiziario in data 5 marzo 2004.

Quanto agli altri destinatari – diversi da S.R. – nei confronti dei quali è stata autorizzata la notificazione per pubblici proclami, nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dai medesimi in (OMISSIS), occorre innanzitutto osservare che, anche in questo caso, i ricorrenti, una volta ottenuto il decreto di autorizzazione, hanno provveduto, anteriormente alla scadenza del termine per l’impugnazione, ad affidare l’atto da notificare per pubblici proclami all’ufficiale giudiziario, che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento. La circostanza del tempestivo affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario si ricava, ancora una volta, sia dal timbro apposto dall’ufficiale giudiziario sull’atto da notificare recante il numero cronologico e la data del 4 marzo 2004, sia dalla spedizione del piego raccomandato ad opera dello stesso ufficiale giudiziario in data 5 marzo 2004 e dal deposito, a ministero di questo, di una copia dell’atto presso nella casa comunale di Roma, sempre in data 5 marzo 2004.

Per effetto della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002, risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulla notificazione degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve intendere perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario, pur restando fermo che la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario (v. Corte cost., sentenza n. 28 del 2004).

Tale principio – della c.d. scissione soggettiva del momento perfezionativo della notificazione tra notificante e destinatario – si applica anche in rapporto alla notificazione per pubblici proclami, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ., di talché pure con riguardo a questa forma di notificazione gli effetti della notificazione, rispetto al soggetto istante, devono intendersi rapportati al momento in cui questi, ottenuta la preventiva autorizzazione del capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede, abbia consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario per le attività e formalità di cui all’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4. Diversamente, rispetto al destinatario, la notifica è destinata ad acquisire la medesima rilevanza solo in esito al perfezionamento del procedimento notificatorio, che si ha quando – esaurite le formalità del comma 3 del citato art. 150, e quelle, ulteriori, disposte dal capo dell’ufficio giudiziario – l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede.

Ai fini della ritualità della notificazione per pubblici proclami non rileva la mancata inserzione di un estratto del ricorso nel foglio degli annunzi legali delle province dove risiedono i destinatari o si presume che risieda la maggior parte di essi, giacché, avendo la L. 24 novembre 2000, n. 340, art. 31 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999) abolito i fogli degli annunzi legali delle province e abrogato le forme di pubblicazione ad essi relative (L. 30 giugno 1876, n. 195; D.M. 25 maggio 1895, recante istruzioni speciali per l’esecuzione della L. 30 giugno 1876, n. 3195; R.D.L. 25 gennaio 1932, n. 97, convertito dalla L. 24 maggio 1932, n. 583; L. 26 giugno 1950, n. 481), deve ritenersi sufficiente l’inserzione di un estratto dell’atto nella Gazzetta Ufficiale. E nella specie, contrariamente a quanto dedotto dai controcorrenti, l’estratto del ricorso per Cassazione, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ., è stato pubblicato nella parte 2^ della Gazzetta Ufficiale in data 9 marzo 2004.

Tanto premesso, qualsiasi indagine sulla ipotizzata nullità della notifica per pubblici proclami ai sottoscrittori HVST a causa della violazione di talune delle prescrizioni imposte (e ciò in quanto l’ufficiale giudiziario, dopo avere depositato copia dell’atto nella casa comunale e dopo averne fatto invio a mezzo del servizio postale mediante piego raccomandato con avviso di ricevimento, ha omesso – una volta che si era provveduto all’inserzione per estratto nella Gazzetta Ufficiale – di depositare una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria della Corte di cassazione), è resa ultronea dalla intervenuta sanatoria ex tunc per raggiungimento dello scopo in ragione dell’esercizio di attività difensiva nel giudizio per cassazione da parte degli intimati, cui la notificazione per pubblici proclami era diretta, a nulla rilevando che tale esercizio sia avvenuto per eccepire la tardività, la nullità o l’inesistenza della notificazione, e che i controricorrenti abbiano spiegato difese nel merito e proposto ricorso incidentale soltanto in via subordinata (cfr. Cass., Sez. 1^, 28 luglio 1997, n. 7033; Cass., Sez. 1^, 6 luglio 1999, n. 7012; Cass., Sez. 3^, 1 giugno 2004, n. 10495; Cass., Sez. 5^, 11 agosto 2004, n. 15530).

5. – Passando al merito, con il primo motivo i ricorrenti in via principale P.B. ed altri denunciano “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ., degli artt. 2043 e 2697 cod. civ., della L. n. 216 del 1974, artt. 18 e 18 quater”, nonché “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5)”.

Ad avviso dei ricorrenti, il riconoscimento di un comportamento colposo da parte della CONSOB nella vicenda de qua sarebbe stato compiuto dalla Corte d’appello sull’assorbente (ed anzi esclusivo) presupposto dell’essere la stessa Corte vincolata alle affermazioni in punto di fatto contenute nella sentenza n. 3132 del 2001 della Corte di Cassazione in ordine ad una (asseritamente) pacifica ed acclarata falsità dei dati contenuti nel prospetto. Su tali basi, la Corte milanese avrebbe ritenuto non soltanto che non fosse proprio compito, ma addirittura che fosse precluso alla medesima procedere ad un autonomo accertamento dei termini della controversia.

Il giudice del rinvio si sarebbe erroneamente ritenuto vincolato ad affermazioni in punto di fatto contenute nella pronuncia della Corte di legittimità, rispetto alle quali sarebbe, invece, da escludere qualsivoglia effetto vincolante, perché il principio di diritto affermato dalla sentenza rescindente non presupporrebbe di per sé alcun accertamento in punto di fatto sul comportamento concretamente posto in essere dalla CONSOB nella vicenda in esame.

Contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, nessuna acclarata e pacifica falsità dei dati contenuti nel prospetto relativo all’operazione HVST, né alcuna pacifica conoscenza della stessa falsità da parte della CONSOB sarebbe stata accertata dalla Corte d’appello di Milano con la prima sentenza del 1998. Le stesse affermazioni contenute nella pronuncia rescindente della Cassazione “devono essere ritenute … il frutto di un evidente travisamento della pronuncia cassata, consistente nell’aver considerato come valutazioni della Corte Territoriale quelli che, invece, erano gli addebiti mossi dagli appellanti nei confronti della CONSOB”.

Era compito della Corte di Milano, quale giudice del rinvio, valutare in via autonoma se, tenuto conto dell’esatto contenuto dei poteri esistenti in capo alla CONSOB all’epoca dei fatti di causa, fosse ravvisabile nel caso di specie una colposa omissione nell’esercizio di tali poteri da parte della stessa Commissione; e ciò tanto più ove si consideri che la Corte di Cassazione aveva espressamente disposto che dovesse essere compiuto un “nuovo, completo esame della controversia, esame che sarà condotto sulla base dei formulati principi di diritto e seguendo una corretta logica argomentativa”.

D’altra parte, la Corte ambrosiana sarebbe comunque incorsa nel vizio di omessa pronuncia o di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, perché avrebbe mancato di chiarire da quali elementi in punto di fatto sarebbe dovuta emergere la – invero soltanto asserita – falsità del prospetto informativo e, per l’effetto, la responsabilità della Commissione.

In definitiva, il giudice del rinvio avrebbe dato per dimostrate delle circostanze in punto di fatto, decisive ai fini di una responsabilità della CONSOB, sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST.

5.1. – Il motivo è infondato.

Con la sentenza rescindente n. 3132 del 2001, la Corte di Cassazione ha dettato il principio di diritto secondo cui, in base alla normativa vigente nel (OMISSIS), la CONSOB, cui la legislazione attribuisce un penetrante potere di controllo della veridicità e della completezza dei dati forniti dai promotori dell’operazione, risulta titolare di poteri – ispettivi, informativi e repressivi – idonei, se esercitati, ad esercitare le inesattezze e le falsità palesi (in quanto risultanti prima facie, ex actis) dei documenti depositati, nonché a portare all’interruzione dell’operazione; ed ha precisato che una diversa interpretazione “confligge in modo macroscopico anche con la razionalità del sistema di garanzie perseguite con l’istituzione della CONSOB”: “ipotizzare che l’intero procedimento di comunicazione di dati, di allegazione di documentazione e di pubblicazione del prospetto riassuntivo fosse stato ideato al solo fine di consentire una programmata pubblicità della operazione ed affermare che in tal quadro alla CONSOB spettasse solo di regolare-integrare i modi di pubblicizzazione, significherebbe ridurre il ruolo dell’Organo di garanzia a quello di un ufficio di deposito atti”.

Al fine di enunciare il principio di diritto sulla configurabilità, in capo alla CONSOB, dei poteri di controllo sulla veridicità dei dati fattuali comunicati dai promotori, di intervento correttivo sugli stessi, finalizzato all’inserimento sostitutivo dei dati veri, e di repressione, consistenti nel vietare l’esecuzione dell’operazione inottemperante agli interventi stessi, la Corte di cassazione ha preso in esame le questioni di fatto costituenti il presupposto, necessario ed inderogabile, della pronuncia espressa in diritto.

Si legge, infatti, nella sentenza rescindente che “una volta accertato (come effettuato dalla (prima) sentenza (della Corte d’appello di Milano) impugnata pagg. 29, 30, 31, 35) che ex actis risultava (tanto emergendo dalla documentazione allegata alla comunicazione effettuata dai promotori) la falsità di essenziali dati della prescritta comunicazione e della necessaria informazione pubblica (il prospetto), l’organo pubblico istituzionalmente preposto ad assicurare l’effettività di minimi standards informativi ave(va) la potestà legale di intervenire con iniziative istruttorie, integrative, repressive su operazioni che, prima, facie, quel livello di veridicità non fornivano”.

Nel dettaglio, la sentenza n. 3132 del 2001 ha evidenziato che, sulla base della “incontestata prospettazione attorea”, tali circostanze, di per sé “elequen(ti)”, consistevano: (a) nella falsa attestazione dell’assunzione ed esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale della soc. HVST a 44 miliardi, mentre l’aumento non era stato eseguito ed il capitale era all’epoca di 20 milioni; (b) nel deposito del prospetto “benché i proponenti non fossero ancora proprietari del bene” e “il prezzo di acquisto fosse stato dichiarato in una somma inferiore a quella di 44 miliardi”; (c) nel fatto che “il valore della operazione non considerasse i mutui gravanti sulla società”; (d) nell’impossibilità per il canone del complesso immobiliare di “rappresentare per il gruppo S.- C. una componente di reddito attiva ed una disponibilità liquida effettiva”, dato che “il relativo credito (circostanza questa del tutto sottaciuta) aveva formato oggetto di cessione o vincolo a favore della BNL”.

Correttamente, pertanto, nell’applicare il suesposto principio di diritto, il giudice del rinvio ha considerato come ormai accertati in via definitiva, quali premesse logico-giuridiche della sentenza di annullamento, le “evidenti falsità”, facilmente “rilevabili dai documenti depositati”, dei “dati contenuti nel prospetto”; mentre avrebbe esorbitato dai limiti impostigli dalla sentenza rescindente se avesse rimesso in discussione gli accertamenti di fatto, sulla falsità del prospetto e sulla rilevabilità ictu oculi ad opera della CONSOB, già svolti nei precedenti gradi di giudizio, declassandoli – come ora pretendono i ricorrenti – a meri obiter dieta o a considerazioni svolte in via meramente concessiva ed ipotetica.

Invero, i principi espressi dal giudice di legittimità nelle sentenze di cassazione con rinvio per (o anche per) violazione di legge non sono mere enunciazioni teoriche ad applicazione solo eventuale, ma devono indefettibilmente trovare applicazione concreta nel successivo giudizio di rinvio, giacché la pronuncia della Corte di Cassazione vincola non solo al principio affermato ma anche ai relativi presupposti di fatto. Da tanto consegue che il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, acquisiti al processo, costituenti il presupposto stesso della pronuncia di annullamento, atteso che il riesame di essi verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della pronuncia di cassazione, in contrasto con il principio della loro intangibilità (Cass., Sez. Un., 28 ottobre 1997, n. 10598; Cass., Sez. 1^, 27 aprile 1976, n. 1478; Cass., Sez. lav., 19 luglio 2002, n. 10622;

Cass., Sez. lav., 12 settembre 2003, n. 13446).

Con tali vincoli e limitazioni, pertanto, è stato correttamente espletato il “nuovo, completo, esame della controversia” affidato al giudice di rinvio dalla Corte di Cassazione, tanto più che essa ha specificato che l’indagine in proposito doveva essere “condotta sulla base dei formulati principi di diritto”.

6. – Il secondo mezzo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione dell’art. 41 cod. pen., degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ. e degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5) lamenta che il ragionamento svolto dalla Corte Territoriale al fine di affermare la sussistenza di un valido nesso causale tra la (presunta) condotta colposa della CONSOB e il danno (asseritamente) sofferto dai sottoscrittori sia viziato sotto più profili.

La Corte del rinvio – lungi dal procedere ad un nuovo ed autonomo giudizio prognostico sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB, da compiere con specifico riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni – si sarebbe limitata ad affermare la sussistenza di un rapporto di causalità tra la condotta omissiva della Commissione ed il danno asseritamente sofferto dai sottoscrittori sulla esclusiva base di una serie di argomentazioni apodittiche.

Secondo i ricorrenti, il giudice del rinvio, ove avesse proceduto a quanto ad esso demandato dalla Corte regolatrice, avrebbe dovuto concludere che le asserite perdite subite dai sottoscrittori non erano in alcun modo derivate dalle presunte inesattezze del prospetto (peraltro, più apparenti che reali, o comunque non occultate e perfettamente rilevabili dagli stessi sottoscrittori), ma dalla differenza tra il valore unitario delle quote (L. 10.000) ed il loro valore effettivo (stimato dal consulente tecnico d’ufficio in L. 5.810). Differenza, questa, a sua volta dipendente dal fatto che il canone del complesso immobiliare (derivante dal contratto di affitto stipulato con il Club Mediterranee) non poteva rappresentare una componente attiva dell’operazione, dato che il relativo credito era stato ceduto alla BNL. Di tale circostanza (unica vera falsità del prospetto), tuttavia, non avrebbe potuto essere chiamata a rispondere la CONSOB, la quale non disponeva di alcun elemento per sospettare lo stato dei rapporti con il Club Mediterranee, dal momento che detta cessione è sempre stata sottaciuta alla Commissione da parte dei promotori. La Corte Territoriale avrebbe dovuto escludere alla radice la configurabilità di qualsivoglia nesso eziologico tra il comportamento della CONSOB ed il presunto danno sofferto dai sottoscrittori HVST, essendo quest’ultimo integralmente imputabile al comportamento fraudolento dei promotori dell’operazione, ovvero alla condotta degli stessi sottoscrittori, i quali in maniera negligente e colposa (se non altro nel senso della consapevole accettazione del rischio) avrebbero aderito ad un’operazione finanziaria la quale, per sua natura, manifestava evidenti indici di incertezza e rischiosità.

Inoltre, secondo i ricorrenti, la Corte Territoriale, nell’accertamento sulla sussistenza del rapporto eziologico, avrebbe finito per fare applicazione della teoria della condicio sine qua non, in violazione dei principi basilari accolti dal nostro sistema giuridico in tema di causalità, perché l’eventuale (ed in ogni caso contestata) negligenza da parte della CONSOB assurgerebbe a mera occasione, e mai a concausa dell’evento.

Ancora una volta, il giudice del rinvio avrebbe in realtà dato per provate circostanze in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST. Sotto un ultimo profilo, il giudice del rinvio avrebbe omesso di procedere ad una valutazione individualizzata della posizione dei singoli sottoscrittori, nel senso della verifica puntuale ed analitica della concreta incidenza causale delle eventuali omissioni della CONSOB sulle singole iniziative di sottoscrizione: con ciò la Corte Territoriale non soltanto sarebbe venuta meno al compito ad essa affidata dalla Corte di cassazione, ma avrebbe altresì omesso di pronunciare su un punto decisivo della controversia. In particolare, la Corte d’appello avrebbe dovuto escludere la sussistenza di un valido nesso di causalità tra le presunte omissioni e l’asserito danno, quanto meno con riferimento alle sottoscrizioni intervenute successivamente al (OMISSIS). A quella data, infatti, tutte le asserite irregolarità del prospetto (o, per lo meno, quelle che rientravano nella sfera di conoscibilità della Commissione) erano state sanate.

6.1. – Il motivo non coglie nel segno.

Per quanto riguarda, innanzitutto, le “irregolarità contenute nel prospetto relativo all’operazione Hotel Villaggio S.T.” – che, ad avviso del ricorrenti, non sussisterebbero in alcun modo, “essendo in realtà soltanto apparenti”, ed alle quali, pertanto, non potrebbe “essere attribuito un contributo eziologico nella causazione dei danni”, non avendo i sottoscrittori, per di più, assolto all’onere della prova su di essi gravante -, valgono le considerazioni esposte retro, sub 5.1., con riferimento all’esame del primo motivo di ricorso, dovendo qui ribadirsi che la falsità di rilevanti informazioni contenute nel prospetto e la facile accertabilità di essa da parte dell’Organo di vigilanza costituiscono accertamenti di fatto definitivi, come tali vincolanti per il giudice del rinvio.

Quanto alla deduzione secondo cui avrebbe errato il giudice del rinvio ad affermare la sussistenza della causalità tra omissione imputabile alla CONSOB e danno, essendo semmai il danno patito dagli investitori individuabile – come già affermato dalla Corte di Milano nella prima sentenza del novembre 1998 – nella divergenza tra valore di sottoscrizione delle quote e valore effettivo delle stesse (a sua volta indotta dalla sottaciuta assenza di componenti di reddito nell’investimento proposto, determinata dalla pregressa cessione dei canoni alla BNL), occorre osservare che tale prospettazione prescinde totalmente dalle statuizioni contenute nella sentenza rescindente di questa Corte: la quale, nell’esaminare il quarto motivo del ricorso, ha censurato che la Corte di Milano, indagando sulla causalità tra condotta omissiva e danno patito, avesse finito per negarla proprio “sulla base di rilievi afferenti la mera quantificazione del danno, senza interrogarsi … sulla possibilità che l’uso dei poteri conferitile dalla legge avrebbe dovuto indurre CONSOB a far pubblicare sul prospetto, previe le menzionate iniziative ed integrazioni, solo notizie veridiche (nel (OMISSIS)) ovvero, ed in caso di non ottemperanza alle proprie iniziative, a non autorizzarne affatto la pubblicazione”.

Né è esatto che la Corte del merito avrebbe omesso di prendere posizione sulla possibile imputazione del danno alla consapevole accettazione del rischio da parte dei sottoscrittori. Il giudice del rinvio ha infatti accertato, con logico e motivato apprezzamento, che “anche un investitore con notevole propensione al rischio si sarebbe rivolto verso altre forme di investimento, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione”, e che “tale mancata conoscenza è imputabile alla CONSOB, per non avere esercitato l’attività di vigilanza e controllo a cui, nella fattispecie , era obbligata”.

Più in generale, la statuizione del giudice del rinvio in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità tra l’omissione colposa nella vigilanza ed il danno subito dagli investitori si sottrae alla censura, prospettata dai ricorrenti, di violazione e falsa applicazione dell’art. 41 cod. pen.

Invero, la Corte di Milano ha accertato che gli investitori sottoscrissero le quote anche e soprattutto in base alle informazioni pubblicate nel prospetto, facendo affidamento sulla veridicità delle stesse, passate al vaglio della vigilanza CONSOB, e che essi non avrebbero acquistato tali quote – il cui valore effettivo, all’epoca della sottoscrizione, risultava quasi dimezzato rispetto al valore nominale – ove avessero saputo che: (a) il capitale sociale ammontava a L. 20 milioni anziché a L. 44 miliardi; (b) il valore patrimoniale del bene, indicato nel prospetto in L. 44 miliardi, era notevolmente inferiore; (c) i proponenti, all’epoca, non erano ancora proprietari del bene; (d) dal prezzo di acquisto avrebbero dovuto essere detratti i mutui gravanti sulla società; (e) il credito per il canone di affitto era stato ceduto alla BNL, rendendo l’investimento privo di redditività.

Muovendo da tali premesse, la Corte territoriale -facendo applicazione dei principi sulla conditio sine qua non e sulla causalità adeguata, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen. – è pervenuta alla conclusione che un tempestivo e corretto esercizio dei poteri di vigilanza della CONSOB avrebbe dissuaso gli investitori dall’operazione, orientandoli verso altre forme di investimento, e che, inoltre, ove la Commissione avesse esercitato il potere, del quale pure essa disponeva, di vietare, data la presenza di gravi anomalie e inesattezze del prospetto informative, la sollecitazione all’investimento, l’operazione di sottoscrizione non avrebbe avuto neppure inizio e non avrebbe, quindi, causato alcun danno ai risparmiatori-investitori.

Così statuendo, la Corte di Milano si è correttamente attenuta al seguente principio di diritto. Accertata la negligenza della CONSOB che, con la sua condotta omissiva, abbia permesso la diffusione di un prospetto informativo gravemente mendace nella comunicazione predisposta dai promotori dell’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici, il giudice del merito – al quale compete procedere all’accertamento del nesso di causalità, con un apprezzamento insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi – ben può ritenere, nel quadro dei principi della equivalenza causale e della causalità adeguata, a norma degli artt. 40 e 41 cod. pen., che tale omissione sia stata causa della perdita subita dai risparmiatori, danneggiati dall’aver fatto affidamento sulla veridicità dei dati riportati nel prospetto informativo, e che, per converso, la condotta doverosa dall’autorità di garanzia preposta al settore del mercato mobiliare, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento, perché, in presenza di un effettivo esercizio di poteri di vigilanza e repressivi, l’investimento non ci sarebbe stato.

Né infine sussiste il denunciato vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., o, comunque, di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, prospettato sul rilievo che il giudice del rinvio non avrebbe proceduto, nell’indagine relativa al nesso di causalità, ad una valutazione individualizzata della posizione dei singoli sottoscrittori.

È bensì vero che la sentenza rescindente ha demandato al giudice del rinvio un giudizio prognostico “sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB” e sulla “presumibile esclusione di questa o quella sottoscrizione dannosa per effetto del tempestivo esercizio delle potestà di legge”, avendo “riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni”; ma queste indicazioni non precludevano al giudice del rinvio di ritenere dimostrata, all’esito di un nuovo e completo esame della controversia, l’efficienza causale del comportamento omissivo della Commissione in rapporto al danno subito da tutti i sottoscrittori. A questa conclusione la Corte ambrosiana è pervenuta, facendo applicazione dei principi in tema di concorso di cause statuiti dagli artt. 40 e 41 cod. pen., ed applicabili anche a regolare la causalità nell’illecito extracontrattuale, dopo avere, in modo analitico e puntuale, all’esito del rinnovato esame accertato: (a) che tutti gli investitori sottoscrissero le quote perché avevano fatto affidamento sulla veridicità dei dati riportati nel prospetto informativo e passati al vaglio della vigilanza CONSOB; (b) che anche il risparmiatore abituato a muoversi, nella messa a frutto del proprio capitale monetario, al di fuori delle tipologie più prudenti o con un basso profilo di rischio, si sarebbe diretto verso forme di investimento diverse da quella in oggetto, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione finanziaria.

In questo quadro, la stessa affermazione dei ricorrenti secondo cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto escludere la sussistenza di un valido nesso di causalità con riferimento alle sottoscrizioni intervenute successivamente al (OMISSIS), più che risolversi nella indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni del giudice del rinvio, finisce con il contrapporre una propria valutazione delle risultanze di causa diversa da quella alla quale, motivatamente, è giunta la Corte territoriale, e con il prospettare un diverso esame del merito della regiudicanda, senza neppure indicare da quali risultanze processuali emergerebbe il carattere pacifico ed incontestato del fatto della completa sanatoria, a quella data, di tutte le decottive informazioni contenute nel prospetto.

Sotto questo profilo, la censura sollevata si risolve in una contestazione degli apprezzamenti in fatto compiuti dalla Corte di merito ed in una sollecitazione ad una nuova e diversa lettura delle risultanze di cause. Ma ciò fuoriesce dai limiti del sindacato di questa Corte, perché le deduzioni delle parti ricorrenti, oltre ad infrangersi contro la palese sussistenza, nella sentenza impugnata, dei requisiti strutturali dell’argomentazione, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice a quo, sicché incidono sull’intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all’ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità.

7. – Il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ. e degli artt. 1227 e 2697 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5) censura che la Corte del rinvio abbia escluso la configurabilità di un concorso di colpa dei sottoscrittori HVST. La Corte d’appello avrebbe innanzitutto omesso di prendere posizione:

sul fatto che il prospetto informativo manifestava comunque evidenti indici di incertezza e rischiosità dell’investimento, perfettamente rilevabili dai sottoscrittori; sulla circostanza che questi ultimi dovevano ritenersi soggetti qualificati e provvisti di una sufficiente propensione al rischio; infine, sulla natura intrinsecamente aleatoria dell’operazione.

La sentenza impugnata sarebbe altresì viziata là dove ha escluso la rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 1227 cod. civ., della diffusione, successivamente alla pubblicazione del prospetto informativo, di notizie di stampa concernenti il carattere “avventuroso” dell’operazione.

E lo sarebbe, innanzitutto, per violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., essendo stati disattesi i criteri direttivi stabiliti al riguardo per il giudizio di rinvio dal Supremo Collegio; in secondo luogo, sotto il profilo della illogicità e contraddittorietà della motivazione, perché se la diffusione di notizie di stampa avrebbe dovuto rendere facilmente accertabile e rilevabile ictu oculi, da parte della CONSOB, il carattere “avventuroso” dell’operazione, allora la medesima evidenza ed accertabilità avrebbero dovuto sussistere anche con riferimento ai sottoscrittori, tanto più che trattavasi di soggetti particolarmente esperti del mercato mobiliare.

Infine, la sentenza impugnata sarebbe viziata per violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., nonché per omessa pronuncia o per vizio di motivazione nella parte in cui non ha proceduto ad una valutazione individualizzata del concorso di colpa dei singoli sottoscrittori nella produzione del danno lamentato dagli stessi.

7.1. – Il motivo è in parte fondato, nei termini di seguito precisati.

7.1.1. – Occorre prendere le mosse dal rilievo che, in un’operazione finanziaria di pubblica sottoscrizione, i risparmiatori compiono le loro scelte di investimento sulla base del prospetto e ripongono fiducia nel fatto che le informazioni in esso contenute sono per legge sottoposte ad un’attività di controllo, idonea, secondo la normativa ratione temporis applicabile, a verificarne la completezza e la esattezza: le informazioni contenute nel prospetto creano tra il pubblico una disponibilità all’investimento proposto ed il superamento del vaglio della supervising authority in ordine all’operazione di sollecitazione del pubblico risparmio ingenera negli investitori il legittimo affidamento che quelle informazioni contengono dati veritieri e sono realmente descrittive dei termini dell’affare.

Correttamente, pertanto, la Corte di Milano ha affermato che nessun investitore, neppure quello con la maggiore propensione al rischio, si sarebbe indotto a sottoscrivere i titoli in questione se avesse realmente conosciuto dati rilevanti dell’investimento offerto, che invece gli sono stati prospettati in modo inveritiero od ingannevole o che gli sono stati taciuti; ed ha rilevato che tale difetto di conoscenza era imputabile alla CONSOB, la quale aveva, in allora, la potestà di accertare le falsità evidenti dei dati che il promotore intendeva comunicare ai risparmiatori attraverso il prospetto sottoposto alla sua approvazione.

In questa prospettiva, il giudice del merito – al quale, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3^, 13 luglio 1967, n. 1760; Sez. 3^, 10 marzo 1969, n. 774; Sez. lav., 5 aprile 1975, n. 1224; Sez. 1^, 2 febbraio 1998, n. 1023), spetta di accertare, con un apprezzamento di mero fatto, se sia configurabile un fatto colposo del danneggiato che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1 – ha escluso la ravvisabilità di qualsiasi comportamento colposo degli investitori, ai quali non può rimproverarsi di non avere verificato autonomamente, prima di decidersi a compiere l’operazione, che le caratteristiche dell’investimento corrispondessero a quanto illustrato nel prospetto informativo, passato al vaglio della competente Commissione. Difatti – ha precisato la Corte Territoriale – “il risparmiatore legittimamente può fare affidamento sulla veridicità del prospetto informativo relativo all’investimento finanziario, sottoposto al controllo della CONSOB, e non può imporsi allo stesso una ulteriore verifica, gravosa per lo stesso e sostanzialmente superflua, stante il controllo di veridicità del prospetto informativo” spettante all’autorità di vigilanza.

La conclusione alla quale è pervenuta al riguardo la Corte di Milano sfugge alle censure dei ricorrenti: i quali – nel dedurre, genericamente, che “l’investimento prospettato, per la sua complessità, era destinato non a comuni risparmiatori, ma ad un ambiente selezionato di specifici investitori finanziari, destinati a svolgere (in via mediata) un’attività imprenditoriale”, e nel sottolineare che non può essere posta “a carico della CONSOB una garanzia ex lege sul buon esito degli investimenti mobiliari, con l’effetto (ontologicamente inaccettabile) di azzerare il rischio economico sotteso alle operazioni finanziarie, attraverso una socializzazione dello stesso” – non allegano circostanze decisive in ordine alle quali la motivazione della sentenza impugnata presenti lacune o vizi logici. Per un verso, infatti, l’affermazione secondo cui i sottoscrittori HVST non potrebbero essere considerati alla stregua di investitori retail – oltre ad essere priva di agganci a concrete risultanze processuali – non indica in base a quali circostanze dovrebbe predicarsi l’appartenenza degli investitori alla categoria degli operatori qualificati e professionali; per l’altro verso, le deduzioni contenute nel ricorso in ordine alla aleatorietà degli investimenti effettuati nell’ambito del mercato mobiliare non tengono conto della circostanza che la sentenza impugnata non ha certo addossato sulla CONSOB, in quanto autorità pubblica preposta alla vigilanza sui mercati mobiliari, le perdite derivanti da un investimento mobiliare non andato a buon fine a causa dell’andamento negativo del mercato o della normale alea sulla redditività di un investimento, ma ha evidenziato che il danno lamentato si ricollega nella specie direttamente alla presenza di un prospetto informativo gravemente mendace e alla omessa vigilanza dell’autorità che, per la sua funzione istituzionale, aveva il compito di garantire il pubblico dei risparmiatori circa la veridicità delle informazioni contenute nel detto documento.

7.1.2. – Incorre, invece, nelle censure articolate dai ricorrenti la statuizione che ha escluso la rilevanza della diffusione di notizie di stampa sul carattere rischioso dell’operazione finanziaria in questione, sotto il profilo del concorso di colpa dei danneggiati, messi sull’avviso, o del contegno degli stessi idoneo a produrre un aggravamento del danno.

Va premesso che la più volte citata sentenza di questa Corte, nell’accogliere il quinto motivo del ricorso, ha statuito che l’avere avuto i potenziali investitori, in epoca successiva alla pubblicazione del prospetto informativo, contezza dei rischi connessi all’operazione per effetto delle notizie diffuse dalla stampa sul carattere “avventuroso” dell’investimento in atto, non esimeva la CONSOB dall’obbligo istituzionale di attivare le potestà disponibili, ed anzi imponeva la sollecita attivazione degli interventi – doverosi – sino a quel momento negletti.

La detta sentenza – nel cassare la pronuncia dei giudici milanesi, che aveva affermato la sostanziale inefficienza causale di un intervento della CONSOB assunto nel pieno di una campagna giornalistica di informazione – ha tuttavia evidenziato che “le notizie in discorso avrebbero potuto essere considerate come originanti una situazione – pervero caratterizzata dall’ampio di spiegamento cronologico delle sottoscrizioni (iniziate all’indomani della pubblicazione del prospetto e continuate anche nell’anno (OMISSIS)) – nella quale, semmai, il comportamento dei sottoscrittori (o di parte di essi) avrebbe potuto ricevere una valutazione alla stregua dell’art. 2056 cod. civ., comma 1, e art. 1227 cod. civ.”.

Alla base del dictum della sentenza rescindente vi è, da un lato, la considerazione che, per logica di sistema, gli investitori, quando scelgono di investire nello specifico strumento finanziario oggetto di sollecitazione all’investimento, lo fanno proprio sulla base delle informazioni ufficiali provenienti dal prospetto, la cui pubblicazione è autorizzata dalla CONSOB; dall’altro, la sottolineatura che, allorché una notizia di stampa pone all’attenzione del pubblico la possibilità che una fonte di informazione ufficiale possa non essere più attendibile, l’investitore prudente deve valutare anche il contenuto della notizia di stampa, e che la colpa del risparmiatore danneggiato va apprezzata sotto il profilo del concorso di questo nella produzione dell’evento o ai fini della riduzione del risarcimento.

È esatto che, come è reso palese dall’uso dell’avverbio semmai, l’indagine sulla rilevanza, sub specie di concorso del fatto colposo del danneggiato o di comportamento suscettibile di avere determinato un aggravamento del danno, della pubblicazione di dette notizie di stampa, era affidato, nel quadro di un “nuovo, completo, esame della controversia”, al giudice del rinvio: il quale, “seguendo una corretta logica argomentativa”, non necessariamente, ma solo, appunto, eventualmente, era tenuto a dare alle notizie di stampa una valutazione alla stregua dell’art. 1227 cod. civ.

Sennonché la Corte di merito – nell’escludere che i risparmiatori, messi sull’avviso dalla stampa, avrebbero dovuto attivarsi per verificare la corrispondenza al vero delle notizie pubblicate ed eventualmente non investire nell’operazione o provvedere a disinvestire prontamente i capitali, evitando o limitando le perdite lamentate – ha motivato esclusivamente in astratto, osservando che proprio la mancata attivazione della CONSOB anche in seguito alla pubblicazione di notizie di stampa “può … avere avuto l’effetto di tranquillizzare i risparmiatori sulla infondatezza delle notizie di stampa”.

Così decidendo, la Corte Territoriale si è sottratta all’indagine che ad essa era stata affidata dalla sentenza rescindente, disattendo i criteri direttivi stabiliti per il giudizio di rinvio ed incorrendo nel denunciato vizio di motivazione. Anziché compiere un’analisi delle notizie di stampa, del loro contenuto e della loro consistenza (se, cioè, recanti soltanto mere opinioni del giornalista o riportanti valutazioni suffragate da fatti obiettivi ed elementi concreti), del loro grado di diffusione e della loro ripercussioni sul mercato dei titoli in questione, il giudice del rinvio ha infatti finito con l’escludere, in tesi e in assoluto, che le notizie giornalistiche tout court debbano o possano costituire una fonte di informazione per l’attento risparmiatore; e, anziché procedere ad un’indagine individualizzata in ordine al concorso di colpa di ciascun sottoscrittore anche in relazione all’epoca dell’investimento, è pervenuto ad una conclusione uniforme e generalizzante, senza distinguere le posizioni dei singoli investitori, né, pertanto, prendere in diversa considerazione la posizione di coloro che, senza porsi dubbi sull’attendibilità del prospetto autorizzato, acquistarono quote nel periodo successivo alla diffusione delle notizie de quibus e di coloro che, avendo aderito ab origine all’operazione, avrebbero potuto, in ipotesi, ridurre il danno attraverso una liquidazione delle quote acquistate.

8. – Con il sesto motivo – che in ordine logico va esaminato prima dei restanti quarto e quinto motivo – i ricorrenti in via principale denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 384 cod. proc. civ., del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23, del D.L. n. 534 del 1996, art. 3, convertito nella L. n. 639 del 1996, e della l. n. 216 del 1974, artt. 1 e 2, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia .

Con esso lamentano che la condanna al risarcimento integrale nei confronti dei sottoscrittori sia stata pronunciata, in solido con la CONSOB ed il Ministero, anche nei confronti di P.B., P.A., G.F. e S.L., in qualità di funzionari ed esperti della CONSOB.

Il giudice del rinvio si sarebbe limitato ad indagare sulla sussistenza di un comportamento genericamente colposo ascrivibile ai singoli funzionari ed esperti della CONSOB, senza tuttavia interrogarsi in alcun modo sulla gravità o meno di tale (eventuale) colpa. In tal modo, la Corte Territoriale avrebbe ignorato il disposto del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23, a tenore del quale la responsabilità civile dei funzionari e dipendenti della P.A. sussiste soltanto in presenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi. La Corte del merito, pertanto, non si sarebbe potuta limitare ad indagare sulla sussistenza, nel comportamento di tali soggetti, degli ordinari elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, ma avrebbe dovuto verificare la ravvisabilità degli estremi di una colpa grave.

Gli elementi di prova utilizzati dal giudice del rinvio onde dimostrare il comportamento illecito dei singoli funzionari ed esperti sarebbero insufficienti e addirittura inammissibili.

Quanto alla responsabilità del P.B., la Corte Territoriale si sarebbe limitata a far leva su una dichiarazione, priva di valore confessorio, resa dallo stesso in sede penale, nonché sulla circostanza – di per sé neutra e non decisiva – della partecipazione dello stesso alle riunioni della CONSOB in cui il prospetto venne discusso ed approvato.

In ordine a quella del P.A., del G.F. e del S.L., il giudice del rinvio si sarebbe riferito, in modo del tutto acritico e passivo, a mere valutazioni espresse dal giudice penale nella sentenza istruttoria con cui fu disposto il proscioglimento per amnistia.

Con ciò la Corte milanese avrebbe violato il principio – ribadito anche nella sentenza n. 3132 del 2001 della Corte di cassazione – per cui la libera valutabilità del giudice civile sussiste unicamente per le prove acquisite in sede penale, giammai con riguardo a mere valutazioni espresse in quella sede, le quali sono invece prive di qualsivoglia valore probatorio.

La Corte di Milano avrebbe inoltre omesso di sottoporre alla necessaria rivalutazione gli elementi tratti dalla sentenza penale.

Da ultimo, la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui ha condannato all’integrale risarcimento in favore dei sottoscrittori tanto i commissari quanto gli esperti della CONSOB, senza distinguere in alcun modo le rispettive posizioni e funzioni. La Corte del merito non si sarebbe resa conto che, dei soggetti condannati, soltanto i funzionari P.B. e P.A. ricoprivano il ruolo di commissari della CONSOB all’epoca dei fatti di causa, e che pertanto soltanto questi ultimi approvarono il prospetto, laddove gli avvocati G.F. e S.L. erano due degli esperti della CONSOB, ai quali erano devolute attribuzioni e funzioni totalmente differenti. G.F. e S.L. erano addetti al Servizio giuridico della Commissione, ed il loro compito istituzionale era soltanto quello di verificare che i prospetti informativi presentati alla CONSOB fossero conformi, dal punto di vista formale e tecnico- giuridico, con lo schema-tipo predisposto dalla stessa Commissione.

Del resto, all’approvazione del prospetto si pervenne – come risulta dal verbale della riunione della CONSOB del (OMISSIS) – soltanto a seguito della lettura di una lettera riservata indirizzata dai promotori dell’operazione al presidente della Commissione, della quale pertanto gli esperti G.F. e S.L. – i quali si erano occupati della sola fase istruttoria – nulla potevano sapere.

8.1. – Il motivo è fondato.

In primo luogo, la sentenza impugnata ha omesso di distinguere la posizione dei commissari e degli esperti della CONSOB evocati in giudizio, laddove il diverso ruolo istituzionale degli stessi e le attività concretamente svolte da ciascuno di essi nella vicenda in esame avrebbe reso necessari una precisa indagine ed una separata valutazione in ordine alla responsabilità di ognuno, tenendo conto – con particolare riguardo agli esperti – degli specifici compiti assegnati nella struttura organizzativa della Commissione e del ruolo avuto nella vicenda.

In secondo luogo, la Corte del merito – mentre con riguardo al P. B. ha desunto in via autonoma il comportamento colposo dall’essere stato presente alle riunioni della Commissione in cui venne discusso ed approvato il prospetto, senza disporre alcuna attività di verifica e controllo, nonostante fosse stata data lettura, nella seduta del (OMISSIS), di una missiva del (OMISSIS), a firma C., in cui si evidenziava che l’operazione di acquisto delle azioni S. Grandi Alberghi era ancora in corso di perfezionamento – con riguardo agli altri convenuti ( P.A., G.F. e S.L.) ha fondato le conclusioni di responsabilità sulle valutazioni espresse dal giudice penale nella sentenza istruttoria di proscioglimento per applicazione dell’amnistia, nella quale era stato sottolineato: che costoro “non potevano non essersi resi conto dello stato del prospetto, delle sue lacune documentali e delle sue ambigue osservazioni”; che il G. F. e il S.L. “avevano il compito di istruire la pratica prima dell’esame in Commissione”; che il P.A. “si occupò concretamente di tale operazione, senza, peraltro, rilevare nulla in merito ai punti in discussione …, attesa la specifica competenza del P.A.”.

Non v’è dubbio che la sentenza penale, anche quando non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, costituisce un documento che il giudice civile può esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti (Cass., Sez. 1^, 15 febbraio 2001, n. 2200; Cass., Sez. 1^, 24 febbraio 2004, n. 3626). Ma il giudice civile non può adagiarsi acriticamente sulle valutazioni effettuate dal giudice penale, dovendo in ogni caso sottoporre le conclusioni cui sia giunto quest’ultimo al proprio vaglio critico (Cass., Sez. 3^, 21 giugno 2004, n. 11483; Cass., Sez. Ili, 7 febbraio 2005, n. 2409). In questo senso, del resto, il giudice del rinvio era vincolato in base al principio di diritto enunciato dalla sentenza rescidente, la quale – esclusa l’efficacia di giudicato nel giudizio civile delle statuizioni contenute nella sentenza istruttoria di proscioglimento degli imputati per applicazione di amnistia – ha invitato la Corte di merito, nell’opera di necessaria rivalutazione del fatto, a “tenere conto degli elementi di prova ritualmente acquisiti nel processo penale”.

Con riguardo alle posizioni dei convenuti P.A., G.F. e S.L., la Corte di Milano – pur declamando (pag. 43) di volere desumere dalla sentenza penale istruttoria “argomenti di prova” – ha finito con il conferire proprio alle valutazioni espresse dal giudice penale un’autosufficienza decisoria nel giudizio civile di responsabilità, laddove il fondamento fattuale della decisione del giudice del rinvio avrebbe dovuto essere ancorato, piuttosto, agli elementi di prova ritualmente acquisiti dal giudice penale, se ed in quanto confermati (o comunque non smentiti) dal contesto degli altri dati disponibili.

Infine – e questa volta in relazione alla posizione di tutti i commissari ed esperti – la Corte di Milano – alla quale compete ogni accertamento in proposito (Cass., Sez. 3^, 25 novembre 2003, n. 17914) – ha omesso di interrogarsi espressamente sul grado della colpa di ciascuno, né la generica motivazione sul punto consente di ritenere che essa abbia, sia pure implicitamente, qualificato come grave le inosservanze addebitate a costoro. Al riguardo, il giudice del rinvio avrebbe dovuto considerare che – anche nel vigore della disciplina anteriore a quella, ratione temporis non applicabile (posto che, in materia di illecito civile, il criterio di imputazione della responsabilità segue la legge vigente al momento in cui si è verificato il fatto o l’evento dannoso: Cass., Sez. 3^, 24 settembre 2002, n. 13907), dettata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 24, comma 6 bis (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari), aggiunto dal D.Lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, art. 4, comma 3 (Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) – perché possa configurarsi, a norma dell’art. 28 Cost., la responsabilità per danni verso i terzi dei commissari della CONSOB nonché dei loro dipendenti od esperti in conseguenza di atti o comportamenti adottati nell’esercizio delle loro funzioni, è necessario che essi abbiano agito con dolo o colpa grave, così come previsto dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 23 (T.U. disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), applicabile, in quanto espressione di un principio generale, a chiunque sia legato da un rapporto di servizio con la Commissione.

A questo esame dovrà nuovamente procedere il giudice del rinvio;

tenendo presente che la limitazione della responsabilità civile dei commissari ed esperti della CONSOB alle ipotesi di (dolo o) colpa grave non significa che l’ordinamento tolleri un comportamento lassista di costoro o li esponga alla responsabilità nei confronti dei terzi danneggiati solo in presenza di macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio o di abuso delle funzioni per il perseguimento di fini personali, giacché si ha colpa grave anche quando l’agente, pur essendone obbligato iure, non faccia uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito.

9. – L’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale rende virtualmente assorbito l’esame degli ulteriori motivi del ricorso principale e dell’unico mezzo del ricorso incidentale, essendo tutti relativi a profili – i criteri di determinazione del danno subito dagli investitoti HVST e di aggiornamento o di adeguamento monetario della somma liquidata dal giudice – in ordine logico successivi rispetto al momento dell’an della responsabilità dei commissari ed esperti, sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a pronunciare.

Tuttavia, poiché la vicenda giudiziaria de qua pende ormai da numerosi anni e poiché le censure con tali motivi sollevate investono anche questioni di interpretazione della legge, sulle quali il giudice di legittimità è chiamato, secondo le attribuzioni che ad esso sono proprie, ad esercitare la propria funzione nomofilattica, il Collegio ritiene che ragioni di cautela acceleratoria, intimamente legate al rispetto del principio di ragionevole durata del processo e di buon andamento dell’amministrazione del servizio giustizia, impongano uno scrutinio di essi, onde evitare che le parti del giudizio – ove in esito al giudizio di rinvio sia confermata, in tutto o in parte, la responsabilità dei commissari e degli esperti della CONSOB – siano costrette a rivolgersi ancora una volta a questa Corte per prospettare doglianze, sulla misura del danno e sulla sua natura, che già oggi sono all’attenzione del giudice di legittimità. 10. – Passando, quindi, all’esame del quarto motivo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2041 e 2697 cod. civ.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia; il tutto in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5), con esso si contesta la liquidazione del danno in favore dei sottoscrittori HVST nell’intero ammontare dell’investimento dagli stessi effettuato.

La Corte del merito avrebbe dovuto detrarre dalla somma richiesta quanto meno il valore residuo delle quote acquistate. Si sarebbe dovuto considerare la circostanza – diffusamente evidenziata – che il complesso immobiliare alberghiero di cui è proprietaria la società HVST a r.l. (e quindi, per il tramite di essa, i sottoscrittori) è tuttora esistente nella sua materialità, e mantiene, quale bene immobile, un proprio valore di mercato. A seguire il ragionamento svolto nella sentenza impugnata, si perverrebbe – assumono i ricorrenti – al risultato di far conseguire agli investitori una illegittima ed ingiustificata locupletazione.

La Corte Territoriale avrebbe dato per dimostrate circostanze decisive ai fini della quantificazione del danno – e cioè, in ultima analisi, la totale mancanza di valore residuo delle quote acquistate dai sottoscrittori – sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST.

10.1. – La censura articolata con il motivo è infondata.

Correttamente il giudice del rinvio ha affermato che, poiché gli investitori non avrebbero acquistato i titoli mobiliari in questione se la CONSOB avesse proceduto alla doverosa attività di vigilanza e di controllo, il risarcimento deve coprire il danno subito dagli investitori medesimi in termini di perdita del capitale investito. E siccome nessun valore, neppure minimo, può essere attualmente riconosciuto alle quote HVST acquistate, non essendo stato recuperato alcunché dall’insinuazione al passivo delle procedure concorsuali alle quali sono state sottoposte le varie società promotrici dell’operazione, il danno sopportato da ciascun sottoscrittore è stato fatto coincidere con l’intero prezzo pagato per l’acquisto della quota.

Pervero, i ricorrenti, nel contestare (anche) in punto di fatto la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito, sostengono che sussisterebbe un valore residuo di mercato delle quote acquistate dai sottoscrittori: ma la deduzione si risolve nella prospettazione di un punto di vista diverso dal motivato apprezzamento della sentenza impugnata, perché nel motivo di ricorso non vengono trascritte – come invece sarebbe stato onere dei ricorrenti, in base al principio di autosufficienza – le risultanze processuali, indicative del detto valore residuo di mercato, che la Corte del merito avrebbe omesso di prendere in considerazione.

11. – Il quinto mezzo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 1223 cod. civ.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia) lamenta che la sentenza impugnata abbia riconosciuto la debenza degli interessi legali con decorrenza dalle singole sottoscrizioni. L’obbligazione per accessori avrebbe dovuto decorrere dalla data della pronuncia o, quanto meno, da quella del verificarsi del danno, non coincidente con la stessa data della sottoscrizione.

11.1. – In relazione al medesimo capo della sentenza impugnata relativo agli interessi, i sottoscrittori HVST, con l’unico motivo del ricorso incidentale, prospettano violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1224 e 1225 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Essi sostengono che nella specie, venendo in considerazione un debito di valore, sull’ammontare del risarcimento riconosciuto in favore dei singoli risparmiatori avrebbe dovuto essere applicata anche la rivalutazione monetaria.

11.2. – Il quinto motivo del ricorso principale e l’unico mezzo del ricorso incidentale vanno esaminati congiuntamente, stante la loro connessione.

È fondato il motivo del ricorso incidentale, giacché sono erronee le premesse dalle quali ha preso le mosse la Corte di Milano nell’escludere il danno da svalutazione monetaria.

L’obbligazione risarcitoria da fatto illecito extracontrattuale per le perdite subite dal risparmiatore in conseguenza della omessa attivazione, da parte della CONSOB, dei poteri di vigilanza su di un’operazione di sollecitazione al pubblico risparmio, costituisce un debito di valore. Né siffatta configurazione è destinata a mutare per il fatto che l’evento dannoso coincide con la perdita della somma di danaro investita, giacché nella responsabilità aquiliana – dove l’obbligazione risarcitoria mira alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato – ai fini del risarcimento del danno viene in rilievo la perdita del valore oggetto, nella specie, dell’operazione finanziaria di investimento, e ciò che il danneggiante deve non è la corresponsione di una data somma di danaro ma l’integrale risarcimento del danno, di cui la somma originaria costituisce solo una componente ai fini della relativa commisurazione (cfr., in ambiti diversi, Cass., Sez. 2^, 21 luglio 1980, n. 4776; Cass., Sez. 3^, 23 aprile 1982, n. 2534; Cass., Sez. 3^, 20 febbraio 1987, n. 1817; Cass., Sez. 1^, 25 maggio 2005, n. 11018).

La Corte di Milano, affermando di non potere riconoscere il danno da svalutazione monetaria (che avrebbe dovuto essere dimostrato, o almeno allegato, dagli investitori) ed essendosi limitata a statuire la debenza degli interessi legali, ha erroneamente considerato l’obbligazione risarcitoria de qua alla stregua di un debito di valuta.

Trattandosi, invece, di obbligazione di valore, non occorreva che gli investitori danneggiati si adoperassero a provare la svalutazione, in quanto l’obbligazione di risarcimento del danno è sottratta al principio nominalistico e deve, pertanto, essere quantificata dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass., Sez. 3^, 22 giugno 2005, n. 13401; Cass., Sez. 1^, 7 ottobre 2005, n. 19636).

Sulla somma riconosciuta ai danneggiati a titolo di risarcimento del danno, il giudice avrebbe dovuto considerare, in sede di liquidazione, la rivalutazione monetaria degli esborsi sostenuti dai sottoscrittori dal giorno in cui è verificato l’evento dannoso; e – secondo i principi più volte affermati da questa Corte (Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1712; Sez. 3^, 25 gennaio 2002, n. 883; Sez. 3^, 8 maggio 2002, n. 6590; Sez. 3^, 10 marzo 2006, n. 5234) – avrebbe dovuto liquidare il nocumento finanziario (lucro cessante) da essi subito a causa del ritardato conseguimento del relativo importo, con la tecnica degli interessi, computati – non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione – ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio.

L’accoglimento del motivo del ricorso incidentale assorbe l’esame della censura articolata con il ricorso principale.

12. – La sentenza impugnata è cassata in relazione alle censure accolte.

La causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, la deciderà facendo applicazione dei principi di diritto sopra enunciati.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, così provvede:

(a) dichiara estinto, per intervenuta rinuncia, il giudizio promosso con il ricorso principale del Ministero dell’economia e delle finanze e della CONSOB;

(b) dichiara estinto, per intervenuta rinuncia, nei soli confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e della CONSOB, il giudizio promosso con il ricorso incidentale introdotto da S. R. e dagli altri 897 sottoscrittori di quote HVST indicati in epigrafe e, per loro nome e conto, da G.I., nonché da G.I. in proprio;

(c) rigetta il primo, il secondo ed il quarto motivo del ricorso principale; accoglie il terzo, nei termini di cui in motivazione, ed il sesto motivo del ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale e dichiara assorbito, in conseguenza di tale accoglimento, l’esame del quinto motivo del ricorso principale;

(d) cassa, in ragione delle censure accolte, la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2009


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 04-02-2009) 20-02-2009, n. 4239

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere

Dott. D’AMICO Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI PATTI, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato BALDUCCI PAOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato PIZZUTO FRANCESCO con studio in 98051 – Brolo (ME), Via Leonardo Da Vinci n. 5, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.T.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 101/2004 della GIUDICE DI PACE di PATTI, emessa il 23/03/2004, depositata il 30/03/2004, R.G. 284/C/03;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 04/02/2009 dal Consigliere Dott. SPIRITO ANGELO;

udito l’Avvocato Francesco PIZZUTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rinvio alle SS.UU..

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che nel primo motivo di ricorso il Come di Patti pone questione di giurisdizione, sostenendo che questa (trattandosi di canone acque reflue per l’anno 1997) spettasse alla Commissione Tributaria;

che, dunque, la questione stessa deve essere sottoposta al giudizio delle SS.UU. di questa Corte.

P.Q.M.
Dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle SS.UU..

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2009


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 02-12-2008) 13-01-2009, n. 551

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – est. Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 59, presso lo studio dell’avvocato BORDONI GIANFRANCO, che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLOGNA, in persona del Sindaco in carica (autorizzato con provvedimento P.G. n. 18578/06), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORTI DELLA FARNESINA 126, presso lo studio dell’avvocato STELLA RICHTER GIORGIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CUPELLO CASTAGNA ANNAMARIA, CARESTIA GIULIA, giusta procura speciale a margine della seconda pagina del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5899/2005 del GIUDICE DI PACE di BOLOGNA del 14/10/05, depositata il 03/11/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2008 dal Consigliere e Relatore Dott. EMILIO MIGLIUCCI;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dr. Giampaolo LECCISI che ha concluso visto l’art. 375 c.p.c. per il rigetto del ricorso per essere manifestamente infondato, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.G. impugna per cassazione la sentenza 3.11.05 n. 5899 con la quale il G.d.P. di Bologna ne ha rigettato l’opposizione proposta avverso il verbale n. (OMISSIS) redatto nei suoi confronti il (OMISSIS) dalla polizia municipale della città per avere posteggiato un ciclomotore sul marciapiedi di (OMISSIS).

Parte intimata resiste con controricorso.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale fa pervenire requisitoria scritta nella quale conclude chiedendo la reiezione del ricorso per sua manifesta infondatezza.

Il Collegio, condividendo precedenti pronunzie di legittimità in controversie analoghe (Cass. 26.1.05 n. 1565, 7.4.05 n. 7336, 17.2.06 n. 18186, 27.7.07 n. 16777 e recentemente su ricorso 16954/06 deciso il 10.11.08) ritiene di non poter recepire le opinioni e le conclusioni espresse dal P.G..

Nè ciò osta alla procedura – ed alla pronunzia – in camera di consiglio, la cui l’inesperibilità è ravvisabile solo ove la Suprema Corte ritenga che non ricorrano le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 1 ovvero che emergano condizioni incompatibili con una trattazione abbreviata, nel qual caso la causa deve essere rinviata alla pubblica udienza; ove, per contro, la Corte ritenga che la decisione del ricorso presenti aspetti d’evidenza compatibili con l’immediata decisione, ben può pronunziarsi per la manifesta fondatezza dell’impugnazione, anche nel caso in cui le conclusioni del P.G. fossero, all’opposto, per la manifesta infondatezza, e viceversa (e pluribus, Cass. 11.6.05 n. 12384, 3.11.05 n. 21291 SS.UU.)).

La L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 132, ha stabilito che “i comuni possono, con provvedimento del sindaco, conferire funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta a dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione”.

Al medesimo art. 17, comma 133, poi dispone che “le funzioni di cui al comma 132 sono conferite anche al personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone nelle forme previste dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, artt. 22 e 25, e successive modificazioni. A tale personale sono inoltre conferite, con le stesse modalità di cui al primo periodo del comma 132, le funzioni di prevenzione e accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico, ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 6, comma 4, lett. c)”.

La L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 68, comma 1, ha successivamente chiarito che “la L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, commi 132 e 133, si interpretano nel senso che il conferimento delle funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni, ivi previste, comprende, ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 12, comma 1, lett. c), e successive modificazioni, i poteri di contestazione immediata nonché di redazione e sottoscrizione del verbale di accertamento con l’efficacia di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c.” (comma 1). La norma ha, inoltre, stabilito che queste funzioni, “con gli effetti di cui all’art. 2700 c.c., sono svolte solo da personale nominativamente designato dal sindaco previo accertamento dell’assenza di precedenti o pendenze penali, nell’ambito delle categorie indicate dalla citata L. n. 127 del 1997, art. 17, commi 132 e 133” (comma 2), disponendo, altresì, che a detto personale “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli, nei casi previsti, rispettivamente, dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 158, lett. b) e c) e comma 2, lett. d)” (comma 3).

Il legislatore, in presenza ed in funzione di particolari esigenze del traffico cittadino, quali sono la gestione delle aree da riservare a parcheggio e l’esercizio del trasporto pubblico di persone, ha stabilito con le norme sopra richiamate che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere eccezionalmente svolte anche da soggetti privati i quali abbiano una particolare investitura da parte della pubblica amministrazione, in relazione al servizio svolto, in considerazione “della progressiva rilevanza dei problemi delle soste e parcheggi” (Corte cost., ord. n. 157 del 2001).

Inoltre, con la norma interpretativa sopra richiamata (art. 68, cit.) ha impresso ai verbali redatti dal succitato personale l’efficacia probatoria di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c..

L’art. 17, commi 132 e 133, tenuto conto della rilevanza e del carattere eccezionalmente derogatorio della funzioni conferite a soggetti che, sebbene siano estranei all’apparato della pubblica amministrazione e non compresi nel novero di quelli ai quali esse sono ordinariamente attribuite (art. 12, C.d.S.), vengono con provvedimento del sindaco legittimati all’esercizio di compiti di prevenzione ed accertamento di violazioni del codice della strada sanzionate in via amministrativa, deve ritenersi norma di stretta interpretazione (Cass. 7.4.05 n. 7336 cit.).

Il legislatore, evidentemente conscio di tale natura delle dettate disposizioni, ha quindi avuto cura di puntualizzare che le funzioni, per i dipendenti delle imprese gestrici di pubblici posteggi, riguardano soltanto le “violazioni in materia di sosta” e “limitatamente alle aree oggetto di concessione”, poiché la loro attribuzione è apparsa strumentale rispetto allo scopo di garantire la funzionalità dei posteggi, che concorre a ridurre, se non ad evitare, il grave problema del congestionamento della circolazione nei centri abitati.

In tal senso, è significativo che al personale in esame “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli”, ma esclusivamente nei casi previsti dall’art. 158, comma 2, lett. b), c), ed) (art. 68, comma 3, cit.), ovvero “dovunque venga impedito di accedere ad un altro veicolo regolarmente in sosta, oppure lo spostamento dei veicoli in sosta”, “in seconda fila”, “negli spazi riservati allo stazionamento e alla fermata” dei veicoli puntualmente indicati.

Analogamente, la L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, come interpretato dalla L. n. 488 del 1999, art. 68, costituisce norma di stretta interpretazione per quanto riguarda le funzioni di prevenzione e accertamento in materia di “sosta nelle aree oggetto di concessione”, ove ne siano state concesse alle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, ed “inoltre” di “circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico” attribuite al personale ispettivo delle dette aziende.

Ne consegue che gli ausiliari del traffico, dell’una e dell’altra categoria, in tanto sono legittimati ad accertare e contestare violazioni a norme del codice della strada, in quanto dette violazioni concernano disposizioni in materia strettamente connessa all’attività svolta dall’impresa – di gestione dei posteggi pubblici o di trasporto pubblico delle persone – dalla quale dipendono ove l’ordinato e corretto esercizio di tale attività impediscano od in qualsiasi modo ostacolino o limitino.

Laddove, invece, le violazioni consistano in condotte diverse – quale, nella specie, il posteggio su di un marciapiedi non funzionale al posteggio od alla manovra in un’area in concessione e neppure alla circolazione in corsie riservate ai mezzi pubblici – l’accertamento può essere compiuto esclusivamente dagli agenti di cui all’art. 12 C.d.S. e non anche dagli ausiliari del traffico, di cui alla L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 132 e, per quanto più interessa, comma 133.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata va conseguentemente cassata.

Peraltro, non risultando necessari ulteriori accertamenti di merito, emergendo dagli atti che la violazione di divieti posti da codice della strada è stata accertata da un soggetto non legittimato a detto accertamento ai sensi della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dell’opposizione e la condanna del Comune di Bologna al pagamento delle spese del giudizio di merito e di quello di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, annulla il verbale di contestazione opposto; condanna il Comune di Bologna al pagamento delle spese di lite, che liquida, per il primo grado, in Euro 700, di cui Euro 600 per onorari e, per il grado di legittimità, in Euro 500, di cui Euro 400 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 21-10-2008) 09-01-2009, n. 216

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 9384/02 proposto da:

CONSORZIO ENERGIA Basilicata – CEB – con domicilio eletto in Roma, via Tacito n. 50, presso l’Avv. FAVA PAOLO che lo rappresenta e difende come da procura in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate, domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

nonchè sul ricorso n. 13548/02 proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate, come sopra rappresentati e difesi;

– ricorrenti incidentali –

contro

CONSORZIO ENERGIA BASILICATA – CEB;

– intimato –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Basilicata n. 30/4/01 depositata il 19 febbraio 2001;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2008 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli;

viste le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Consorzio Energia Basilicata ricorre per cassazione nei confronti della sentenza in epigrafe della Commissione tributaria regionale che, confermando la decisione di primo grado, ha rigettato il ricorso del contribuente avverso una cartella di pagamento per IVA relativa all’anno 1992.

Resiste l’Amministrazione con controricorso e propone ricorso incidentale.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio, essendosi ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello incidentale debbono essere preliminarmente riuniti in quanto proposti nei confronti della stessa sentenza.

Premesso che deve essere esaminato in via prioritaria il ricorso incidentale in quanto, benchè qualificato come condizionato, pone una questione che, se ritenuta fondata, renderebbe carente di interesse il ricorso principale, si deve ritenere innanzitutto inammissibile il primo motivo di detto ricorso in quanto deduce la carenza di motivazione in relazione alla risoluzione di una questione di diritto (Cassazione civile, sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16640).

Sarebbe invece manifestamente fondato il secondo motivo con il quale si censura l’impugnata decisione per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto irregolare la notifica dell’avviso di accertamento in base al quale è stata poi emessa la cartella impugnata e quindi ammissibile l’impugnazione di quest’ultima anche per vizi non propri.

Emerge dagli atti ed è sostanzialmente pacifico tra le parti che l’atto de quo è stato notificato ai sensi dell’art. 145 c.p.c., presso la sede del Consorzio quale risultava all’epoca della notifica. In particolare si desume che non essendo stato possibile effettuare la notifica per l’assenza di persone presso la sede stessa il messo notificatore ha proceduto all’affissione dell’avviso di deposito all’albo del comune, come prescritto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

Sostiene la ricorrente principale che l’atto avrebbe dovuto essere notificato, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 3, ma la tesi non è fondata in quanto il domicilio fiscale del consorzio era in (OMISSIS) mentre il legale rappresentante risiedeva in Potenza ed è già stato affermato dalla Corte che “La notificazione degli avvisi di accertamento tributario a soggetti diversi dalle persone fisiche non si sottrae alla regola generale, enunciata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti tributari al contribuente dev’essere fatta nel comune dove quest’ultimo ha il domicilio fiscale. In riferimento alla notifica di atti alle società commerciali, il necessario coordinamento di tale disciplina con quella di cui all’art. 145 c.p.c., comporta, pertanto, che, in caso d’impossibilità di eseguire la notificazione presso la sede sociale, il criterio sussidiario della notificazione alla persona fisica che la rappresenta è applicabile soltanto se tale persona fisica, oltre ad essere identificata nell’atto, risiede nel comune in cui l’ente ha il suo domicilio fiscale, da individuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58”, (Cassazione civile, sez. trib., 20 febbraio 2006, n. 3618).

Dalla ritenuta regolarità della notificazione discende l’inammissibilità del ricorso avverso la cartella di pagamento in quanto non proposto per vizi propri di tale atto ma sull’erroneo presupposto dalla mancata rituale notifica dell’avviso di accertamento, divenuto invece definitivo per mancanza di impugnazione.

La fondatezza della tesi esposta nel secondo motivo del ricorso incidentale rende privo di interesse il ricorso principale in quanto basato sulla ritenuta erroneità della pronuncia di secondo grado laddove ha ritenuto inammissibile il ricorso introduttivo del Consorzio in quanto nel medesimo non veniva affrontato il merito della controversia, come sarebbe stato invece possibile e necessario, secondo il giudice a quo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

Poiché il dispositivo della sentenza impugnata è comunque conforme al diritto, posto che ha confermato la decisione di primo grado che, a sua volta, ha rigettato il ricorso della contribuente, deve unicamente essere corretta la motivazione nel senso sopra indicato.

La sostanziale soccombenza del ricorrente principale ne impone la condanna alle spese.

P.Q.M.
la Corte, riuniti i ricorsi e visto l’art. 384 c.p.c., rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna il ricorrente principale alla rifusione in favore dell’Amministrazione delle spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 4.100,00, di cui Euro 4.000,00, per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2009


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 07/11/2008) 17/12/2008, n. 29465

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Presidente

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro p.t.; AGENZIA delle ENTRATE; entrambi domiciliati in Roma in via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono rappresentati e difesi;

– ricorrenti –

contro

S.L.;

– intimato –

AVVERSO la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 89.11.04, sez. 11 depos. il 14.12.04;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 7.11.2008 dal Consigliere Dott. BURSESE Gaetano Antonio;

udito l’avv. Maria Luisa Spina dell’Avvocatura Generale dello Stato;

Sentito il P.M. in persona del sost. P.G. Dott. De Nunzio Wladimiro, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.; Agenzia delle Entrate ricorrevano per Cassazione avverso la rubricata sentenza della C.T.R. della Campania n. 89.11.04, che aveva accolto l’appello proposto dal contribuente S.L., con riferimento all’opposizione da lui proposta avverso l’avviso di accertamento di maggior reddito di partecipazione alla s.d.f.

(OMISSIS).

Il ricorso si fonda su di un solo motivo; non si è costituito l’intimato.

Motivi della decisione
L’amministrazione con il ricorso per Cassazione in esame, eccepisce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lsg. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 e dell’art. 350 c.p.c..

Sottolinea che….” all’epoca in cui era stato proposto l’appello erano già costituiti gli uffici delle entrate, ed in base al principio generale del domicilio fiscale del contribuente, l’ufficio territoriale competente era l’Ufficio (OMISSIS) e non già quello di (OMISSIS)”. “La mancata vocatio in ius dell’Ufficio competente aveva impedito la costituzione in appello di un valido rapporto processuale”. Tale insanabile vizio del ricorso in appello doveva essere rilevato d’ufficio dalla C.T.R. che doveva astenersi dall’esaminare il merito del ricorso e dichiararne, invece, l’inammissibilità”, ovvero “… avrebbe dovuto disporre la rinnovazione della notifica all’ufficio competente ai sensi dell’art. 350 c.p.c. onde consentire la rituale costituzione del contraddittorio in appello e l’esplicazione delle difese da parte dell’Ufficio legittimato a resistere”.

Occorre però precisare che l’amministrazione ricorrente, nello stesso ricorso in esame, aveva premesso, in punto “fatto” che il S. aveva proposto appello “….con ricorso notificato all’Ufficio delle Imposte Dirette ormai soppresso in luogo diverso dalla sede dell’Agenzia delle entrate – Ufficio (OMISSIS) – divenuto competente in relazione al rapporto controverso.” Ora a parte il contrasto tra le menzionate circostanze fattuali esposte dalla stessa ricorrente, non v’è dubbio che le doglianze sono comunque prive di fondamento. Invero ove la notifica dell’appello fosse stata effettuata presso il soppresso Ufficio delle II.DD., quando era già subentrata ad esso l’Agenzia delle Entrate, la notifica stessa doveva ritenersi regolare con riferimento a quanto previsto dall’art. 111 c.p.c. (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006). Quindi l’appello che il contribuente aveva proposto contro l’Ufficio delle II.DD. (parte nel giudizio di 1 grado) non era inammissibile in quanto quell’ufficio aveva di fatto partecipato al giudizio ed era legittimato processualmente in forza della norma sopra ricordata.

E’ parimenti regolare la notifica dell’atto di opposizione ove fosse stata eseguita – come indicato nel riportato motivo d’impugnazione – presso un ufficio periferico dell’Agenzia “non territorialmente competente” diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, perchè tale evento non può comportare alcuna ipotesi di nullità o di decadenza dall’impugnazione, atteso il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate e considerato inoltre il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità ed il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006).

Conclusivamente il ricorso dell’amministrazione concernente la questione meramente processuale è infondato e dev’essere pertanto rigettato; nulla per le spese.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2008


Cass. pen. Sez. feriale, (ud. 26-08-2008) 05-12-2008, n. 45335

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente

Dott. ESPOSITO Antonio – Consigliere

Dott. KOVERECH Oscar – Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., n. in data (OMISSIS);

avverso Sentenza emessa in data 14.12.2007 dalla Corte d’Appello di Brescia;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso.

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Oscar KOVERECH. Udito il Procuratore Generale Dr. Giuseppe Febbraro che ha concluso per il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

Udito il difensore del ricorrente, avv. Araldi Erminio, che ha concluso per l’annullamento della impugnata sentenza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Mantova, con la quale B.L. era stato assolto dal reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, dichiarava la responsabilità dello stesso e, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna. Condannava altresì l’imputato al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e al risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separata sede oltre alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza in giudizio della parte civile per il primo grado.

1.1. – Per una migliore comprensione dell’oggetto del presente giudizio di legittimità, si impone una sintetica ricostruzione della vicenda processuale.

L’imputato era stato chiamato a rispondere, nella sua qualità di socio accomandatario e legale rappresentante della s.a.s. Viastrade, del reato di cui all’art. 590 c.p., commi 2 e 3 in danno del lavoratore dipendente L.M.; quanto sopra per colpa consistita nella inosservanza della normativa antinfortunistica – e, in particolare, del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, – connessa alla utilizzazione, nel cantiere di lavori stradali della ditta in frazione (OMISSIS), di una macchina stabilizzatrice Wirtgen WR 2500 per lavori stradali che presentava il rischio di cesoiamento tra le parti laterali dello scudo di protezione del tamburo, tanto da cagionare lesioni personali gravissime al citato lavoratore il quale, avendo inserito il braccio destro nella zona pericolosa della macchina per sistemare un listello di legno proprio nel momento in cui un collega si accingeva a disporre l’abbassamento del suddetto scudo che, calando repentinamente, troncava di netto l’arto del L. il quale riportava lesioni (consistite nel distacco traumatico del braccio destro poi riattaccatogli con un intervento chirurgico) dalle quali derivavano pericolo di vita ed una malattia nel corpo, oltre ad una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni superiore ai quaranta giorni e all’indebolimento permanente della funzionalità del braccio.

1.1.1. – L’incidente era avvenuto il giorno 12.04.2001 nel sopra citato cantiere della s.a.s. Viastrade, dove alcuni operai stavano caricando la macchina operatrice livellatrice Wirtgen WR 2500 sull’apposito rimorchio perché doveva essere trasportata altrove.

Il cuore di questa macchina è costituito da un tamburo di fresatura munito di un elevato numero di utensili da taglio (denti) che, mentre ruota, fresa il materiale della pavimentazione stradale ed ha come protezione un tegolo per evitare che i sassi vadano a finire ai lati o nelle altre parti dell’ingranaggio. Alla cabina di guida si trovava M.N., mentre sul lato destro e sinistro del rimorchio, si trovavano, rispettivamente, il caposquadra G.A. e L.M..

1.1.2. – Il M. dichiarava in giudizio di aver condotto la macchina con il rullo e il tegolo alzati sul rimorchio percorrendo due rampe di carico secondo le indicazioni del G.. Una volta compiuto correttamente il posizionamento della macchina facendola appoggiare su due assi preventivamente collocate, aveva abbassato il tegolo. A operazione ultimata, aveva però sentito gridare che c’era L. con il braccio dentro e aveva quindi rialzato il tegolo.

Il L., al contrario, aveva riferito che la macchina era stata caricata con il tegolo abbassato e, poiché una delle due assi sulle quali doveva appoggiarsi si era spostata mettendosi di traverso, aveva detto al conducente di alzare il tegolo e lui aveva messo dentro un braccio per raddrizzare l’asse ma, proprio in quel momento, il tegolo era stato abbassato e gli aveva troncato di netto il braccio destro.

1.1.3. – In primo grado, il B. veniva assolto dal Tribunale di Mantova con sentenza in data 27.10.2006 sulla base, essenzialmente, delle seguenti considerazioni:

a) la macchina operatrice utilizzata in leasing dal B. era munita della dichiarazione CE di conformità ai requisiti essenziali di sicurezza;

b) nessun altro presidio di sicurezza si rendeva necessario a salvaguardia di ulteriori rischi prevedibili;

c) era fuori da ogni previsione che un lavoratore potesse introdurre un braccio sotto il tegolo alzato della macchina, anche perchè, per poterlo fare, il lavoratore avrebbe dovuto sdraiarsi a terra.

2. – All’esito del giudizio di appello, proposto a seguito di impugnazione del P.M (che aveva fatto propria la richiesta ex art. 572 c.p.p., di impugnazione della parte offesa), la Corte territoriale argomentava la condanna sulla base dei dati probatori emersi nell’istruttoria dibattimentale, dai quali emergevano, oltre al profilo di colpa specifica indicato nel capo di imputazione (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68) e valutato dal Tribunale di Mantova, anche altre violazioni della normativa infortunistica che, pur essendo richiamate nello stesso capo, non erano state valutate dal giudice di primo grado. I giudici dell’appello, in particolare, evidenziavano che l’infortunio si era verificato a causa della mancata osservanza delle cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, considerato che, come sottolineato dal manuale fornito al B. dalla ditta costruttrice, intorno alla macchina c’erano angoli che non si potevano bene osservare e che era quindi necessario impiegare del personale di sicurezza per tenerli sotto controllo; che, inoltre, il conducente avrebbe dovuto essere adeguatamente istruito sulla necessità di accertarsi che non ci fossero persone nelle zone di pericolo e di abbassare il rullo il più lentamente possibile, controllando costantemente la eventuale presenza di persone nel raggio di lavoro della macchina mediante personale di sicurezza che doveva rimanere nel campo di visuale del conducente medesimo.

L’addebito di colpa a carico del B., oltre alla generica contestazione ex art. 590 c.p., commi 2 e 3, veniva dunque individuato, sia sotto il profilo della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, – secondo il cui disposto “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza” – sia sotto il profilo della carenza di informativa dei rischi specifici cui sono esposti i dipendenti, ritenuta connotata da gravità, “ove si consideri che il carico della fresa sul rimorchio non era operazione straordinaria, bensì consueta per non dire quotidiana, poichè la macchina non poteva spostarsi da sola da un luogo di lavoro ad un altro, ma doveva essere obbligatoriamente trasportata su un rimorchio”. 3. – Propone ricorso per Cassazione il B. deducendo quattro motivi basati sulla prospettazione della violazione di legge e del difetto di motivazione.

3.1. – In particolare, lamenta, con il primo motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per inosservanza dell’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi dell’art. 521 c.p.p. e nullità ex art. 522 c.p.p..

Sostiene il ricorrente che la condotta omissiva contestata al B. nel giudizio di secondo grado differisce da quella cui si riferisce il capo di imputazione, vale a dire, la “inosservanza della normativa antinfortunistica e, in particolare del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68”; la Corte d’Appello, in sostanza, avrebbe introdotto una ulteriore ipotesi di colpa consistita nella inosservanza, da parte dello stesso B., del disposto di cui all’art. 4, D.P.R. cit., addebitandogli la diversa condotta omissiva consistita “Dell’omettere di istruire adeguatamente i lavoratori sui particolari rischi cui erano esposti durante l’uso della macchina ed altresì nell’ esigere l’osservanza delle relative norme di sicurezza”. Ciò in violazione del diritto di difesa e della effettività del contraddittorio.

3.1.2. – Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per avere i giudici di secondo grado erroneamente individuato la responsabilità dell’imputato a titolo di colpa specifica e violazione dell’art. 43 c.p. e D.P.R. n. 459 del 1996, artt. 1, 2 e 5, all. 1, 2, 3, 5.

Il ricorrente invoca un esonero totale di responsabilità del datore di lavoro derivante dalla normativa cautelare speciale di cui al D.P.R. n. 459 del 2006 che individua nel costruttore – e non nell’utilizzatore finale – il soggetto competente alla gestione del rischio.

3.1.3. – Con il terzo motivo lamenta (ex art. 606 c.p.p., lett. e)) la violazione dei criteri di valutazione della prova stabiliti dall’art. 192 c.p.p. per non avere la Corte d’appello “valutato diverse prove documentali, omettendo di dame conto in motivazione”.

Il ricorrente, nell’elencare una serie di prove documentali di cui la Corte di Appello avrebbe omesso la valutazione (quali, ad esempio, i bollettini di aggiornamento tecnico inviati dalla Wirtgen macchine s.r.l. solo nel (OMISSIS), contenenti ulteriori “avvertenze di pericolo”, non evidenziate in precedenza; la lettera con la quale, in data (OMISSIS), la Wirtgen Gmbh comunicava alla Wirtgen macchine s.r.l. la certificazione di conformità CE delle macchine prodotte e commercializzate dalla detta società; la lettera risalente al 7 luglio 2001 con la quale la Wirtgen segnalava alla Viastrade la situazione di pericolo di cesoiamento e di assestamento del mezzo sul rimorchio ai fini di trasporto) ribadisce la imputabilità del fatto a soggetto diverso (costruttore) sulla cui condotta lo stesso ricorrente era legittimato a fare “affidamento”. 3.1.4. – Con il quarto motivo si duole della mancanza della motivazione “quanto al contrasto tra la condanna prevista dall’estratto e la pena cui l’imputato è stato condannato in sentenza” nonché della “assoluta incertezza in ordine alla misura della pena inflitta”. 4. – Tutti i sopra esposti motivi si appalesano privi di fondamento e non meritano accoglimento. In realtà, il ricorrente, pur prospettando asserite violazioni di legge e pretese illogicità e carenze della motivazione, vorrebbe che la Corte esercitasse un inammissibile sindacato sull’apprezzamento fattuale della vicenda e, in particolare, sulla condotta dell’imputato e dell’infortunato, che esula dai poteri del giudice di legittimità, quando si è in presenza, come nella specie, di una motivazione rigorosa e convincente, in linea con i principi vigenti nella subiecta materia.

4.1. – Privo di fondamento risulta, in particolare, l’addebito formulato con il primo motivo, incentrato sulla violazione dell’art. 521 c.p.p..

Ciò in quanto, a parte il rilievo che la colpa specifica ascritta all’imputato (violazione del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, a norma del quale “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza”) costituisce il risultato di un processo di codificazione di regole di comune prudenza, con la conseguenza che la contestazione o, per cosi dire, “aperta”, va comunque rilevato che la Corte d’appello fa esplicito richiamo anche alla violazione originariamente addebitata, ritenuta sussistente in quanto la macchina in questione si è infatti rivelata non conforme ai cosiddetti requisiti essenziali di sicurezza, come affermato dall’Ispettorato tecnico del ministero delle Attività Produttive nella nota 26.9.2002 e sostanzialmente riconosciuto dalla stessa ditta produttrice nel (OMISSIS) (come da missiva in atti che propone una integrazione delle norme di sicurezza). Il difetto era stato peraltro già rilevato dall’u.p.g. tanto che la macchina, nel (OMISSIS), venne restituita all’imputato previa installazione di un riparo nella zona di pericolo (v. pagg. 6/7 della sentenza impugnata).

Al riguardo, va altresì rilevato che, nei procedimenti per reati colposi, l’affermazione di responsabilità per un’ipotesi di colpa non menzionata nel capo di imputazione rientra pur sempre nella generica contestazione di colpa e, pertanto, lasciando inalterato il fatto storico, non viola le regole della immutabilità dell’accusa, in quanto la contestazione generica di colpa, benché ulteriormente specificata, pone il prevenuto nelle condizioni di difendersi da qualunque addebito, con la conseguente possibilità di ravvisare in sentenza elementi di colpa non indicati in contestazione.

Per aversi immutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio del diritto alla difesa.

Quando, come nella specie, nel capo di imputazione sono stati contestati elementi generici e specifici di colpa in materia di infortuni sul lavoro, costituisce giurisprudenza costante di questa Corte, quella della non sussistenza della violazione del richiamato principio ex art. 521 c.p.p., nel caso in cui il giudice del merito, accanto ad elementi specifici di colpa, ravvisi nell’ambito della colpa generica propria del datore di lavoro, l’ulteriore aspetto della omessa vigilanza intesa ad esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi loro a disposizione (D.P.R. n. 547 del 1955, ex art. 4).

La Corte di merito si è limitata ad evidenziare un ulteriore aspetto di colpa specifica del datore di lavoro proprio in riferimento alle peculiarità del caso concreto senza, per questo, violare le regole della immutabilità dell’accusa con conseguente compromissione del diritto alla difesa (cfr. Cass. sez. 4^, 04.03.2004, n. 27851).

Va altresì rilevato che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, erroneamente interpretato dal ricorrente, non può parlarsi di violazione del principio di correlazione quando il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza si trovino in rapporto di continenza (nel senso che il maggiore comprende quello minore), mentre per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa e, quindi, “l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso “l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione” (Cass. SS. UU. 22.10.1996, n. 16).

In sostanza l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato;

la nozione strutturale di “fatto” contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata e decisione giurisdizionale risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (cfr. Sez. 4^, 15.01.2007, n. 10103, Sez. 4^, 25.10. 2005, n. 41663).

Alla luce delle suddette considerazioni, si ritiene che, nel caso di specie, non sia avvenuta una modificazione del fatto, né pertanto sia intervenuta violazione del principio di correlazione.

4.2. – Quanto al secondo motivo, incensurabile è l’apprezzamento del giudicante che ha ritenuto che, nella fattispecie, si sia verificata la concorrente responsabilità del datore di lavoro e della ditta costruttrice (oltre che dei colleghi di lavoro dell’infortunato), non attribuendo, per contro, valore esimente della responsabilità dell’imputato alla tesi difensiva dell’ “affidamento” che, secondo il ricorrente, ogni soggetto acquirente di apparecchi tecnologicamente complessi può fare “sulla corretta e prudente condotta di chi meglio conosce la macchina perché più attento ai dettagli tecnici di cui non è ragionevole attendersi la universale notorietà”.

Al riguardo va preliminarmente rilevato che, in tema di prevenzione infortuni, la disposizione di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, che fissa le misure protettive per le macchine con riguardo alle zone di operazione in cui si compiono le normali attività durante le quali gli operai possono venire accidentalmente a contatto con gli organi lavoratori delle macchine, non è stata superata dalla previsione di cui al D.P.R. 24 luglio 1996, n. 459 (regolamento per l’attuazione delle direttive comunitarie concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relativamente alle macchine operataci), atteso che il citato art. 68 detta un principio di carattere generale che trova applicazione in tutti i casi nei quali vengono usate macchine pericolose (Cass., Sez. 3^, n. 18-12-2002, n. 5167, Sassi, rv 223377).

Invero, la disciplina normativa di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, citato art. 68 – nel prescrivere che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell’uso di una macchina, il pericolo derivante dagli organi lavoratori della stessa deve essere rimosso mediante idonei sistemi di protezione, oppure, quando ciò non sia tecnicamente possibile, mediante l’adozione di dispositivi di sicurezza – non lascia comunque alcun margine di discrezionalità in ordine alla necessità di evitare il funzionamento della macchina stessa quando lo stesso costituisca pericolo per il lavoratore addetto (ex multis, Cass. Sez. 4^, n. 4066 del 23.02.1996, rv. 204978; Sez. 4^, 30.11.1992, n. 1208).

Valore assorbente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, riveste la considerazione che, tra i compiti di prevenzione che ad esso fanno capo, vi è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari dei tutto sicuri. In altri termini, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura (Cass. Sez. 4^, 11.12.2007, n. 6280; Sez. 4^, 10.11.2005, n. 2382, Minesso; Sez. 4^, 26.04.2000, Maniero ed altri).

Trattasi di affermazioni, pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui l’imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Secondo la sopra richiamata giurisprudenza di legittimità, si è in presenza, infatti, di una disposizione, utilmente qui richiamabile, che costituisce “norma di chiusura” rispetto alle disposizioni della legislazione antinfortunistica, comportando a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e di protezione dell’incolumità dei propri lavoratori e della stessa incolumità pubblica: obblighi che rendono esigibile, da parte del datore di lavoro, il dovere di impedire, mediante adeguato controllo e la predisposizione di ogni strumento a ciò necessario, che il bene o l’attività, sorgente di pericoli e rientrante nella sfera della sua signoria, possa provocare danni a chiunque ne venga a contatto, anche occasionalmente (Cass., Sez. 4^, 13.06.2000, Forti; Sez. 4^, 12.01.2005, Cuccù, secondo cui il datore di lavoro deve attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa:

tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, appunto, più generalmente, al disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante della incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, gli viene correttamente imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2).

In questa prospettiva, va pertanto rilevato che, nel caso di specie, eventuali concorrenti profili colposi addebitatali al fabbricante non elidono certamente il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Questo, del resto, in linea con la pacifica affermazione secondo cui è configurabile la responsabilità del datore di lavoro il quale introduce nell’azienda e mette a disposizione del lavoratore una macchina – che per vizi di costruzione possa essere fonte di danno per le persone – senza avere appositamente accertato che il costruttore, e l’eventuale diverso venditore, abbia sottoposto la stessa macchina a tutti i controlli rilevanti per accertarne la resistenza e l’idoneità all’uso, non valendo ad escludere la propria responsabilità la mera dichiarazione di avere fatto affidamento sull’osservanza da parte del costruttore delle regole della migliore tecnica (Cass., Sez. 4^, 03.07.2002, Del Bianco Barbacucchia).

4.3. – Le argomentazioni fin qui svolte sono utilizzabili per smentire anche la fondatezza del terzo motivo, ad ulteriore confutazione del quale giova aggiungere che appare del tutto inconferente sia il discorso relativo alla ulteriore certificazione “successiva” di conformità CE, considerato che, per quanto sopra esposto, la violazione è davvero macroscopica, tanto da sconfinare nella violazione di regole di comune prudenza, sia quello relativo alle mancate specifiche “avvertenze di pericolo” da parte della ditta costruttrice. A quest’ultimo riguardo, va rilevato che – a fronte di una colpa consistita nell’abbassamento del tegolo effettuato senza che chi diede l’ordine avesse ricevuto l’assicurazione che la vittima fosse al sicuro – alla voce “Pericolo” inserita nel manuale di Istruzioni, consegnato dalla ditta costruttrice unitamente alla macchina (e quindi in un momento antecedente all’infortunio de qua), erano previste precise cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, fra cui quella di “verificare che nessuno sia minacciato in caso di rovesciamento o di scivolamento della macchina” e che, comunque, si trattava di rischi evidenti anche a prescindere dalle istruzioni.

Invero, come logicamente argomentato dalla Corte territoriale, in esito a valutazione complessiva delle risultanze dibattimentali, nessuna chiara istruzione era stata data in tal senso e, a tutto concedere, anche ove impartita, nessuno si era accertato che fosse stata intesa in tutte le sue implicanze pratiche e che venisse poi rispettata.

Il carico della fresa sul rimorchio costituiva “operazione delicata e pericolosa sia per la mole e il peso del congegno sia per l’uso di assi da porre sulla rampa di carico (onde evitare il contatto metallo contro metallo) e che potevano per la pressione spostarsi e creare intralcio. Sarebbe stato quindi doveroso prevedere e disciplinare una procedura di caricamento che tutelasse appieno la incolumità dei lavoratori, se del caso, integrando quella fornita dal manuale, o dal personale Wirtgen. In verità, sarebbe bastato che l’imputato avesse una sola volta assistito a detta operazione di carico per rendersi conto dei rischi che si potevano determinare durante la fase di abbassamento del tegolo e della cesoia dentata, allorché, essendo la macchina già sul rimorchio, la zona di maggior rischio era ad altezza d’uomo e facilmente accessibile, perché non protetta. Nessun dubbio può pertanto essere sollevato, sulla concreta prevedibilità dell’evento lesivo”.

Anche alla luce delle suddette considerazioni, pertanto, deve considerarsi infondato l’assunto difensivo dell’esonero di responsabilità invocato dal ricorrente sulla base del marchio CE, non potendo ad esso ricollegarsi una presunzione assoluta di conformità della macchina alle norme di sicurezza, proprio per la prevedibilità ed evitabilità, nella ipotesi de qua, dell’evento lesivo.

Non può, infine, richiamarsi ai principi dell’affidamento il datore di lavoro che, in tema di sicurezza antinfortunistica, venga meno ai suoi compiti che comprendono, tra l’altro, l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ed anche il controllo continuo, congrue ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione. Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell’approntare i mezzi occorrenti all’attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l’obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati (tra le tante, Cass., Sez. 4^, 10.02.2005, Kapelj).

4.4. – Destituito di fondamento risulta infine il quarto motivo di ricorso relativo alla “assoluta incertezza” in ordine alla misura della pena inflitta.

Nella parte motiva dell’impugnato provvedimento emesso il 14.12.2007 e depositato il 28.12.2007, risulta ben specificato che, alla pena base (pari a mesi due di reclusione) inflitta all’imputato è stata applicata la riduzione di un terzo ex art. 62 bis c.p., con la conseguente irrogazione della pena in concreto pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. L’errore materiale espresso in dispositivo di condanna alla pena di mesi uno di reclusione è stato evidentemente emendato con la procedura della correzione di errore materiale ex art. 130 c.p.p. se è vero, come è vero, che nell’estratto contumaciale notificato all’imputato in data 18.02.2008 la pena irrogata risulta conforme a quella menzionata nella parte motiva del provvedimento pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. Nessun contrasto pertanto risulta tra la condanna irrogata e quella risultante dall’estratto contumaciale, non sussistendo la paventata e dedotta incertezza della pena inflitta.

4.5. – Per le sin qui illustrate ragioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 26 agosto 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2008


Cass. pen. Sez. II, (ud. 30-10-2008) 02-12-2008, n. 44912

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo – Presidente

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

Dott. IASILLO Adriano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.P., (n. il (OMISSIS));

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, Sezione Penale, in data 02/04/2008;

Sentita la relazione della causa fatta, in Pubblica Udienza, dal Consigliere Dr. Adriano Iasillo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dr. Mura Antonio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito il difensore che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
OSSERVA

Con sentenza del 06/07/2006, il Tribunale di Lecce – Sez. di Campi Salentina – dichiarò S.P. responsabile del reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo A: Truffa aggravata ai danni del Comune di Novoli: firmava il registro delle presenze e poi si allontanava e andava a lavorare presso il suo esercizio commerciale), ed esclusa l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera – concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti – lo condannò alla pena di mesi 6 di reclusione e Euro 200,00 di multa.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame, ma la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 02/04/2008, confermò la decisione di primo grado.

Ricorre per Cassazione l’imputato deducendo:

1) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione del T.U. Enti Locali, art. 109 (D.Lgs. n. 267 del 2001) in relazione agli artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999 (Contratto relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni – Autonomie Locali).

La difesa del ricorrente, con tale primo motivo, evidenzia che il S. non esercitava – parallelamente a quella di pubblico dipendente – un’autonoma attività commerciale, in quanto il “Mobilificio Sozzo” apparteneva alla figlia dell’imputato che lo gestiva direttamente avendo anche un idoneo titolo di studio (laurea in architettura). La difesa del ricorrente sostiene, poi, che il S. all’epoca dei fatti svolgeva a tutti gli effetti l’incarico di dirigente del Comune di Novoli e come tale non era vincolato all’orario (36 ore lavorative settimanali), ma ai risultati conseguiti. A riprova di ciò adduce: le dichiarazioni del Segretario generale e del Sindaco dello stesso Comune; il fatto che il S. avesse una retribuzione onnicomprensiva, con esclusione del riconoscimento del lavoro straordinario; che i risultati raggiunti dall’imputato erano soggetti ad una valutazione annuale e in caso di esito positivo di tale valutazione lo stesso aveva diritto ad una retribuzione di risultato (tra l’altro sempre percepita dal S.).

La difesa del ricorrente sottolinea che in ogni caso – prescindendo, quindi, dalle diverse e contrastanti interpretazioni sul ruolo svolto dal S., confermato nella settima qualifica funzionale (funzionario di categoria D) con profilo di Capo Settore AA. GG. – quanto sopra era quello che il S. riteneva essere corretto e ciò incide, con evidenza, sull’elemento psicologico del reato.

2) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p., comma 2, n. 1, in relazione all’art. 43 c.p. e art. 47 c.p., comma 3, o subordinatamente agli artt. 5 e 43 c.p. essendo stato ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato.

Con questo secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputato approfondisce quanto già sopra accennato. In buona sostanza il ricorrente sostiene che seppure non si dovesse condividere l’interpretazione della disciplina giuridica del ruolo svolto dal S., sarebbe evidente che questi versi in una tipica situazione di errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3.

Se poi si dovesse ritenere che le disposizioni legislative che disciplinano l’operato e i doveri dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio non hanno natura di norme extra penali, allora la situazione sopra esposta rientrerebbe in pieno in una delle ipotesi scriminanti individuate – in relazione all’art. 5 c.p. – nella Sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Infatti alla luce di quanto evidenziato nel primo motivo di ricorso (assenza di norme che contraddicano l’interpretazione data al combinato disposto del T.U. Enti Locali, D.Lgs. n. 267 del 2001, art. 109 e artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999; dichiarazioni Segretario Generale e Sindaco del Comune), sarebbe evidente che il S. abbia agito nella più assoluta buona fede e nella piena convinzione della liceità del suo comportamento. Verserebbe, quindi, in una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra.

3) art. 606 c.p.p., lettera B).

Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p. sotto altro profilo.

Secondo la difesa del ricorrente, in base alle prove raccolte, mancherebbero, nel caso di specie, gli artifizi e raggiri, essendo noto ai superiori del S. il suo comportamento ed essendo irrilevante la sua presenza fisica in ufficio, contando solo i risultati. In ogni caso qualora alla P.O. siano noti gli artifizi e raggiri non si può parlare di truffa (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

Mancherebbe, infine, anche il danno e l’ingiusto profitto. Infatti il danno che deve essere economico ed effettivo non si è verificato nel caso di specie (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

4) art. 606 c.p.p., lettera C). Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.) in quanto la decisione si fonda su prove acquisite in violazione del divieto discendente dal combinato disposto della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G. che hanno portato all’incriminazione del S., perchè posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento con o senza rinvio dell’impugnata sentenza.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4, sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5, sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2, sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perché le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il delitto di cui sopra.

Invero la Corte di appello, richiamando anche le motivazioni del Tribunale, ha correttamente rilevato – contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – che: 1) il mobilificio risulta nella titolarità di S.R., ma nell’effettiva gestione della figlia dell’imputato (pagina 4 impugnata sentenza). Sul punto si deve comunque sottolineare che la contestazione non ha per oggetto io svolgimento, da parte del S., di un’attività parallela a quella di pubblico dipendente, ma il fatto di far apparire di essere al lavoro (avendo firmato il registro delle presenze o timbrato il cartellino marcatempo) mentre in realtà si trovava altrove (nel caso di specie nel mobilificio gestito dalla figlia). Ed è proprio per questo fatto che è stato condannato; 2) che il S. era un funzionario (settima qualifica funzionale) e non un dirigente – come sostenuto dal ricorrente – tenuto al rispetto dell’orario di lavoro prestabilito. Il Giudice di merito ricava quanto sopra (pagine 5 e 6 dell’impugnata sentenza), non solo da un accurato esame del contratto e delle norme che lo regolano, ma anche da vari importanti e inequivoci fatti: chiarimento fornito dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni che ha specificato come il vigente contratto di lavoro dei dipendenti pubblici non attribuisca nè al datore di lavoro nè al dipendente il potere o il diritto all’autogestione dell’orario di lavoro settimanale (consentito al solo personale dirigenziale) e come al capo settore (qualifica rivestita dal S.) l’indennità integrativa speciale sostituisca l’eventuale lavoro straordinario svolto; comunicazione del Segretario Generale del Comune di Novoli al S., del numero di ore che lo stesso doveva recuperare a conferma dell’obbligo del rispetto dell’orario di lavoro; dichiarazione dello stesso Segretario Generale del Comune di Novoli che ha spiegato come ad un funzionario inquadrato nella settima qualifica funzionale (categoria D) possono essere attribuite alcune funzioni proprie dei dirigenti senza che ciò comporti la qualifica di dirigente (d’altronde questa considerazione del teste è supportata dal fatto che nel contratto che attribuisce al S. tali funzioni, si specifica che viene confermato l’inquadramento dell’imputato nella settima qualifica funzionale – categoria D – specificazione che logicamente esclude ogni dubbio sul fatto che il S. non fosse un dirigente); che il S., infatti, era tenuto alla firma del registro delle presenze o alla timbratura del cartellino marcatempo, operazione svolta dal ricorrente regolarmente e senza alcuna contestazione (contestazione che non vi è stata neppure per le richieste di recupero ore, a conferma della sua piena consapevolezza di tale obbligo) a riprova che lo stesso imputato era pienamente cosciente di essere un funzionario e non già un dirigente. Tali fatti confermano la piena sussistenza dell’elemento psicologico del reato – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale nelle pagine 7 e 8 – e che non può ravvisarsi alcun errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3, o una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Invero il ricorrente ha firmato il registro delle presenze (o ha timbrato il cartellino marcatempo) e si è poi assentato dal posto di lavoro più volte e per molte ore; se avesse ritenuto di non avere l’obbligo di rispettare l’orario di lavoro prestabilito avrebbe firmato il registro delle presenze solo alla fine dei suoi impegni personali e quando fosse stato di nuovo presente in ufficio. In effetti ha agito nel modo illecito di cui alla contestazione, avendo un evidente interesse economico a far risultare falsamente la sua presenza in ufficio, quando invece si trovava altrove per sbrigare suoi affari privati. Dalla ricostruzione di cui sopra emerge con chiarezza l’infondatezza delle altre censure della difesa del S. sulla mancanza degli artifizi e raggiri, del danno e dell’ingiusto profitto. Infatti tali censure – generiche e apodittiche – si fondano solo sulla diversa interpretazione data dall’imputato ai fatti di causa. Si deve osservare in proposito come sia indimostrata l’affermazione che la parte offesa fosse a conoscenza degli artifizi e raggiri. Invero il Sindaco del Comune ha solo riferito sulla disponibilità e sull’impegno del S. (si vedano pagine 11 e 12 del ricorso) e il Segretario Generale ha invece confermato la qualifica di funzionario del S. e in concreto ha chiesto il recupero delle ore non lavorate dal ricorrente delle quali aveva avuto conoscenza. Non si riesce quindi a capire da quali dichiarazioni o atti la difesa del ricorrente abbia tratto il convincimento che i rappresentanti del Comune fossero a conoscenza degli artifizi e raggiri commessi dall’imputato. Non è superfluo ricordare che la P.O. nel caso di specie è il Comune e che i rappresentanti di un Ente pubblico non potrebbero mai “autorizzare” o accettare passivamente un comportamento illecito del proprio dipendente. Quindi se avessero saputo della truffa commessa dal S. e non avessero agito avrebbero commesso a loro volta un reato. Per quanto riguarda il danno – sul quale il ricorrente si limita a generiche affermazione di principio sempre collegate alla sua particolare interpretazione dei fatti – si rileva che, peraltro, il palese ingiustificato protrarsi della assenza dal posto di lavoro dell’imputato (accertato dalla P.G. in tutti i quattro giorni oggetto “dell’osservazione”), ha realizzato una sospensione di fatto del rapporto di impiego che ha necessariamente prodotto un danno patrimoniale per l’Ente, chiamato a retribuire “frazioni” delle prestazioni giornaliere non effettuate, e con l’ulteriore danno (patrimoniale – anche in relazione alla retribuzione di risultato decisa ogni anno dall’apposito Nucleo di Valutazione e sempre corrisposta al S. – e di immagine) correlato alla mancata presenza del dipendente (tra l’altro Capo Settore AA.GG.) nel posto di lavoro, rimasto così sguarnito.

Circostanze tutte, quelle esposte, al cui risalto, agli effetti della configurazione del reato contestato, non può certo far velo l’eventuale difficoltà di quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilità in termini economici è da reputarsi sussistente al di la di ogni ragionevole dubbio.

Si deve, infine, ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata (Sez. 2, Sentenza n. 34210 del 06/10/2006 Ud. – dep. 12/10/2006 Rv. 235307).

Anche l’ultimo motivo di ricorso – inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G., che hanno portato all’incriminazione del S., perché posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost. – è manifestamente infondato. Infatti il ricorrente insiste nel confondere – nonostante la Corte di appello abbia già motivato esaustivamente e in modo logico e non contraddicono sull’infondatezza di tale eccezione; nonostante il risultato delle indagini di P.G. sia stato acquisito dal Giudice di merito su concorde richiesta delle parti e nonostante il principio di tassatività delle nullità e dell’inutilizzabilità – ciò che vale per i rapporti privatistici e ciò che vale in materia pubblicistica quale è quella penale. Invero le particolari limitazioni contenute negli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori riguardano solo il datore di lavoro (e non già il soggetto pubblico P.G.) e all’interno di quel particolare rapporto di natura privatistica, nel quale il legislatore – nel contemperare le esigenze del datore di lavoro di tutela del patrimonio aziendale e del dipendente di svolgere liberamente e dignitosamente il suo lavoro – ha cercato di tutelare quest’ultimo, ritenuto soggetto “debole”, da eventuali abusi. Si deve osservare che in ogni caso anche nell’ambito civilistico questa Suprema Corte ha stabilito il principio che “la prestazione d’opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell’obbligo di fedeltà che, se è irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori del normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell’orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell’azienda in realtà si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, nè sono ravvisagli profili di illiceità a norma della L. n. 300 del 1970, art. 2, comma 2, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell’attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo. (Nella specie un istituto di credito aveva sottoposto a verifica l’operato di un suo funzionario incaricato di attività promozionale esterna, a causa dei sospetti suscitati dagli scarsissimi risultati conseguiti e l’aveva poi licenziato, essendo emerso che non intratteneva affatto i contatti personali indicati nei rapportini di servizio, pur non compiendo neanche attività a favore di terzi; questa S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento. Sez. L, Sentenza n. 10313 del 17/10/1998 – Rv. 519819 -). Inoltre “le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non implicano l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ad esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata” (Sez. L, Sentenza n. 10761 del 03/11/1997 – Rv. 509428 -) Infine “lo statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970), e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza dell’impresa degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa” (Sez. L, Sentenza n. 9576 del 14/07/2001 – Rv. 548199 -).

E’ evidente che se addirittura il datore di lavoro, in presenza di fatti illeciti, può svolgere le attività di accertamento di cui sopra, nessuna limitazione può sussistere per la P.G. che in adempimento di un suo preciso dovere (art. 55 c.p.p.) imposto dalla necessità di tutelare la collettività dalla commissione degli illeciti più gravi previsti nel nostro ordinamento, quali, appunto, i reati, acquisisca e verifichi – come nel caso di specie – una “notitia criminis” con il compimento di atti che tra l’altro non hanno inciso minimamente sulla libertà personale del S. e addirittura al di fuori del posto di lavoro. D’altronde è lo stesso art. 13 Cost. – invocato dal ricorrente – a prevedere la possibilità di interventi della P.G. in campi e con provvedimenti ben più gravi (detenzione, ispezione e perquisizione) di un pedinamento e di un’osservazione. Sul punto questa Suprema Corte ha, tra l’altro, più volte affermato il principio condiviso dal Collegio, che le attività di osservazione, controllo e pedinamento svolte dalla polizia giudiziaria non sono intrusive della sfera privata, perché non limitano, diversamente dalle ispezioni, dalle perquisizioni e dai sequestri, la libertà morale del controllato. Tali attività vanno inquadrate nel novero dei mezzi destinati alla acquisizione di prove non disciplinate dalla legge, consentite dall’art. 189 c.p.p., senza necessità di decreto autorizzativo della autorità giudiziaria (Sez. 6, Sentenza n. 2072 del 03/06/1998 Cc. – dep. 07/07/1998 – Rv.

212220).

A fronte di quanto sopra evidenziato il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro Mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26975

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di Sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. e Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1688-2004 proposto da:

C.G., B.R., P.A.M., P. P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOVANNI GENTILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO, rappresentati e difesi dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

PIRELLI & C. REAL ESTATE PROPERTY MANAGEMENT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell’avvocato FERRETTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TROIANI VINCENZO, giusta delega a margine del controricorso;

EDS – ELECTRONIC DATA SYSTEM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato NINNI GUIDO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

NOVA DOMUS 90 S.R.L. a cui non risulta notificato il ricorso;

– intimata –

avverso la sentenza n. 688/2003 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/03/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/08 dal Pres. Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Marco FERRETTI, Guido NINNI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo del ricorso con assorbimento degli altri motivi.

Svolgimento del processo
Con provvedimento d’urgenza 18.12.1995 il Tribunale di Milano, accogliendo il ricorso proposto da C.G., B.R., P.A.M. e P.P., abitanti nello stabile sito in Via (OMISSIS), denominato villa (OMISSIS), che avevano lamentato immissioni rumorose provenienti dal confinante edificio, di proprietà della Nuova Domus 90 S.r.l., adibito ad uffici della Data Base Progetti S.p.a., all’esito di C.t.u. che aveva accertato l’eccedenza del limite di tollerabilità delle immissioni, ordinava l’esecuzione delle opere di insonorizzazione degli impianti di condizionamento e refrigerazione dell’aria ritenute dal consulente tecnico idonee a contenere le immissioni entro i limiti della tollerabilità nel periodo diurno, imponeva la sospensione del funzionamento degli impianti nel periodo notturno.

Con citazione 7.2.1996, i predetti instauravano il giudizio di merito convenendo davanti al tribunale la E.D.S. Electronic Data System Italia S.p.a. (già Data Base Progetti), e l’I.N.A. Assicurazioni S.p.a. (subentrata alla Nuova Domus 90 S.r.l.), nelle rispettive qualità di conduttrice e proprietaria dell’immobile dal quale provenivano le immissioni rumorose, per la conferma dei provvedimenti urgenti e la condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale alla persona.

L’I.N.A. resisteva e chiedeva di essere manlevata dalla E.D.S.. La E.D.S. resisteva a tutte le domande.

Il tribunale, con sentenza 26.10.1998, condannava in solido le convenute al pagamento a ciascuno degli attori della somma di L. 12.000.000 a titolo di risarcimento del danno biologico psichico temporaneo sofferto durante il periodo, da novembre 1994 a dicembre 1995, in cui le immissioni eccedenti la normale tollerabilità si erano verificate.

Proponeva appello la Unim S.p.a., subentrata all’I.N.A, censurando il riconoscimento del danno biologico, in difetto di prova della lesione alla integrità psicofisica, e lamentando il mancato accoglimento della domanda di manleva verso la E.D.S. Si costituiva la Pirelli & C. Real Estate Property Management S.p.a. nella quale era stata incorporata la Unim.

La E.D.S. chiedeva il rigetto dell’impugnazione e, in via di appello incidentale, il rigetto della domanda degli attori.

Gli originari attori resistevano e, con appello incidentale, chiedevano l’elevazione dell’importo del risarcimento.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 4.3.2003. accoglieva l’appello principale della Pirelli & C. e quello incidentale della E.D.S. e rigettava la domanda. Avverso la sentenza gli originari attori hanno proposto ricorso per cassazione, affidandone l’accoglimento a due motivi.

Hanno resistito, con controricorso, la E.D.S. e la Pirelli & C..

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al cd. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal cd. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c. ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del “danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”:

tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perchè non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il cd. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c. si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata:

Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2:

mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003;

n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c. nè l’art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza. n. 233/2003 della Corte costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il cd. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c. in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal cd. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c. e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del cd. “danno estetico” che del cd. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c. dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.).

Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad Euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c. che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c. in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2, (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il cd. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il cd. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 1688/04. 1. Con il primo motivo, denunciando, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, errata interpretazione ed applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e dell’art. 2 Cost., i ricorrenti svolgono due censure.

1.1. Censurano, in primo luogo la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, malgrado fosse stato accertato mediante C.T.U. che per circa un anno si erano verificate immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità soprattutto in ore notturne, addebitando agli attori di non aver fornito, con la produzione di certificati medici o richiedendo una consulenza tecnica medicolegale, la prova della lesione psicofisica determinata dall’inquinamento acustico.

Osservano che la corte è incorsa in palese contraddizione, non avendo considerato che prove testimoniali sulla durata e persistenza del rumore ed una consulenza medico-legale sul cambiamento intervenuto dal punto di vista della salute e della qualità della vita nelle loro persone erano state richieste dagli attori in primo grado, ma non erano state ammesse dal tribunale, per adesione alla tesi secondo cui nel caso di violazione del diritto alla salute il danno è in re ipsa. A siffatta carenza di attività istruttoria, non addebitabile agli attori, la corte avrebbe dovuto d’ufficio porre rimedio, e non rigettare la domanda.

1.2. Ulteriore censura è rivolta dai ricorrenti alla sentenza nella parte in cui ha affermato che la domanda non poteva essere accolta neppure considerandola rivolta ad ottenere il risarcimento del cd. danno esistenziale, poichè anche per tale categoria di danno è necessario il concreto accertamento della sua effettiva esistenza, mancato nel caso in esame.

Premettono i ricorrenti che il danno esistenziale, figura elaborata dalla dottrina per porre rimedio all’inadeguatezza della disciplina del danno non patrimoniale dettata dall’art. 2059 c.c. a fronte della violazione di diritti fondamentali della persona, e che è stata recepita dalla giurisprudenza, si connota per la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, differenziandosi dal danno biologico, per non essere determinata la perdita dalla lesione dell’integrità psicofisica, dal danno morale, perchè non consiste in una sofferenza (pati), ma nella rinuncia ad attività concrete (non tacere), e dal danno patrimoniale in quanto prescinde dalla riduzione della capacità reddituale.

Affermano che il fondamento della risarcibilità del danno esistenziale va individuato nell’art. 2 Cost., che tutela i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali vi è certamente il diritto alla qualità della vita.

Circa il suo contenuto, in particolare nel caso di immissioni rumorose, il pregiudizio si risolve in una alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività quotidiane e provocando uno stato di malessere psichico diffuso che, pur non sfociando in una vera e propria malattia, provoca ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazioni.

Soggiungono che si tratta di “danno evento”, da accertare mediante presunzioni, quando le conseguenze negative fatte valere rimangono per la loro tipicità entro i limiti dell’id quod plerumque accidit.

Non costituendo i riflessi negativi indotti dal torto una vera e propria malattia, non sono necessarie consulenze medico-legali, perchè si presume che il danno ci sia per il solo fatto che l’immissione abbia ecceduto la normale tollerabilità.

Rilevano infine che l’automatismo del danno viene accolto in giurisprudenza anche con riguardo al danno biologico, sul presupposto, a sostegno del quale si i invoca il fatto notorio fondato su conoscenze tecnico-scientifiche, che il rumore che eccede di tre decibel il rumore di fondo non può non produrre un pregiudizio alla salute.

2. Il motivo è solo in parte fondato.

2.1. Va disatteso, per le considerazioni svolte in sede di trattazione della questione di particolare importanza (da punto 3.3. a 3.13), il secondo profilo di censura concernente il rigetto della domanda per mancata dimostrazione del danno esistenziale.

2.2. Il primo profilo di censura è fondato e va accolto.

Il giudice di primo grado, essendo stato accertato, mediante C.T.U., che gli impianti di condizionamento, ininterrottamente funzionanti di giorno e di notte, avevano provocato nelle vicine abitazioni immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, e che tale situazione si era protratta per circa un anno, fino al momento in cui era intervenuto il divieto di funzionamento nelle ore notturne, aveva ritenuto che un inquinamento acustico nocivo siffatto dovesse necessariamente produrre, nella persona di ciascun attore, un danno biologico temporaneo risarcibile. Ha quindi disatteso la richiesta di consulenza medicolegale e di prove testimoniali, e, dichiarando di avvalersi della regola di comune esperienza secondo cui le immissioni rumorose anche notturne, impedendo il riposo ristoratore, sono di per sè idonee a provocare la lesione del sistema nervoso, e quindi un danno biologico temporaneo di tipo psichico, ha accolto la domanda.

La corte d’appello ha ritenuto scorretto ricollegare in via presuntiva il danno biologico ad ogni forma di inquinamento acustico eccedente la normale tollerabilità, senza procedere al concreto accertamento di una effettiva lesione dell’integrità psicofisica delle persone conseguente alla sofferenza provocata dallo stress da rumore, ed ha rigettato la domanda per carenza di prova.

In tal modo la corte ha posto a carico degli attori una carenza istruttoria dovuta ad una scelta del giudice circa l’individuazione dei mezzi di prova di cui avvalersi. Non ha infatti considerato che la mancata acquisizione di prove era stata determinata dall’impostazione data all’istruttoria dal primo giudice, che aveva ritenuto superfluo il ricorso alla consulenza medico-legale ed alle prove testimoniali e si era affidato a regole di comune esperienza, e non i dovuta al difetto di iniziativa degli attori. La domanda non poteva quindi essere rigettata per difetto di prova, ma alla mancata istruttoria doveva porsi rimedio in appello ammettendo la consulenza tecnica e le prove richieste in primo grado.

3. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo, concernente la compensazione delle spese.

4. La sentenza va quindi cassata. Il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’appello di Milano in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26972

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 734/2006 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato GELERA Giorgio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAL LAGO UGO, giusta a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA Giorgio, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

ULSS/(OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1933/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/2008 dal Presidente Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Ugo DAL LAGO, Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A.L., sottoposto nel (OMISSIS) ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel (OMISSIS) in seguito ad inutili terapie antalgiche.

Nel (OMISSIS) convenne in giudizio il Dott. S.F. e la U.L.S.S. n. (OMISSIS) (in seguito n. (OMISSIS)) di (OMISSIS), assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all’attore la somma ulteriore di L. 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di L. 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall’assicuratore dei convenuti.

Con sentenza n. 1933/04 la corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame dell’ A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all’integrità fisica dell’ A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c., nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l’ A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso S.F..

L’intimata U.L.S.S. n. (OMISSIS) non ha svolto attività difensiva.

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al c.d. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal c.d. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”: tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 cod. pen. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c., ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c., e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c., nè l’art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c., in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c., in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c., nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c., e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. “danno estetico” che del c.d. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c., nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.U. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c., in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c., si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte Cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.U. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2 (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 734/06. 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d’appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado.

Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all’epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell’atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.

Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.

La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di “vergogna” provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.

Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l’art. 345 c.p.c., comma 2, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d’ostacolo all’ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perchè vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.

2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.

Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell’aspetto concernente i rapporti sessuali, allorchè dipenda da una lesione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell’integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno “esistenziale” (punto 4.9).

Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato”.

Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13).

Nella specie, in primo grado, l’attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell’attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l’appello, l’attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.

La decisione non è corretta.

La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell’attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del “danno esistenziale” subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l’attuale ricorrente s’era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all’epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.

La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall’appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell’ambito del danno biologico.

3. All’accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d’appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.

4. La sentenza va dunque cassata.

5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all’ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero – anche in base a semplice inferenza presuntiva – che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all’eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d’ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).

6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.

7. Ricorrono i presupposti di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2, in materia di protezione dei dati personali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Venezia in diversa composizione;

dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Cass. civ. Sez. V, (ud. 09-10-2008) 05-11-2008, n. 26542

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.V.V., elettivamente domiciliato in Roma, Via A. Granisci 14, presso l’avv. GIGLIO Antonella, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Maurizio Leone, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, ed Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 263/01/04 del 2/7/04;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 9/10/08 dal Relatore Cons. Dott. Paolo D’Alessandro;

Udito l’avv. Maurizio Leone;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.V.V. propone ricorso per Cassazione, illustrato da successiva memoria, in base a due motivi, contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che ha rigettato l’appello da lui proposto contro la pronuncia di primo grado che aveva a sua volta respinto i ricorsi proposti dal contribuente contro due cartelle di pagamento, impugnate sul presupposto del vizio di notifica dei rispettivi atti di accertamento.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 2003, nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica.

Il ricorrente in sostanza lamenta l’erroneità della sentenza per avere ritenuto valide le notifiche degli atti di accertamento effettuate, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nei Comuni di Rapallo e di S. Giorgio a Cremano, in epoche in cui egli risultava, dai certificati anagrafici, residente a (OMISSIS).

1.1.- Il mezzo è fondato.

1.2.- Va premesso che, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, è stato espunto dall’ordinamento, con conseguente espansione della regola generale, secondo la quale l’effetto delle variazioni anagrafiche, ai fini delle notifiche, è immediato.

Invero, seppure, nella motivazione della sentenza, si afferma che il legislatore ben può prevedere che l’effetto della variazione, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, non sia immediato, purché l’eventuale dilazione sia contenuta in termini ragionevoli, tale indicazione è appunto rivolta al solo legislatore, rimanendo escluso che l’interprete possa, per proprio conto, individuare un termine di dilazione degli effetti della variazione, non previsto dalla legge.

Il nuovo termine dilatorio di trenta giorni, introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 27, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto 2006, n. 248, non può d’altro canto certamente applicarsi riguardo a notificazioni eseguite prima della entrata in vigore del D.L..

1.3.- Ciò, posto, deve osservarsi, nel merito, che, quanto alla cartella n. (OMISSIS), il giudice tributario precisa che i relativi atti di accertamento risultano notificati, ex art. 140 c.p.c., presso la casa comunale di (OMISSIS), in data 21/12/01, pur avendo il contribuente trasferito la propria residenza in (OMISSIS) il 10/12/01. Lo stesso giudice ritiene tuttavia valida la notificazione, pur tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, sul rilievo che il contribuente, nella successiva dichiarazione per l’anno 2001, presentata il 26/7/02, aveva indicato quello di Rapallo come domicilio fiscale al 31/12/01.

La decisione è evidentemente erronea.

Come già ricordato, per effetto della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, ai fini delle notificazioni, le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente hanno effetto dal momento stesso della avvenuta variazione anagrafica e non, come previsto dall’originario testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dal sessantesimo giorno successivo.

Ne consegue pertanto che la notificazione ex art. 140 c.p.c., effettuata, undici giorni dopo la variazione anagrafica, nel comune di precedente residenza ((OMISSIS)) deve ritenersi radicalmente nulla, non rilevando che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 2001, presentato nel luglio del 2002, abbia indicato, come residenza fiscale al (OMISSIS), il Comune di (OMISSIS), non potendo tale, in ipotesi non veritiera, dichiarazione spiegare alcun effetto rispetto ad una notificazione precedentemente effettuata.

Nemmeno, d’altro canto, assume alcun rilievo la circostanza che il D.V., nella diversa veste di rappresentante legale della A.P.M. s.a.s., di cui era socio al 55%, avesse impugnato i medesimi accertamenti, ritualmente notificati alla società ma non a lui come socio.

1.4.- Parimenti, quanto alla cartella n. (OMISSIS), gli atti di accertamento presupposti risultano notificati, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., in S. Giorgio a Cremano il 29/12/99 e il 10/11/98, laddove deve aversi per pacifico – essendo espressamente ammesso dai controricorrenti (a pag. 5 del controricorso) – che il D.V., in base al certificato anagrafico, è stato residente a (OMISSIS) dal (OMISSIS) al (OMISSIS).

Anche in tal caso, dunque, le notifiche risultano nulle, essendo privo di rilievo il fatto che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 1999, presentato nel luglio 2000, abbia indicato il comune di S. Giorgio a Cremano come domicilio fiscale per l’anno 1999. 2.- Resta assorbito il secondo motivo, relativo a difetto di motivazione.

3.- La sentenza impugnata va pertanto cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dei ricorsi introduttivi del contribuente.

La sopravvenienza, dopo il giudizio di primo grado, della sentenza di illegittimità costituzionale giustifica l’integrale compensazione delle spese.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie i ricorsi introduttivi del contribuente; compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 9 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2008


Cass. civ. Sez. I, (ud. 19-09-2008) 30-10-2008, n. 26118

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI PORTO MANTOVANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso l’avvocato ROMANELLI GUSTAVO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARRI A. CLAUDIO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 662/2003 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 22/08/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2008 dal Consigliere Dott. GIANCOLA MARIA CRISTINA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ROMANELLI GUIDO FRANCESCO, per delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Patrone Ignazio, per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 12 – 20.04.2000, il Tribunale di Brescia respingeva le domande proposte nel 1994, dal Ministero delle Finanze nei confronti del Comune di Porto Mantovano, volte al risarcimento dei danni derivati dalla erronea e tardiva notificazione di un avviso di rettifica per IVA in danno di un contribuente, dall’amministrazione statale demandata ai messi comunali, in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Il Tribunale riteneva che con riferimento alle notificazioni di atti nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria, il Comune non fosse tenuto a rispondere dei danni arrecati dal messo comunale, ancorchè dipendente dell’ente locale.

Con sentenza del 2.04 – 22.08.2003, la Corte di appello di Brescia accoglieva l’impugnazione proposta dal Ministero delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate e conclusivamente condannava l’ente locale al risarcimento dei danni in favore dell’Agenzia delle Entrate, subentrata nel rapporto controverso, liquidandoli all’attualità in complessivi Euro 56.612,54, oltre agli interessi legali ex art. 1282 c.c.. La Corte distrettuale riteneva in sintesi:

che non potesse essere condiviso il presupposto della decisione impugnata, aderente ad un risalente arresto giurisprudenziale della Corte dei Conti, secondo cui la richiesta dell’amministrazione finanziaria di notifica di un atto d’imposizione fiscale determinasse l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione della stessa richiedente che, invece, in aderenza al principio affermato da questa Suprema Corte e pregevolmente argomentato, il Comune avrebbe dovuto rispondere del danno, in ragione della violazione del rapporto di preposizione gestoria intercorrente con l’Amministrazione finanziaria e qualificabile in termini di mandato ex lege, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra la medesima Amministrazione finanziaria ed i messi comunali, operanti alle esclusive dipendenze dell’ente locale che la richiesta dell’Amministrazione finanziaria di notificazione di un avviso di rettifica tributaria al contribuente, pervenuta al Comune di Porto Mantovano, il 22 dicembre 1989, avrebbe dovuto essere attuata secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che, invece, non solo erano rimaste inosservate ma, inoltre, si erano concluse con l’inoltro di una lettera raccomandata, il 12 gennaio 1990, dopo la scadenza del termine decadenziale del 30.12.1989, che in particolare la procedura concretamente seguita dal messo incaricato della notificazione, concretatasi tra l’altro nella affissione all’Albo pretorio, “preceduta” dalla reiterata apposizione di avvisi alla porta dell’abitazione del destinatario, dell’intero atto da notificare in luogo del prescritto avviso dell’avvenuto deposito di esso nella casa comunale, fosse o meno riconducibile all’art. 140 c.p.c., in ogni caso non era stata compiuta nel rispetto delle previste formalità nè esaurita in un solo giorno, come sarebbe stato possibile che con decisione del 1990, confermata dalla Commissione di secondo grado, il giudice tributario aveva accolto il ricorso del contribuente, riconoscendo fondata l’eccezione dallo stesso proposta di tardività della notificazione e di conseguente decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla pretesa fiscale che quanto alla determinazione del risarcimento, l’Amministrazione finanziaria poteva giovarsi della presunzione di corrispondenza del danno all’ammontare delle imposte e degli accessori al cui recupero l’avviso di rettifica era volto, a ciò aggiungendosi che nel ricorso proposto dinanzi alla Commissione tributaria il contribuente si era limitato ad eccepire la tardità della notificazione dell’avviso, senza sollevare alcuna eccezione di merito avverso la pretesa impositiva che sul punto il Comune aveva opposto una generica contestazione, omettendo di dedurre e provare l’insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’obbligazione tributaria, ed anzi addossando alla controparte l’onere di provare la fondatezza della pretesa fiscale che il fallimento del contribuente era sopravvenuto dopo quattro anni dai fatti controversi, ragione per cui non poteva nemmeno ritenersi che il recupero del credito tributario non avrebbe potuto essere attuato prima dell’apertura della procedura concorsuale, nell’ambito della quale, del resto, il credito in questione avrebbe assunto collocazione privilegiata che sino alla data della pronuncia giudiziale, all’amministrazione statale competeva anche la rivalutazione del credito e, con decorrenza dal 31.12.1989, il ristoro del danno da lucro cessante per il ritardo nel pagamento, oltre agli interessi legali sulla somma finale, ai sensi dell’art. 1282 c.c., e con decorrenza dalla data dell’attuata liquidazione.

Avverso questa sentenza il Comune di Porto Mantovano ha proposto ricorso per Cassazione notificato il 16.04.2004, fondato su due motivi ed illustrato da memoria. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso notificato il 26.05.2004.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il Comune di Porto Mantovano denunzia:

“Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”.

Contesta conclusivamente l’applicabilità del principio secondo cui il Comune deve rispondere dell’operato del messo comunale anche quando la notificazione sia avvenuta ad istanza di diverso ente pubblico e segnatamente dell’Amministrazione finanziaria. Sostiene, inoltre, che la notificazione doveva aversi per rituale, essendo avvenuta in ossequio alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e che comunque è mancata la precisazione delle modalità in concreto seguite dal messo municipale, cui ancorare la valutazione d’inosservanza delle prescrizioni legali.

Il motivo in tutti i suoi profili non ha pregio, sostanziandosi essenzialmente in critiche o generiche ed apodittiche o contrarie in linea meramente enunciativa, avulsa da concreti riferimenti a decisive risultanze istruttorie inficianti gli accertamenti in fatto compiuti dai Giudici di merito. In primo luogo, anche attenendosi all’orientamento ormai costante di questa Corte di legittimità – non smentito dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale relativa al diverso tema del riparto di giurisdizione tra AGO e Giudice contabile relativamente ai giudizi di responsabilità amministrativa nei confronti dei messi notificatori dei Comuni (in tema, tra le altre, Cass. S.U. 200319662) – i Giudici di merito hanno ineccepibilmente qualificato come mandato ex lege il conferimento – attuato ratione temporis in base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. a), (preceduto dal D.P.R. n. 645 del 1958, art. 38) – da parte dell’Amministrazione finanziaria al Comune di Porto Mantovano (R.D. n. 383 del 1934, art. 273, comma 4), del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione dell’avviso tributario di rettifica nonchè escluso che tale iniziativa potesse sostanziarsi in un rapporto diretto tra l’amministrazione pubblica e i messi comunali, per essere questi dipendenti dell’ente locale e, quindi, per avere agito, anche nell’esecuzione del compito in questione, in adempimento degli obblighi derivanti dal loro rapporto di impiego con il Comune (Cass. SU 199002083; 199710929; 199805987; 199900360, 20020711, in tema cfr anche Cass. SU 200506409).

Ampio e logico conto, dunque, è stato dato delle ragioni sottese alla decisione (e così pure chiarito il discostamento da quelle di cui al richiamato, diverso e peraltro risalente arresto della Corte dei Conti), espressamente ricondotte, in aderenza al dettato normativo, al rapporto di dipendenza che astringe i messi municipali al Comune, nell’ambito della cui struttura organizzativa sono stabilmente e gerarchicamente inseriti, con conseguente sia assoggettamento al potere dell’ente di controllo e verifica dell’esatto adempimento degli obblighi inerenti al loro servizio e sia configurabilità delle connesse responsabilità.

In secondo luogo la Corte distrettuale, verificata anche la tempestività della richiesta della P.A. di notificazione dell’avviso rispetto al tempo occorrente per il relativo adempimento, ha del pari irreprensibilmente escluso che le modalità che in concreto il messo comunale aveva seguito fossero aderenti alle formalità imposte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 comma 1, per la notificazione degli atti al contribuenti; ciò sia in rapporto a quanto prescritto dall’ivi richiamato art. 140 c.p.c., che in rapporto a quanto invece previsto in via residuale dalla lett. e) del cit. comma (in tema, cfr. tra le altre Cass. 199704587), rilevando in sintesi che in ogni caso era anche mancato il deposito dell’atto presso la casa comunale, l’avviso al contribuente di tale deposito, secondo le diverse forme imposte dai due tipi alternativi di notifica, e, quanto alla prima anche l’invio (e non la ricezione) della prescritta raccomandata con avviso di ricevimento in data anteriore alla scadenza del termine imposto a pena di decadenza per l’esperibilità della pretesa fiscale.

D’altra parte inammissibili perchè nuovi e comunque inconferenti si palesano i rilievi del Comune inerenti alla conoscenza che il contribuente aveva di fatto potuto avere dell’avviso fiscale o all’errore scusabile in cui era incorso il messo comunale, inidonei per un verso ad elidere il danno subito dalla Amministrazione per effetto della mancata tempestiva conoscenza legale dell’atto da parte del contribuente, acclarata dal Giudice tributario, e per altro verso la responsabilità contrattuale del Comune verso l’amministrazione statale, connessa al negligente svolgimento del demandatogli mandato ex lege.

Con il secondo motivo di ricorso il Comune deduce “Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: errata valutazione del danno sotto il profilo della motivazione e dell’onere probatorio e in relazione agli artt. 1277 e 1244 c.c., in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”, essenzialmente riferendosi alla prova del pregiudizio ed ai criteri applicati per la relativa liquidazione.

Anche tale motivo in tutte le sue articolazioni non è fondato.

Premesso che si verte in tema di responsabilità contrattuale (in tema cfr, Cass. SU 200200711; Cass. 200303397; 200411469), irreprensibilmente la Corte territoriale appare avere ritenuto non solo il Comune inadempiente all’incarico ricevuto e, quindi, tenuto a risarcire il danno subito dall’Amministrazione finanziaria, ma anche che quest’ultima tramite presunzioni aveva fornito, come era suo onere, la prova dell’esistenza e dell’entità del pregiudizio sofferto.

Come noto, infatti, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta, pertanto, al Giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità.

Nella specie, il ragionamento decisorio seguito dalla Corte distrettuale non appare affetto da alcuna illogicità o contraddittorietà laddove, anche in linea con i principi già ripetutamente affermati in questa sede (Cass. Su 198400878; Cass. 19960327, 199805263; 199805987; 200309370; 200411469), ha ritenuto dall’amministrazione finanziaria provati in via presuntiva l’esistenza e l’ammontare del danno in questione, correlandosi sia all’entità della pretesa fiscale dalla quale l’amministrazione era stata dichiarata decaduta dal giudice tributario e sia al tenore dell’impugnativa svolta dal contribuente in sede tributaria, muta in ordine a profili di merito della pretesa azionata in sede tributaria.

D’altra parte i Giudici di merito nell’esaminare le tesi difensive avverse, hanno rilevato l’assenza in punto di esistenza del danno di qualsiasi deduzione o prova contraria da parte del Comune, rilievo che rende meramente accademica e, quindi, inammissibile per difetto di interesse, la censura del medesimo ente locale inerente alla eccessiva gravosità dell’onere probatorio a suo carico teoricamente configurato dalla medesima Corte.

Quanto alla liquidazione del risarcimento, in primo luogo la Corte distrettuale appare avere adeguatamente e logicamente argomentato la svalutazione della tesi sostenuta dal Comune della compromissione totale o parziale delle possibilità della amministrazione finanziaria di recupero del credito in ragione del sopravvenuto fallimento del contribuente, riferendosi alla pluriennale distanza di tempo intercorsa tra la vicenda controversa e la successiva apertura della procedura concorsuale, in cui, comunque al credito fiscale sarebbe spettata collocazione privilegiata. In secondo luogo ineccepibile risulta pure la qualificazione del risarcimento dovuto dall’ente locale come debito non di valuta ma di valore (tra le numerose altre, Cass. 200209517), soggetto, dunque, anche al cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, trattandosi di debito d’indole risarcitoria da inadempimento di un’obbligazione non pecuniaria (ma ex mandato) e non per legge direttamente rapportato all’entità della pretesa fiscale pregiudicata, ma a questa solo commisurato per equivalente pecuniario.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del Comune soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore delle parti intimate e controricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune di Porto Mantovano a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed all’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000,00, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2008


Cass. civ. Sez. II, (ud. 29-09-2008) 27-10-2008, n. 25860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COLARUSSO Vincenzo – Presidente

Dott. ODDO Massimo – rel. Consigliere

Dott. SCHERILLO Giovanna – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L. – rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a mancata integrazione margine del ricorso dagli avv.ti Ruotolo Domenico e Daniela del foro di Verona ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via A. Bertoloni, n. 26, presso l’avv. Rulli M. Grazia;

– ricorrente –

contro

D.M. – rappresentato e difeso in virtù di procura speciale in calce al controricorso dall’avv. Mignone Roberto, presso il quale è elettivamente domiciliato in Salerno, alla via SS. Martiri Salernitani, n. 66;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno n. 2 del 12 gennaio 2004 – notificata il 10 febbraio 2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2008 dal Consigliere Dott. Oddo Massimo;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lo Voi Francesco, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto notificato il 7 aprile 1993, B.L. convenne D.M. davanti al Tribunale di Salerno e, esponendo di essere figlia ed unica erede del padre B.G., deceduto il (OMISSIS), e che il convenuto, profittando della degenerazione delle facoltà cognitive e critiche del defunto, aveva da questo acquistato il 22 maggio 1989 al prezzo di L. 270 milioni, un locale commerciale in Salerno, il cui valore all’epoca del trasferimento era di L. 600 milioni, domandò la declaratoria della nullità o l’annullamento della compravendita stipulata dal suo dante causa perché compiuto in pregiudizio di un soggetto in stato d’incapacità naturale.

Si costituì il D. e, contestandone la fondatezza, chiese il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, il risarcimento del danno per avergli la trascrizione della domanda dell’attrice impedito l’accensione di un mutuo.

Integrato il contraddittorio nei confronti di B.W., poi estromessa dal giudizio, nonché di L.G., B. A. e V., S. e G.M., rimasti contumaci, il Tribunale con sentenza del 31 agosto 2001 rigettò sia la domanda dell’attrice che quella riconvenzionale del convenuto.

La B. propose gravame avverso la decisione e la Corte di appello di Salerno il 12 gennaio 2004 dichiarò inammissibile l’impugnazione perchè, “anche al di là della notifica alle altre parti oltre il termine, perentorio, assegnato dal Giudice”, l’atto di integrazione del contraddittorio, disposto nella prima udienza dal consigliere istruttore, non era “stato affatto notificato ai signori G.A. S. e G., risultati trasferiti”.

La B. è ricorsa con due motivi per la cassazione della sentenza, l’intimato D. ha resistito con controricorso notificato il 14 maggio 2004 ed entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sull’omessa notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio, avendo il Giudice dichiarato l’inammissibilità dello appello senza verificare se l’omissione fosse dipesa da fatto imputabile unicamente alla negligenza dell’ufficiale giudiziario, pur non avendo egli certificato l’attività svolta per verificare l’avvenuto trasferimento dei destinatati della notifica appreso da “alcuni vicini” e l’appellante avesse fatto istanza di offrire una prova orale e documentale della correttezza dell’indirizzo indicato nell’atto. Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., e falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., giacché, costituendo l’eventuale trasferimento dei destinatali della notifica una causa di omessa notificazione non addebitabile alla parte onerata, il Giudice doveva escludere la decadenza dell’appellante dal termine per integrare il contraddittorio e, secondo una interpretazione estensiva dell’art. 184 bis c.p.c., conforme al principio costituzionale dell’effettività del contraddittorio, doveva fissare un nuovo termine per l’integrazione.

Il primo motivo è inammissibile.

Nel caso in cui l’ufficiale giudiziario attesti il mancato rinvenimento del destinatario della notifica di un atto nel luogo (di residenza, dimora o domicilio) indicato dal richiedente e la notizia appresa dai vicini del suo trasferimento altrove, la prima attestazione ed il contenuto estrinseco della seconda sono assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale, mentre la notizia appresa dai terzi è assistita da una presunzione di veridicità iuris tantum (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 11 aprile, 2000, n. 4590), che non consente al Giudice di disconoscere, in assenza di prova contraria risultante dagli atti del procedimento o fornita dalle parti, la regolarità dell’attività svolta dall’ufficiale giudiziario e gli effetti che ad essa ricollega l’ordinamento nel caso in cui si risolva nell’omessa notifica di un atto nel termine perentorio fissato dalla legge o stabilito dal Giudice.

La parte che in sede di legittimità si dolga dell’attendibilità attribuita dal Giudice all’attestazione dell’ufficiale giudiziario dell’impossibilità di effettuare la notificazione di un atto per non avere egli rinvenuto il suo destinatario nell’indirizzo indicato ed avere appreso dai vicini il suo trasferimento altrove è quindi onerata dal principio di autosufficienza del ricorso alla specificazione degli atti non esaminati od inadeguatamente valutati dal Giudice dai quali emerge il fondamento della sua doglianza e/o i mezzi richiesti nel giudizio a riprova di essa, elencandoli ed indicandone esattamente il tenore onde consentire una verifica della loro ammissibilità e decisività. A tanto non ha soddisfatto la ricorrente, atteso che la sua sola affermazione della legittimità della propria istanza di offrire valida prova orale e documentale”(nei termini che solo il prosieguo del gravame avrebbe potuto consentire)” dell’effettiva abitazione dei notificandi nell’indirizzo da lei indicato negli atti di integrazione del contraddittorio non consente di apprezzare la correttezza del contrario assunto della sentenza che l’appellante aveva omesso di dedurre e provare di non avere potuto provvedere alla notifica per fatti ad essa non imputabili.

Il secondo motivo è infondato.

In seguito alle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2000, nn. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005, nel caso, in cui il Giudice dell’impugnazione abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio, è sufficiente e necessario al fine del rispetto del termine assegnato per la notifica dell’atto alle parti pretermesse che entro detto termine l’atto sia consegnato all’ufficiale giudiziario e, conseguentemente, la parte notificante non incorre nella decadenza correlata alla sua inosservanza ove, in caso di iniziale esito negativo della notifica per causa alla stessa non imputabile, provveda senza ingiustificata soluzione di continuità allo svolgimento di tutte le ulteriori attività occorrenti al perfezionamento del procedimento notificatorio di cui è onerata, anche se questo avvenga oltre la data stabilita dal Giudice (cfr.: Cass. civ., sez. 5^, sent. 12 marzo 2008, n. 6547; Cass. civ., sez. 2^, sent. 19 marzo 2007, n. 6360).

Nel caso di esito negativo della notifica per causa alla stessa imputabile o di ingiustificata soluzione di continuità delle ulteriori attività occorrenti alla notifica, la parte onerata non si sottrae, quindi, alla decadenza dal termine assegnatole ed all’inammissibilità dell’impugnazione che ne deriva a norma dell’art. 331 c.p.c., giacchè la fissazione di un nuovo termine per l’integrazione del contraddittorio equivarrebbe alla concessione di una proroga di un termine perentorio, espressamente vietata espressamente dall’art. 153 c.p.c.. E’ vero che a tale divieto è stato ritenuto possibile derogare, peraltro non in ragione dell’applicabilità anche alla fase di proposizione delle impugnazioni dell’istituto della rimessione in termini, che l’art. 184 bis c.p.c., limita alla fase istruttoria, bensì della rilevanza da riconoscere, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 331 c.p.c., ad una situazione di forza maggiore certa ed obiettiva, che abbia impedito alla parte l’osservanza del termine stesso, dovendo escludersi che la sanzione di inammissibilità dell’impugnazione prevista per la sua inosservanza, in quanto rivolta a colpire l’incuria e la negligenza della parte, possa tradursi in danno il soggetto che provi di non essere stata in grado di rispettare il termine fissato dal Giudice per fatti ad essa non imputabili.

A tale fine, tuttavia, deve tenersi conto che il termine per l’integrazione del contraddittorio viene concesso non soltanto per il conferimento dell’incarico all’ufficiale giudiziario, ma anche per lo svolgimento di tutte le attività ad esso prodromiche, quali le indagini di stato civile ed anagrafiche eventualmente necessarie per individuare i soggetti destinatari della notifica ed il luogo ove questa deve essere eseguita, ed è normalmente stabilito dal Giudice in misura di tale ampiezza da permettere alla parte anche di rimediare eventuali errori nei quali sia incorsa nella notificazione dell’atto (Cass. civ., sez. 1^, sent. 14 ottobre 2005, n. 20000).

Di tal che, se la notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio sia mancata per avere la parte onerata richiesto la notifica all’ufficiale giudiziario, come in specie, due giorni prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento senza alcun preventivo accertamento della residenza, del domicilio o della dimora dei notificandi, facendo affidamento sull’avvenuta notifica di altro atto del procedimento in epoca remota, e la parte si sia successivamente astenuta da qualsiasi altra attività diretta al perfezionamento di essa senza prospettare nessun ostacolo al loro compimento, non è ravvisabile alcuna situazione di forza maggiore che abbia impedito alla parte l’osservanza dell’onere del quale era gravata.

Al contrario nel suo comportamento è ravvisabile una colpevole negligenza sia perché si è posta in condizione di verificare l’esito della notifica soltanto all’atto o dopo la scadenza del termine stabilito dal Giudice, nonostante l’incognita di una variazione nel lungo periodo dell’abitazione dei destinatari e l’agevole possibile riscontro dell’attuale loro residenza anagrafica e sia perché si è disinteressata della negatività di tale esito facendo ingiustificatamente incorrere il processo in una stasi che proprio la fissazione del termine perentorio per l’integrazione era diretta ad evitare.

All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 2.800,00, di cui Euro 100,00, per spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2008