Cass. civ. Sez. II, (ud. 23-02-2007) 31-05-2007, n. 12834

Contravvenzioni, circolazione stradale, avviso bonario, fonti, oblazione comunale

… con delibera 28/04, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di euro 6 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sé sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; …

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere

Dott. ATRIPALDI Umberto – rel. Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA NIZZA N. 45, presso lo studio dell’avvocato BORROMEO CARLO, rappresentata e difesa dall’avvocato GRILLO FRANCESCO, (Avviso postale VIA ROMA N. 11 –

70051 BARLETTA -), giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BARLETTA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’Avvocato PANARITI BENITO, che lo rappresenta e difende giusta mandato in calce al ricorso notificato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 524/05 del Giudice di pace di BARLETTA del 2/11/05, depositata il 12/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 23/02/07 dal Consigliere Dott. Umberto ATRIPALDI;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. CARLO DESTRO che ha concluso per il rinvio della trattazione del ricorso alla pubblica udienza.

Svolgimento del processo
D.M. ha impugnato, nei confronti del Comune di Barletta, con ricorso notificato il 17.1.06, la sentenza del Giudice di Pace, depositata il 12.11.05, che le aveva rigettato l’opposizione al verbale di contestazione della violazione dell’art. 157 C.d.S., comma 6 – 8 per “sosta del veicolo in zona di pagamento senza l’esposizione della ricevuta”.

Lamenta: 1) l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa “l’avvenuta conoscenza della contestazione da parte del proprietario dell’infrazione”, dato che, con Delib. n. 28 del 2004, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di Euro 6,00 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sè sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; 2) la violazione della Delib. comunale n. 28 del 2004, che prescrive “opportune modalità che permettano all’utente di sanare la propria situazione”, dato che l’apposizione di un avviso sul parabrezza non poteva considerarsi equipollente di una notificazione; nonchè la violazione dell’art. 3 Cost., attesa l’evidente discriminazione fra cittadino fortunato, cui viene fatta la contestazione immediata e sfortunato, non presente sul posto.

Il Comune non resiste.

Attivata la procedura ex art. 375 c.p.c., il P.G. ha chiesto la trattazione del ricorso in P.U..

Motivi della decisione
Il ricorso è manifestamente infondato per l’assorbente ragione che il potere sanzionatorio delle violazioni al C.d.S. e la sua regolazione anche nel momento applicativo, è disciplinato direttamente dalle norme del D.Lgs. n. 285 del 1992, aventi forza di legge;

e che, quindi, secondo il principio gerarchico delle fondi, non possono certo essere derogate da delibere comunali che, come nella verificatasi ipotesi”, stabiliscano una sorta di “oblazione”, in alcun modo prevista o autorizzata dal legislatore; esulando del tutto dalla previsione dell’art. 7 C.d.S., richiamato nella menzionata delibera, il profilo sanzionatorio delle violazioni; e dovendosi perciò escludere che sussista in forza dello stesso qualsiasi delega o autorizzazione in tal senso a favore dei Comuni.

Il ricorso va pertanto rigettato.

L’omessa costituzione dell’intimato, esonera dalla liquidazione delle spese.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2007


Cass. civ. Sez. I, (ud. 15-02-2007) 25-05-2007, n. 12311

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario – Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A.O., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Cavour n. 17, presso lo studio dell’Avv. TERRA Massimo, che lo rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Fulvio Castrusini, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CARROZZERIA ZANON ANTONIMO, in persona del legale rappresentante, domiciliata in Roma, Lungotevere Arnaldo da Brescia n. 9, presso lo studio dell’Avv. LEONE Arturo, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Gabriella Terziari, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Tribunale di Bassano del Grappa depositata il 19 giugno 2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 15 febbraio 2007 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

udito per il ricorrente l’Avv. Massimo Terra, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avv. Andrea G. Ligi, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 15 maggio 2000, il Giudice di Pace di Bassano del Grappa respingeva l’opposizione proposta da G.A. O., ai sensi dell’art. 650 cod. proc. civ., avverso il Decreto Ingiuntivo emesso nei suoi confronti su istanza della Carrozzeria Zanon. Il G. impugnava tale sentenza deducendo in primo luogo l’erroneità della decisione con cui il Giudice di Pace aveva ritenuto regolare la notifica del ricorso per decreto ingiuntivo e del pedissequo decreto, e con-seguentemente la tardività dell’opposizione. Sosteneva, infatti l’opponente, che non sussistevano i presupposti per procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, occorrendo invece applicare la procedura ex art. 140 c.p.c.. L’opponente contestava anche l’an e il quantum della pretesa creditizia azionata in via monitoria.

Il Tribunale di Bassano del Grappa rigettava l’appello.

Quanto alla eccepita irregolarità della notificazione, il Giudice d’appello rilevava che essa era stata eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, e che nella relata si leggeva: “anzi non potuto notificare in quanto ivi recatomi all’indirizzo in atti indicato rinvengo il di lui padre Sig. G.; lo stesso mi dichiara che il figlio da tempo si è trasferito ma ignora dove reperirlo ad un nuovo indirizzo o recapito stante il non buon rapporto esistente tra i due”. Osservava quindi che, per poter procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., occorre in primo luogo che il destinatario dell’atto si sia trasferito dal luogo nel quale risulta risiedere in base ai registri anagrafici (il che comporta che l’ufficiale giudiziario debba recarsi presso tale luogo, e che lo stesso sia individuato). Nella specie, rilevava il Tribunale, risultava accertato che la residenza conosciuta dell’opponente era in strada (OMISSIS) e che presso tale indirizzo effettivamente l’ufficiale giudiziario si era recato, rinvenendovi una persona che, qualificatasi come il padre del G., gli aveva riferito del trasferimento di quest’ultimo in luogo sconosciuto.

Ciò posto, il Tribunale riteneva infondate le doglianze dell’appellante in ordine all’operato dell’ufficiale giudiziario, per avere questi omesso di verificare presso l’ufficio anagrafe del Comune di Bassano del Grappa se vi fossero state annotazioni relative ad una sua nuova residenza, in quanto le risultanze ufficiali disponibili evidenziavano che il G. risiedeva proprio in strada (OMISSIS). Non era quindi in discussione il fatto che il destinatario della notificazione risiedesse ufficialmente presso tale indirizzo e che le risultanze anagrafiche inducessero l’ufficiale giudiziario a tentare di ivi eseguire la notificazione. Le indagini esperite dall’ufficiale giudiziario, peraltro, dovevano ritenersi rispondenti al canone della dovuta diligenza, giacchè egli aveva rinvenuto In loco una persona qualificatasi come padre del destinatario in assenza di elementi tali da poter anche far soltanto presumere che la sua presenza fosse abusiva (non essendo neanche state dedotte istanze istruttorie in tal senso) e che tale potesse essere percepita dall’ufficiale giudiziario; legittimamente, pertanto, quest’ultimo aveva fatto affidamento sulle dichiarazioni in questione, con la conseguenza che la notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, doveva essere ritenuta corretta.

Quanto alle istanze istruttorie, il Tribunale dichiarava la inammissibilità della querela di falso proposta dall’appellante, sia perchè proposta tardivamente solo unitamente alla comparsa conclusionale, sia perché la discrasia censurata non risultava assoggettabile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.A. O. sulla base di sette motivi, illustrati da memoria; resiste, con controricorso, la Carrozzeria Zanon Antonio.

Motivi della decisione
Deve preliminarmente dichiararsi la irricevibilità dei documenti allegati alla memoria ex art. 378 cod. proc. civ., trattandosi di documenti diversi da quelli dei quali, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., è consentita la produzione nel giudizio di legittimità.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 139, 140 e 143 cod. proc. civ.. Premesso di non essersi mai trasferito dalla propria residenza, in Via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove era stata tentata la notifica, il ricorrente sostiene la insussistenza dei presupposti perchè l’ufficiale giudiziario potesse procedere ad una notificazione ex art. 143 cod. proc. civ., anzichè ex art. 140 c.p.c., peraltro senza assumere alcuna attendibile informazione, senza essere in possesso del certificato anagrafico del destinatario e senza avere ricevuto una richiesta in tal senso da parte del richiedente la notificazione. Infatti, non poteva ritenersi che la dichiarazione riferita al Sig. G. costituisse rifiuto della ricezione dell’atto nè impossibilità di reperire altrove il destinatario, che aveva comunque diritto a ricevere la comunicazione del deposito nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., e non in quelle dell’art. 143 c.p.c.. Nel primo caso, l’ufficiale giudiziario avrebbe avuto l’onere di consegnare copia dell’ingiunzione al soggetto rinvenuto in loco dandone rituale notizia al destinatario mediante lettera raccomandata A.R.; nel secondo caso, invece, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto accertare, anche tramite soggetti estranei, l’effettivo luogo di residenza del destinatario, usando la normale diligenza prevista dalla legge e il comune buon senso. Del resto, l’asserita non conoscenza, da parte del soggetto rinvenuto in loco, qualificato come padre del destinatario, non poteva costituire in alcun modo impossibilità assoluta di reperire il destinatario dell’atto.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 650 cod. proc. civ., in quanto sussistevano i presupposti per poter ritenere ammissibile l’opposizione tardiva, vertendosi in ipotesi di notifica nulla, inefficace e giuridicamente inesistente. Quand’anche poi si volesse ritenere regolare la notificazione, si verterebbe comunque nell’ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, non essendo certamente imputabili ad esso ricorrente le mendaci dichiarazioni assertivamente raccolte o, più probabilmente, inventate di sana pianta dall’ufficiale giudiziario. Del resto, conclude il ricorrente, l’irregolarità della notifica di cui all’art. 650 cod. proc. civ., va intesa in senso ampio, come una violazione delle norme che regolano le notificazioni, anche se non produttiva della nullità della stessa.

Con il terzo motivo il G. deduce la nullità della sentenza ex artt. 50 quater, 158, 161 cod. proc. civ., per invalida costituzione del Giudice unico e omesso intervento del P.M., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4. Il Giudice monocratico non avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità o meno della querela di falso, trattandosi di causa devoluta alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale ex artt. 50 bis cod. proc. civ. e art. 48 c.p.c., comma 2, ordinamento giudiziario. Anche la inammissibilità della querela, quindi avrebbe dovuto essere pronunciata dal collegio, anche in applicazione dell’art. 281 nonies cod. proc. civ.. Il G.U. aveva l’obbligo di rimettere la causa al collegio provvedendo ai sensi degli artt. 187, 188 e 189. Inoltre, osserva il ricorrente, non è stata fatta alcuna comunicazione al P.M. onde consentirgli di conoscere la causa e di svolgere le proprie autonome determinazioni.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 221 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. La censura si riferisce alla statuizione della sentenza impugnata in ordine alla tardività della querela di falso, proposta dopo che il Giudice aveva disatteso le istanze istruttorie volte a provare l’irregolarità della notificazione e la falsità delle attestazioni riguardanti le attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario. Il Giudice contraddittoriamente avrebbe, da un lato, evidenziato la correttezza della soluzione di ritenere possibile provare per testi le falsità relative alle circostanze apprese dall’ufficiale giudiziario, e, dall’altro, sostenuto che la discrasia censurata non sarebbe assoggettatile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie. Errata sarebbe poi la statuizione di tardività, posto che la querela di falso può essere proposta in qualsiasi stato e grado del giudizio, finchè la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.

Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia la violazione delle norme in materia di ammissibilità dei mezzi di prova, omesso esame delle risultanze documentali e contraddittoria e/o erronea valutazione delle prove, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. In sostanza il ricorrente si duole della violazione del suo diritto alla prova.

Con il sesto motivo, il G. lamenta omessa e/o carente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5. La sentenza impugnata troverebbe fondamento sull’erronea supposizione di fatti e circostanze la cui verità è incontrastabilmente esclusa dalle risultanze probatorie, e cioè sul fatto che esso ricorrente sarebbe stato irreperibile presso la propria residenza, perchè trasferito in luogo ignoto, e che sarebbe stato debitore delle somme vantate dalla parte intimante. Su tali circostanze difetterebbe la motivazione.

Con il settimo motivo, il G. deduce “falsità della relata, ovvero inutilizzabilità, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4”. La sentenza è stata emessa sulla base di una notificazione giuridicamente inesistente, la cui nullità e falsità ideologica risulta dalle indagini svolte in sede penale.

Da ultimo, il G. propone, sottoscrivendo il ricorso per Cassazione, querela di falso in ordine alla relazione di notifica del decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, in merito alle attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario presso l’abitazione di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), e alle pretese dichiarazioni dallo stesso attribuite a tale sig. G., circa la irreperibilità e il non meglio precisato trasferimento di residenza da parte di esso ricorrente.

Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

La questione centrale del presente giudizio, pur nella varietà delle prospettazioni svolte dal ricorrente nei numerosi motivi di ricorso, è quella della ritualità o meno della notificazione del decreto ingiuntivo, avverso il quale il ricorrente ha proposto opposizione tardiva.

La sentenza impugnata ha ritenuto detta notifica rituale, rilevando come l’Ufficiale giudiziario abbia, con la necessaria diligenza, proceduto ad accertare che, nel luogo ove il destinatario della notificazione risultava residente, lo stesso non era reperibile e ad escludere altresì che potesse essere conosciuto il luogo della nuova residenza. La ritualità di tale notificazione è stata desunta dal rilievo che l’ufficiale giudiziario rinvenne presso la residenza anagrafica del ricorrente una persona che, qualificandosi come padre di quest’ultimo, riferì che il ricorrente stesso si era da tempo trasferito e che egli ignorava ove reperirlo. Una simile circostanza è stata contrastata dal ricorrente, il quale non solo ha dedotto di essere sempre stato residente nel luogo ove era stata effettuata la notificazione, ma ha altresì escluso che la persona che ha reso all’ufficiale giudiziario la dichiarazione riportata nella relata di notifica fosse il proprio padre.

In relazione a tale situazione, occorre rilevare che correttamente il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso che fosse ammissibile la proposta querela di falso, e ciò, prima ancora che per la tardività della deduzione istruttoria, per la non esperibilità di detto rimedio con riferimento al contenuto delle dichiarazioni che il pubblico ufficiale riferisce essergli state fatte da terzi. Nella giurisprudenza di questa Corte è saldo il principio secondo cui l’efficacia probatoria che l’art. 2700 cod. civ., riconosce all’atto pubblico (che fa prova piena, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che questi dichiari avvenuti in sua presenza), non si estende al contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti; e perciò detta fede privilegiata non si estende al contenuto sostanziale e, in tema di notifica di atti giudiziari, alla veridicità delle dichiarazioni rese dal consegnatario dell’atto circa le qualità o le condizioni personali del destinatario della notifica, quali appunto la situazione di convivenza, quando questa non è frutto di indagini o accertamenti compiuti dall’ufficiale giudiziario. In tale ipotesi è perciò ammessa la prova contraria da parte dell’interessato, senza necessità di ricorrere alla querela di falso al fine di dimostrare che la predetta situazione non ha corrispondenza con la realtà (Cass., S.U., n. 6635 del 1993). Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento a dichiarazioni, quali quelle riportate nella relata di notifica, ricevute dall’ufficiale giudiziario e tali da indurlo, proprio a causa del loro contenuto, a concludere la propria attività notificatoria con una relata negativa.

Correttamente, dunque, il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso l’ammissibilità della proposta querela di falso sulla base del rilievo che le circostanze riferite all’ufficiale giudiziario erano suscettibili di prova contraria. E tuttavia, il Giudice d’appello non ha ammesso le prove che il ricorrente aveva dedotto al fine di dimostrare la non veridicità delle dichiarazioni fatte da un terzo all’ufficiale giudiziario, da questi riferite nella relata di notifica e ritenute idonee a giustificare la notificazione nelle forme dell’art. 143 cod. proc. civ.. La valutazione di irrilevanza delle dedotte istanze istruttorie, peraltro, è stata dal Giudice del merito rapportata alla prova della inadeguatezza delle ricerche effettuate dall’Ufficiale giudiziario, laddove oggetto della prova era la situazione sostanziale riferibile all’essere o no il ricorrente reperibile all’indirizzo ove l’ufficiale giudiziario ha eseguito la notificazione e, in particolare, all’essere o no il soggetto rinvenuto sul posto dall’ufficiale giudiziario il padre del ricorrente. In relazione a tali circostanze, dunque, le istanze istruttorie formulate dal ricorrente si appalesano decisive, sicchè la sentenza impugnata è sul punto (censurato, in particolare, con il quinto motivo di ricorso) viziata e se ne impone la cassazione.

L’accertamento che dovrà essere effettuato dal Giudice di rinvio sul punto consente di ritenere assorbite le questioni ulteriori proposte dal ricorrente in riferimento alla regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo oggetto dell’opposizione tardiva (primo e secondo motivo), mentre la già rilevata inammissibilità della querela di falso comporta la reiezione dei motivi con i quali il ricorrente si duole sia della mancata ammissione di detto mezzo in sede di appello (quarto motivo), sia in questa sede di legittimità, dovendosi comunque rilevare che la proposta querela non sarebbe comunque (ammissibile sui limiti all’ammissibilità della querela di falso nel giudizio di cassazione, v., ex plurimis, Cass., n. 21657 del 2006, secondo cui la querela di falso è “proponibile nel giudizio di Cassazione soltanto nei limiti degli atti del relativo procedimento (ricorso, controricorso o documenti producibili à sensi dell’art. 372 c.p.c.), ma non può riguardare documenti in forza dei quali il Giudice di merito abbia pronunciato la decisione impugnata”).

Privo di pregio risulta altresì il terzo motivo, concernente la nullità della sentenza impugnata perchè sulla proposta querela di falso avrebbe dovuto pronunciarsi il Tribunale in composizione collegiale, stante la obbligatoria partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio di falso, è sufficiente rilevare che le regole procedurali delle quali il ricorrente denuncia la violazione attengono al giudizio sul merito della proposta querela e non anche alla preliminare delibazione da parte del Giudice del procedimento principale nel caso in cui la querela di falso venga proposta in via incidentale.

In conclusione, il ricorso va accolto nei limiti ora indicati e la sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale di Bassano del Grappa, in persona di diverso magistrato, il quale procederà a nuovo esame delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente, di cui ai punti 1, 2 e 3 dell’atto di citazione e della memoria depositata in data 11 settembre 2001. Al Giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Bassano del Grappa in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 14-02-2007) 20-04-2007, n. 9393

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro p.t. e AGENZIA DELLE ENTRATE,in persona del Direttore p.t., rapp.ti e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale elett.te domiciliano in Roma alla Via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

PASTIFICIO DI MARINI GIULIO & C. S.n.c., in persona del suo legale rapp.te p.t.;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria della Toscana n. 64/25/00 pubblicata il 13/5/00;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/2/07 dal Consigliere relatore Dott. Giuseppe Napoletano;

Udita l’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CALIENDO Giacomo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La società indicata in epigrafe impugnava dinanzi alla CTP di Pistoia la cartella di pagamento ILOR per l’anno 1988 per complessive L. 64.060.230, sostenendo che la notifica dell’avviso di accertamento effettuata il 30/12/96 ad essa società doveva considerarsi nulla perchè effettuata non al suo domicilio fiscale, in (OMISSIS) ma a quello, in (OMISSIS), della s.r.l. Pastificio Marini, soggetto diverso.

La CTP accoglieva il ricorso e la sentenza veniva confermata dalla CTR della Toscana sul rilevò fondante, per quello che in questa sede interessa, che dalla società appellata venne fatta comunicazione, il 27/1/89, all’Ufficio del nuovo domicilio fiscale in Via (OMISSIS) con conseguente irrilevanza del domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione, sostenuto da un unico motivo con il quale, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, premesso che in base alle norme denunciate le società devono comunicare all’Ufficio la variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa e la variazione ai fini delle notificazioni ha effetto dal trentesimo giorno successivo alla comunicazione, sempre che tale variazione non risulti dalla dichiarazione annuale, nel qual caso essa ha effetto immediato, assumevano che essendo pacifico che la società contribuente in data 27/1/89 comunicò la variazione della sede da Via (OMISSIS) e che nella dichiarazione presentata in data 31/5/89 venne dichiarata la sede in Via (OMISSIS) correttamente la notifica dell’accertamento venne effettuata presso quest’ultimo indirizzo anche in considerazione della circostanza che comunque la sede indicata in dichiarazione ben poteva costituire nuova comunicazione e l’eventuale errore addotto dalla società al riguardo, non essendo riconoscibile dall’Amministrazione, non era ad essa opponibile.

Parte intimata non svolgeva attività difensiva,

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.

Invero a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni,dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche e le società ed enti privi di personalità giuridica, dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte dell’ufficio della comunicazione prescritta nell’art. 36, comma 2. Se la comunicazione è stata omessa, la notificazione è eseguita validamente nel comune di domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione annuale”.

Dal che consegue, per un verso che la variazione dell’indirizzo può risultare anche dalla dichiarazione annuale, e dall’altro che la comunicazione della variazione di cui al comma 2 del precedente art. 36, il quale impone alla società di dare comunicazione all’ufficio delle imposte della variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa, esplica la sua efficacia sino a quando non interviene una nuova variazione.

Nel caso di specie, invece, la CTR ha dato esclusivo rilievo alla comunicazione, effettuata il 27/1/89, di variazione dell’indirizzo senza valutare se questo, per effetto della successiva dichiarazione annuale, fosse nuovamente variato sì da coincidere con l’indirizzo presso il quale venne eseguita la notifica dell’avviso di accertamento.

Sulla base delle esposte considerazioni pertanto il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra CTR della Toscana,che procederà ad una nuova valutazione dei fatti alla stregua del principio sopra enunciato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della CTR della Toscana.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2007


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 17/11/2006) 29/03/2007, n. 7737

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. TALEVI Alberto – rel. Consigliere

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI TARANTO, in persona del Commissario Straordinario dott. V.C. elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE FLAMINIO N. 46 pal. IV sc. B, presso lo studio dell’avvocato Gian Marco Grez, difeso dall’avvocato Giuseppe Adeo Ostilio, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo, in persona del suo Liquidatore avv. Carlo Schiavoni, elettivamente domiciliata a Roma viale Giulio Cesare n. 71 (studio dell’avv. Vito Nanna) presso l’avv. Vito Spinelli che la difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 59/03 della Corte d’Appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto emessa il 17.03.03, depositata il 07.04.03; rg. 445/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/06 dal Consigliere Dott. Alberto Talevi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

Con atto di citazione del 5 gennaio 1995 l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto riassumeva dinanzi al Tribunale di Taranto il giudizio di opposizione all’esecuzione intrapresa per l’importo di Lire trecento milioni dall’impresa P.N. in concordato preventivo con il pignoramento del proprio credito nei confronti della Banca del Salento; a sostegno dell’opposizione, spiegata inizialmente dinanzi al pretore di Taranto, l’istituto aveva dedotto la prescrizione del diritto fatto valere dall’impresa menzionata, costituito a suo parere dai lodi arbitrali depositati a composizione delle controversie insorte sul pagamento di somme relative all’esecuzione dei contratti di appalto conclusi con l’impresa stessa; negava altresì, l’istante, il diritto della ditta P. di esercitare l’azione esecutiva perché esso era mutuatario della Cassa Depositi e Prestiti, e dunque le azioni esecutive non potevano essere iniziate e proseguite senza il preventivo nulla-osta del Ministro dei lavori Pubblici. Nella specie il pignoramento presso terzi aveva impedito all’istituto di procedere a pagamenti indifferibili e di pagare gli stipendi dei dipendenti, che a loro volta avevano avviato procedure esecutive in proprio danno.

Dichiaratosi incompetente per valore il pretore adito, con l’atto di citazione in riassunzione l’Iacp chiedeva al tribunale di Tarante dichiarare inammissibile c/o improcedibile l’azione esecutiva avviata dalla ditta P., e perciò nullo il pignoramento.

Si costituivano all’udienza di prima comparizione delle parti del 23 marzo 1995 l’impresa P.N. in concordato preventivo e la Banca del Salento con il deposito delle comparse di risposta; la prima per domandare il rigetto dell’opposizione per le ragioni spiegate al pretore, la seconda per rimettersi alle decisioni del tribunale, ricordando di avere leso già la dichiarazione negativa.

Compiuta l’istruttoria, il Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica con sentenza del 15 maggio-15 settembre 2000 rigettava l’opposizione dell’Iacp e lo condannava a pagare le spese del giudizio.

Con atto d’appello notificato il 26 ottobre 2001 l’ente soccombente ha chiesto la riforma di tale pronuncia, l’accoglimento delle domande proposte al primo giudice; ha resistito all’appello l’impresa P.N. in concordato preventivo che, costituitasi con comparsa di risposta depositata all’udienza di prima comparizione delle parti in data 15 gennaio 2002, ha insistito nella conferma della sentenza gravata. Compiuta la fase istruttoria, la causa è stata riservata in decisione sulle conclusioni trascritte in epigrafe all’udienza collegiale del 7 marzo 2003.” Con sentenza 17.3-7.4.2003 la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto – decideva come segue: “…rigetta l’appello proposto dall’Istituto Autonomo case Popolari di Taranto con atto notificato il 26 ottobre 2001 in contraddittorio con l’Impresa edile Ing. P.N. in concordato preventivo avverso la sentenza del Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica in data 15 maggio – 15 settembre 2000; condanna l’appellante, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese sostenute in questo grado di giudizio dall’appellata, che liquida in Euro 2.683,00, di cui Euro 113,00 per spese, Euro 685,00 per diritti ed Euro l885,00 per onorario di avvocato, oltre accessori di legge… Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto.

Ha resistito con controricorso l’”IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo (omologato dal Tribunale di Bari con sentenza 7/20.7.1986 n. 2516), in persona del suo Liquidatore avv. CARLO SCHIAVONI”.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Va anzitutto rilevato che non sussistono le ragioni di inammissibilità del ricorso e dei relativi motivi dedotte dalla parte controricorrente.

Osserva in particolare il collegio che la sentenza di primo grado non aveva per oggetto solo una opposizione all’esecuzione, ma anche altre domande (v. in particolare le domande dell’I.A.C.P. definite “riconvenzionali” nella decisione della Corte di merito); con la conseguenza che era applicabile la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale e che l’appello giustamente è stato (implicitamente) considerato tempestivo da detta Corte d’Appello. Inoltre i motivi di ricorso (salvo per quanto verrà esposto in seguito) sono specifici e rituali (pur se privi di pregio).

I due motivi di ricorso vanno esaminati insieme in quanto connessi.

Con il primo motivo l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto denuncia ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c. e dei principi di natura sostanziale e procedurale in tema di sentenze dichiarative e della loro inidoneità ad essere azionate in executivis” esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue. Nella sentenza n. 1000/92 passata in giudicato, il Tribunale di Taranto ha accolto la domanda dello IACP per quanto di ragione. Trascurando le altre statuizioni della sentenza che, in accoglimento delle domande proposte in via riconvenzionale dallo IACP, hanno condannato la Impresa Edile ing. P.N. al pagamento in suo favore delle somme ivi indicate, è indubbio che la sentenza, nella parte relativa all’accoglimento delle opposizioni ai precetti, sia pure per quanto di ragione, aveva ed ha tutt’ora natura dichiarativa con la conseguenza che essa, per quanto statuito ai punti sub 1 e 2, non ha valenza di titolo esecutivo dal momento che non condanna la parte IACP al pagamento di somme in favore della Impresa P., ma afferma solo che questa, in forza dei lodi pronunziati dai Collegi Arbitrali avrebbe dovuto intimare precetti soltanto in forza dei lodi relativi agli appalti denominati Canale A e Canale B e solo per gli importi dalla stessa sentenza indicati. La Corte di Appello di Lecce, avendo rilevato che sia il precetto e sia il pignoramento presso terzi erano stati posti in essere non in forza dei lodi arbitrali che rimanevano (se non prescritta l’actio judicati) gli unici titoli esecutivi regolanti rapporti tra le parti ivi definiti, avrebbe dovuto accogliere l’opposizione e dichiarare che l’esecuzione era nulla, al pari dei relativi atti, perché intrapresa senza titolo esecutivo. La Corte di merito invece ha ritenuto la sentenza n. 1000/92, pur nelle statuizioni dichiarative, titolo esecutivo, così affermando che essa, nonostante la sua natura dichiarativa sul punto, era stata correttamente posta a base della esecuzione intrapresa. Invece avrebbe dovuto accogliere il gravame negando che la Impresa ing. P.N. potesse azionare la sentenza n. 1000/92 come titolo esecutivo per un suo credito verso lo IACP di Taranto.

Con il secondo motivo la parte ricorrente denuncia “Art. 360 c.p.c., n. 3.

– Violazione e falsa applicazione della normativa in tema di prescrizione dell’actio judicati e di interruzione della prescrizione ed in ispecie del disposto di cui agli artt. 2946, 2943 e 2945 c.c.” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue. E’ pacifico: – che la Impresa Ing. P.N., una volta intervenute le pronunzie dei due lodi arbitrali del 26/4/80, ne ha conseguito la relativa declaratoria di esecutorietà in data 29/4/1980 e che, intervenuta la pronunzia del lodo arbitrale del 26/9/1980, ne ha conseguito la esecutorietà il successivo 27/9/1980;

– che la Impresa Ing. P.N. in data 31/10/1983 ebbe a notificare allo IACP di Taranto i tre lodi arbitrali spediti in forma esecutiva e tre atti di precetto, ognuno dei quali in forza del lodo di riferimento;

– che avverso le dette intimazioni lo IACP propose il 10/11/1983 tre distinte opposizioni a precetto nelle quali negò di dovere gli interessi successivi alla pronunzia dei lodi e spiegò domanda riconvenzionale per l’accertamento di suoi crediti verso la intimante e, quindi, la condanna della Impresa Ing. P.N. a tali pagamenti in suo favore;

– che la Impresa Ing. P.N. lasciò perimere i precetti intimati, in quanto non diede poi corso ad esecuzione eseguendo pignoramento in forza degli stessi; – che nei dieci anni successivi alla intimazione dei precetti, avvenuta il 31/10/1983, la Impresa ing. P.N. non ne reiterò la notifica e né richiese in alcuna delle forme indicate nell’art. 2943 c.c. il pagamento del suo credito ancora insoddisfatto e portato dai tre lodi arbitrali. L’Impresa Ing. P.N. avrebbe dovuto interrompere il termine prescrizionale decennale della actio judicati entro il 31/10/1993 compiendo uno degli atti dei quali era onerato a tal fine e che l’art. 2943 c.c. tassativamente individua. Sostiene la Corte di Appello di Lecce che, poiché a seguito della opposizione a precetto si instaura un giudizio ordinario in cui l’intimante si costituisce e sostiene la fondatezza del proprio diritto e, dunque, la sua affermazione, il termine di prescrizione rimane interrotto sino alla definizione del giudizio con sentenza passata in giudicato; ma con tale affermazione la Corte di Appello di Lecce non ha dato corretta applicazione né al disposto di cui all’art. 2943 c.c. e art. 2945 c.c., comma 2 e né ancora al disposto dell’art. 2946 c.c. e per di più ha anche disatteso il costante insegnamento sul punto della Suprema Corte (Cass. 25/3/2002 n. 4203). Nel caso di specie il comportamento del creditore fu di semplice resistenza alla domanda della quale richiese il rigetto. Nella fattispecie, dunque, difettava e difetta da parte della Impresa Ing. P.N. il compimento di atto che, dando inizio al giudizio, abbia avuto effetti interruttivi permanenti della prescrizione propri della domanda giudiziale e dell’azione esecutiva e/o cautelare.

Il ricorso non può essere accolto.

Occorre premettere che la parte ricorrente sembra impostare il suo assunto difensivo essenzialmente sulla negazione del diritto della controparte di procedere all’esecuzione in quanto detto diritto era prescritto con riferimento agli originari titoli (i tre lodi suddetti) e non sussisteva con riferimento alla sentenza n. 1000/92 in quanto questa non costituiva titolo esecutivo.

Una volta assodato che questa è la tesi fondamentale contenuta nel ricorso per cassazione, va anzitutto osservato che basta la non accoglibilità delle doglianze concernenti tale prescrizione per togliere ogni valida base al ricorso medesimo, in quanto, stando anche alla tesi medesima il diritto della controparte di procedere all’esecuzione dovrebbe in tal caso ritenersi sussistente non essendo rimasto prescritto (se la parte ricorrente sostiene che il diritto di procedere all’esecuzione non può basarsi sui tre lodi a causa della prescrizione, e solo a causa di questa, implicitamente ammette che in assenza di prescrizione il diritto medesimo dovrebbe considerarsi sussistente; e ciò a prescindere da qualsivoglia considerazione circa la possibilità di considerare titolo esecutivo la sentenza n. 1000/92; è appena il caso di ricordare che ovviamente possono essere esaminate solo le doglianze esposte e nei limiti in cui sono state ritualmente enunciate).

Così delimitato l’ambito del presente giudizio, va anzitutto confermato il principio di diritto secondo cui “Il precetto, non costituendo atto diretto alla instaurazione di un giudizio né del processo esecutivo, interrompe la prescrizione senza effetti permanenti, ed il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva sussiste anche nel caso in cui, dopo la sua notificazione, l’intimato abbia proposto opposizione, atteso che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. più che atto di impugnazione del precetto è atto con il quale il debitore, minacciato di esecuzione, chiede l’accertamento negativo del credito” (v. la recente sent. Cass. n. 15190 del 19/07/2005; oltre la sopra citata Cass. n. 4203 del 25/03/2002).

Va però rilevato che mentre la mera opposizione dell’intimato (e quindi l’attività processuale solo di detta parte) non può avere affetti ai fini della predetta interruzione, la questione si pone in termini nettamente diversi con riferimento all’eventuale attività processuale del creditore opposto in detto processo di opposizione.

Infatti se costui si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c. “…E’ pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio…”.

Ad ulteriore suffragio di quanto ora esposto va in particolare rilevato che nelle fattispecie come quella in questione, in cui il diritto predetto deriva da un provvedimento giurisdizionale, il creditore convenuto nel giudizio di opposizione a precetto non ha altro modo per tutelare il diritto medesimo che chiedere il rigetto dell’opposizione; quindi non può negarsi a detta attività processuale il valore di atto espressivo della volontà di esercitare il diritto di credito con effetti non solo processuali ma anche concernenti l’interruzione della prescrizione.

Di conseguenza va enunciato il seguente principio di diritto: “La mera proposizione di opposizione ex art. 615 c.p.c. da parte dell’intimato dopo la notificazione del precetto non modifica il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva di detta notifica; ma se il creditore opposto si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c.; e quindi, ai sensi dell’art. 2945 c.c., comma 2 la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.

Sulla base di quanto ora esposto appare incontestabile l’infondatezza in diritto della tesi della parte ricorrente circa l’interruzione della prescrizione.

Tale infondatezza comporta a sua volta l’infondatezza di tutte le doglianze comunque concernenti detta interruzione (negata dall’IACP) in relazione al sopra citato giudizio di opposizione riassunto innanzi al Tribunale di Taranto.

Ma a questo punto appare altresì incontestabile l’irrilevanza delle doglianze svolte nel primo motivo, in quanto l’impugnata sentenza è comunque destinata a rimanere ferma in base alla ratio decidendi concernente l’affermato (dalla Corte) effetto interruttivo a carattere permanente.

E’ opportuno aggiungere che qualora la parte ricorrente avesse inteso porre concretamente a base del ricorso per cassazione anche la tesi che (pure a prescindere dalle problematiche predette circa la prescrizione; e quindi pure ipotizzando la sussistenza del diritto della controparte di procedere all’esecuzione sulla base dei lodi) comunque l’Impresa edile “Ing. P.N.” irritualmente ha notificato il precetto in questione sulla base della sentenza n. 1000/92 (in quanto erano in ogni caso i lodi arbitrali – se non prescritta l’actio judicati – gli unici titoli esecutivi da porre a base dell’esecuzione) si sarebbe di fronte ad una tesi difensiva inammissibile per le seguenti ragioni.

Affermare che dei titoli esecutivi esistono (nell’ipotesi di mancata prescrizione) e (implicitamente) che quindi sussiste il diritto di procedere all’esecuzione; ma che a base del precetto (e – eventualmente – degli atti successivi) è stato posto un titolo errato (invece di quelli giusti) significa (non negare la sussistenza del diritto di procedere all’esecuzione ma) denunciare semplicemente una irritualità formale del precetto (e/o degli atti successivi). Significa cioè proporre doglianze inquadrabili nell’ambito della fattispecie astratta prevista dall’art. 617 c.p.c. (opposizione agli atti esecutivi). Ma l’IACP sembra negare di aver mai inteso proporre un siffatto tipo di opposizione. Le eventuali doglianze in questione sarebbero dunque inammissibili in quanto nuove (persino stando a quanto emerge dalle argomentazioni di detta parte opponente); e comunque sarebbero inammissibili in quanto non corredate da adeguato e specifico (ex art. 617 c.p.c.) supporto argomentativo.

Infine (pure a prescindere da quanto ora osservato) va rilevato che dovrebbe in ogni caso essere dichiarata d’ufficio l’inammissibilità dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. per mancato rispetto (a quanto sembra emergere dagli atti disponibili) del termine previsto nella norma medesima.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

Data la peculiarità e parziale novità delle problematiche giuridiche in questione, debbono ritenersi sussistenti giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso a Roma, il 17 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 01-03-2007) 21-03-2007, n. 6750

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAOLINI Giovanni – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Signor T.M. domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso, giusta delega in atti, dall’avv. Patrizia Artioli del foro di Modena;

– ricorrente –

contro

Comune Di San Possidonio, in persona del Sindaco p.t.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria Regionale dell’Emilia Romagna n. 2/IV/05 depositata il 03.02.2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1/3/2007 dal Relatore Cons. Dott. GENOVESE Francesco Antonio;

lette le conclusioni scritte del P.M.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

Rilevato che il Comune di San Possidonio ha notificato al signor T.M. un avviso di accertamento per omessa denuncia ICI, per l’anno d’imposta 1999;

che il signor T. ha proposto ricorso alla C.T.P. di Modena, che l’ha parzialmente accolto;

che il contribuente ha proposto appello e la C.T.R. dell’Emilia Romagna ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, perché proposto oltre il termine breve d’impugnazione, a seguito di notificazione della sentenza di prime cure;

che, secondo la C.T.R. il termine per appellare sarebbe scaduto il 3 aprile 2004, considerato che la sentenza di primo grado era stata notificata al contribuente il 3 febbraio 2004, mentre l’impugnazione era stata notificata, dal signor T., solo in data 15 aprile 2004;

che il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, contro cui non resiste il Comune;

che con l’unico motivo di ricorso (con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.) il ricorrente afferma che la notifica della sentenza di primo grado sarebbe stata effettuata in maniera irrituale perché la relata, anziché essere apposta in calce all’atto, sarebbe stato annotato sul frontespizio e deduce, pertanto, che al ricorrente sarebbe stato – di conseguenza – al più, notificato il solo frontespizio e non anche la parte restante del documento;

che, richiesto del parere ai sensi dell’art. 375 c.p.c., il PM ha concluso per la manifesta fondatezza del ricorso.

Considerato che tale conclusione deve essere condivisa;

che, va premesso quanto stabilisce l’art. 148 c.p.c., e cioè che “L’ufficiale giudiziario certifica l’eseguita notificazione mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all’originale e alla copia dell’atto” (primo comma);

che tale previsione è dettata a presidio dell’attività di notificazione degli atti, ossia della regolare consegna di copia integrale degli stessi, in osservanza del principio della loro consegna in conformità all’originale;

che, proprio la regolare osservanza delle prescrizioni formali, imposte dalla legge all’Ufficiale Giudiziario, in funzione del principio di recezione, è il fondamento degli effetti che dalla notificazione scaturiscono (decadenza dal diritto di impugnazione) che la regolare osservanza delle formalità compiute dall’Ufficiale Giudiziario sono consegnate in un atto pubblico, facente fede fino a querela di falso;

che la relazione, che la legge vuole sia apposta solo in calce alla copia dell’atto notificato, e non in qualsiasi altra sede “topografica” del documento, ha la funzione, garantistica, di richiamare l’attenzione dell’Ufficiale Giudiziario alla regolare esecuzione dell’operazione di consegna della copia conforme all’originale dell’atto;

che solo la regolare esecuzione di un tale adempimento conferisce fede privilegiata alla relazione redatta dal Pubblico Ufficiale;

che, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sentenza n. 15199 del 2004), l’eccezione di inammissibilità di un atto d’impugnazione, proposta sotto il profilo dell’incompletezza della copia notificatagli, per mancanza di alcuno dei fogli o delle pagine, deve respingersi qualora l’originale dell’atto, depositato dall’impugnante rechi “in calce” la relazione di notificazione redatta dall’ufficiale giudiziario, contenente l’attestazione dell’eseguita consegna della copia del ricorso, ed essa non sia stata impugnata con la querela di falso, dovendosi ritenere, in difetto di tale querela, che detta attestazione, per effetto di tale locuzione, sia estesa alla conformità della copia consegnata all’originale completo, ciò ricavandosi dal combinato disposto dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.;

che tale principio, però, non può essere esteso al caso – come quello in esame – della relata apposta, anziché “in calce”, sul frontespizio dell’originale della sentenza;

che, in tal caso, infatti, il mancato rispetto delle formalità non offre garanzia che la consegna dell’atto sia avvenuta nella sua integralità e, di conseguenza, non comporta il prodursi dell’effetto giuridico ad esso conseguente, onde deve dirsi nulla la notificazione così eseguita, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, perché “l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”;

che, pertanto, il ricorso del contribuente deve essere accolto e la sentenza impugnata, siccome illegittima, per essere stata resa in contrasto con la menzionata regula iuris, deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della stessa C.T.R., la quale provvederà anche in ordine alla spese di questa fase.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, ad altra sezione C.T.R. dell’Emilia-Romagna.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V sezione civile della Corte di cassazione, dai magistrati sopraindicati, il 1 Marzo 2007.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 11-01-2007) 05-03-2007, n. 4999

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che le rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

LEVANTE NORDITALIA ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via del Corso n. 525, presso lo studio dall’avv. Cascino Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Ruggero Barile, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. 65^, n. 254 del 26 settembre 2000;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11.1.2007 dal consigliere relatore Dott. Aurelio Cappabianca;

udito per l’Amministrazione ricorrente l’avv. Gianni De Bellis;

udito per la società controricorrente l’avv. Giovanni Cascino;

udito il P.M., in persona del sostituto procuratore generale Dott. Leccisi Giampaolo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
In data 22.7.1982, l’Ufficio notificò alla s.a.s. L.T.C. di Sironi Alberto avviso di rettifica iva, che, non venne impugnato.

Poichè la rettifica tendeva al recupero di un indebito rimborso d’imposta di complessive L. 119.511,000, concesso alla società contribuente con procedura accelerata D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 38 bis e tale rimborso era garantito da polizza fideiussoria stipulata con Norditalia Assicurazioni s.p.a., il 16.6.1982, l’Ufficio richiese a detta compagnia assicuratrice il versamento dell’importo suddetto, oltre gli interessi.

Non avendo Norditalia provveduto al pagamento, l’Ufficio le notificò avviso di ingiunzione di pagamento “iva anno 1980”, contro il quale la compagnia assicuratrice propose ricorso.

La società ricorrente rilevò che – ai sensi delle condizioni di polizza (art. 3) – la garanzia aveva validità di due anni dalla data dell’ordinativo del pagamento a favore del contraente, e concerneva l’obbligo di restituzione delle somme rimborsate al contribuente, che fossero risultate indebitamente tali, “giusto avviso di rettifica o di accertamento ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, o art. 55, comma 2 e succ. mod. notificato al contribuente medesimo entro il periodo di validità della polizza”. Ciò posto, osservò che il credito era stato rimborsato con ordinativo di pagamento n. (OMISSIS) del 18.04.1981 e che, dopo averle comunicato che, con avviso di rettifica “in corso di notificazione”, era stato accertato a carico della società contribuente un indebito rimborso, l’Ufficio le aveva intimato il pagamento correlativo e dei relativi interessi in forza della garanzia assunta, con ingiunzione notificata il 26.10.1987, senza aver, tuttavia, mai più precisato ed attestato la data di effettiva notifica dell’atto di accertamento al contribuente.

Riscontrata la nullità della notifica dell’avviso di rettifica al contribuente (in quanto eseguita a mani di soggetto non legittimato alla ricezione), la Compagnia richiese, pertanto, che venisse accertata e dichiarata l’insussistenza, alla stregua delle condizioni generali di polizza, delle condizioni di operatività della garanzia prestata da essa assicuratrice e l’assoluzione dalla pretesa del l’Amministrazione. ti ricorso fu accolto dalla commissione tributaria di primo grado.

In esito all’appello dell’Ufficio, tale decisione fu confermata dalla commissione regionale, che affermato che l’Amministrazione non aveva fornito prova della data della notifica dell’avviso di rettifica al contribuente (come, peraltro, richiestole con specifica ordinanza istruttoria) concluse che non sussistevano le condizioni di operatività della prestata fideiussione.

Avverso tale decisione, l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.

Con il primo motivo di ricorso – deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 210 e 213 c.p.c., e D.P.R. n. 636 del 1972, art. 7 e dell’art. 2697 c.c., nonchè contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia l’Amministrazione finanziaria ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto non assolto l’onere della prova in merito alla data dell’avvenuta notifica dell’avviso di rettifica al contribuente, benchè essa ricorrente avesse, in proposito, ottemperato alla richiesta istruttoria avanzata dalla giudice del merito.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. e degli art. 221 e segg. c.p.c. nonchè dell’art. 2909 c.c. e dei principi generali in materia di efficacia di giudicato e, altresì, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia l’Amministrazione finanziaria ha, in primo luogo, sostenuto che non vi era possibilità di ritenere nulla la notifica dell’avviso di rettifica alla contribuente, poichè la mancanza della qualità di soggetto idoneo a ricevere l’atto nel consegnatario del plico notificato, asseverata dal notificante, non avrebbe potuto essere utilmente invocata altrimenti che mediante proposizione di querela di falso; ha, quindi, prospettato la ricorrenza di un giudicato tra le parti, con riguardo a pregressa decisione del Tribunale di Milano e, comunque, l’estraneità della controversia alla giurisdizione del giudice tributario.

La compagnia assicuratrice ha resistito con controricorso, deducendo, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per difetto di sottoscrizione nella copia notificata e contestandone la fondatezza.

Motivi della decisione
L’eccezione d’inammissibilità del ricorso opposta, in via preliminare dalla società controricorrente è infondata.

Al riguardo, appare sufficiente rilevare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, in tema di ricorso per cassazione, l’inammissibilità consegue soltanto alla mancanza di sottoscrizione del difensore sull’originale del ricorso (art. 365 c.p.c.), mentre non da luogo a nullità la mancata sottoscrizione della copia notificata, ove non risultino carenze nell’originale (v., tra le altre, Cass. 13.385/05, 11.632/03, 11.478/02), nella specie insussistenti e nemmeno dedotte. Ciò senza contare, in prospettiva di autosufficienza della deduzione, che all’intimata risultano notificate due copie del ricorso (una al domicilio eletto ed una presso la sua sede) e l’intimata medesima non ha specificato ove ha riscontrato la denunziata mancanza.

Ciò posto, va osservato che, attese le contrapposte deduzioni appare inequivoco e, peraltro, incontroverso tra le parti che, con la domanda introduttiva, la società assicuratrice richiese di essere assolta dalle pretese dell’Amministrazione, non ponendo in discussione il debito del contribuente, ma deducendo L’insussistenza di prova in merito alla ricorrenza delle condizioni di operatività della garanzia previste dall’art. 3 delle condizioni generale di polizza e, specificamente dell’avvenuta notifica dell’avviso di rettifica al contribuente entro il biennio di validità della polizza dalla data dell’ordinativo del pagamento a favore del contraente.

L’accertamento della data di notifica dell’avviso di rettifica era, dunque, funzionale, non alla delibazione del rapporto fiscale, ma alla valutazione dell’operatività della garanzia alla stregua delle relative clausole.

Sulla base di tale premessa, in accoglimento di profilo del secondo motivo del ricorso dell’Amministrazione finanziaria, va rilevato il difetto di giurisdizione del giudice a quo.

Invero, la giurisprudenza di questa corte, ha reiteratamente rilevato che la polizza fideiussoria prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis al fine di consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze iva risultanti dalla dichiarazione annuale in forma accelerata (ossìa senza preventivo riscontro della spettanza) e consistente nell’obbligo per la società di assicurazione di versare le somme richieste dall’ufficio iva, a meno che non vi abbia già provveduto il contribuente, configura un contratto autonomo di garanzia che, diversamente dal modello tipico della fideiussione, è connotato dalla non accessorietà dell’obbligazione di garanzia rispetto all’obbligazione garantita. E da tale premessa ha del tutto convincentemente desunto (v. Cass. 10.188/98, 7395/98) che, nell’ipotesi in cui la società di assicurazione agisca, come nel caso di specie, per ripetere quanto versato, deducendo in giudizio il rapporto nascente dalla polizza fideiussoria (diverso e autonomo rispetto a quello tributario), senza porre in discussione il debito del contribuente, ma negando la ricorrenza delle condizioni di operatività dell’obbligazione di garanzia contrattualmente assunta, la relativa controversia è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario (e non a quella delle commissioni tributarie). Ciò perchè detta controversia ha ad oggetto una situazione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo (ripetizione di indebito), basata su un rapporto negoziale di natura giusprivatistica e non incidente in alcun modo sul rapporto tributario.

In forza dell’operato rilievo, che presenta carattere assorbente, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Per la natura della controversia e l’alternante andamento della lite, si ravvisano le condizioni per disporre la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
la corte, accoglie il ricorso; cassa, senza rinvio, la sentenza impugnata. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2007.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2007


Cass. civ. Sez. I, (ud. 11-01-2007) 15-02-2007, n. 3453

Violazioni al codice della strada: se il trasgressore ha cambiato residenza, senza comunicarlo al PRA, la notifica all’indirizzo sbagliato non è valida

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario – Presidente

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco Maria – rel. Consigliere

Dott. GILARDI Gianfranco – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA TRIONFALE 21, presso l’avvocato VITTORIO BALZANI, rappresentato e difeso dall’avvocato PIANESE FRANCESCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PREFETTURA DI LATINA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1319/01 del Giudice di pace di LATINA, depositata il 05/11/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/01/2007 dal Consigliere Dott. Francesco Maria FIORETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Giudice di Pace di Latina M.A. proponeva opposizione, della L. n. 689 del 1981, ex art. 23 avverso la iscrizioni nei ruoli esattoriali delle sanzioni amministrative dovute per violazione dell’art. 142, comma 8, del vigente codice della strada.

Deduceva il ricorrente che il diritto a riscuotere le somme dovute per la violazione di cui al verbale di contravvenzione n. (OMISSIS) doveva ritenersi prescritto in data 17.4.2001, atteso che la iscrizione nei ruoli esattoriali era stata notificata all’opponente il 15.5.2001 e, pertanto, oltre il termine di cinque anni dal giorno della commessa violazione ((OMISSIS)) … .

Detto verbale era del tutto sconosciuto all’opponente, non essendogli stato mai notificato.

Dalla lettura del verbale e dell’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale il verbale avrebbe dovuto essere notificato a mezzo posta, forniti su richiesta dell’opponente dalla Polizia Stradale di Latina, risultava a fianco dell’indirizzo di (OMISSIS) – che costituiva la residenza dell’esponente fino alla data del trasferimento di residenza avvenuto il 27.3.1995 a (OMISSIS), ovvero oltre un anno prima dell’elevazione del verbale di contravvenzione in data (OMISSIS) – la annotazione del postino di turno “trasferito”.

Deduceva, altresì, che per la notifica analogo discorso valeva con riferimento al verbale di contravvenzione n. (OMISSIS), atteso che dal verbale e dall’avviso di ricevimento della raccomandata spedita per la notifica a mezzo posta, forniti sempre dalla Polstrada di Latina, a fianco del vecchio indirizzo risultava la annotazione del postino di turno “trasferito”.

Le suddette notifiche dovevano ritenersi mille a tutti gli effetti.

Costituitosi in giudizio il Prefetto di Latina chiedeva il rigetto della opposizione rilevando che il difetto di notifica, eccepito dall’opponente, nasceva dal mancato rispetto da parte dello stesso dell’art. 94 del vigente C.d.S..

Con sentenza del 29.10.2001, depositata in cancelleria il 5.11.2001 il Giudice di Pace adito respingeva l’opposizione, osservando che l’opposizione proposta trovava un insormontabile ostacolo nella mancata osservanza da parte del M. di quanto prescritto dall’art. 94 del vigente C.d.S., per non aver questo aggiornato tempestivamente la propria residenza si da rendersi reperibile.

Avverso tale sentenza M.A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. La Prefettura di Latina non ha spiegato difese.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3);

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), in relazione al D.Lgs. 30 aprile 1992, art. 201; artt. 137 e segg. c.p.c., nonchè della L. 20 novembre 1982, n. 890.

La notificazione del plico sia nel caso del verbale di contravvenzione che in quello della cartella esattoriale, tentata all’indirizzo risultante dal Pubblico Registro Automobilistico e compiuta a mezzo della posta, non sarebbe stata completata, perchè, non essendo stato rinvenuto il destinatario, l’ufficiale postale avrebbe reso il plico con la annotazione “trasferito”. Pertanto, si sarebbe dovuto procedere alla notifica nei modi indicati dall’art. 143 cod. proc. civ..

Nè poteva ritenersi, in base all’art. 94 del vigente C.d.S., come ritenuto dal giudice a quo, che l’organo notificatore non era tenuto alla ricerca dell’indirizzo del destinatario, perchè il trasgressore non aveva ottemperato all’obbligo di tenere aggiornata la sua residenza agli atti del P.R.A. e della Motorizzazione Civile.

Tale interpretazione non sarebbe consentita da una esegesi sistematica nella norma summenzionata.

Una corretta interpretazione della stessa non consentirebbe di prescindere dalle regole generali che disciplinano la notificazione degli atti giudiziali civili a destinatari irreperibili.

Non essendosi proceduto in tal senso le notifiche di entrambi gli atti in questione sarebbero nulle.

Il ricorso è fondato.

Il giudice a quo ha motivato il rigetto dell’opposizione del ricorrente, affermando testualmente: “L’opposizione, come proposta da M.A., trova un ostacolo insormontabile nella mancata osservanza di quanto prescritto nell’art. 94 del vigente C.d.S. a suo tempo concretizzata dall’interessato col non aver tempestivamente aggiornato la propria residenza così da rendersi reperibile.

La notifica, nel primo caso del verbale di contravvenzione e nel secondo della cartella esattoriale, risulta effettuata dall’ente notificatore proprio nella residenza iscritta nel P.R.A. all’indirizzo ivi indicato. E non poteva essere altrimenti non essendo tenuto l’organo notificatore alla ricerca dell’indirizzo preesistendo, in capo all’automobilista, l’obbligo di tenere aggiornata la sua residenza agli atti del P.R.A. e della Motorizzazione Civile”.

Tale tesi non appare condivisibile.

L’art. 94 del vigente C.d.S. non disciplina la notificazione delle violazioni, ma disciplina le formalità per il trasferimento di proprietà degli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi e per il trasferimento di residenza del destinatario, prevedendo sanzioni amministrative pecuniarie per chi non ottempera agli obblighi imposti dalla stessa disposizione, tra i quali figura quello di chiedere la trascrizione del trasferimento di residenza.

Pertanto non può farsi riferimento a tale norma per stabilire se la notifica di una violazione sia valida o meno.

La norma che, invece, disciplina la notificazione delle violazioni è l’art. 201 del vigente C.d.S..

Il comma 3 di tale norma dispone che alla notificazione della violazione si provvede con le modalità previste dal codice di procedura civile ovvero a mezzo posta, secondo le norme sulle notificazioni a mezzo del servizio postale; che comunque le notificazioni si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto, risultante dalla carta di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la direzione generale della M.C.T.C. o dal P.R.A. o dalla patente di guida del conducente.

Tale disposizione non può essere interpretata nel senso che le notificazioni devono intendersi validamente eseguite quando effettuate alla residenza, domicilio o sede del soggetto risultante dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la direzione generale della M.C.T.C. o dal P.R.A. anche se il destinatario non viene rinvenuto in tali luoghi per aver trasferito altrove la propria residenza.

Tale disposizione, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa corte, che il collegio condivide non ravvisando valide ragioni per dissentirne, deve esser interpretata nel senso che la validità della notificazione non è fondata sul semplice tentativo della stessa presso uno dei luoghi summenzionati, bensì sul necessario espletamento delle formalità previste per l’ipotesi d’irreperibilità del destinatario, sia per quanto riguarda la notificazione ordinaria, sia quella postale (cfr. Cass. n. 5789 del 1992; Cass. n. 7044 del 1999; n. 5907 del 2002).

Ne consegue che in ipotesi come quella di specie, nella quale l’agente postale si è limitato ad annotare sull’avviso di ricevimento della raccomandata la scritta “trasferito” senza svolgere alcuna altra attività, la notificazione non può ritenersi valida, richiedendo necessariamente per essere tale l’espletamento delle formalità previste dall’art. 140 c.p.c., per il caso di irreperibilità del destinatario.

Pertanto il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, al Giudice di Pace di Latina, in persona di altro magistrato, che per la decisione si uniformerà al principio di diritto sopra enunciato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese, al Giudice di Pace di Latina in persona di altro magistrato.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2007.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2007


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 23-01-2007) 23-01-2007, n. 1418

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. FIGURELLI Donato – Consigliere

Dott. CUOCO Pietro – Consigliere

Dott. MAIORANO Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.G.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIA R. GRAZIOLI LANTE 16, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BONAIUTI, rappresentato e difeso dall’avvocato PETTINAU ANDREA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 230/03 della Sezione distaccata di Corte d’Appello di SASSARI, depositata il 08/09/03 – R.G.N. 85/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/11/06 dal Consigliere Dott. MAIORANO Francesco Antonio;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’Appello è i Cagliari, sezione di Sassari, C.G.L., dipendente del Ministero del Tesoro in qualità di direttore dell’Ufficio Provinciale di Sassari, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Sassari con la quale era stata rigettata la sua domanda per l’integrale rimborso (ai sensi del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, art. 18, convertito in L. 23 maggio 1997, n. 135) delle spese di difesa da lui sopportate in un giudizio intrapreso contro di lui per il reato di cui all’art. 323 c.p., (abuso d’ufficio) e dal quale era stato assolto con sentenza del 14/12/1999. Precisava che l’Amministrazione di appartenenza aveva autorizzato con nota del 18/6/2000 la rifusione della somma di L. 13.935.240, a fronte di un totale di L. 21.586.220 da lui erogate per sostenere la difesa, come da fatture emesse dai due avvocati, Marsali e Concas, che l’avevano difeso nel procedimento penale e dell’avv. Speranza che l’aveva assistito nel procedimento disciplinare, conclusosi con l’archiviazione dopo l’assoluzione in sede penale.

L’Amministrazione appellata contrastava il gravame e la Corte d’Appello lo rigettava sulla base delle seguenti considerazioni:

l’eccezione di incompetenza della Sezione staccata di Sassari per le cause in materia di lavoro in cui fosse parte una Amministrazione dello Stato, era infondata trattandosi non di una questione di competenza ma di una semplice ripartizione degli affari tra sezioni del medesimo ufficio giudiziario e ed essendo noto l’orientamento del presidente della Corte d’Appello di assegnare alla sezione di Sassari tutti i provvedimenti emessi dai Tribunali di Sassari, Nuoro e Tampio Pausania.

Nel merito, il gravame era infondato: il procedimento disciplinare non rientrava fra quelli per i quali al pubblico dipendente spettasse il rimborso delle spese legali e comunque non c’era la prova della relativa erogazione. Per le spese dei giudizio penale spettava il rimborso delle spese, in caso di assoluzione, previo parere di conformità dell’Avvocatura dello Stato che era immune da censure; il richiamo fatto dal ricorrente al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato non era calzante, sia perchè non era obbligatorio come nella specie (ma necessario per il professionista che intendesse ricorrere a forme coattive di recupero del suo credito), sia perchè la valutazione dell’Avvocatura riguardava non la conformità della parcella alle tariffe forensi ma il rapporto fra importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiedeva il rimborso.

Nella specie, non poteva essere censurata la decisione del Ministero perchè lo stesso si era attenuto al parere dell’Avvocatura dello Stato, nè il parere medesimo che non era errato o fuorviante: dagli atti prodotti emergeva infatti che il processo, per quanto delicato non era di tale importanza da giustificare la nomina di due difensori e quindi la spesa per la doppia difesa non era giustificata.

L’imputato era libero di nominare più difensori, ma non poteva pretendere il rimborso delle due parcelle; tale rimborso, infatti, non poteva avvenire a piè di lista, ma in base alla congruità delle stesse. La valutazione dell’Avvocatura poteva essere contestata in sede giudiziale, dimostrando la necessità della doppia difesa cosi da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’avvocatura erariale e non semplicemente richiamando il proprio diritto a nominare due difensori, come nella specie. La sentenza quindi doveva essere confermata.

E’ domandata ora la Cassazione di detta pronuncia con un solo motivo, col quale si lamenta contraddittorietà e insufficienza della motivazione, per non avere il Giudice considerato che egli è un dirigente a contratto, per cui un’eventuale condanna avrebbe comportato la cessazione del rapporto di lavoro; tale eventualità è stata scongiurata soltanto a seguito dell’assoluzione in sede penale, perchè questa ha comportato l’archiviazione del procedimento disciplinare. Il parere dell’Avvocatura è stato espresso dopo l’assoluzione, mentre la valutazione in ordine alla necessità di una adeguata difesa deve essere fetta in via preventiva. La previsione secondo cui il rimborso deve avvenire “nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato” si riferisce al controllo di congruità rispetto alla tariffe, analogamente a quanto fa il Consiglio dell’ordine nell’esprimere il suo parere.

L’intimato non si è costituito.

Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.

Nei giudizi intrapresi nei confronti dei dipendenti delle Amministrazioni statali per responsabilità civili, penali ed amministrative, in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza che escluda la loro responsabilità, è previsto il rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese legali, che viene effettuato ai sensi del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, conv. in L. n. 135 del 1997, nei “limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”. Questa esegue una valutazione caratterizzata essenzialmente da aspetti di discrezionalità tecnica, in quanto riferita al parametro della tariffa penale, nonché alla natura e alla complessità della causa ed all’importanza delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualità dell’opera professionale prestata ed al vantaggio arrecato al cliente (cfr. TAR Veneto n. 01033 del 14/4/04). La previsione legislativa, infetti, è di così ampia portata da giustificare pienamente l’interpretazione del Giudice d’appello, secondo cui è fior di luogo il richiamo al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato che intenda agire nei confronti del cliente per il recupero della sue spettanze, sia perché quel parere non è obbligatorio, come nella specie, ma necessario, sia perché la valutazione dell’Avvocatura riguarda non solo la conformità della parcella alla tariffe forense (oltre la quale il rimborso sarebbe illegittimo), ma il rapporto fra l’importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiede il rimborso.

Osserva in proposito la Corte che tale interpretazione è confermata direttamente dalla ratio legis, che è quella di tenere indenne il funzionario per le spese legali, indispensabili ai fini della difesa da un’accusa ingiusta per fatti inerenti ai compiti e responsabilità dell’ufficio, e indirettamente anche dalla norma finale e di chiusura di cui al D.L. medesimo, art. 20, secondo cui “l’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto deve risultare coerente con gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica stabilito con la nota di aggiornamento al documento di programmazione economico – finanziaria per il triennio 1997 – 99”. In sostanza il dipendente, ingiustamente accusato di abuso d’ufficio, ha diritto al rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese sopportate per la sua difesa, ma entro il limite di quanto strettamente necessario (trattandosi di erogazioni che gravano sulla finanza pubblica e devono quindi essere contenute al massimo) secondo il parere di un organo tecnico altamente qualificato per valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli vengono mosse ed ai rischi del giudizio penale, e sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale. Emerge così nettamente la differenza fra questo parere dell’Avvocatura dello Stato, con quello emesso dal Consiglio dell’ordine in merito alla parcella dell’avvocato in vista del contenzioso col suo cliente privato e per il quale deve essere controllata soltanto la conformità alla tariffa professionale, essendo assolutamente irrilevante l’ammontare complessivo della spesa.

Questa Corte però ha ripetutamente affermato che la discrezionalità tecnica è variamente limitata, sia dal rispetto delle norme di comune prudenza e diligenza, poste a tutela del principio del “neminem iaedere” (Cass. n. 1501/97; SU n. 3567/97), sia dalle esigenze di tutela dei diritti soggettivi perfetti (Cass. SU n. 9477/97; 10737/98; 117/99); da qui deriva la conseguenza che il parere espresso dall’Avvocatura erariale è soggetto al vaglio del Giudice ordinario per il necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti, riconosciuti dalla Costituzione, in modo da poter escludere che la discrezionalità tecnica si trasformi in arbitrio. Il parere dell’Avvocatura quindi è soggetto alla valutazione di congruità da parte del Giudice, come ogni questione che influisca sui diritti soggettivi.

In punto di fatto, tale valutazione è stata già espressa dal Giudice di merito che, attenendosi a questo principio di diritto, ha ritenuto che tale parere non è “logicamente errato o altrimenti fuorviante: il processo penale, per quanto delicato e non semplice, non era – né comunque ciò è stato dimostrato con la produzione dei relativi atti o altrimenti – di tale importanza da consigliare la nomina di due difensori”. Lo stesso Giudice specifica poi quale prova doveva essere data ai fini dell’accoglimento della domanda ed aggiunge che il parere in questione può essere contestato, non richiamando semplicemente il diritto dell’istante a nominare due difensori, ma dimostrando che “per la particolare natura dell’affare, per l’esigenza di apporto specialistico di un legale versato in una branca non comune, o per altre particolari circostanze, è opportuna (e non solo consentita) la difesa da parte di due professionisti, sì da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’Avvocatura erariale per la liquidazione della parcella ad un solo legale”. Questa valutazione non è stata minimamente contestata e quindi il ricorso va rigettato. Non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione intimata.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetto il ricorso e dichiara non luogo a provvedere in ordine alle spese.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 14-12-2006) 19-01-2007, n. 1139

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Primo Presidente f.f.

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. BONOMO Massimo – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.D.H.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato L. NAPOLITANO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARONE GHERARDO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la decisione n. 345/04 del Consiglio di Stato di ROMA, depositata il 03/02/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/06 dal Consigliere Dott. Bruno BALLETTI;

uditi gli avvocati Domenico IARIA per delega dell’avvocato Gherardo Marone, Pasquale MOSCA per delega dell’avvocato Fabio Lorenzoni;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio T.D.H.C. richiedeva la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Medicina e Chirurgia sulla istanza notificata in data 22 novembre 2002, e l’annullamento del Decreto 26 agosto 2002, con cui era stato bandito un concorso per l’assegnazione di dodici borse di studio, riservate agli iscritti al primo anno delle scuole di specializzazione medica, nonchè del provvedimento che la escludeva dalla assegnazione delle cennate borse di studio.

Con sentenza del 17 marzo 2003 il T.A.R. Lazio – ritenuta fondata l’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente Università Cattolica del Sacro Cuore – dichiarava inammissibile il ricorso della T.D.H. e – su impugnativa della soccombente e ricostituitosi il contraddittorio – il Consiglio di Stato, con decisione del 3 febbraio 2004, rigettava l’appello compensando le spese di giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza T.D.H.C. propone ricorso affidato ad un unico complesso motivo concludendo per “la declaratoria del giudice amministrativo”.

L’intimata Università Cattolica del Sacro Cuore resiste con controricorso e deposita memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1 – Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 111 Cost.” rileva che “nel caso di specie il Giudice amministrativo non poteva giudicare in quanto si trattava sicuramente di diritto soggettivo, (atteso che) l’attribuzione della borsa di studio è indipendente da qualsiasi valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione perchè si tratta della particolare procedura di affidamento della borsa di cui alla L. n. 398 del 1989; e in virtù di quella norma l’Amministrazione deve solo prendere atto della esistenza della graduatoria di ammissione alla scuola di specializzazione e attribuire, nell’ordine di inserimento in quella graduatoria, le borse di studio”. 2 – Il ricorso come dianzi proposto di appalesa infondato. Dalla normativa applicabile in materia di borse di studio postuniversitarie (spec. L. n. 398 del 1985, art. 6) si evince, infatti, che è proprio la “particolare procedura di affidamento della borsa ex L. n. 398 cit., pure richiamata dalla ricorrente, che impone il ricorso alla procedura concorsuale al fine di accertare il reddito personale e l’eventuale cumulo con altre borse di studio allo stesso titolo da parte dei candidati.

Nel caso di specie, con il bando rettorale n. (OMISSIS), l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha dato attuazione alla cennata normativa – che prevede, appunto l’assegnazione delle borse di studio in base alla graduatoria di merito salvo l’accertamento, a mezzo di apposito procedura, degli ulteriori requisiti di legge -:

per cui; trattandosi di procedura concorsuale, la posizione giuridica soggettiva che i concorrenti possono dedurre in giudizio riveste natura di interesse legittimo sulla quale ha giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo.

E’ , altresì, da rilevare che nella decisione impugnata il Consiglio di Stato, in relazione alla prospettazione difensiva della T. D.H. che l’Università non avrebbe dovuto bandire alcun concorso per l’assegnazione delle borse di studio in contestazione, ha prettamente osservato, che “l’Università non ha derogato al criterio di assegnare le borse di studio sulla base della graduatoria di merito, ma solo previsto, nell’ambito di una scelta logica e comprensibile, che gli studenti collocati in posizione utile possono presentare la domanda di assegnazione, onde evitare che la assegnazione delle borse di studio potesse avvenire a beneficio di studenti non più interessati ovvero privi dei requisiti richiesti dalla legge”; sicchè – vale ribadire – il giudizio de quo verteva sulla pretesa tutela di posizione di interesse legittimo e, sotto altro profilo, la ricorrente non poteva, comunque, vantare un diritto soggettivo all’assegnazione della borsa di studio da far valere dinanzi al giudice ordinario, non avendo presentato la domanda di partecipazione alla procedura concorsuale, finalizzata, all’accertamento dei requisiti previsti dalle disposizioni di cui alla L. n. 398 del 1989 cit., art. 6. Al riguardo, a conferma dell’infondatezza del ricorso, si rimarca che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione (Cass. Sez. Un. n. 10180/2004).

In particolare, il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato è circoscritto ai motivi inerenti alla giurisdizione, ossia ai vizi concernenti l’ambito della giurisdizione in generale o il mancato rispetto dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo (ipotesi, quest’ultima, che ricorre anche quando il Consiglio di Stato, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato di legittimità degli atti amministrativi, abbia compiuto un sindacato di merito), con esclusione di ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, cui invece attengono gli errori “in indicando” e “in procedendo”, i quali esorbitano dai confini dell’astratta valutazione di sussistenza degli indici definitori della materia ed investono l’accertamento della fondatezza, o meno, della domanda (Cass. Sez. Un. n. 17553/2002). Con l’ulteriore precisazione che il ricorso in cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, consentito per i soli motivi inerenti alla giurisdizione dall’art. 111 Cost., è ammissibile per il difetto assoluto di giurisdizione solo quando manchi nell’ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l’interesse dedotto in giudizio, sì che non possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere; non è, per contro, ammissibile – come nella fattispecie – il ricorso in cassazione che asserisca un’erronea interpretazione della norma di diritto, inidonea in concreto a tutelare l’interesse affermato dalla parte, poichè in tal caso la questione attiene al merito della controversia e non alla giurisdizione (così, testualmente, Cass. Sez. Un. n. 10734/2003).

3 – In definitiva – affermata la giurisdizione del giudice amministrativo – il ricorso proposto da T.D.H. deve essere rigettato e la ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2600,00, di cui Euro 2500,00, per onorario, oltre alle “spese generali ed agli accessori di legge”.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 23-10-2006) 27-11-2006, n. 25095

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SACCUCCI Bruno – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe V.A. – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore;

e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrenti –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Ovidio 32, presso l’Avv. Pellicciari Irene, rappresentato e difeso dall’Avv. Mastrangelo Cosimo giusta delega a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Centrale, Sez. 19, n. 5152/2002, del 8 marzo 2002, depositata il 15 giugno 2002, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2006 dal Relatore Cons. Dott. BOTTA Raffaele;

udito l’Avv. Mastrangelo Cosimo per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnativa dell’intimazione a pagare l’imposta I.N.V.I.M. relativa ad una donazione, in ordine alla quale l’Ufficio del Registro di Trieste, formatosi il giudicato sulla determinazione del valore finale dell’immobile oggetto di accertamento sotto tale profilo, aveva inutilmente notificato al contribuente, nel frattempo trasferitosi all’estero, il relativo avviso di liquidazione. A fondamento della propria impugnazione il contribuente deduceva la nullità della notifica dell’avviso di liquidazione e la conseguente decadenza dell’Ufficio.

Vistosi rigettato il ricorso tanto in primo, quanto in secondo grado, il contribuente, da un lato, produceva istanza di condono ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 53, comma 5, e, dall’altro, ricorreva alla Commissione Tributaria Centrale, la quale, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso originariamente proposto avverso l’intimazione di pagamento e, considerato conseguenzialmente non esaurito il rapporto e pendente la controversia, affermava la legittimità della suindicata istanza di definizione agevolata.

Avverso tale sentenza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione con due motivi. Resiste il contribuente con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, le parti ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e), dell’art. 140 c.p.c., del D.P.R. n. 634 del 1972, art. 74 e del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 31, nonché motivazione apodittica, incerta e contraddittoria, ed omesso esame di un punto decisivo della controversia. La Commissione Tributaria Centrale avrebbe erroneamente, ad avviso delle parti ricorrenti, ritenuto applicabile nella fattispecie l’art. 140 c.p.c., mentre la disposizione cui doveva farsi riferimento era costituita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

La censura proposta è, sotto il profilo della violazione di legge, fondata. E’ infatti pacifico, lo ammette chiaramente lo stesso contribuente, che questi si era trasferito all’estero all’epoca della contestata notifica dell’avviso di liquidazione: siffatta situazione imponeva all’Ufficio di procedere alla predetta notifica non già ai sensi dell’art. 140 c.p.c., bensì ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “le persone fisiche, che dopo la presentazione della dichiarazione dei redditi non sono più residenti nel territorio dello Stato per aver trasferito la propria residenza anagrafica all’estero, hanno, per espressa previsione di legge, il domicilio fiscale nel Comune in cui si è prodotto il reddito (o, se il reddito si è prodotto in più Comuni, nel Comune in cui si è prodotto il reddito più elevato) (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, commi 1 e 2). Pertanto, la notificazione dell’avviso di accertamento fiscale, ove non possa essere eseguita presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi per il trasferimento all’estero del contribuente, non deve essere eseguita nelle forme consolari, ostandovi la previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f), ma, in mancanza di abitazione, ufficio o azienda nel Comune di domicilio fiscale, deve essere svolta, sul presupposto dell’esecuzione di adeguate ricerche nel detto Comune, non già per mezzo della spedizione della raccomandata, ma con l’affissione dell’avviso di deposito all’albo del Comune, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), senza che tale disciplina, tenuta ferma anche dallo Statuto del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000 (art. 6, comma 1), possa dirsi lesiva del diritto di difesa del contribuente, il quale deve essere contemperato con l’interesse fiscale dello Stato” (Cass. n. 9922/2003; v. anche Cass. n. 7773/2006).

Anzi, la Corte ha stabilito che, contrariamente a quanto mostra di ritenere il controricorrente, sarebbe stata inesistente una notifica eseguita ai sensi dell’art. 142 c.p.c., la cui applicazione è esplicitamente esclusa dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f). Infatti, ha affermato la Corte, “in tema di imposta di registro, la notifica dell’avviso di accertamento di maggior valore relativo alla compravendita di un immobile a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nella Repubblica, effettuata all’estero tramite il Consolato d’Italia, è inesistente, dovendosi effettuare, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e), nel Comune di stipulazione o formazione dell’atto” (Cass. n. 8456/1996).

Nel caso di specie, quindi, correttamente l’Ufficio aveva proceduto a notificare l’avviso di liquidazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), notifica che si perfeziona con l’affissione del deposito dell’atto all’albo della Casa Comunale, ove deve rimanere esposto per 8 giorni consecutivi, senza che occorra la spedizione dell’avviso (dell’avvenuto deposito) mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Essendo state rispettate le formalità prescritte dalla surrichiamata disposizione (ed essendo inapplicabile la procedura di notifica prevista dall’art. 140 c.p.c.), non poteva essere dichiarato il mancato esaurimento del rapporto ed affermata la validità dell’istanza di definizione agevolata prodotta dal contribuente: invero, se la Commissione Tributaria Centrale avesse accertato, come avrebbe dovuto, il rispetto delle formalità di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), e, quindi, la validità della notifica dell’avviso di liquidazione, non impugnato dal contribuente, ne sarebbe conseguita la definitività dell’accertamento e della relativa liquidazione con l’impossibilità di ricorrere al condono ex L. n. 413 del 1991, art. 53 non essendo pendente alcuna controversia alla data del 30 settembre 1991 (l’avviso di liquidazione era stato notificato l’11 aprile 1989).

Deve essere accolto, quindi, il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessario alcun altro accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito mediante il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 ottobre 2006.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2006


Cass. civ. Sez. II, (ud. 04-05-2006) 21-11-2006, n. 24673

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORONA Rafaele – Presidente

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. SCHERILLO Giovanna – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA RISORGIMENTO 59, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO VIOLA, difeso dall’avvocato RICCIUTI BRUNO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CHIETI, in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 244/01 del Giudice di pace di CHIETI, depositata il 30/05/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/06 dal Consigliere Dott. Ippolisto PARZIALE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso e il rigetto del resto.

Svolgimento del processo
M.A. ricorre, articolando tre motivi, avverso la sentenza del giudice di pace di Chieti, pubblicata il 30 maggio 2002, che ha respinto la sua opposizione avverso la cartella esattoriale numero (OMISSIS) del 2001 ((OMISSIS)), notificata il primo ottobre 2001, relativa a sanzione amministrativa conseguente a violazione del codice della strada.

Il giudice di pace ha respinto la sua opposizione ritenendola tardiva, non avendo il ricorrente proposto opposizione al verbale di accertamento della violazione, ritenuto tempestivamente e regolarmente notificato a mezzo posta all’indirizzo del predetto risultante dall’archivio nazionale dei veicoli presso la direzione generale della motorizzazione civile, così come prescritto dall’art. 201 C.d.S.. Il giudice di pace osservava in particolare che “la responsabilità della tempestiva trascrizione dei dati, pur trasmessi dal ricorrente, non è imputabile alla polizia municipale di Chieti”.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese in questa sede.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso viene dedotta la “violazione e falsa applicazione di norme procedurali”. Deduce il ricorrente la nullità della costituzione del comune resistente in primo grado, ex articoli 311 e 83 c.p.c. per non avere il comandante dei vigili urbani alcuna rappresentanza legale dell’ente territoriale, potendo stare in giudizio per il Comune soltanto il sindaco.

Il motivo è infondato e va respinto. Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, dall’esame degli atti, consentito in questa sede in relazione all’errore denunciato, risulta la delega conferita dal Comune al Comandante dei Vigili Urbani, sufficiente per fini del giudizio avanti al giudice di pace. Ed infatti la L. 4 novembre 1981, n. 689, art. 23 consente alla autorità, la quale abbia emesso ordinanza-ingiunzione per la comminazione di sanzioni amministrative, di stare personalmente nel relativo giudizio di opposizione, avvalendosi anche di propri funzionari appositamente delegati. Tale norma comporta soltanto, ai fini della regolarità di tale delega che la stessa provenga dall’organo dotato della rappresentanza esterna dell’ente e, quindi, ove si tratti di un Comune, dal Sindaco (Cass. 1249 del 1991).

Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione di norme diritto. Osserva il ricorrente che l’unico atto da lui ricevuto regolarmente era costituito dalla cartella esattoriale, impugnata nei termini di legge. Erroneamente il giudicante aveva ritenuto regolarmente effettuata la notifica dell’avviso di accertamento, spedito a mezzo posta con plico raccomandato con avviso di ricevimento ad un indirizzo presso il quale il ricorrente non aveva più la sua abitazione e residenza sin dal 25 febbraio 1997. Sicché la compiuta giacenza al 19 aprile 1999, effettuata per la notifica in tale indirizzo, non poteva avere alcuna validità nè di fatto nè giuridica. Tale circostanza egli aveva documentato con la produzione del certificato di residenza del comune di Chieti del 6/11/2001 e con la documentazione rilasciata dall’ufficio provinciale di Chieti del PRA del 28 ottobre 2001.

Il motivo è fondato e va accolto.

Il giudice di pace ha ritenuto, infatti, valida la notificazione dell’ordinanza-ingiunzione effettuata “presso l’indirizzo del M. risultante dall’archivio nazionale dei veicoli presso la Direzione generale della MCTC, così come prescritto dall’art. 201 C.d.S.; pertanto la responsabilità della tempestiva trascrizione dei dati, pur trasmessi dal ricorrente, non sono imputabili alla Polizia Municipale di Chieti il cui atto sanzionatorio viene confermato.” Il giudice ha, quindi, deciso sulla base dei seguenti elementi: 1) la notifica dell’ordinanza ingiunzione fu effettuata all’indirizzo di residenza del M. non ancora aggiornato dopo il trasferimento della residenza avvenuto in epoca anteriore alla notifica; 2) il M. aveva provveduto alla tempestiva comunicazione della variazione dell’indirizzo di residenza.

Sulla base di tali fatti accertati il giudice di pace ha ritenuto che il mancato aggiornamento dei dati non poteva considerarsi imputabile alla Polizia Municipale di Chieti (affermazione questa condivisibile, non essendo quest’ultima responsabile della tenuta dei dati) ed ha concluso che la notifica effettuata al precedente indirizzo di residenza dell’odierno ricorrente doveva considerarsi come correttamente eseguita. E ciò pur risultando dagli atti che la notifica era stata effettuata a mezzo posta, che il destinatario risultava assente e che il plico era stato restituito per compiuta giacenza. L’interessato, quindi, non aveva avuto alcuna notizia della notifica ed aveva diligentemente e tempestivamente provveduto anche a quanto di sua competenza per la necessaria variazione non solo ai fini anagrafici, ma anche ai fini previsti dal codice della strada.

In tale situazione il ricorrente ha avuto cognizione dell’ordinanza- ingiunzione soltanto con la notifica della cartella esattoriale, correttamente eseguita al suo effettivo indirizzo di residenza. Ha poi tempestivamente proposto ricorso deducendo il precedente vizio di notifica, di cui ha fornito la prova.

Il giudicante ha quindi compiuto un errore di interpretazione della norma di cui all’articolo 201 C.d.S., che è del seguente tenore (per la parte che interessa in questa sede e nel testo all’epoca vigente):

“… le noti fiche si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto risultante dalla carte di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la Direzione generale della M. T.C T. …”.

La ratio di tale norma non può che essere quella di semplificare le attività che debbono svolgere gli enti accertatori per la notifica delle violazioni al codice della strada, evitando così molteplici indagini. Di conseguenza, sul cittadino, proprietario del veicolo, grava l’onere di comunicare tempestivamente le variazioni anagrafiche, se non vuole subire gli effetti (negativi) di una notifica effettuata al precedente indirizzo di residenza. Peraltro tali effetti negativi non possono ricadere sul cittadino che abbia diligentemente ottemperato a tale onere, e ciò anche nel caso in cui si verifichi un ritardo nell’aggiornamento dei relativi archivi per l’inefficienza della pubblica amministrazione, come accaduto nel caso in questione.

Con il terzo motivo di ricorso, come lo stesso ricorrente afferma, viene contestato il contenuto dell’infrazione.

Il motivo è inammissibile perché relativo al merito della contestazione.

In conseguenza dell’accoglimento del secondo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice di pace di Chieti il quale si atterrà al seguente principio il diritto: “la notifica effettuata a mezzo posta all’indirizzo di residenza del contravventore risultante dagli archivi non aggiornati, non può ritenersi correttamente eseguita, ove il destinatario risulti assente e il plico restituito al mittente per compiuta giacenza, quando l’interessato abbia provveduto alla tempestiva comunicazione della relativa variazione anagrafica”.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa con rinvio ad altro giudice di pace di Chieti che provvedere anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2006


Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 09/12/2005) 16/11/2006, n. 24416

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente

Dott. COLARUSSO Vincenzo – Consigliere

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. MAZZACANE Vincenzo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.G., M.A., L.R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA BOEZIO 2, presso lo studio dell’avvocato MILANA CARLO, che li difende, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

N.V., N.S., M.R. vedova N.U., N.A., N.G., N.L., gli ultimi cinque nella qualità di eredi di N.U., elettivamente domiciliati in ROMA VIA G GALILEI 45, presso lo studio dell’avvocato CIAFFI ONOFRIO, che li difende, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

N.B., NI.AM., N.P., N.C., S.D.G.R., D.G. AL., DI.GI.AN., D.G.A.M., D. G.G., L.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2315/02 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 13/06/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/12/05 dal Consigliere Dott. Vincenzo MAZZACANE;

udito l’Avvocato MILANA Carlo, difensore dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria che ha concluso per l’accoglimento del 1^ motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione dell’aprile 1991 N.U. e N.V. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma G., B., P. e N.C., M. A., R., A., A.M. e D.G.G. chiedendo dichiararsi la nullità del testamento olografo pubblicato il 13.2.1991 di N.E., deceduta il 31.1.1991, con il quale quest’ultima aveva istituito suoi unici eredi il fratello N.G. e la di lui moglie M.A.; al riguardo gli attori assumevano che al momento della redazione del suddetto testamento N.E. era incapace di intendere e di volere, cosicchè essi chiedevano l’attribuzione e la divisione dei beni secondo i criteri della successione legittima.

Si costituivano in giudizio N.G. e M.A. deducendo che la “de cuius” all’atto della stesura del testamento era sana di mente e che solo nell’aprile del 1990 era stata colpita da malattia, e pertanto chiedevano il rigetto della domanda attrice.

Dopo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Emanuele e L.R. e N.S. il Tribunale adito con sentenza del 27.1.1998 dichiarava la nullità del suddetto testamento olografo del 18.1.1990.

A seguito di gravame da parte di N.G., M. A. e L.R. cui resistevano N.V. mentre gli altri appellati restavano contumaci, la Corte di Appello di Roma con sentenza del 13.6.2002 ha rigettato l’impugnazione.

La Corte territoriale preliminarmente ha disatteso il motivo di appello con il quale era stata dedotta la nullità della notificazione dell’atto di citazione (e di tutti gli atti successivi) nei confronti di L.R. in quanto eseguita nel domicilio di via (OMISSIS) in Roma dal quale invece la L. risultava essersi trasferita fin dall’anno 1989 perchè emigrata in altro comune; invero premesso che la notifica suddetta era avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., il giudice di appello ha escluso l’esistenza di elementi da cui desumere che il notificante conoscesse o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza il trasferimento di residenza del destinatario della notifica; ha poi aggiunto che la dichiarazione dell’Ufficiale Giudiziario di non aver trovato nessuno all’indicato domicilio idoneo ai sensi di legge a ricevere l’atto postulava un accertamento sulla effettiva ubicazione del destinatario non superabile dall’esistenza di certificazione di segno contrario.

La sentenza impugnata, poi, dopo aver disatteso il motivo di appello concernente la inutilizzabilità della consulenza tecnica d’ufficio espletata anche tra l’altro per la mancanza nel professionista incaricato delle necessarie qualità tecniche, ha evidenziato che dalle cartelle cliniche riguardanti N.E. era emerso un quadro costante contrassegnato da confusione e disorientamento spaziale e temporale con grave deficit della memoria, con conseguente onere degli appellanti, in realtà non assolto, di provare la redazione del testamento in un momento di lucido intervallo. Il giudice di appello ha quindi concluso condividendo pienamente l’analisi degli atti processuali condotta dal giudice di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza N.G., M. A. e L.R. hanno proposto un ricorso articolato in dieci motivi cui M.R., U., A., L., S. e N.G., tutti quali eredi di N. U., e N.V. hanno resistito con controricorso;

B., Am., P., C. e N.S., R., A., A.M. e D.G.G. nonchè L.E. non hanno svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione
Con il primo ed il secondo motivo di ricorso i ricorrenti, denunciando rispettivamente violazione degli articoli 102 – 140 c.p.c. – art. 44 c.c. – art. 31 disp. att. c.c. – D.P.R. n. 136 del 1958, art. 16 e D.P.R. n. 223 del 1989, art. 18 e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti di L.R. avvenuta nel primo grado di giudizio ex art. 140 c.p.c. avendo così omesso l’esame dei documenti anagrafici ritualmente prodotti che attestavano il trasferimento di L.R. dal Comune di Roma a quello di Marino a decorrere dall’11.9.1989;

pertanto da tale data la L. risultava risiedere in (OMISSIS), Piazza (OMISSIS).

I ricorrenti quindi rilevano che il trasferimento della L. da Roma a (OMISSIS) a decorrere dall’11.9.1989 emergente dai certificati anagrafici provenienti dai suddetti Comuni avrebbe potuto e dovuto essere conosciuto dagli attori con l’ordinaria diligenza allorchè nell’anno 1991 precedettero alla integrazione del contraddittorio nei confronti della suddetta parte; pertanto nella fattispecie era stato erroneo il ricorso alla notifica ex art. 140 c.p.c., posto che tale modalità di notificazione non richiede l’effettiva irreperibilità del destinatario, bensì soltanto l’occasionale mancato rinvenimento di quest’ultimo nella sua residenza.

I ricorrenti quindi censurano l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non risultavano dedotti in giudizio elementi da cui desumere che il notificante conoscesse o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza l’avvenuto trasferimento di residenza del destinatario della notifica. Le enunciate censure, da esaminare contestualmente in quanto strettamente connesse, sono fondate.

Dall’esame diretto degli atti (consentito a questa Corte dalla natura procedurale del vizio denunciato) risulta che gli appellanti avevano ritualmente prodotto nel giudizio di secondo grado un certificato del Comune di Roma del 27.1.1999 che attestava che L.R. dall’11.9.1989 era emigrata a (OMISSIS) ed un certificato del Comune di Marino del 24.5.1999 da cui emergeva che la L. dalla medesima data dell’11.9.1989 risiedeva a Marino, via della Repubblica 2;

sempre dall’esame diretto degli atti risulta che l’integrazione del contraddittorio nei confronti di L.R. nel giudizio di primo grado fu eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. e che il piego relativo alla raccomandata spedita con avviso di ricevimento recante la notizia dell’avvenuto compimento delle formalità previste dalla suddetta disposizione è stato restituito al mittente per compiuta giacenza. Orbene alla luce degli elementi ora evidenziati deve ritenersi la nullità della notifica in questione.

Invero gli appellanti avevano provato l’avvenuta cancellazione di L.R. dall’anagrafe del Comune di precedente iscrizione e la sua iscrizione nell’anagrafe del Comune di nuova residenza con la stessa decorrenza (ovvero l’11.9.1989), cosicchè sussistevano i requisiti di legge, ai sensi degli articoli 44 c.c., comma 1 e art. 31 disp. att. c.c., ovvero la doppia dichiarazione fatta al Comune che si abbandona ed a quello di nuova residenza – per poter opporre il trasferimento della residenza ai terzi di buona fede (vedi al riguardo Cass. 2.3.1996 n. 164 8); e d’altra parte la notifica ex art. 140 c.p.c. non esclude, ma anzi postula che sia stato esattamente individuato il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, e che la copia da notificare non sia stata consegnata per mere difficoltà di ordine materiale, quali la momentanea assenza, l’incapacità o il rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c. (Cass. 11.8.2000 n. 10629; Cass. 20.9.2002 n. 13755).

Pertanto nella fattispecie non può essere condiviso il generico assunto del giudice di appello – che invero non ha operato alcun riferimento specifico alla documentazione sopra richiamata – secondo cui non erano stati dedotti in giudizio elementi da cui desumere che il notificante conoscesse, o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza, il trasferimento di residenza della L.; infatti una normale ricerca anagrafica avrebbe consentito di accertare che all’epoca della notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti della L. (luglio del 1991) quest’ultima da molto tempo, ovvero dall’11.9.1989, aveva trasferito la propria residenza dal Comune di Roma a quello di Marino;

conseguentemente la notifica di tale atto nella precedente residenza anagrafica di Roma, via (OMISSIS) non era più giustificata da alcun elemento oggettivo, ed era quindi nulla.

A tal proposito non possono essere condivisi nè il rilievo in senso contrario attribuito dal giudice di appello alla dichiarazione dell’ufficiale giudiziario di non aver trovato nessuno all’indicato domicilio idoneo, ai sensi di legge, alla consegna dell’atto nè la considerazione che tale dichiarazione postulava un accertamento sulla effettiva ubicazione del destinatario non superabile dall’esistenza di contraria certificazione: infatti nel caso in cui la notifica venga effettuata nelle forme previste dall’art. 140 c.p.c. nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, costituisce mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo (e senza necessità di impugnare con querela, di falso la relazione dell’ufficiale giudiziario) che in quel luogo si trovi la residenza effettiva (o la dimora o il domicilio) del destinatario dell’atto, sicchè compete al giudice di merito, in caso di contestazione, compiere tale accertamento in base all’esame ed alla valutazione delle prove fornite dalle parti (Cass. 26.8.1997 n. 8011).

Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver preso in esame i motivi di appello relativi alla asserita inutilizzabilità della consulenza tecnica d’ufficio anche per difetto di adeguati requisiti di professionalità sul consulente tecnico nominato.

Con il quarto motivo i ricorrenti, denunciando vizio della motivazione, assumono che il giudice di appello non ha minimamente esaminato le censure degli appellanti relative alla contraddittorietà ed alla illogicità della consulenza tecnica d’ufficio. Con il quinto motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver affermato che gravava sugli appellanti l’onere, in realtà non assolto, di provare che il testamento in questione fosse stato redatto da N. E. in un momento di lucido intervallo; in realtà era onere delle controparti provare che la redazione del suddetto testamento fosse avvenuta in un periodo di grave malattia mentale della N..

Con il sesto motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, sostengono che l’affermazione del giudice di appello secondo cui il grave stato confusionale riscontrato in N.E. risaliva a circa sei mesi prima del suo ricovero contrastava con la documentazione acquisita in atti. Con il settimo motivo i ricorrenti, denunciando vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver esaminato la richiesta degli appellanti di effettuare una perizia psicografologica sulla scheda testamentaria onde accertare le condizioni psichiche della testatrice al momento della redazione del testamento. Con l’ottavo motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli articoli 246 e 257 c.p.c., comma 2 e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver specificatamente esaminato i motivi di appello relativi alla nullità parziale della prova testimoniale di parte attrice, alla errata valutazione della prova espletata ed alla omessa ammissione di un teste indotto dagli esponenti.

Con il nono motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c..

Con il decimo motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione.

Con tali connesse censure i ricorrenti assumono di essere stati condannati al rimborso delle spese del secondo grado di giudizio liquidate complessivamente nella elevatissima somma di Euro 21.200,00 in violazione dei limiti massimi delle tariffe e senza alcuna motivazione; aggiungono che comunque la compensazione delle spese sarebbe stata più logica all’esito del giudizio.

Tutti gli enunciati motivi restano assorbiti in seguito all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.

In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma ultimo, al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado.

Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE Accoglie i primi due motivi di ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado; compensa interamente tra le parti le spese di tutti i gradi del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2005.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2006


Cass. civ. Sez. I, (ud. 28-06-2006) 21-09-2006, n. 20440

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente

Dott. MORELLI Mario Rosario – Consigliere

Dott. GILARDI Gianfranco – Consigliere

Dott. DEL CORE Sergio – rel. Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA GREGORIO VII 396, presso l’avvocato GIUFFRIDA ANTONIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CATANIA, MONTEPASCHI SERIT S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1419/01 del Giudice di pace di CATANIA, depositata il 24/09/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/06/2006 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Giudice di pace di Catania, B.C. impugnò la cartella esattoriale notificatagli dal concessionario dal servizio riscossione tributi (Montepaschi Serit s.p.a.) il 10 maggio 2001 e relativa a sanzione pecuniaria di L. 192.730 emessa a suo carico per violazione del codice della strada accertata con sommario processo verbale il 28 agosto 1997 dalla polizia municipale di quella città.

L’adito giudice respinse l’opposizione osservando, a confutazione dei relativi motivi, che, il processo verbale era stato notificato, nei termini di cui all’art. 201 C.d.S., nelle mani della madre del B., la quale, in data 4 novembre 1997, in nome e per conto del figlio, sottoscrisse la ricevuta, ritirando il piego presso gli uffici dell’agenzia recapiti Ventura; per provvedimento del sindaco di Catania del 3 ottobre 1999, detta agenzia aveva assunto la qualifica di messo notificatore; in tale veste, esercitava le funzioni di ufficiale giudiziario e aveva valido titolo a compiere tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione previsti per l’amministrazione postale dalla L. n. 890 del 1982; l’avviso di ricevimento del piego raccomandato, munito del bollo dell’ufficio recante la data del giorno della consegna e la firma del delegato al ritiro da parte del destinatario, costituiva prova dell’avvenuta notificazione; la Montepaschi Serit s.p.a. difettava di legittimazione passiva dacché non partecipa alla formazione del ruolo, di competenza dell’ente impositore.

Di tale sentenza il B. chiede la cassazione per tre motivi con ricorso proposto nei confronti del Comune di Catania e della Montepaschi Serit s.p.a..

Nessuno degli intimati svolge difese in questa sede.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denunzia letteralmente la “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 4 e u.c., art. 149 c.p.c., art. 201 C.d.S., comma 3, L. n. 890 del 1982, art. 12”. Il giudice di pace – lamenta – ha ritenuto valida la notifica del sommario processo verbale benchè eseguita due anni prima del presunto atto amministrativo del 3 ottobre 1999 con cui si era attribuita alla agenzia recapiti Ventura la qualifica di messo notificatore, consentendole di esercitare appieno le funzioni di ufficiale giudiziario. La notificazione era quindi inesistente, non essendo avvenuta pel tramite dell’amministrazione postale come prescritto dalle richiamate disposizioni di legge. E, in mancanza di valida notificazione nei termini, si è verificata l’estinzione della obbligazione del pagamento della sanzione amministrativa. Peraltro, il giudice di pace, violando il principio del contraddittorio e procedendo arbitrariamente ex officio, ha basato la decisione su un provvedimento amministrativo da nessuno dedotto nè tampoco prodotto in corso di giudizio. Quand’anche equiparata a un messo notificatore, l’agenzia avrebbe potuto effettuare la notifica ai sensi degli artt. 137 ss. c.p.c., avvalendosi del servizio postale, come i messi notificatori agli ufficiali giudiziari, ma non certamente trasformarsi in un ufficio postale e compierne, come avvenuto nella specie, le specifiche attività.

Con il secondo motivo il ricorrente, ribadendo le argomentazioni di cui al precedente motivo, denunzia come “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4” la “nullità del procedimento”, conseguita anche dalla violazione del principio dispositivo e del contraddittorio da parte del giudice di pace.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5”. Riproponendo, ancora una volta, quanto detto in precedenza, segnala la contraddittorietà e illogicità della motivazione adottata dal giudice di pace nel valorizzare, ex officio, il provvedimento sindacale intervenuto dopo la contestata notificazione e nel ritenere comunque valida l’attività notificatoria avvenuta a mezzo posta, ma con recapito a cura di una agenzia privata, tributaria di servizi postali.

A parte l’erronea indicazione, tra le norme violate, dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – che è ovviamente norma strumentale in base alla quale gli errori, in iudicando e/o in procedendo, possano essere denunciati – il primo motivo si appalesa fondato nel suo nucleo essenziale incentrata sulla invalidità della eseguita notificazione del verbale di accertamento della infrazione al codice della strada.

Come già rilevato da questa Corte con le sentenze nn. 563/1994, 8079/1996, 2889/2002, 12533/2003, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 14 impronta a rigore formale l’atto della contestazione differita attuata con la notificazione degli “estremi della violazione” all’interessato, indicando tassativamente i soggetti abilitati a provvedere alla notificazione stessa e prevedendo le modalità esecutive secondo le disposizioni dettate dalle leggi vigenti e dal codice di procedura civile, essendo al riguardo annesso – in difetto di un espresso divieto – anche l’impiego del servizio postale. Da parte sua, l’art. 201 nuovo C.d.S., comma 3, prevede invece espressamente la notificazione della violazione a mezzo posta.

Il rigore formale dell’atto di notificazione ben si spiega anche avuto riguardo agli effetti che la legge (art. 14, u.c.) riconduce alla omissione della notificazione nel previsto termine, cui consegue l’estinzione della obbligazione di pagare la somma dovuta dal trasgressore per la violazione. Ebbene, quando l’Amministrazione alla quale appartiene il funzionario o l’agente che ha accertato la violazione si avvalga del servizio postale per la notificazione degli estremi della violazione, è tenuta ad osservare le norme sulla notificazione degli atti giudiziari a mezzo della posta come dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890 e dal complesso di tale minuziosa disciplina si deve con certezza desumere che i relativi adempimenti non possono formare oggetto della concessione a privati come prevista per taluni servizi postali dal D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 29 (cd. codice postale) e dagli artt. da 121 a 148 reg. esec. approvato con D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655. La L. n. 890 del 1982 riserva, infatti, all’amministrazione postale tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione, dalla accettazione (art. 3), al recapito (artt. 7 e 8), alla spedizione, infine, dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato che, “munito del bollo dell’ufficio postale recante la data dello stesso giorno della consegna”, “costituisce prova della eseguita notificazione”. Non può dunque dubitarsi che le complesse formalità previste dalla legge n. 890/1982, finalizzate insieme a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario e ad attribuire certezza all’esito in ogni caso del procedimento di notificazione, costituiscano una attribuzione esclusiva degli uffici postali e degli “agenti” e “impiegati” addetti, con connotati di specialità essenzialmente estranei a quei “servizi postali” di “accettazione” e “recapito” “per espresso” di corrispondenza che il direttore provinciale delle poste ha facoltà di dare in concessione secondo la previsione del D.P.R. n. 156 del 1973 citato, art. 29 ad agenzie private alle quali gli artt. 129 e 138 del relativo regolamento attribuiscono le denominazioni rispettivamente di “Agenzia privata autorizzata alla accettazione e al recapito degli espressi in loco” e “Agenzia per il recapito degli espressi postali”. Con la conseguenza necessitata che la notificazione degli estremi della violazione affidata (dall’ufficio cui appartiene l’agente accertatore) all’agenzia privata concessionaria a norma dell’art. 29 codice postale ed eseguita dai dipendenti della stessa agenzia (“suoi fattorini”, cosi definiti dall’art. 131 del regolamento) si deve considerare giuridicamente inesistente e, come a omessa notificazione, ad essa consegue l’effetto della estinzione della obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione, secondo la previsione della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c..

Le particolarità della notifica a mezzo posta sono state, non a caso, confermate dal D.Lgs. n. 261 del 1999 che, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE (concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio), all’art. 4, comma 5, ha continuato a riservare in via esclusiva “al fornitore del servizio universale”, ovverosia all’organismo che fornisce l’Intero servizio postale universale su butto il territorio nazionale (id est all’Ente Poste), “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.

Detto intervento legislativo ha, in un certo senso, avallato l’orientamento giurisprudenziale inaugurato in subiecta materia da questa Corte in epoca antecedente.

Non è controverso, nella specie, che i vigili urbani di Catania affidarono la notificazione degli estremi della violazione alla agenzia privata concessionaria per quel Comune del servizio recapito espressi. L’affermazione del giudice a quo circa la validità della notifica così eseguita integra violazione delle norme che disciplinano la notificazione dagli atti giudiziari a mezzo del servizio postale.

L’accoglimento del primo e pregiudiziale motivo comporta l’assorbimento degli altri.

Cassata perciò la sentenza impugnata, poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto (in ordine ai modi non controversi della eseguita notificazione), a norma dell’art. 384 c.p.c., la causa deve essere decisa nel merito con l’accoglimento della opposizione da B.C. proposta avverso la cartella esattoriale e la consequenziale dichiarazione di estinzione dell’obbligazione sanzionatoria, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c..

Il Comune va, infine, condannato al rimborso delle spese del giudizio, di merito e di cassazione, a favore del B..

Il ricorso e, invece, inammissibile nei confronti della Montepaschi Serit s.p.a.. Il giudice di pace ha rigettato l’opposizione nei confronti del predetto esattore per difetto di legittimazione passiva in quanto estraneo alla formazione del ruolo, di competenza dell’ente impositore. Tale decisione non è stata censurata con alcuno dei motivi in cui si articola il ricorso ed e pertanto divenuta regiudicata.

Non vi è luogo a statuizione sulle spese relativamente al predetto intimato, astenutosi da qualsivoglia difesa in questa sede.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso proposto nei confronti del Comune di Catania, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione e condanna il Comune di Catania alle spese del giudizio a favore del ricorrente, liquidate in complessivi Euro 300,00, di cui Euro 180,00 per onorari di avvocato e Euro 80,00 per diritti di procuratore, quanto al giudizio davanti al Giudice di pace, e in Euro 400,00, di cui Euro 300,00, per onorari di avvocato, quanto al giudizio di cassazione, oltre spese generali e accessori di legge.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della Montepaschi Serit s.p.a..

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2006


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 09-05-2006) 13-09-2006, n. 19554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICIRETTI Stefano – Presidente

Dott. LUPI Fernando – Consigliere

Dott. CELENTANO Attilio – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PIETRO COSSA 41, presso lo studio dell’avvocato PORCELLI VINCENZO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MICRON TECHNOLOGY ITALIA S.R.L., in persona del .Presidente rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BOCCA Di LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato IRACE ERNESTO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 91/04 della Corte d’Appello di L’AQUILA, depositata il 08/01/04 r.g.n. 804/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/05/06 dal Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;

udito l’Avvocato PORCELLI;

udito l’Avvocato IRACE ERNESTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAETA Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Micron Technology Italia s.r.l. ha licenziato il proprio dipendente sig. M.M. previa contestazione disciplinare del fatto che a partire dal mese di novembre 1999 erano state eseguite connessioni con la rete informatica interna della società utilizzando l’identificativo del M., e ciò anche da un’utenza telefonica del distretto di Milano, in giorni in cui il M. era al lavoro nella sede di Avezzano; tali connessioni si erano verificate anche nei giorni 26, 27 e 28 dicembre utilizzando la password del M. da poco sostituita.

L’impugnativa del licenziamento, accolta dal Tribunale di Avezzano, è stata respinta dalla Corte d’ Appello di L’Aquila con sentenza 30 ottobre 2003/8 gennaio 2004 n. 91.

Il giudice d’appello ha ritenuto accertate le seguenti circostanze di fatto: 1. le connessioni dall’esterno utilizzando la password del M. sono iniziate subito dopo il licenziamento del dipendente B., avvenuto il 26 ottobre 1999, 2. esse sono state eseguite in maggioranza attraverso un’utenza appartenente al distretto telefonico di Milano ed intestata alla moglie del B., come da rapporto P.S., 3. il 13 dicembre 1999 il M. ha modificato la propria password su richiesta del sistema informatico, 4. alle ore 13,05 del giorno 24 dicembre 1999 è intercorsa una telefonata tra il B. ed il M., e dal pomeriggio dello stesso giorno sono riprese le connessioni dall’utenza telefonica intestata alla moglie del B. con la nuova password del M..

Il primo giudice aveva ritenuto che non fosse possibile escludere che il B. fosse venuto a conoscenza della password del M. per altre vie, in particolare: 1. potrebbe essergli stata comunicata dall’amministratore del sistema informatico, 2. o da altri colleghi che avrebbero sbirciato alle spalle del M., 3. ovvero perchè il B. avrebbe indovinato la password tentando a caso. Non essendovi tale certezza, ha ritenuto che non fosse possibile affermare la responsabilità del M.. Il giudice d’appello, con ampia motivazione, ha argomentato che le tre possibilità ventilate dal primo giudice erano o impossibili a verificarsi o molto poco verosimili. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il M., con tre motivi.

La società intimata si è costituita con controricorso, resistendo.

Entrambi hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2119, 1324, 1362 cod. civ., e segg.; L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 1 e 3; L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7; art. 112 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata per violazione dei principi della specificità ed immutabilità della contestazione, sotto diversi profili.

Sostiene innanzitutto la mancanza di specificità degli addebiti, che non avrebbe consentito al lavoratore l’individuazione dei fatti nella loro materialità.

Assume poi che, mentre la contestazione aveva per oggetto il fatto della connessione personale dall’esterno da parte del M., la sentenza impugnata ha interpretato come motivo del licenziamento il fatto della comunicazione della password al B., violando così il principio della immutabilità della contestazione. Il motivo non è fondato, nei suoi diversi profili. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (ex plurimis Cass. 10 giugno 2004 n. 11045).

La sentenza impugnata non ha immutato i fatti contestati, ma ne ha operato una valutazione di merito, alla stessa rimessa, il che non costituisce immutazione dei fatti. Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c.; artt. 2119, 2697, 2727 e 2729 cod. civ.; L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata nel governo delle risultanze istruttorie. Anche questo motivo non è fondato.

Il giudice d’appello ha esaminato partitamente le singole motivazioni della sentenza avanti a lui impugnata, ed ha esposto le sue contrarie considerazioni e conclusioni in maniera molto ragionata.

1. Circa la possibilità che il B. sia potuto venire a conoscenza della password dall’amministratore del sistema, ha rilevato, seguendo la esposizione tecnica della Micron, che al primo accesso l’utente è obbligato dal sistema a modificare la propria password, con la conseguenza che l’amministratore del sistema non è più in grado di conoscerla. Infatti, una volta memorizzata la password, il sistema la trasforma automaticamente ed immediatamente, attraverso un algoritmo matematico, in una stringa che successivamente il sistema stesso sarà in grado di riconoscere; una simile operazione è irreversibile e non è quindi possibile risalire alla password partendo dalla stringa.

Ha rilevato inoltre che, se è vero che i sistemisti possono annullare la password di un dipendente ed inserirne una nuova, è anche vero che il dipendente interessato verrebbe immediatamente a conoscenza di una simile operazione, visto che la sua vecchia password sarebbe ormai da lui inutilizzabile e si vedrebbe, quindi, negato l’accesso al sistema; nel nostro caso, il M. non ha mai dedotto di essere stato vittima di un simile accadimento, ma, anzi, è del tutto pacifico che la password utilizzata per le connessioni per cui è causa è sempre stata proprio quella prescelta dallo stesso M..

2. Quanto alla possibilità che altri dipendenti possano aver carpito la password osservando il M. nel momento in cui la digitava, il giudice d’appello ha sottolineato che il piano di lavoro del dipendente si trovava sul lato del box opposto a quello dove si apriva la porta che dava sul corridoio (v. la riproduzione grafica delle postazioni di lavoro degli impiegati allegata al fascicolo della Micron nel procedimento ex art. 700 c.c.). Ne ha dedotto che era praticamente impossibile che qualche impiegato, transitando sul corridoio o affacciandosi sulla porta, potesse vedere i tasti premuti dal M. nel momento in cui digitava la password perchè costui si sarebbe trovato con la schiena rivolta verso la porta e pertanto avrebbe coperto con il proprio corpo la visuale della tastiera al collega.

Il giudice d’appello ha inoltre rilevato che l’eventualità prospettata dal Tribunale appare davvero improbabile se si considera che il B. ha eseguito le connessioni utilizzando non solamente la “vecchia” password del M., ma anche quella “nuova” che egli, su richiesta del sistema, aveva dovuto adottare in sostituzione della prima. Tale circostanza, innanzi tutto, esclude la possibilità che il B. sia venuto a conoscenza della password in ragione del fatto di lavorare insieme con il M.; infatti, la seconda delle password in questione è stata adottata dal M. quando il B. era stato già da tempo licenziato dalla Micron. 3. Infine,il giudice d’appello ha escluso la terza ipotesi prospettata dal Tribunale e cioè che il B. abbia indovinato la password del M. provando a caso varie combinazioni, rilevando l’elevatissimo numero di combinazioni possibili per una password che utilizzi, come nel caso di specie, da un minimo di sei ad un massimo di 32 caratteri alfanumerici.

In conclusione, delle tre possibili ipotesi prospettate dal Tribunale circa le modalità attraverso le quali il B. sarebbe potuto venire a conoscenza della password del M., la sentenza impugnata ha ritenuto la prima (responsabilità dell’amministratore del sistema) impossibile e le altre due (da terzi o tentando a caso) estremamente improbabili.

Viceversa il giudice d’appello ha ritenuto che nel senso della responsabilità diretta del M. depongono le seguenti circostanze di fatto: a) il M. era l’unico che conosceva le proprie password; b) le connessioni dall’esterno sono state compiute utilizzando ben due password diverse e ciò si spiega molto facilmente se si ammette che sia stato lo stesso M. a comunicare le password al B.; c) dopo la modifica della password, il B. tentò inutilmente di collegarsi alla rete e vi riuscì nuovamente (utilizzando la nuova password) solamente dopo aver intrattenuto un colloquio telefonico con il M..

La Corte ritiene la motivazione sopra riassunta molto ragionata e priva di vizi logici o giuridici.

Occorre ricordare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 9 febbraio 2004 n. 2399; Cass. Sez. Un. 27 dicembre 1997 n. 13045; Cass. Sez. Un. 11 giugno 1998 n. 5802; Cass. 22 ottobre 1993 n. 10503).

In realtà le censure del ricorrente non segnalano vizi del ragionamento, ma dissensi interpretati sui fatti.

Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 cod. civ.; L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata in punto di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Rileva che il M. aveva accesso al sistema come user, e cioè come utente ordinario; poteva con il codice relativo accedere alle statistiche ed alle illustrazioni pubblicitarie dei prodotti, ma non poteva interagire con il sistema, non aveva accesso ai programmi, non poteva fare copia di files o programmi residenti nel sistema.

Sul punto il giudice d’appello ha così motivato: Per quanto riguarda, infine, la valutazione della gravità dell’inadempimento realizzato dal M., ritiene il Collegio che essa sia tale da giustificare il recesso datoriale. Invero il comportamento dei lavoratore si è concretato nella diffusione all’esterno di dati (le password personali) idonei a consentire a terzi di accedere ad una gran massa di informazioni attinenti l’attività aziendale e destinate a restare riservate.

Il ricorrente non contesta che si trattasse di dati comunque riservati.

La valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della mancanza del lavoratore si risolve in un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione adeguata e logica (ex plurimis Cass. 23 agosto 2004 n. 16628 Cass. 18 agosto 2003 n. 12083, Cass. 8 agosto 2003 n. 12001).

La sottrazione di dati aziendali è stata ritenuta idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento (Cass. 2 marzo 1993 n. 2560).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono liquidate in Euro 103,00 (oltre Euro duemilacinquecento per onorari di avvocato, oltre spese generali, IVA e CPA..

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 103,00 oltre Euro duemilacinquecento per onorari di avvocato, oltre spese generali, IVA e CPA..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 9 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2006


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 10-05-2006) 28-06-2006, n. 14916

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUGGIERO Francesco – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE e AGENZIA DELLE ENTRATE, con l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

D.M.A., con l’Avv. IULLI Giuseppe, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di ROMA, Sez. 10, n. 05/10/2001, pubblicata il 27/02/2001;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/05/2006 del Relatore Cons. Dott. FITTIPALDI Onofrio.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Vista l’istanza depositata dall’Avvocatura Generale dello Stato attestante la regolarità della domanda di definizione della controversia ed il pagamento integrale di quanto dovuto; Viste le conclusioni scritte del P.G. nelle quali si chiede dichiararsi l’estinzione del processo; Vista la L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 8; Ritenuta l’esistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara estinto il processo. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2006