Cass. civ. Sez. V, (ud. 20-03-2006) 19-05-2006, n. 11821

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTARELLA ORESTANO Francesco – Presidente

Dott. CICALA Mario – rel. Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA UGO BASSI 3, presso lo studio dell’avvocato MASIANI ROBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CORRADO MAGNANI, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE FINANZE – DIPARTIMENTO ENTRATE UFFICIO DISTRETTUALE IMPOSTE DIRETTE DI VARESE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 251/99 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, depositata il 18/10/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/03/06 dal Consigliere Dott. Mario CICALA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAZZOCCO (su delega dell’Avvocato MASIANI), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il sig. R.G. ricorre per Cassazione deducendo un unico articolato motivo avverso la sentenza 18 ottobre 1999 n. 251/44/99 con cui la Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia ha rigettato l’appello del contribuente avverso la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto valida la notifica di avviso di accertamento IRPEF-ILOR a mani della madre del contribuente, per gli anni 1978- 1979-1980 e quindi legittima la conseguente cartella di pagamento per un importo di oltre L. 344 milioni.

La Amministrazione resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 139 (c.p.c.) nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) Il motivo deve essere rigettato per le ragioni che verranno esposte e che ex art. 384 del codice di procedura civile sostituiscono le motivazioni della sentenza impugnata, senza intaccarne il dispositivo.

Invero l’art. 139 c.p.c. al suo comma 2 dispone: “Se il destinatario non viene trovato nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purchè non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”. I successivi terzo e quarto comma soggiungono: “In mancanza delle persone indicate nel comma precedente, la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda, e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”.

Dunque se nella casa di abitazione del notificando viene reperita “una persona di famiglia” la notifica è ben eseguita con la consegna a tale persona, e non occorre l’ulteriore invio di una lettera raccomandata.

La qualifica di “persona di famiglia” prescinde poi dal requisito della convivenza, come non debbono essere conviventi le persone “addette alla casa o all’ufficio o all’azienda”.

In termini è la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la consegna della copia dell’atto “a persona di famiglia”, prevista dall’art. 139 c.p.c., comma 2, non richiede l’ulteriore requisito della convivenza del familiare, atteso che la presunzione della successiva consegna dell’atto si fonda proprio sul vincolo parentale, senza che assuma rilievo autonomo la diversa residenza anagrafica, avente valenza solo presuntiva, della persona consegnataria dell’atto (Cass. 26 febbraio 2004, n. 3902; Cass. 20 giugno 2000, n. 8336).

Nè appare rilevante domandarsi quale sia l’ambito delle “persone di famiglia”, dal momento che qualunque criterio si adotti esso non potrà mai essere così restrittivo da escluderne il rapporto di primo grado in linea retta (nel caso di specie madre-figlio). Si può del resto ricordare che si è ritenuta “persona di famiglia” anche la moglie non convivente (a causa di una crisi familiare non ancora formalizzata in atti giudiziali).

Il ricorso contesta anche il passo della sentenza d’appello secondo cui: “Inoltre, eventualmente avrebbe potuto essere rilevata la mancata compilazione della relata di notifica di uno dei tre atti oggetto di impugnazione, ma anche tale ultimo aspetto viene superato – dall’effettivo possesso di detto atto da parte del contribuente ed il tutto porta a ritenere come effettivamente realizzatasi l’avvenuta consegna al destinatario di tutti e tre gli atti di accertamento in un unico contesto”.

Si tratta per altro di un obiter dictum del giudice che non trova rispondenza nei motivi di appello del contribuente depositati il 13 settembre 1989.

Quindi questo profilo del ricorso è inammissibile.

Appare opportuno procedere a compensazione delle spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 20 marzo 2006.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2006


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 12/01/2006) 10/05/2006, n. 10700

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Presidente aggiunto

Dott. CORONA Rafaele – Presidente di sezione

Dott. DUVA Vittorio – Presidente di sezione

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere

Dott. PREDEN Roberto – rel. Consigliere

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. CICALA Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

V.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3281/03 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 20/11/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/06 dal Consigliere Dott. Roberto PREDEN;

udito l’Avvocato Ettore FIGLIOLIA dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 20.11.2003, pronunciando sull’appello proposto dall’Istituto Universitario Orientale, con il patrocinio dell’Avvocatura dallo Stato, avverso sentenza del Pretore di Napoli che aveva accolto la domanda di risarcimento danni proposta da V.F., lo dichiarava improcedibile sul rilievo che, per effetto della L. n. 168 del 1989 le Università hanno perduto la natura di organi dello Stato e non possono più essere rappresentate in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.

Avverso la sentenza l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, in persona del Rettore, con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ha proposto ricorso per Cassazione.

L’intimata non ha svolto difese.

Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite per la soluzione della questione concernente la rappresentanza e difesa in giudizio delle Università statali dopo la L. n. 168 del 1989.

La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. L’unico mezzo denuncia: violazione e falsa applicazione del R.D. n. 1592 del 1933, artt. 56 e 245, R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, L. n. 260 del 1958, art. 1, L. n. 103 del 1979, art. 11, L. n. 168 del 1989, art. 6, art. 122 regolamento per l’amministrazione finanziaria e contabilità dell’Università “L’Orientale”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume la ricorrente che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che, a norma della L. 9 maggio 1989, n. 168, art. 6, secondo cui le Università sono dotate di personalità giuridica ed hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, le Università hanno perduto la natura di organi dello Stato e non possono più essere rappresentate in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.

Sostiene che le Università statali usufruiscono del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 (T.U. dell’istruzione superiore) e del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43 (T.U. sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato, come modificato dalla L. n. 103 del 1979, art. 11), sicchè è conseguente che detto patrocinio spetta ope legis all’Avvocatura dello Stato, così come statuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sent. n. 1086/2001).

2. Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito precisati.

3. Il R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (T.U. delle leggi sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello stato), disciplina distintamente la rappresentanza e difesa in giudizio dello stato (racchiusa nei capi primo, secondo e terzo, articoli da 1 ad 11), e la rappresentanza e difesa di amministrazioni non statali e degli impiegati (racchiusa nel titolo secondo, articoli 43, 44 e 45).

3.1. I tratti distintivi della prima (cd. patrocinio obbligatorio) sono costituiti: dalla attribuzione della rappresentanza, patrocinio e assistenza in giudizio delle “amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”, alla Avvocatura dello Stato (art. 1, comma 1); dalla non necessità del mandato (art. 1, comma 2); dalla impossibilità per le amministrazioni dello Stato di richiedere l’assistenza di avvocati del libero foro, se non per ragioni assolutamente eccezionali, inteso il parere dell’Avvocato generale dello Stato (art. 5); dalla individuazione, nelle cause in cui è parte una amministrazione dello Stato, di uno specifico foro dello Stato (art. 6); dall’obbligo della notifica degli atti giudiziali alle amministrazioni dello Stato presso l’Avvocatura dello Stato (art. 11).

3.2. La disciplina della seconda (cd. patrocinio facoltativo o autorizzato) è dettata dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, in virtù del quale l’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e difesa in giudizio di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela o vigilanza dello Stato, “sempre che ne sia autorizzata da disposizioni di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con R.D.”, e dall’art. 45, il quale dispone che per l’esercizio delle funzioni di cui ai due precedenti articoli (il riportato art. 43 e l’art. 44. concernente la difesa degli impiegati) si applica il secondo comma dell’art. 1.

La suindicata disciplina è stata integrata dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 11, che ha aggiunto all’art. 43 tre commi: il comma 3, il quale stabilisce che, qualora sia intervenuta l’autorizzazione, la rappresentanza e la difesa in giudizio è assunta dall’Avvocatura dello Stato “in via organica ed esclusiva”, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato; il comma 4, secondo cui, salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano, in casi speciali, non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza; il comma 5, che estende le disposizioni di cui ai commi precedenti agli enti regionali, previa deliberazione degli organi competenti.

3.3. Il patrocinio autorizzato per le amministrazioni non statali, secondo l’originaria disciplina dettata dagli artt. 43 e 45, si distingue da quello obbligatorio, previsto per le amministrazioni dello Stato (anche se organizzate ad ordinamento autonomo) dagli articoli da 1 a 11, sia in ragione della fonte, costituita per il primo da una espressa autorizzazione normativa, sia per i più limitati effetti processuali, consistenti, in virtù dell’espresso richiamo, nell’art. 45, all’art. 1, comma 2, nella sola esclusione della necessità del mandato. Il mancato richiamo agli artt. 6 ed 11 determina infatti l’inapplicabilità del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti per le sole amministrazioni dello Stato.

3.4. Tale diversa ampiezza di effetti sul piano della disciplina processuale, non ha subito modifiche per effetto dell’introduzione, ad opera dalla L. n. 103 del 1979, art. 11, dei tre commi aggiunti all’art. 43, ed in particolare del comma 3, secondo cui, qualora sia intervenuta l’autorizzazione, la rappresentanza e la difesa in giudizio è assunta dall’Avvocatura dello Stato “in via organica ed esclusiva”.

La piena equiparazione, sul piano degli effetti processuali, tra patrocinio obbligatorio e patrocinio autorizzato, che sarebbe stata determinata dalla espressa qualificazione della rappresentanza dell’Avvocatura come “organica ed esclusiva”, non è sostenibile.

Ben più ristretta è la portata delle integrazioni apportate dalla L. n. 103 del 1979. 1 tre nuovi commi disciplinano solo il rapporto interno tra ente autorizzato ed Avvocatura dello Stato, qualificandolo come caratterizzato da organicità ed esclusività, eccettuate le ipotesi di conflitto di interesse con lo Stato (in quanto patrocinato per legge dall’Avvocatura, impossibilitata a difendere le contrapposte parti in lite) o con le regioni (in quanto ammesse al patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dal D.P.R. n. 616 del 1977, art. 107, con eguale conseguenza), e con previsione, salve le suindicate ipotesi di conflitto, della facoltà di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato in casi speciali con delibera motivata.

La qualificazione della rappresentanza e difesa dell’Avvocatura come “organica ed esclusiva”, attiene palesemente al rapporto interno tra ente e Avvocatura dello Stato in veste di difensore. Rapporto caratterizzato da organicità, in ragione della esclusione della necessità del mandato (come del resto, già espressamente previsto dall’art. 45, mediante il rinvio all’art. 1, comma 2, per il patrocinio obbligatorio per le amministrazioni dello Stato), e da esclusività, nel senso che non è possibile per l’ente autorizzato al patrocinio dell’Avvocatura ex art. 43 non avvalersene per far ricorso ad avvocati del libero foro (eccettuati i casi di conflitto con altri enti, come lo Stato e le regioni, difesi anch’essi dall’Avvocatura), se non in casi speciali e mediante apposita delibera motivata (l’esclusività è ben più rigorosamente presidiata dall’art. 5 per le amministrazioni dello Stato).

A ciò si aggiunga che la pretesa equiparazione tra patrocinio obbligatorio e facoltativo ad opera della L. n. 103 del 1979, art. 11, con conseguente estensione della operatività delle disposizioni sul foro dello Stato (R.D. n. 1611 del 1933, art. 6 ed art. 25 c.p.c.) e sulle notificazioni alle Amministrazioni dello Stato (R.D. n. 1611, art. 11 ed art. 144 c.p.c.) anche alle amministrazioni non statali autorizzate ad avvalersi della difesa dell’Avvocatura ed agli enti regionali, in quanto produttiva di rilevanti effetti sul piano processuale anche nei confronti dei terzi in lite con tali enti, avrebbe evidentemente richiesto ben più specifica ed espressa enunciazione.

Anche dopo le integrazioni all’art. 43 apportate alla L. n. 103 del 1979, art. 11 è rimasta quindi in vita, con netta differenziazione sul piano degli effetti processuali, la distinzione tra patrocinio obbligatorio e patrocinio facoltativo o autorizzato (v., in tal senso, sent. n. 7649/97, ma v. anche, sulla diversità di regime, S.D. n. 8211/2004, con riferimento alle regioni).

4. Per quanto concerne la rappresentanza e difesa delle Università statali, prima delle modifiche al sistema universitario introdotte dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, che ha riconosciuto alle Università ampia autonomia (artt. 6 e 7), la giurisprudenza di questa Corte, nel vigore del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592 (T.U. delle leggi sull’istruzione superiore), secondo cui le Università statali sono dotate di personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare (art. 1, comma 3), in linea di principio era pervenuta a riconoscere alle Università statali natura di organi statali, essendo inserite nell’organizzazione statale, come risultava sia dall’imputazione allo Stato di almeno una parte degli atti posti in essere, sia dallo status del personale, anche docente, appartenente ai ruoli degli impiegati dello Stato, sia dalla fonte del loro finanziamento posto a carico dello Stato (S.U. n. 2546/1975, in tema di giurisdizione della Corte dei conti per i giudizi di responsabilità nei confronti di amministratori e dipendenti delle Università, e specificamente dell’Istituto orientale di Napoli; n. 256/1981, in tema di applicazione nei contratti di appalto delle Università del capitolato generale approvato con D.P.R. n. 1063 del 1962).

Un inquadramento siffatto apriva la via per ritenere che per le Università statali – almeno per gli atti posti in essere nella suindicata qualità di organi dello Stato, e non nell’esercizio della propria limitata autonomia – trovava applicazione il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 1 e seguenti, con pienezza di effetti sul piano della disciplina processuale, quanto al foro erariale (art. 6 R.D. e art. 25 c.p.c.) ed alla domiciliazione per le notificazioni (art. 11 R.D. e art. 144 c.p.c). Non risultano tuttavia espresse pronunce di questa Corte in tal senso.

5. Va ancora rilevato che una specifica disciplina circa la rappresentanza delle Università era dettata dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, secondo cui: “Le Università e gli Istituti superiori possono essere rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato nei giudizi attivi e passivi avanti l’autorità giudiziaria, i collegi arbitrali e le giurisdizioni amministrative speciali, semprechè non trattisi di contestazioni contro lo Stato”.

In tale disposizione, tenuto conto della formula utilizzata (possono essere rappresentati e difesi) va ravvisata una autorizzazione all’assunzione del patrocinio, che, coordinandosi con quanto previsto dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, integra una ipotesi di patrocinio facoltativo o autorizzato, con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza (esclusione della necessità del mandato e facoltà di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera, ma inoperatività del foro erariale e della domiciliazione per le notifiche).

Ed è a tale disciplina che in varie occasioni si è riferita la giurisprudenza di questa Corte (n. 4512/83, secondo cui, ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, comma 4, del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come modificato dall’art. 11 della legge n. 103 del 1979, l’Università può affidare la difesa ad avvocati del libero foro solo con apposita e motivata delibera; n. 1057 del 1987, che in relazione alle suindicate disposizioni riafferma il principio; n. 2321 del 1986, ancora sul tema).

6. La L. 9 maggio 1989, n. 168, con la quale è stato istituito il Ministero dell’università e della ricerca scientifica, ha dettato, nel titolo 2^, nuove norme sulla autonomia delle Università.

La legge, all’art. 6, comma 1, dispone che le Università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’art. 33 Cost., hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti; all’art. 7, nel comma 1, prevede che le entrate delle università sono costituite da trasferimenti dello Stato, da contributi obbligatori e da altre forme di autonome di finanziamento (contributi volontari, proventi di attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio, atti di liberalità e corrispettivi di contratti e convenzioni); nel comma 7, dispone che le università possono adottare un regolamento di ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme sull’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, ma comunque nel rispetto dei relativi principi.

Si tratta di una disciplina che, mentre conferma la soggettività giuridica delle Università statali, già riconosciuta dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 1, ne rafforza significativamente l’autonomia, con l’attribuzione, oltre a quella didattica e scientifica, già presente nel citato R.D., di quella organizzativa, finanziaria e contabile, e soprattutto della autonomia . normativa statutaria e regolamentare. Potestà, quest’ultima, idonea a caratterizzare le Università come ente pubblico autonomo, e non più come organo dello Stato.

Ed in tal senso depone anche la mutata natura del rapporto di lavoro dei dipendenti, dal momento che sia gli impiegati tecnici ed amministrativi (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 6, comma 5), sia anche i docenti e ricercatori (L. 24 dicembre 1993, n. 937, art. 5, commi 9 e 10) sono da considerare non più dipendenti statali bensì dipendenti dell’Ente-Università. Viene così meno, infatti, uno dei principali elementi considerati dalla sentenza n. 2546/75 a sostegno della tesi che qualificava le università come organi dello Stato.

Nè vale in contrario la persistenza del prevalente finanziamento da parte dello Stato (anch’esso valorizzato dalla citata decisione), che, mentre è coerente con la confermata qualificazione dell’Ente – Università come amministrazione pubblica, non è di per sè determinante ai fini della pretesa natura di ente-organo dello Stato.

7. Deve quindi ritenersi venuta meno la possibilità di ritenere operante per l’Ente-Università il patrocinio obbligatorio riservato, R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1, alle sole amministrazioni dello Stato ed ai loro organi.

Non meritano pertanto adesione le decisioni di questa Corte che, anche dopo la L. n. 168 del 1989, hanno continuato a qualificare le Università, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, come organi dell’amministrazione statale, con conseguente operatività della disciplina propria del patrocinio obbligatorio dettata dal R.D. n. 1611 del 1933, articoli da 1 a 11 (sent. n. 2061/94; n. 8877/97; n. 13292/99). Le menzionate sentenze non danno infatti conto dell’incidenza della L. n. 168 del 1989 sulla qualificazione delle Università, ma si limitano a richiamare la giurisprudenza risalente che qualificava le Università come organi statali (in particolare la sent. n. 2456/75). E si tratta comunque di orientamento non univoco (v. sent. n. 12346/99, che esclude l’applicabilità del foro erariale, sul rilievo che le università non sono amministrazioni dello Stato ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2).

Nè potrebbe sostenersi l’applicabilità del patrocinio obbligatorio traendo argomento dalla sua estensione, ai sensi del citato art. 1, alle amministrazioni dello Stato “anche se organizzate ad ordinamento autonomo”. L’estensione riguarda infatti una specificazione del genere “amministrazione dello Stato”, caratterizzata da ordinamento autonomo, e le Università, per quanto sopra rilevato, non possono più essere considerate amministrazioni dello Stato, bensì amministrazioni pubbliche (v. D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2) con ordinamento autonomo.

8. Se non è più predicabile la vigenza, per le Università, del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello stato del R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1 in quanto organi dello Stato, deve invece affermarsi che, anche dopo il riconoscimento delle Università come enti autonomi, in virtù della L. n. 168 del 1989, resta fermo il patrocinio autorizzato ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, con i limitati effetti di cui al R.D. n. 1611 del 1933, artt. 43 e 45 (a tale disciplina, successivamente alla L. n. 168 del 1989 hanno fatto correttamente riferimento le sentenze n. 7649/97 e n. 1086/01, entrambe in tema di facoltà, per le Università, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato affidando il mandato ad avvocati del libero foro con apposita e motivata delibera). Queste le ragioni che sorreggono l’assunto.

8.1. Il R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 non risulta espressamente abrogato dalla L. n. 168 del 1989, nè si configura abrogazione tacita per incompatibilità, poichè la citata legge non reca disposizioni in materia.

8.2. Non possono assumere rilevanza disposizioni eventualmente adottate dalle Università con il regolamento di ateneo volte ad escludere il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in deroga alla disciplina fissata dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 e del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43.

Non giova richiamare al riguardo la L. n. 168 del 1989, art. 7, comma 11, secondo cui, per ciascuna Università, con l’emanazione del regolamento di ateneo, cessano di aver efficacia le disposizioni legislative e regolamentari con esso incompatibili. Ai sensi del precedente comma 7, il regolamento di ateneo può infatti dettare soltanto norme per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme sull’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, e non può quindi recare norme in materia processuale suscettive di derogare a norme di tale natura.

8.3. Diversamente da quanto è accaduto per le istituzioni scolastiche, anch’esse oggetto di una riforma attributiva di autonomia (con la L. 15 marzo 1997, n. 59), è mancato per le Università uno specifico intervento del legislatore sul punto.

Per istituti e scuole di ogni ordine e grado, per i quali, in quanto organi dello Stato, era pacificamente operante il patrocinio obbligatorio R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1, con pienezza di effetti sul piano processuale, il D.P.R. n. 352 del 2001, dopo che con la L. n. 59 del 1997, art. 21 alle istituzioni scolastiche è stata attribuita l’autonomia e la personalità giuridica, ha infatti disposto che l’Avvocatura “continua” ad assumere il patrocinio. E l’espressione “continua” usata dalla norma rende chiara la volontà del legislatore di disporre la protrazione del patrocinio obbligatorio come in precedenza operante (v., in tal senso, ord. n. 12977/04). Per università ed istituzioni scolastiche vige quindi una disciplina differenziata quanto al patrocinio dell’Avvocatura, che appare tuttavia giustificata dalla diversa consistenza delle rispettive autonomie.

8.4. Non giova neppure richiamare le innovazioni introdotte dal D.Lgs. n. 80 del 1998 nel codice di procedura civile in materia di controversie di lavoro, con le integrazioni agli artt. 413 e 415 e l’inserimento dell’art. 417-bis.

Se può ritenersi, infatti, che le Università, pur essendo enti pubblici autonomi, siano da ricomprendere tra le amministrazioni pubbliche equiparate a quelle statali (ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2), e quindi soggette alla disciplina del codice di rito ai fini delle notificazioni (da eseguire, ai sensi dell’art. 415, u.c., presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice individuato in base al foro del dipendente di cui all’art. 413, comma 4), e della facoltà di difesa, in primo grado, avvalendosi di propri dipendenti (art. 417-bis, comma 2), va tuttavia rilevato che l’equiparazione spiega effetti soltanto per le controversie individuali di lavoro con le amministrazioni pubbliche.

E la specialità della previsione normativa osta ad una applicazione generalizzata per le controversie di altra natura.

9. Concernendo il ricorso l’Istituto orientale di Napoli, è opportuno precisare che, per le suesposte ragioni, resta altresì valido anche il R.D. n. 1592 del 1933, art. 245 che dichiara applicabili a tale Istituto le disposizioni concernenti il foro erariale (già contenute nel R.D. 30 dicembre 1923, n. 2828, capo 3^, artt. 19 e sg., ora R.D. n. 1611 del 1933, art. 6).

10. Va quindi affermato il seguente principio di diritto.

Alle Università, dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di ente pubblico autonomo, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato dal R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, artt. da 1 a 11, bensì, in virtù del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio autorizzato disciplinato dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come modificato dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 11 e art. 45 R.D. cit., con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera.

11. In conclusione il ricorso è accolto. La sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli che si atterrà all’affermato principio di diritto.

12. Al giudice di rinvio va affidata anche la pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2006.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2006


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 16-03-2006) 04-05-2006, n. 10216

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Presidente aggiunto

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione

Dott. VITTORIO Paolo – Presidente di sezione

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MORELLI Mario Rosario – rel. Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. BONOMO Massimo – Consigliere

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

L.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GORIZIA 20, presso lo studio dell’avvocato LUISELLA VALENTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato PELLEGRINO RAFFAELE, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO DI (OMISSIS), in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SAN MARINO 36, presso lo studio dell’avvocato VALERIA SALLUSTRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUROLO LANDI OSCAR, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1128/00 del Giudice di pace di NAPOLI, depositata il 14/01/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/06 dal Consigliere Dott. Mario Rosario MORELLI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso; rinvio per il resto ad una sezione semplice.

Svolgimento del processo
L.M. ricorre per Cassazione avverso la sentenza in data 14 gennaio 2000, con la quale il Giudice di pace di Napoli – pronunciando sulla opposizione da lui proposta avverso decreto ingiuntivo nei suoi confronti emesso, dallo stesso giudice, su istanza del Condominio di (OMISSIS) – ne dichiarava la improcedibilità in quanto proposta con atto notificato oltre il termine di 40 giorni di cui all’art. 641 c.p.c., a nulla rilevando – secondo quel giudice – che un precedente tentativo di notifica non fosse andato a buon fine per causa non imputabile all’opponente, il quale aveva pur consegnato l’atto in tempo utile all’ufficiale notificante.

Con i due connessi motivi dell’odierna impugnazione cui resiste il Condominio con controricorso il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 650 c.p.c. e vizi di motivazione, critica in sostanza il giudice a quo per avere esclusa la ricorrenza dei presupposti di ammissibilità della opposizione tardiva in una fattispecie, come quella in esame, in cui la mancanza di una tempestiva notifica dell’opposizione non poteva attribuirsi a responsabilità di esso opponente, ma era stata, come in fatto pacifico, determinata invece dalle errate affermazioni date all’ufficiale giudiziario da un terzo, il quale aveva riferito – contrariamente al vero – che l’avvocato, presso il quale l’intimante aveva eletto domicilio, “era sloggiato”.

Per cui, non essendo stata portata a compimento, per tal motivo, quella prima notifica, il L. si era appunto risolto a proporre una successiva opposizione tardiva, notificata, questa volta, allo stesso amministratore del Condominio.

L’esame del ricorso, così articolato, è stato rimesso dal Primo Presidente a queste Sezioni unite a seguito di ordinanza interlocutoria della Sezione seconda, per il ritenuto coinvolgimento in esso di questioni di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione
1. La peculiarità della fattispecie in esame deriva, per quanto emerge dalla narrativa, dal fatto che la non addebitabilità alla parte, della inosservanza del termine perentorio di compimento dell’atto, non viene qui in rilievo in relazione ad un procedimento notificatorio iniziato in tempo utile e, per fatto appunto indipendente dalla volontà della parte, completato in ritardo (in modo comunque continuativo rispetto alla prima richiesta), bensì rispetto ad un procedimento non portato a compimento dopo la fase di consegna dell’atto, all’ufficiale giudiziario, e del quale si tratta, pertanto, di verificare l’an, il quomodo e il quando della sua reiterabilità. 2. A fronte di una siffatta fattispecie il quesito che si pone è allora duplice.

Dovendosi, in linea logicamente e giuridicamente preliminare, innanzitutto stabilire se dal mancato completamento dell’attività di notifica per fatto non riconducibile a errore o negligenza del disponente possa o non – derivare, per lo stesso, un effetto di decadenza.

E (solo) in caso di soluzione negativa del quesito che precede, dovendosi allora ricercare nel sistema lo strumento idoneo a consentire alla parte di rinnovare la procedura non completata nella fase sottratta al suo potere di impulso, e che assicuri, nel contempo, il corretto bilanciamento delle opposte esigenze, di pari rango costituzionale, correlate, per un verso, al diritto di difesa di detta parte, incolpevolmente decaduta da una attività difensiva (e per di più esposta, come in questo caso, alla formazione in suo danno di un titolo esecutivo definitivo) e, per altro verso, all’esigenza di certezza dei tempi processuali, sottesa alla regola di improrogabilità dei termini perentori, ora anche presidiata dal canone della ragionevole durata del processo di cui al novellato art. 111 Cost..

2.1. La risposta al primo quesito è da ritenere costituzionalmente obbligata nel senso della esclusione dell’effetto di decadenza nei confronti del soggetto cui non sia addebitabile l’esito negativo della procedura di notifica.

E, ben vero, il Giudice delle leggi già con la sentenza n. 69 del 1994, relativa alla disciplina delle notifiche all’estero, aveva avuto modo di affermare che, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario della notificazione debbono coordinarsi con l’interesse del notificante a non vedersi addebitare l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità.

Questo principio, confermato dalla successiva sentenza n. 358 del 1996, è stato ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 477 del 2002 – che ne ha espressamente sottolineato la “portata generale” e la riferibilità “ad ogni tipo di notificazione” – ed ha trovato, in ulteriore prosieguo, applicazione nelle più” recenti sentenze n. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005.

Per effetto di tali pronunzie risulta così ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. Con la conseguenza, che, alla luce di tale principio, le norme in tema di notificazioni di atti processuali vanno interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso (costituzionalmente, appunto, adeguato) che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

E con l’ulteriore corollario che, ove tempestiva, quella consegna evita appunto alla parte la decadenza correlata alla inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata.

E ciò sia pur come effetto provvisorio e anticipato a vantaggio del notificante, ma che si consolida comunque col perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario; per il quale, a tal fine, rileva la data, invece, in cui l’atto è da lui ricevuto o perviene nella sua sfera di conoscibilità. 2.2. Nel caso in esame si tratta, però, non già di non far carico alla parte del ritardo nel completamento della procedura verificatosi nella fase successiva a quella di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario bensì di consentire alla stessa di rinnovare una procedura che, dopo quella consegna, non è stata portata a compimento.

Ma anche rispetto a tale seconda, e peculiare, evenienza la soluzione affermativa si impone sul piano della interpretazione costituzionalmente orientata.

Poiché è solo con la rinnovazione della notifica che, in questo caso, si realizza il contemperamento degli interessi in gioco (entrambi presidiati dalla garanzia della difesa): quello, cioè, del notificante di non vedersi addebitare il mancato esito della procedura notificatoria per la parte sottratta al suo potere di impulso e quello, del destinatario dell’atto, di essere posto in condizione di riceverlo ed approntare – nel pertinente termine (per lui decorrente da tale ricezione) – le proprie difese.

2.3. Occorre allora reperire nell’ordinamento il meccanismo idoneo ad attuare una siffatta rinnovazione della notifica, che permetta appunto alla parte di superare l’ostacolo che, non per sua colpa si è frapposto all’esercizio del suo potere. E che ciò, per altro, consenta non senza limiti di tempo, ma entro un circoscritto e predefinito arco temporale, quale coessenziale ad un processo che si svolge per fasi successive e logicamente coordinate, venendo altrimenti riconosciuto a quella parte una protezione del suo diritto di difendersi esorbitante rispetto alla ragione che la giustifica.

L’ordinamento conosce due tipologie di moduli procedimentali all’uopo utilizzabili, rispettivamente attivabili su autorizzazione del giudice in accoglimento di previa istanza della parte (secondo lo schema della rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.c., che rinvia, a sua volta, all’art. 294 c.p.c.) o direttamente dalla parte, con atto soggetto al successivo controllo del giudice quanto all’effettiva sussistenza delle ragioni che hanno impedito l’esercizio in modo tempestivo dell’attività altrimenti preclusa, secondo lo schema, appunto, dell’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c..

La scelta tra tali meccanismi non può ovviamente essere operata a discrezione dell’interprete, ma deve avvenire in base ad un criterio di autocollegamento. Nel senso che è dallo stesso sistema, o subsistema, del quale fa parte il procedimento del cui incolpevole mancato completamento si tratta che deve provenire l’indicazione del modulo procedimentale per la sua rinnovazione.

Per cui è conseguente che, nell’ipotesi in esame, sia proprio il meccanismo della opposizione tardiva (qui operante anche indipendentemente dai presupposti del caso fortuito e della forza maggiore) quello deputato a consentire all’ingiunto – entro il limite temporale di cui all’ultimo comma del citato art. 650 c.p.c. (“L’opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”) – la rinnovazione della notifica della opposizione, precedentemente mancata per causa, comunque, a lui non addebitatale.

Soluzione questa “costituzionalmente imposta” (argomentando la Corte Cost. n. 350 del 2004) anche in ragione del fatto che, altrimenti, l’inutile decorso del termine perentorio per l’opposizione, derivante da causa non imputabile alla parte onerata, determinerebbe per l’ingiunto, con la consolidazione del titolo esecutivo, l’impossibilità di agire e difendersi in giudizio per la tutela del suo diritto (cfr. anche Corte cost. 1976 n. 120).

3. Va conclusivamente quindi affermato il principio per cui, nella notifica della opposizione a decreto ingiuntivo, la tempestiva consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario perfeziona la notifica per l’opponente, evitando al medesimo anche l’effetto di decadenza, dal rimedio oppositorio, nell’ipotesi di non tempestivo o mancato completamento della procedura notificatoria per la fase sottratta al suo potere d’impulso. Con la conseguenza, in tale ultimo caso, che è in potere della parte di rinnovare la notifica con il modulo, e nel termine, della opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c..

4. La sentenza impugnata – che ha deciso in difformità – va pertanto cassata con il conseguente rinvio della causa allo stesso Giudice di pace di Napoli, in persona di diverso magistrato, cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Giudice di pace di Napoli, in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2006.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2006


Cass. civ. Sez. II, (ud. 02-02-2006) 15-03-2006, n. 5789

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

M.B.S., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZALE CLODIO 12, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO TROVATO, difeso dall’avvocato RICCOTTI FRANCESCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI RAGUSA, in persona del Sindaco pro tempore, MONTEPASCHI SERIT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza n. 9/03 del Giudice di pace di RAGUSA, depositata il 15/01/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/06 dal Consigliere Dott. Mario BERTUZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al giudice di pace di Ragusa, M.B. S. proponeva opposizione avverso la cartella esattoriale notificatagli il 21.11.2001, con cui gli veniva intimato il pagamento della somma di L. 225.800 a seguito di iscrizione a ruolo di una contravvenzione al codice della strada risalente al 16.1.1997, assumendo che il verbale di accertamento dell’infrazione non gli era stato mai notificato, con conseguente decadenza della potestà di riscossione coattiva. All’esito del giudizio, in cui si costituiva il Comune di Ragusa, con sentenza in data 15.1.2003 il giudice adito respingeva l’opposizione, rilevando che, pur non avendo l’opposto prodotto il verbale di contravvenzione notificato alla controparte, deducendo che, per prassi, al contravventore inviava l’originale, senza formazione e conservazione della relativa copia, tuttavia i documenti prodotti in atti testimoniavano che il Comune aveva provveduto, mediante il proprio servizio notificazioni per infrazioni al codice della strada, a notificare un atto al M. in data 26.4.1997, elemento questo che, unitamente alla presenza in atti di copia dell’avviso di contravvenzione, portava a ritenere che la notificazione del verbale fosse in realtà avvenuta.

Avverso questa decisione, con ricorso notificato il 7.2.2003, propone ricorso per Cassazione M.B.S., affidandosi a due motivi.

Il Comune di Ragusa non si è costituito.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di violazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, per avere la sentenza impugnata ritenuto provata l’avvenuta notifica del verbale pur in mancanza della relativa produzione documentale, stravolgendo in tal modo le regole dell’onere della prova, in questo caso totalmente a carico del Comune, e tralasciando di trarre le dovute conseguenze dall’inadempimento ad opera dell’opposto dell’ordine di produzione emesso dal giudice nel corso del giudizio.

Con il secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere il giudice esplicitato le ragioni in forza delle quali ha ritenuto non rilevante, al fine della decisione della causa, l’inadempimento del Comune al suo ordine di produrre in giudizio il verbale di contravvenzione notificato al ricorrente.

Il ricorso è fondato.

La sentenza impugnata motiva la soluzione accolta in ordine alla sussistenza della avvenuta notificazione del verbale di accertamento della infrazione sulla base di due elementi: una mera annotazione di eseguita notifica, riportante la data ma senza indicazioni del contenuto dell’atto notificato, e l’avviso di contravvenzione. Ora, a parte quest’ultimo, che palesemente è atto diverso dal verbale di accertamento, sicchè la sua esistenza nulla può dire circa la effettiva redazione e notificazione di questo, non può non osservarsi che l’annotazione in un registro, sia pure di una pubblica amministrazione, di una eseguita notifica, senza indicazione dell’atto notificato, integra un elemento privo anche di valore indiziario e comunque del tutto inidoneo a fornire la prova che un determinato atto sia stato effettivamente notificato al destinatario, prova nella specie necessaria al fine di poter superare la contestazione sollevata dal ricorrente.

L’iter logico seguito dalla decisione impugnata appare, pertanto, errato, dal momento che desume l’esistenza di un fatto il cui accertamento appare decisivo ai fini della soluzione della controversa da elementi irrilevanti ovvero privi della univocità e precisione necessaria. La sentenza va quindi cassata, con rinvio della causa ad altro giudice di pace, che provvedere anche alla liquidazione delle spese di giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice di pace di Ragusa, che provvedere anche sulle spese.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2006.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2006


Cass. pen. Sez. I, (ud. 28-02-2006) 09-03-2006, n. 8324

Notificazioni Polizia Giudiziaria

A seguito della modifica all’articolo 148 Codice di Procedura Penale, apportata dall’articolo 17 del Decreto Legge n. 144 del 2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’Ufficiale Giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi di cui all’articolo 151.
Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso in cui questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; nè può ritenersi causa di nullità non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, pertanto l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. I, 28/02/2006 C.c. (Dep. 09/03/2006), Sentenza n. 8324
(Pres. G. Fabbri,  Rel. G. Fabbri  Imp. Argentina)
UDIENZA CAMERALE DEL 15/02/2006
SENTENZA N. 634
REGISTRO GENERALE N. 045679/2005

Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. FABBRI GIANVITTORE Presidente
1.Dott.CHIEFFI SEVERO Consigliere
2.Dott.MOCALI PIERO ”
3.Dott.CORRADINI GRAZIA ”
4.Dott.PIRACCINI PAOLA ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) ARGENTINA CATALDO N. IL 27/04/1977
avverso ORDINANZA del 10/10/2005
TRIB. LIBERTA’ di TARANTO
sentita la relazione fatta dal Consigliere
FABBRI GIANVITTORE
Sentite le conclusioni del P. G. Dr. Febbraro.
Rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza dell’ 10-10-2005 il Tribunale di Taranto, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Taranto il 19-9-2005, con la quale Argentina Cataldo era stato sottoposto agli arresti domiciliari per detenzione e porto di arma da fuoco, usata per sparare contro la porta dell’abitazione di Lanza Antonio.
Il tribunale disattendeva l’eccezione di nullità dell’udienza di convalida del fermo, rilevandone la tardività.
Riteneva sussistenti a carico dell’indagato i necessari indizi in base alle dichiarazioni rese alla P.G. da Barone Rosina – ex convivente dell’indagato e poi legata a Lanza Angelo – a quelle rese da Lanza Lorenzo, fratello di Angelo, e a quelle risultanti dalla registrazione di una telefonata fra quest’ultimo e il M.llo De Leonardis. Dalle prime era emerso che l’Argentina, che possedeva un fucile, aveva minacciato di sparare a Lanza Angelo e alla sua famiglia e che la sera prima dei fatti aveva detto che nella nottata sarebbero iniziati i fuochi e la guerra contro la famiglia Lanza; dalle seconde era emerso che l’indagato aveva ripetutamente cercato di rintracciare Lanza Angelo; dalle ultime era emerso che l’Argentina aveva mostrato una doppietta con le canne mozzate e aveva minacciato di sparare a chi avesse avuto una relazione con la sua ex convivente.
Il tribunale riteneva sussistente il pericolo di reiterazione di reati e non prevedibile la concessione della sospensione condizionale della pena, per l’ontologica incompatibilità di tale beneficio con il pericolo di recidiva.
Avverso la predetta ordinanza ricorre l’indagato, deducendo due motivi.
Con il primo denuncia la violazione di legge con riferimento all’art. 148 c.p.p. Premette, in proposito, che il tribunale ha errato nel ritenere sollevata l’eccezione di nullità dell’udienza di convalida, mentre egli aveva eccepito la nullità dell’udienza per il riesame; sostiene, poi, che tale nullità — che peraltro era rilevabile anche di ufficio — sussisteva in quanto la notifica dell’avviso di udienza era stata effettuata tramite i carabinieri, contrariamente a quanto previsto dall’art. 148 comma 2 c.p.p., come modificato dal D.L. 144/2005.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 273 c.p.p. e il vizio di motivazione, sostenendo che non erano utilizzabili le dichiarazioni di Barone e Lanza Angelo, raccolte per telefono; che non è stata valutata la gravità degli indizi, semplicemente indicati; che non è stata adeguatamente motivata l’impossibilità della concessione della sospensione condizionale della pena.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, si osserva che anche a seguito della modifica all’art. 148 c.p.p., apportata dall’art. 17 del D.L. 144/2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’ufficiale giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi prevista dall’art. 151 c.p.p.
Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso che questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; né può ritenersi causa di nullità, non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, di talché l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato.
Peraltro la predetta irregolarità non può neppure considerarsi eccepita all’udienza di riesame, perché in tale sede l’eccezione risulta verbalizzata come formulata in relazione all’avviso per l’udienza di convalida del fermo, e non per quella di riesame, e che il verbale è fidefacente e non ne è stata chiesta la correzione.
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Invero dall’ordinanza impugnata risulta – contrariamente a quanto affermato dal ricorrente – che la teste Barone ha reso sommarie informazioni presso la Stazione dei Carabinieri di Angri, di talché le sue dichiarazioni sono pienamente utilizzabili.
Esse, valutate dal giudice a quo come pienamente attendibili, ben possono costituire, insieme a quelle rese da Lanza Lorenzo – anche a prescindere da quelle rese da Lanza Angelo solo telefonicamente – il quadro indiziario necessario in fase cautelare, la cui gravità è stata implicitamente ritenuta dal tribunale, nel confermare la misura dopo avere specificamente indicato i predetti indizi, e può ritenersi sussistente anche indipendentemente dalle dichiarazioni telefoniche di Lanza Angelo, in base alla cosiddetta prova di resistenza che può essere effettuata anche in sede di legittimità (Sez. U. 25-2-1998, Gerina; I,  13-11-2001, Postiglione; I, n. 1495 del 2-12-1998, Archinà e altri, rv. 212274).
La valutazione della non prevedibilità della concessione della sospensione condizionale della pena è stata effettuata in conformità al sistema giuridico e in maniera non manifestamente illogica, perché l’accertamento del pericolo di reiterazione di reati vale a configurare un giudizio prognostico negativo che è ostativo alla concessione del predetto beneficio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cosi deciso in Roma, il 28 febbraio 2006.
M A S S I M E
1) Procedure e varie – Polizia Giudiziaria – Notifiche – Effetti. E’ tuttora possibile l’effettuazione di notificazioni da parte della polizia giudiziaria. Costituisce infatti mera irregolarità la violazione della disposizione dell’art. 148 co. 2 cpp che, introdotta dall’art. 17 del d.l. n. 144/05, ha escluso la possibilità che le notifiche, in via generale, siano eseguite dalla P.G. Pres. Fabbri; Est. Fabbri; Imp. Argentina. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. I, 9 marzo 2006 (c.c. 28 febbraio 2006), sentenza n. 8324
2) Procedure e varie – Polizia giudiziaria – Organo di notificazione – Competenza e limiti – Fattispecie – Artt. 148 e 151 c.p.p. – Art. 17 del D.L. 144/2005. A seguito della modifica all’art. 148 c.p.p., apportata dall’art. 17 del D.L. 144/2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’ufficiale giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi prevista dall’art. 151 c.p.p.. Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso che questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; né può ritenersi causa di nullità, non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, di talché l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato. Pres. Fabbri; Est. Fabbri; Imp. Argentina. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. I, 9 marzo 2006 (c.c. 28 febbraio 2006), sentenza n. 8324


Cass. civ. Sez. V, (ud. 10-01-2006) 01-02-2006, n. 2223

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente

Dott. RUGGIERO Francesco – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

C.A.M., C.P., S.L.;

– intimati –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte (Torino), Sez. 23, n. 123/23/98, del 28 maggio 1998, depositata il 14 luglio 1998, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 10 gennaio 2006 dal Relatore Cons. Dott. Raffaele Botta;

Preso atto che nessuno è presente per le parti;

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La controversia concerne una convenzione stipulata il 8 novembre 1991 relativamente alla dilazione dell’imposta di successione dovuta dagli intimati nella loro qualità di eredi di C.G.: i contribuenti hanno proposto ricorso al Giudice tributario avverso la pretesa dell’Ufficio di ottenere il pagamento degli interessi sulla dilazione nella misura del 9%, prevista dalla nuova normativa di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 38, in luogo di quella del 5% prevista dalla normativa vigente all’epoca dell’apertura della successione (27 dicembre 1989). L’impugnazione – rigettata in primo grado sulla base della considerazione che la convenzione relativa alla dilazione conteneva una clausola che faceva “salva l’eventuale variazione degli interessi legali” – era accolta in grado di appello, con la sentenza in epigrafe, che riteneva inapplicabile nella specie la nuova disciplina sulla base della disposizione di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 63.

Avverso tale sentenza, l’Amministrazione finanziaria propone ricorso per Cassazione con unico motivo. I contribuenti non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso, l’amministrazione denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 38, comma 2, e art. 63, art. 1418 c.c. e art. 11 preleggi, sostenendo che la convenzione di dilazione, in ragione della propria autonomia, “costituendo un atto eventuale ed ulteriore del procedimento di riscossione, deve ritenersi disciplinata dalla “legge vigente al momento del suo venire in essere”: ad avviso della parte ricorrente, “nella misura in cui la legge detta disposizioni ad hoc per la concessione di dilazione, tali disposizioni saranno applicabili a tutte le dilazioni intervenute sotto la vigenza delle norme stesse, a meno di non voler dare al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 63, un significato di ultrattività della norma abrogata che l’art. 63 non intende certo attribuire”.

Il motivo è infondato. Secondo l’orientamento costantemente espresso da questa Suprema Corte, “l’art. 38, secondo comma del D.Lgs. n. 346 del 1990, in tema di interessi per il caso di dilazione del pagamento dell’imposta di successione, non si applica, ai sensi dell’art. 63 della stessa normativa, per le successioni che si siano aperte anteriormente al 1 gennaio 1991, anche se posteriore a detta data si riveli la concessione della dilazione in questione” (così cfr. Cass. n. 8823/2000; e, nella stessa prospettiva, cfr. Cass. nn. 3840/1999;

9685/1999; 8773/2000; 8779/2000; 7325/2003).

Il ricorso deve essere, quindi, rigettato. In ragione della mancata costituzione dei contribuenti non occorre provvedere sulle spese.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2006.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2006


Cass. civ. Sez. II, (ud. 23-06-2004) 01-07-2005, n. 14033

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CALFAPIETRA Vincenzo – Presidente

Dott. NAPOLETANO Giandonato – rel. Consigliere

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. TRECAPELLI Giancarlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

NUVOLA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PETRILLO, St. Tremonti rappresentato e difeso dall’avvocato PESCATORE SABATO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

LA SALA SALVATORE, elettivamente domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR, presso la CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREOTTOLA SAVERIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1273/01 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 11/05/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/06/04 dal Consigliere Dott. Giandonato NAPOLETANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per inammissibilità primo motivo rigetto nel resto.

Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Napoli, decidendo sul gravame proposto dalla Nuvola S.r.l. avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Ariano Irpino aveva rigettata la opposizione proposta, con atto di citazione in data 10 aprile 1994, dall’appellante avverso il decreto ingiuntivo di pagamento della somma di L. 8.576.660 a favore di Salvatore La Sala, con sentenza resa in data 11 maggio 2001 ha dichiarato inammissibile l’appello, perchè proposto oltre il termine di gg. 30 dalla notifica della sentenza impugnata -.

Esaminando l’eccezione di inesistenza o nullità della notifica della sentenza, in quanto eseguita al domicilio eletto in primo grado nonostante che il procuratore della Nuvola s.r.l. presso il quale il domicilio era stato eletto, avesse trasferito il suo studio in altro luogo fin dal 1996, il Giudice d’Appello ha ritenuto che detta notifica, eseguita a mani del portiere dello stabile del domicilio eletto, avesse conseguito il proprio scopo, poichè l’atto notificato era stato dal portiere consegnato al procuratore destinatario e da quest’ultimo prodotto in giudizio – Conseguentemente, l’impugnazione, proposta oltre il termine di gg. 30 dalla consegna della sentenza al portiere, doveva essere dichiarata inammissibile.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Nuvola s.r.l., affidandosi a tre motivi -.

Resiste con controricorso Salvatore La Sala -.

Motivi della decisione
Va premesso l’esame dei motivi secondo e terzo, il cui accoglimento potrebbe assorbire l’esame del primo motivo, poichè, mentre quest’ultimo attiene al merito della domanda, i motivi secondo e terzo attengono alla declaratoria d’inammissibilità dell’appello – Col secondo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione ed erronea applicazione degli artt. 285, 170, co. 1 e 141, co. 1 e 4, cod. proc. civ., adducendo che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, la notificazione della sentenza di primo grado doveva essere considerata inesistente o nulla, poichè, eseguita in un luogo che, a causa del trasferimento in altro luogo dello studio del procuratore di essa ricorrente nel giudizio di primo grado, non aveva più alcun riferimento col destinatario della notificazione. Peraltro, soggiunge la ricorrente, la notificazione doveva essere perfezioni con l’avviso raccomandato al destinatario, essendo stata eseguita a mani del portiere dello stabile -.

Col terzo motivo la ricorrente denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 156 cod. proc. civ., in relazione all’art. 327 cod. proc. civ., nonchè omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, osservando che, nel ritenere raggiunto lo scopo della notificazione in conseguenza della consegna del plico dal portiere al procuratore domiciliatario, il Giudice d’Appello ha trascurato di considerare che detta consegna era avvenuta soltanto in data 25 febbraio 2001, come da dichiarazione del portiere prodotta in giudizio, mentre la notifica era stata eseguita il 23 novembre 1999 -.

Le censure sono fondate -.

Non v’è dubbio che la notificazione della sentenza di primo grado al fine della decorrenza del termine breve di impugnazione, da eseguirsi, al sensi dell’art. 285 cod. proc. civ., a norma dell’art. 170, co. 1 e 3, stesso codice, sia stata nel caso in esame eseguita invalidamente, poichè il procuratore della destinataria, Nuvola s.r.l., costituito nel giudizio di primo grado, presso il quale la notificazione doveva essere eseguita, aveva trasferito il proprio ufficio in altro luogo (la circostanza è pacifica), con la conseguenza che la notificazione doveva essere effettuata nel luogo in cui l’ufficio era stato trasferito -.

E’ stato, infatti, più volte affermato da questa Suprema Corte il condiviso principio di diritto secondo cui in tal caso la notificazione dev’essere effettuata “al domicilio reale del procuratore (quale risulta dall’albo, ovvero dagli atti processuali, come nel caso di timbro apposto su comparsa conclusionale di primo grado) anche se non vi sia stata rituale comunicazione del trasferimento alla controparte. Ed, infatti, il dato del riferimento personale prevale su quello topografico, e non sussiste alcun onere del procuratore di provvedere alla comunicazione del cambio di indirizzo; tale onere è previsto, infatti, per il domicilio eletto autonomamente, mentre l’elezione operata dalla parte presso lo studio del procuratore ha solo la funzione di indicare la sede dello studio del procuratore, sicchè costituisce onere del notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad indicare il luogo di notificazione” (Cass, 13 marzo 1998, n. 2740; confermano l’indirizzo Cass. 18 giugno 1999, n, 6098; Cass., 7 giugno 2002, n. 8287) -.

Pertanto, deve ritenersi nulla la notificazione de qua, perchè eseguita a mani del portiere di uno stabile nel quale lo studio del procuratore della Nuvola S.r.l. non aveva più sede.

Il Giudice d’Appello, che, pur non avendo affrontato ex professo il problema della validità della notificazione, si è reso conto della serietà dell’eccezione sollevata dall’appellante, ha ritenuto di risolvere il problema ricorrendo all’istituto della sanatoria prevista dall’ultimo comma dell’art. 156 cod. proc. civ. – Ha ritenuto che la produzione in giudizio da parte del procuratore dell’appellante del plico raccomandato, che gli era stato consegnato dal portiere, a mani del quale la notificazione era stata eseguita, dimostrasse l’avvenuto raggiungimento dello scopo della notificazione.

Senonchè, dovendosi determinare la tempestività della proposizione dell’appello ai sensi degli artt. 325 e 326 cod. proc. civ., assumeva valore decisivo l’accertamento della data in cui era avvenuta la consegna del plico dal portiere al procuratore, anche perchè l’appellante assumeva, producendo, all’uopo, dichiarazione del portiere, che tale consegna si era verificata il 25 febbraio 2001 quando, ormai, il termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza, avvenuta il 23 novembre ’99, era abbondantemente scaduto Solo tale accertamento avrebbe consentito di stabilire se l’appellante fu messo in grado di osservare il termine breve per l’impugnazione.

L’accoglimento dei motivi esaminati assorbe il primo motivo -.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rinvio, anche per il regolamento dell’onere delle spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Napoli, che giudicherà, accertando, al fine di stabilire l’ammissibilità dell’appello nel termine breve di cui agli artt. 325 e 326 cod. proc. civ., la data in cui il plico raccomandato contenente la sentenza di primo grado, notificata ai sensi dell’art. 285 cod. proc. civ., fu consegnato al procuratore della Nuvola s.r.l. dal portiere dello stabile in cui aveva precedentemente sede l’ufficio del procuratore stesso -.

P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi secondo e terzo del ricorso, dichiarando assorbito il primo;

cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Napoli – .

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 23 giugno 2004.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2005


Corte Suprema di Cassazione, Sez. I, n. 9914 del 11-05-2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA PER LE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI PRATO, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. CARDUCCI 4, presso lo STUDIO MORBIDELLI – TRAINA, rappresentato e difeso dagli avvocati MORBIDELLI GIUSEPPE, DUCCIO M. TRAINA, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2053/00 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 13/12/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2004 dal Consigliere Dott. Salvatore DI PALMA;

udito per il ricorrente, l’Avvocato POLIZZI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente, l’Avvocato MALNATI, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1.1 Con citazione del 13 ottobre 1992, il Ministro delle Finanze convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Firenze, il Comune di Prato, esponendo che, con rapporto del 6 febbraio 1992, il Direttore dell’Ufficio del Registro di Prato aveva segnalato la mancata notificazione nei termini di n. 543 verbali per tasse automobilistiche, di cui era maturata la prescrizione, con conseguente danno all’erario di euro 1.701.907.870, oltre interessi maturati e maturandi, nonché la mancata notificazione di n. 1481 intimazioni, sempre relative a tasse automobilistiche, con ulteriore danno erariale di L. 612.383.645; e che l’omissione delle notificazioni era stata determinata dal fatto che il Sindaco del Comune di Prato si era rifiutato di farle eseguire a cura dei competenti uffici comunali per asserite difficoltà di tali uffici.

Tanto esposto, l’Amministrazione delle Finanza, deducendo la responsabilità del Comune convenuto ai sensi dell’art. 28 Cost. e degli artt. 261, 275, 273 e 274 del t.u. della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. n. 383 del 1934, ne chiese la condanna al pagamento della somma di L. 2.314.291.335 a titolo di risarcimento del danno, oltre rivalutazione ed interessi legali.

Costituitosi, il Comune di Prato – nel chiedere la reiezione della domanda, ovvero, in subordine la riduzione del quantum richiesto tenendo conto del concorso di colpa dell’Amministrazione attrice – dedusse, in primo luogo, che la legge n. 142 del 1990 aveva abrogato gli artt. 273 e 274 del t.u. del 1934, sui quali era stato fondato l’obbligo del Comune di cooperazione con l’Amministrazione finanziaria; e, in secondo luogo, che, in ogni caso, mancava, nel comportamento del Comune, qualsiasi elemento di colpa, avuto riguardo all’elevatissimo numero di atti da notificare ed allo scarso numero di messi comunali in servizio (sei, rispetto ad una pianta organica che ne prevedeva dodici) e tenuto conto che le notificazioni richieste superavano di gran lunga la capacità di smaltimento dell’ufficio dei messi; in via subordinata, dedusse, altresì, che esisteva un gravissimo concorso di colpa dell’Amministrazione finanziaria, la quale pretendeva di far notificare entro sei mesi un numero di circa 7000 atti, che erano relativi ad accertamenti che l’Ufficio del Registro avrebbe potuto effettuare due anni e mezzo prima, trattandosi di tasse automobilistiche afferenti all’anno 1988, e che erano stati trasmessi all’Amministrazione comunale con grave ritardo.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 1367 del 21 maggio 1998, rigettò la domanda.

1.3 A seguito di appello del Ministro delle Finanza, cui resistette il Comune di Prato, la Corte d’Appello di Firenze, con sentenza n. 2053 del 13 dicembre 2000, rigettò l’appello.

In particolare, la Corte fiorentina ha così, tra l’altro, testualmente, motivato: A1)- “Va disatteso il primo motivo di gravame, atteso che il primo Giudice ha correttamente valutato l’incidenza nel caso di specie dell’abrogazione degli artt. 273 e 274 T.U. n. 383/34 come quella che ha fatto venir meno l’obbligo in linea generale per i comuni (e le province) di provvedere alle notifiche a messo dei nessi comunali nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria”. In realtà, come rilevato dal primo Giudice, una responsabilità del Comune di Prato… per l’omessa notifica nei termini dei processi verbali per tasse automobilistiche, con conseguente prescrizione del credito dall’Amministrazione, non può che fondarsi sull’esistenza di un obbligo, per il Comune, di provvedere alle notificazioni richieste… E’ assorbente e decisivo al riguardo il rilievo che l’abrogazione dell’art. 273 ad opera della legge 142/90 ha all’evidenza caducato detto obbligo di carattere generale ed indifferenziato, non essendo detto obbligo stato ribadito da altra nuova norma di pari portata. Ed il fatto che la L. n. 142/90 abbia confermato l’obbligatorietà dell’apprestamento del servizio comunale dei messi notificatori non è, di per se, sufficiente a fondare l’assunto, atteso che i messi notificatori comunali hanno la principale ragione di esistere in relazione alla notificazione degli atti dell’Amministrazione cui appartengono (comune e provincia);

restando indimostrata – e anzi contraddetta dallo spirito e dalla lettera della legge 142/90, come si è sopra rilevato – la sussistenza di un obbligo generale di notificazione di atti provenienti da altri soggetti pubblici”. A2)- “Ne vale da parte del Ministero invocare a fondamento della sua tesi l’esistenza di altre norme di legge dalle quali trarrebbe ‘un principio generale, oltre che una disciplina comunque applicabile in via analogica anche al caso di specie. In realtà, le norme richiamate (il D.P.R. 633/72 sull’IVA, l’art. 60 D.P.R. in materia di accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. 602/73, ecc.) sono tutte norme che prevedono specifici casi nei quali gli atti dell’Amministrazione centrale ivi indicati possono essere notificati anche mediante messi comunali.

Ebbene, l’applicazione analogica di tali norme appare impossibile, trattandosi chiaramente di leggi che, nel quadro normativo mancante della regola generale dell’art. 273 T.U. cit., fanno eccezione alla regola generale dell’utilizzo dei messi per la notificazione degli atti dell’amministrazione cui appartengono e che in tale eccezione trovano la loro ragion d’essere. E’, al riguardo, malamente invocato dal Ministero delle finanze l’art. 37 D.P.R. 39/53 (disciplinante il pagamento e la riscossione delle tasse automobilistiche) vigente all’epoca dei fatti di causa in relazione alla notifica prevista dall’art. 39 L. 07.01.1929 n. 4, dal momento che tale ultimo articolo è stato, in una con l’intero capo terzo della L. n. 4/1929, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza 27.03.1969 n. 60″. A3)- “Del pari sterile è il richiamo di parte appellante alla giurisprudenza sia dalla S.C…. che del Giudice amministrativo…. E’ invero agevole rilevare al riguardo che tanto Cass. 1341/91…. quanto la altra indicata si riferiscono tutte a fattispecie verificatesi negli anni ’80 sotto il vigore dei più volte citati artt. 273 a 274 R.D. n. 393/1934, espressamente richiamati in tali pronunce, oltre all’eventuale specifica disposizione relativa all’esaminato caso di specie, come quelli fondanti l’obbligo di notifica (in via generale) dei comuni-.”. B)- “Discende dalle considerazioni sopra esposte la non configurabilità, nel caso di specie, del mandato ex lege fra Amministrazione finanziaria e Comune appellato in conseguenza della specifica richiesta di notifica avanzata nella specie dalla prima al secondo in ordine al quale è incentrato il secondo motivo di gravame e che potrebbe trovare la sua fonte soltanto nell’escluso, all’epoca dei fatti di causa, obbligo di legge in via generale a carico dei comuni per le notifiche da eseguire nell’interesse dell’Amm.ne centrale. E l’inesistenza nella fattispecie di siffatto mandato ex lege comporta la radicale infondatezza delle ulteriori censure… sviluppata da parte appellante nel secondo e terzo motivo di impugnazione”. 1.3 Avverso tale sentenza il Ministro delle Finanze ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo un unico motivo di censura, illustrato con memoria.

Resiste, con controricorso illustrato da memorie, il Comune di Prato.

Motivi della decisione

2.1 Con l’unico motivo (con cui deduce “Violazioni e falsa applicazione degli artt. 37 d.P.R. 5.2.1953 n. 39, 39 l. 7.1.29 n. 4, 56 d.P.R., 632/72, 32 d.P.R. n. 636/1972, 60 d.P.R. n. 600/1973, 26 d.P.R. n. 602/1973, 3 l. 853/7, 14 l. n. 890/1982 e 127 d.P.R. n. 43/1988, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo che, nonostante la formale abrogazione dell’art. 273 del T.U. n. 383 del 1934, persisterebbe nell’ordinamento un principio di carattere generale che imporrebbe ai comuni la predisposizione del servizio di notificazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria, come sarebbe dimostrato dalla circostanza che l’art. 10 della legge n. 205 del 1999 non che abolire il servizio medesimo lo avrebbe reso oneroso; e sottolineando che l’approccio della sentenza al combinato disposto degli artt. 37 del d.P.R. n. 39 del 1953 e 39 della legge n. 4 del 1929, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 60 del 1969, sarebbe errato, nella misura in cui la pronuncia di incostituzionalità non avrebbe travolto la norma che impone la collaborazione dei comuni per la notificazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria relativi alle tasse automobilistiche.

2.2 Il ricorso deve essere respinto – previa correzione ed integrazione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384 comma 2 cod. proc. civ., essendo il suo dispositivo conforme al diritto – in base alle considerazioni che seguono.

A) – secondo quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, nonchè dagli scritti difensivi delle parti, debbono considerarsi pacifiche le seguenti circostanze: 1)- gli atti – la cui notificazione ai destinatari, a mezzo messi comunali, è stata richiesta dall’Ufficio del registro di Prato al Comune di quella Città – sono tutti afferenti all’omesso od insufficiente pagamento della tassa di possesso di autoveicoli relativa all’anno 1988 e sono costituiti, in parte (n. 5643 atti), da processi verbali di accertamento delle corrispondenti violazioni e, in parte (n. 1481 atti), da ingiunzioni di pagamento per il recupero dei tributi evasi e delle soprattasse; 2)- le predette richieste di notificazione sono state formulate nell’anno 1991 (cfr. Ricorso, pag. 2).

B) – Le contrapposte argomentazioni difensive impongono, all’evidenza, di individuare, alla luce delle sottolineate circostanze, la disciplina applicabile alla fattispecie ratione temporis e, in particolare, di stabilire se, allorquando – nel 1991, appunto – l’Ufficio del registro di Prato chiese al Comune di quella Città di eseguire la notificazione dei su ricordati atti, esistesse una disciplina particolare – o, comunque, un principio generale evincibile dall’ordinamento – che potesse porsi a fondamento dell’invocato obbligo, a carico del Comune richiesto, di eseguire le notificazioni stesse e, quindi, giustificare come legittima l’azione risarcitoria proposta (cfr., supra, n. 1.1).

C)- E’ noto che i commi 4 e 5 dell’art. 273 del R.d. 3 marzo 1934 n. 383 (Approvazione del t.u. della legge comunale e provinciale), nel dettare la disciplina della nomina e delle funzioni dei messi comunali e provinciali, disponevano, rispettivamente, che “il messo comunale e quello provinciale sono autorizzati a notificare gli atti delle rispettive amministrazioni per cui non siano prescritte speciali formalità” (comma 4) e che “messi dei comuni e delle province possono anche notificare atti nell’interesse di altre amministrazioni pubbliche che ne facciano richiesta a quella da cui essi rispettivamente dipendono” (comma 5); e che il successivo art. 274 prescriveva che “salvo che non sia disposto altrimenti, i comuni e le province sono tenuti a compiere senza corrispettivo gli atti che siano loro commessi dalla legge nell’interesse generale”.

Mentre l’art. 273 comma 5 poneva – in attuazione del generale principio del dovere di cooperazione tra amministrazioni pubbliche – una norma “abilitativa” dei predetti messi a notificare, previa esplicita richiesta, (oltre agli atti delle “proprie” amministrazioni, anche) atti provenienti da amministrazioni pubbliche diverse da quelle (comune e provincia) da cui gli stessi dipendevano – come emerge chiaramente dal coordinamento testuale dei due commi citati (“il messo comunale e quello provinciale sono autorizzati a notificare gli atti delle rispettive amministrazioni (comma 4)”; “i messi dei comuni e delle province possono anche notificare atti nell’interesse di altre amministrazioni pubbliche (comma 5)”, l’art. 274 ribadiva il generale dovere delle amministrazioni comunali e provinciali di “compiere senza corrispettivo” ogni atto che la legge stabilisse nell’interesse generale. Coordinando le due disposizioni, ne risultava il generale dovere dei messi comunali e provinciali di eseguire – a condizione che la legge prevedesse anche in capo agli stessi il potere di eseguirle – le notificazioni di atti loro richiesti da “altre” amministrazioni pubbliche.

Del resto, questa corte (cfr., e pluribus, sentt. nn. 878 del 1984, 2186 del 1987, 2083 del 1990, 13411 del 1991, 10929 del 1997, 711 del 2002 – tutta pronunciata a s.u. – nonché 5069 del 1997, 5987 del 1998, 10263 del 2000, 11469 del 2004) – nell’affermare costantemente il principio, secondo cui, quando l’amministrazione finanziaria, avvalendosi dalla facoltà attribuitale dalla legge provveda alla notificazione degli avvisi di accertamento, o di altri atti, a mezzo dei messi comunali, facendone richiesta all’amministrazione comunale dalla quale questi dipendono, sorge un rapporto di preposizione, che deve essere qualificato come mandato ex lege, la cui violazione può costituire fonte di responsabilità contrattuale – ha sempre fondato, nella fattispecie sottoposte al suo esame, il legittimo esercizio del predetto potere di avvalimento e, quindi, la nascita del mandato su specifiche norme attributive di tale potere, pur ricollegandolo, per così dire sullo sfondo, ai principi emergenti dagli artt. 273 e 274 del R.d. n. 383 del 1934, ma soltanto nei casi in cui queste disposizioni potassero considerarsi ancora vigenti.

E’, altresì, noto che la predette disposizioni sono state espressamente abrogate dall’art. 64 co. 1 lett. c) della legge 8 giugno 1990 n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) con affetto del 13 giugno 1990 (cfr. art. 65; cfr., altresì, l’art. 274 comma 1 lett. a (“Sono o restano abrogate le seguenti disposizioni: a) regio decreto 3 marzo 1934 n. 383”) del d.lgs. 18 agosto 3000 n. 267, che ha approvato il t.u. delle leggi sull’ordinamento dagli enti locali).

E, intervenuta tale abrogazione, questa Corte (cfr. sent. n. 14854 del 2000) ha affermato la nullità della notificazione eseguita da masso comunale in mancanza di una specifica norma attributiva del potere di avvalimento.

Principi generali in materia di notificazione dagli atti delle pubbliche amministrazioni, del tutto diversi da quelli desumibili dalle predette disposizioni del t.u. del 1934, sono evincibili dalla disciplina dettata dall’art. 10 della legge 3 agosto 1999 n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia a ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990 n. 142), vigente dal 21 agosto 1999 e mantenuto in vigore dall’art. 274 comma 1 lett. qq) del già citato d.lgs. n. 267 del 2000.

Infatti, il comma 1 di tale articolo dispone: “Le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1 comma 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, e successive modificazioni, possono avvalersi, per le notificazioni dei loro atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle altre forme di notificazione previste dalla legge”. E, mentre i commi 2 e 3 prevedono a favore del comune il rimborso delle spese e la corresponsione di un “corrispettivo” per la notificazione di ciascun atto nell’interesse dell’amministrazione pubblica richiedente, il successivo comma 5 – nel sostituire il primo comma dell’art. 12 della legge 20 novembre 1982 n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari) – stabilisce: “Le norme sulla notificazione dagli atti giudiziari a mezzo della posta sono applicabili alla notificazione degli atti adottati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1 comma 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, e successive modificazioni, da parte dell’ufficio che adotta l’atto stesso”.

Del resto, già l’art. 14 comma 1 primo periodo della legge 20 novembre 1982 n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari) – nel testo modificato dall’art. 20 comma 1 della legge 8 maggio 1998 n. 146, con decorrenza dal 15 maggio 1998 – aveva stabilito esplicitamente, tra l’altro, che “la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonché, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali, ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo la modalità previste dalla presente legge”. Ed anche a voler ritenere che tale disposizione, anteriormente alle modificazioni apportate nel 1998 (riportate in corsivo), potesse fondare il predetto potere di avvalimento dei messi comunali, deve sottolinearsi che il secondo periodo del medesimo comma dell’art. 14 fa “salve”, tra l’altro, “le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta” sicché, e innanzitutto a tali leggi che l’interprete deve rivolgere la propria attenzione (V., infra, lett. D).

Orbene, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 20 della legge n. 146 del 1998 e dell’art. 10 della legge n. 365 del 1999, il legittimo esercizio, da parte delle amministrazioni pubbliche, del potere di avvalimento dei messi comunali per le notificazioni di loro atti risulta ormai – a differenza della previgente disciplina – meramente “residuale”, subordinato com’è alle rigorose condizioni, rispettivamente, che la notificazione diretta a mezzo del servizio postale, da parte dell’Amministrazione finanziaria, “risulti impossibile” e che “non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle altre forme di notificazione previste dalla legge”.

Ma è del tutto evidente che siffatta disciplina – pure richiamata dall’Avvocatura erariale, al fine di dimostrare la perdurante esistenza, anche dopo l’abrogazione dei citati artt. 273 e 274 del R.d n. 383 del 1934, dell’”obbligatorietà dell’apprestamento del servizio” – è, comunque ed a prescindere da altre pur possibili osservazioni, inapplicabile alla fattispecie, perfezionatasi nel 1991, ratione temporis.

Sicchè, può concludersi che, in ogni caso, nel periodo intercorrente tra l’abrogazione degli artt. 273 e 274 citt. – 13 giugno 1990 – e l’entrata in vigore dell’art. 10 della legge n. 265 del 1999 – 21 agosto 1999 – il legittimo esercizio, da parte delle amministrazioni pubbliche, del potere di avvalimento dei messi comunali per le notificazioni di loro atti presuppone che sia individuabile nell’ordinamento uno specifico fondamento legislativo, che attribuisca all’amministrazione interessata il predetto potere di avvalimento.

D) – Trattandosi, dunque, nella specie, di richieste di notificazione di processi verbali di accertamento e di ingiunzioni di pagamento – afferenti ad omesso e/o insufficiente pagamento della tassa di possesso di autoveicoli, relativa all’anno 1988 – formulate nel 1991, la disciplina applicabile – contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata (la cui motivazione in diritto deve essere, pertanto, corretta la parte qua) ed a quanto reputato dalle parti, che fanno riferimento al combinato disposto degli artt. 37 del d.P.R. 5 febbraio 1953 n. 39 (Testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche) e 39 comma 1 della legge 7 gennaio 1929 n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie) – è quella dettata dalla legge 24 gennaio 1978 n. 27 (Modifiche al sistema sanzionatorio in materia di tasse automobilistiche), entrata in vigore l’11 aprile 1978 (v. art. 6 comma 1) ed attualmente vigente (v., infra, lett. E), confermata dall’art. 5 comma 50 del d.l. 30 dicembre 1982 n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni (in realtà, la legge di conversione ha sostituito integralmente il contenuto del decreto-legge), nella legge 28 febbraio 1983 n. 53 (v., infra, lett. E).

L’art. 1 comma 1 della legge n. 27 del 1978 prevede, tra l’altro, l’applicazione, “in deroga alle disposizioni dell’articolo 5 della legge 7 gennaio 1929 n. 4”, delle “soprattasse stabilite nella tabella annessa alla premente legge”, “per il mancato o insufficiente pagamento delle tasse automobilistiche e per l’inosservanza delle altre disposizioni del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953 n. 39, e successive modificazioni, e delle singole leggi delle Regioni a statuto ordinario sulla tassa regionale di circolazione, nonché per il mancato o insufficiente pagamento dell’abbonamento all’autoradio”.

I numeri 1 e 2 della annessa “tabella delle infrazioni” prevedono, rispettivamente, come “titolo della infrazione” la “circolazione senza il pagamento della tassa” e la “circolazione con pagamento della tassa in misura inferiore a quella dovuta” e, come “misura della soprattassa”, rispettivamente, quella “pari a tre volte la tassa annua dovuta, oltre il pagamento del tributo evaso” e quella “pari a tre volte la differenza tra la tassa annua dovuta e quella pagata rapportata ad anno, oltre al pagamento della differenza di tassa”.

L’art. 2 disciplina il procedimento relativo all’accertamento della predetta violazioni, nonchè alla riscossione dei tributi evasi e della soprattassa. Il potere di accertamento – il cui esercizio deve essere formalizzato in apposito “processo verbale” – è attribuito agli ufficiali ed agenti dalla polizia tributaria, agli organi indicati nell’art. 38 del d.P.R. n. 39 del 1953 e nell’art. 138 del previgente codice della strada, approvato con d.P.R. n. 393 del 1959, “nonchè dai direttori e procuratori del registro nell’ambito del proprio ufficio e nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali” (comma 1).

I commi 2 e 3 dell’articolo in esame regolano la notificazione del verbale, distinguendo l’ipotesi in cui sia possibile la notificazione contestuale all’accertamento da quella in cui la notificazione stessa avvenga successivamente nel primo caso, la notificazione e eseguita dall’agente accertatore; nel secondo, dall’ufficio o dal comando da cui il verbalizzante dipende “anche mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento”. Dai primi tre commi dell’art. 2 si deduce, quindi, sia pure in prima approssimazione, che, nelle ipotesi in cui la violazione sia stata accertata dai direttori a procuratori del registro, e l’ufficio del registro che deve eseguire la notificazione dal verbale.

Il comma 6 dispone: “L’ufficio o il comando innanzi indicati trasmettono l’originale del processo verbale, con le prove della eseguita notificazione, all’ufficio del registro, nella cui circoscrizione la violazione è stata accertata, che provvede alla riscossione dei tributi evasi e delle soprattasse”.

Il comma 7 prevede che, “se il trasgressore non si avvale del beneficio della riduzione ad un terzo delle soprattasse previsto dalla nota in calce alla tabella annessa alla presente legge, l’ufficio del registro emette a suo carico ingiunzione di pagamento per il recupero dei tributi evasi e delle soprattasse nella misura intera”. Anche quast’ultima disposizione si riferisce, con ogni evidenza, alla fattispecie, tenuto conto che il secondo gruppo di atti, trasmesso per la notificazione al Comune di Prato, ha ad oggetto proprio n. 1841 ingiunzioni di pagamento (V, supra, lett. A).

L’analisi di tale disciplina mostra chiaramente che nè per la notificazione dei processi verbali, ne per quella delle ingiunzioni di pagamento emessa dall’ufficio del registro è previsto esplicitamente – rispettivamente, in capo all’ufficio o al comando da cui dipenda l’agente accertatore, ovvero in capo all’ufficio del registro – il potere di avvalimento dei messi comunali.

Escluso che, in tal senso, possa farsi riferimento, ratione temporis, come già sottolineato (v., supra, lett. C), agli artt. 273 e 274 del R.d. n. 383 del 1934, non è nemmeno invocabile l’art. 14 della legge n. 890 del 1982 (nel testo precedente alle modificazioni introdotte nel 1998), perchè la legge n. 27 del 1978 è certamente lex specialis (“singola legge di imposta”) rispetto a quella del 1982, che fa salve, appunto, “le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta”.

Orbene, per quanto attiene alla notificazione dei processi verbali di accertamento, la legge n. 27 del 1978 prevede specifiche modalità di notificazione degli stessi sia per la notificazione “contestuale” all’accertamento, che si esegue “mediante consegna di una copia del verbale” al proprietario ed al conducente da parte dell’agente accertatore, sia per quella successiva all’accertamento, che deve essere eseguita, “anche mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento”, entro il termine perentorio di novanta giorni dalla data dell’accertamento, a pena di estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione (art. 2 comma 3 e 4).

Sicchè, i concorrenti rilievi – secondo cui la legge n. 27 del 1978 prevedeva già la notificazione dei processi verbali di accertamento a mezzo del servizio postale ed a cura dell’ufficio o comando da cui il verbalizzante dipende; e secondo cui colliderebbe con il principio di economicità dell’azione amministrativa la possibilità per i predetti ufficio o comando di richiedere ai messi comunali il compimento di un atto (la notificazione a mezzo del servizio postale, appunto), che gli stessi sono in grado di compiere agevolmente e con la rapidità richiesta dall’esistenza del su richiamato termine perentorio – inducono univocamente ad escludere l’applicabilità dell’art. 14 della legge n. 890 del 1982.

Per quanto riguarda, poi, la notificazione delle ingiunzioni di pagamento (le c.d. ingiunzioni fiscali), è noto che la relativa disciplina risulta dettata dal R.d. 14 aprile 1910 n. 639 (Testo unico delle disposizioni di legge relative alla procedura coattiva per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici, dei proventi del demanio pubblico e di pubblici servizi e delle tasse sugli affari), il cui art. 2 comma 2 prevedeva che l’ingiunzione, vidimata e resa esecutiva dal pretore (ma v., ora, art. 229 del d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51), “è notificata, nelle forme delle citazioni, da un ufficiale giudiziario addetto alla pretura o da un usciere addetto all’ufficio di conciliazione”.

Sicchè, anche per la notificazione di questo tipo di atti esisteva (nel 1991) una lex specialis, la quale prevedeva specifiche modalità che non includevano, tra i soggetti abilitati ad eseguirla, i nessi comunali (cfr., ad es. Cass. sent. n. 352 del 1979, secondo cui ingiunzione fiscale, emessa norma del R.d. n. 639 del 1910, può essere notificata al contribuente, oltre che dall’ufficiale giudiziario, anche dal messo dell’ufficio di conciliazione).

B)- che – contrariamente a quanto affermato dalla Corte fiorentina ed opinato dalle parti – la disciplina applicabile alla fattispecie sia esclusivamente quella dettata dalla legge n. 27 del 1978, ora analizzata, e non, invece, quella contenuta nel Capo 5^ del d.P.R. n. 39 del 1953, ivi compreso l’art. 37 di tale decreto (che, sotto la rubrica “Repressione delle violazioni”, stabiliva: “Per la repressione delle violazioni alle norme del presente Testo Unico si applicano le disposizioni della legge 7 gennaio 1929 n. 4”), risulta univocamente dalle concorrenti considerazioni che seguono.

E1)- il capo 5^ del d.P.R. n. 39 del 1953, intitolato “Delle violazioni e delle norme di procedura”, dettava le norme relative alle sanzioni – stabilendo che “per le infrazioni alle disposizioni del premente Testo Unico si applicano le sanzioni previste dalla tabella allegato n. 2”; e che “il conducente ed il proprietario del veicolo sono solidamente obbligati al pagamento delle pene pecuniarie indicate nella tabella stessa”) (art. 35 commi 1 e 2) – individuava gli organi cui era demandato l’accertamento delle violazioni (art. 37) e disciplinava le controversie relative all’applicazione del tributo (art. 39). orbene – a parte la materia avente ad oggetto la contraffazione dei contrassegni di circolazione, regolata dall’art. 36 del testo unico, che in questa sede non rileva – tutte le altre materie del Capo 5^ sono state disciplinate ex novo dalla legge n. 27 del 1978: quella relativa alla determinazione delle violazioni e delle corrispondenti sanzioni (“Per il mancato o insufficiente pagamento delle tasse automobilistiche e per l’inosservanza delle altre disposizioni del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953 n. 39, e successive modificazioni… si applicano… le soprattasse stabilite nella tabella annessa alla presente legge”), nell’art. 1 comma 1 e nella tabella annessa alla legge; quella relativa alla statuizione del vincolo di solidarietà, quanto al pagamento delle sopratasse tra proprietario e conducente, nell’art. 1 comma 2; quella relativa al procedimento di accertamento delle violazioni, agli organi competenti ad accertarle, nonché alla riscossione dei tributi evasi e delle soprattasse, nell’art. 2; quella relativa all’applicazione del tributo e delle soprattasse, nell’art. 3.

Sicchè, può ben affermarsi, sotto i profili che in questa sede rilevano, che la legge n. 27 del 1978 ha tacitamente abrogato, per “nuova disciplina”, il predetto Capo 5^ del d.P.R. n. 39 del 1953, come, del resto, è confermato dall’art. 5 della legge, laddove viene statuito, con la consueta formula, che “è abrogata ogni altra disposizione contraria o comunque incompatibile con la presente legge”.

E2)- un’ulteriore conferma della ora affermata abrogazione si trae dalla disciplina contenuta nel su richiamato decreto-legge n. 953 del 1982, conv., con modif., nella legge 53 del 1983 (cfr., supra, lett. D), che ha sostituito alla tassa di circolazione quella di possesso di autoveicoli: infatti, l’art. 5 comma 50 (della legge di conversione) stabilisce che “per la repressione delle violazioni alle norme del trentunesimo comma e dai commi successivi del presente articolo si applicano le disposizioni della legge 24 gennaio 1978 n. 27”; sicchè, la successiva disposizione – art. 5 comma 59:

“Continuino ad applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953 n. 39…” – a parte ogni altra considerazione, non può certamente applicarsi alla ipotesi, quali quelle di specie, di omesso od insufficiente pagamento della tassa di possesso.

E3)- La legge n. 27 del 1978 è stata considerata in vigore da tutte le successive discipline che, direttamente o indirettamente, si sono riferite alla materia della tasse automobilistiche.

E così, in primo luogo, l’art. 231 del nuovo codice della strada (d.lgs. n. 285 del 1992), che, nell’abrogare espressamente norme precedenti, al comma 3 secondo periodo, stabilisce: “Restano, comunque, in vigore le disposizioni di cui alla legge 24 gennaio 1978 n. 27”.

Ed ancora, più specificamente, l’art. 17 del d.lgs, 18 dicembre 1997 n. 473 (Revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti, a norma dell’art. 133, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996 n. 662), nel testo sostituito dall’art. 4 comma 1 lett. d) del d.lgs. 5 giugno 1998 n. 203, che, nel disciplinare la “sanzioni in materia di tasse sul possesso di autoveicoli” oltre a sostituire alla parola “soprattassa” quella “sanzione amministrativa”, ha parzialmente abrogato – e, quindi, parzialmente mantenuto in vigore – alcune disposizioni della legge n. 27 del 1978 e della tabella annessa.

2.3 Le considerazioni che precedono consentono di ritenere assorbita ogni altra censura formulata nel ricorso.

La novità delle questioni trattate integra giusto motivo per dichiarare compensate per intero, tra le parti, le spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 ottobre 2004.

Riferimenti normativi

RD 03-03-1934 n. 383, Art. 273

RD 03-03-1934 n. 383, Art. 274

DPR 05-02-1953 n. 39 0

L 24-01-1978 n. 27, Art. 2

DL 30-12-1982 n. 953 0

L 28-02-1983 n. 53 0

L 08-06-1990 n. 142, Art. 64

L 03-08-1999 n. 265, Art. 10


Cass. civ. Sez. V, (ud. 13-10-2004) 02-03-2005, n. 4377

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. MONACI Stefano – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

INDUSTRIA OLEARIA BIAGIO MATALUNI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Boccioni n. 4, presso l’Avv. Francesco D’Ayala Valva, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Amministrazione dell’Economia e delle Finanze, Agenzia delle Entrate elettivamente rappresentate e difese dall’Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliate presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 215/3/02 della Commissione Tributaria Regionale della Campania.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13 ottobre 2004 dal Relatore Cons. Dott. Stefano Monaci;

Udito l’Avv. Francesco D’Ayala Valva;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

Svolgimento del processo
1. La controversia ha per oggetto l’impugnazione, da parte della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni s.r.l., di una cartella, emessa dall’agenzia delle entrate di Benevento portante la somma di L. 255.676.200 per IVA, relativa all’anno 1984, oltre ad interessi e sanzioni.

La società proponeva ricorso eccependo la illegittimità e la nullità della cartella di pagamento in quanto la stessa non sarebbe stata preceduta dalla notificazione dell’avviso rettifica.

La commissione provinciale respingeva il ricorso, e questa sentenza veniva confermata, con altra sentenza n. 215/3/02, in data 25 settembre/12 novembre 2002, dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania.

La pronunzia di appello rilevava che, secondo quando risultava dalla relata, la notificazione dell’avviso di rettifica era stata effettuata in Montesarchio alla via Benevento, indicata come sede effettiva della società, a mani del signor Mataluni Giuseppe indicato, a sua volta come addetto alla società ed incaricato di ricevere gli atti.

Riteneva che in mancanza di querela di falso la commissione non potesse disconoscere nè che il signor Mataluni Giuseppe rivestisse quelle qualità nè che la sede effettiva della società fosse situata a quell’indirizzo.

Da questi elementi desumeva la validità della notificazione dell’avviso di accertamento, aggiungendo anche che non sussistevano specifiche censure contro la notificazione della cartella di pagamento.

2. Con ricorso per Cassazione notificato l’11 giugno 2003 propone ricorso per Cassazione, con un motivo, la società Industria Olearia Biagio Mataluni s.r.l., con sede legale in Montesarchio, alla via San Rocco, in persona del legale rappresentante signor Biagio Mataluni.

Resiste l’amministrazione finanziaria con controricorso notificato 18 luglio 2003.

Con due successive istanze di prelievo, depositate in cancelleria rispettivamente il 3 ed 17 ottobre 2003, la società ha chiesto la fissazione dell’udienza di discussione, allegando motivi di urgenza in quanto il concessionario del servizio di riscossione avrebbe manifestato l’intenzione di procedere esecutivamente alla riscossione coattiva del carico tributario iscritto a ruolo e questo avrebbe comportato gravi danni alla società contribuente.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di impugnazione la società contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 139, 140, 145 e 148 c.p.c. e dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, nonchè l’omessa pronuncia sul punto decisivo della controversia.

Sostiene innanzi tutto che la notificazione doveva essere effettuata nel domicilio della società mediante consegna al destinatario dell’atto.

Nel ritenere legittima la notificazione dell’avviso la sentenza si sarebbe basata sui presupposto che il messo notificatore avrebbe constatato che in via San Rocco n. 10 di fatto non vi sarebbe stata la sede della società e che da informazioni assunte sarebbe risultato che quest’ultima si era trasferita in via Benevento.

Secondo il ricorrente in realtà nella relazione di notificazione non vi sarebbe traccia di queste circostanze di fatto.

Il giudice non avrebbe motivato sull’eccezione relativa alla illegittima indicazione del luogo di consegna dell’atto da parte del notificante e di conseguente illegittimità della notificazione.

2. Il ricorrente sostiene anche che per contestare la validità di quella notificazione non era necessario procedere a querela di falso, perchè non si contestava affatto la veridicità del fatto che il messo notificatore avesse incontrato il signor Giuseppe Mataluni; si negava, invece, che quest’ultimo, consegnatario dell’atto, avesse un qualsiasi rapporto con la Industria Olearia Biagio Mataluni s.r.l.

Inoltre, dichiarando che non poteva esaminare il punto se non in presenza di una querela di falso il giudice avrebbe implicitamente dichiarata l’impossibilità di giudicare sul contenuto della relata.

Il giudice stesso non si sarebbe pronunziato, inoltre, sulle eccezioni relative all’inidoneità del consegnatario signor Giuseppe Mataluni a ricevere l’atto, dato che quest’ultimo non avrebbe avuto rapporti con la società e sarebbe stato reperito in un sito a sua volta ad essa estraneo.

La ricorrente argomenta che una notificazione era valida soltanto in presenza di un collegamento funzionale tra il destinatario dell’atto, il luogo in cui l’atto stesso veniva consegnato e la persona fisica del consegnatario.

Nel caso di specie questo non sarebbe avvenuto, e la sua mancanza avrebbe comportato un vizio non sanabile di quella notificazione.

Secondo la ricorrente il procedimento di notificazione adottato sarebbe assolutamente estraneo alle previsioni degli artt. 60 del D.P.R. n. 600/1973, e 145 c.p.c., e non rientrerebbe neppure nella disciplina prevista per i casi di irreperibilità.

In particolare l’atto avrebbe dovuto essere consegnato presso la sede sociale, e questo non sarebbe avvenuto.

3. Nel controricorso l’amministrazione eccepisce preliminarmente che la controparte sarebbe priva di interesse ad agire rispetto all’azione proposta di impugnazione della cartella di pagamento sostenendo che l’unico effetto di un suo accoglimento sarebbe stato quello di paralizzare l’azione esecutiva, e ricordando che la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili adottati precedentemente ad un atto notificato ne consentiva l’impugnazione unitamente a quest’ultimo.

Nel merito sostiene che il ricorso è infondato e che la procedura seguita per la notificazione dell’atto presupposto era stata corretta. Gravava in ogni caso sulla società destinataria della notificazione l’onere di dimostrare la non veridicità dell’esistenza della propria sede presso un determinato indirizzo o l’estraneità alla ricezione della persona ivi rinvenuta.

4. Il ricorso è fondato, e deve essere accolto.

Va precisato innanzi tutto – per chiarezza – che, anche se l’oggetto della controversia è costituito dall’impugnazione della cartella di pagamento, in realtà lo snodo centrale della materia del contendere, e dello stesso ricorso per Cassazione, è quelle della regolarità della notificazione dell’avviso di accertamento che ha preceduto la cartella.

L’avviso di accertamento non costituisce peraltro un atto del procedimento, ma piuttosto un atto prodromico al procedimento, ma che rimane esterno rispetto allo stesso.

Il fascicolo (d’ufficio) degli atti del procedimento doveva contenere l’atto impugnato, vale a dire, nel caso di specie, la cartella di pagamento, ma non doveva contenere, invece, atti antecedenti, non direttamente impugnati in quel giudizio.

Proprio per questo l’avviso di accertamento non doveva essere allegato agli atti del procedimento (ed, innanzi tutto, al ricorso introduttivo); e di fatto non lo è, come è facile constatare attraverso un riscontro diretto che in questo caso la Corte può effettuare essa stessa essendo stato dedotto un vizio di carattere procedurale: gli atti del procedimento contengono, infatti, come atto impugnato la cartella esattoriale, ed essa soltanto.

Le modalità della notificazione dell’avviso potranno essere ricostruite perciò (nei limiti in cui potranno esserlo) soltanto in base a quanto risulta dall’accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata, ma non attraverso un esame diretto dell’atto.

5. La commissione tributaria regionale ha fondato la propria decisione – che ha ritenuto, in sostanza, la regolarità di quella notificazione – sulla efficacia di prova fino a querela di falso che la qualità di pubblico ufficiale dell’agente notificante imprime alla relazione di notificazione.

Non è esatto che di fronte alla attestazione di un pubblico ufficiale che abbia il potere di attribuire pubblica fede ai propri atti (in questo caso la relazione di notificazione dell’agente notificante), ed in mancanza di una querela di falso, sia precluso al giudice esaminare in concreto le doglianze della parte relative alla legittimità di un atto di notificazione, nel caso specifico quelle della contribuente relative alla regolarità della notificazione dell’avviso di accertamento.

Su questo punto la motivazione della sentenza impugnata appare inesatta o quanto meno insufficiente.

Come giustamente rileva la ricorrente, in realtà il potere di attribuzione di pubblica fede è limitato soltanto agli atti che il pubblico ufficiale attesta di avere effettuato, ed ai fatti che attesta essere avvenuti in sua presenza, ma non può coprire tutte le circostanze comunque riportate nella relazione di notifica.

Nel caso di specie ha attestato – con accertamento che fa fede fino a querela di falso – di avere consegnato la copia notificata dell’avviso di accertamento al signor Mataluni Giuseppe in via Benevento.

Questa circostanza, di per se stessa, nella sua materialità, non è contestata.

Non fa parte, invece, dell’accertamento privilegiato contenuto nella relazione di notificazione, e non fa fede fino a querela di falso, la circostanza che quella di via Benevento fosse la sede effettiva della società contribuente, e neppure quella che il signor Mataluni Giuseppe, cui era stato consegnato materialmente il documento, fosse autorizzato a ricevere atti notificati alla società. A tutto concedere, non risulta che l’ufficiale notificante avesse ricompreso nel proprio accertamento privilegiato queste due circostanze, che non possono dirsi accertate con una prova che faccia fede fino a querela di falso.

Per quanto risulta del contenuto della relazione di notificazione (e per quanto se ne può dedurre) la copia notificata dell’avviso di accertamento è stata consegnata ad un soggetto che, (verosimilmente) si è dichiarato qualificato a ricevere gli atti per conto della società, ma che non è specificamente provato che lo fosse effettivamente ed in modo ufficiale (anche se per la verità, ha il medesimo cognome che è riportato nella denominazione della società), e, soprattutto, che la notificazione è stata effettuata ad un indirizzo, quello di via Benevento, in cui (verosimilmente) esiste un impianto o un ufficio riconducibile alla società Biagio Mataluni s.r.l., ma presso cui non risulta positivamente che sia stata trasferita, anche solo in via di fatto, la sede della società.

In realtà le circostanze controverse (i poteri del signor Giuseppe Mataluni, e la sede, anche solo di fatto, della società Biagio Mataluni s.r.l.) avrebbero essere accertate dal giudice del merito, e dovranno essere oggetto di una nuova indagine da parte del giudice di rinvio.

6. Non va dimenticato, peraltro, che ogni contribuente che non sia stato in condizione di impugnare in precedenza un atto preliminare a causa della nullità della notificazione di esso, è rimesso in termine dalla notificazione di un atto successivo che ne consegua per impugnare anche il primo atto unitamente al secondo. Nel caso di specie la contribuente società Biagio Mataluni s.r.l è stata rimessa in termine per impugnare anche l’avviso di accertamento unitamente alla cartella di pagamento.

In concreto, peraltro, ha impugnato la cartella, ma non ha impugnato unitamente ad essa – come avrebbe potuto – anche il precedente avviso di accertamento.

Occorre, inoltre, valutare se in concreto la proposizione del giudizio, e il fatto di essere stato rimesso in termine per impugnare, valgano a sanare eventuali irregolarità non solo della notificazione dell’atto impugnato, vale a dire della cartella, ma anche di quella dell’avviso di accertamento che ne costituiva il presupposto; questa valutazione dovrà essere effettuata alla luce dei principi di diritto recentemente affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “la natura sostanziale e non processuale (nè assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione per l’avviso di accertamento, in virtù dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 cod. proc. civ. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento” (Cass. civ., Sezioni Unite, 5 ottobre 2004, n. 19854).

7. Conclusivamente, dunque, il ricorso deve essere accolto, e la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania cassata, mentre la causa deve essere rinviata, per un nuovo esame, ad un giudice di rinvio, che si individua in una diversa sezione della stessa commissione tributaria regionale, che provvederà anche alla liquidazione delle spese di questa fase di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Campania.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2004.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2005


Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 13-01-2005, n. 458

NOTIFICAZIONE (MAT. CIV.)

Notificazione in genere alle amministrazioni dello Stato a mezzo posta a persone non residenti o irreperibili

Nullità

Rinnovazione della notificazione

TERMINI PROCESS. CIV.

Termini processuali in genere

Riferimenti normativi

CPC Art.139

CPC Art.140

CPC Art.291

CPC Art.369

CPCATT Art.48

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORONA Rafaele – Primo Presidente f.f.

Dott. CRISTARELLA ORESTANO Francesco – Presidente di sezione

Dott. ELEFANTE Antonino – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Alessandro – Consigliere

Dott. PROTO Vincenzo – rel. Consigliere

Dott. ALTIERI Enrico – Consigliere

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. LO PIANO Michele – Consigliere

Dott. EVANGELISTA Stefanomaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

CARDIA GIANNI IN PROPRIO E PER I COEREDI DI BENVENUTO CARDIA;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale di Roma,sez. 18 n. 223/18/97 pronunciata il 15/10/1997, depositata il 29/01/98;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 21/10/04 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Gianni DE BELLIS, dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MACCARONE Vincenzo che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso.

La Corte Suprema di Cassazione – Sezioni Unite Civili – riunita in Camera di consiglio;

esaminati gli atti;

Svolgimento del processo

CONSIDERATO

L’8 novembre 1994 l’Ufficio delle imposte dirette di Roma notificò al signor Gianni Cardia, quale erede del padre Benvenuto, un avviso di mora concernente redditi del de cuius prodotti negli anni 1978 – 1979 ed assoggettati ad IRPEF e ad ILOR. Il Cardia propose ricorso alla Commissione tributaria di primo grado di Roma, adducendo di non essere tenuto a rispondere dell’obbligazione perchè aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario.

Il ricorso fu accolto dalla Commissione tributaria adita e l’ufficio finanziario propose appello, affermando:

a) che, ai sensi dell’art. 16, 3 comma, del D.P.R. n. 636 del 1973, l’avviso di mora non può essere impugnato qualora sia stato preceduto dalla notifica della cartella esattoriale;

b) che, ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. n. 602 del 1973, contro l’avviso di mora è ammesso soltanto ricorso all’Intendente di finanza, ora Direzione regionale delle entrate;

c) che, comunque, l’accettazione dell’eredità col beneficio d’inventario non annulla la figura dell’erede ma produce soltanto l’effetto di distinguere il patrimonio del defunto da quello dell’erede stesso, ai sensi dell’art. 490 del codice civile.

La Commissione tributaria regionale di Roma, con sentenza depositata il 29 gennaio 1998, respinse l’impugnazione considerando:

1) che l’onere di provare l’avvenuta notifica della cartella incombeva all’ufficio, sicchè in difetto di tale prova il ricorso alla Commissione tributaria era legittimo, non ricorrendo gli estremi per l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973;

2) che, quanto al disposto dell’art. 490 cod. civ., l’effetto del beneficio d’inventario consiste proprio nel mantenere distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede, per cui quest’ultimo non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni pervenuti;

3) che, in ordine all’eventuale decadenza dal beneficio (peraltro non eccepita dall’ufficio), in applicazione del principio dettato dall’art. 2697 cod. civ. chi intende far valere un credito contro un chiamato all’eredità del debitore, affermandolo erede di quello ope legis. ai sensi dell’art. 485 cod. civ., ha l’onere di provare il possesso di quell’eredità da parte del detto chiamato, mentre nella specie l’ufficio nulla aveva dedotto, onde la pronunzia impugnata doveva trovare conferma.

Avverso la suddetta sentenza il Ministero delle finanze (oggi Ministero dell’economia e delle finanze) ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Cardia in proprio e per i coeredi di Benvenuto Cardia.

L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

La quinta sezione civile di questa Corte, con ordinanza depositata il 24 giugno 2003, ha rilevato che la notificazione del ricorso era stata eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., che non risultava depositato l’avviso di ricevimento della raccomandata inviata al contribuente il 15 marzo 1999 e che l’intimato non aveva svolto difese. Ha osservato, quindi, che si doveva stabilire se, in difetto dell’avviso di ricevimento, la notifica fosse da considerare inesistente, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione (come affermato in alcune sentenza di questa Corte), oppure se, in adesione ad un diverso orientamento, dovesse ritenersi che, ai fini del perfezionamento della notifica avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., fosse sufficiente l’espletamento delle tre formalità prescritte dalla citata norma, essendo irrilevante il momento dell’effettiva ricezione del plico raccomandato contenente l’avviso dell’avvenuto deposito e non necessaria l’allegazione dell’avviso di ricevimento all’originale dell’atto.

L’ordinanza ha proseguito rimarcando che detta problematica – sia pure sotto il diverso profilo della compatibilità, con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 149 c.p.c. e 4, comma 3, della legge 20 novembre 1982 n. 890 – ha formato oggetto della pronunzia della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma 3, della legge n. 890 del 1982, nella parte in cui era stabilito che la notificazione si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella (antecedente) di consegna dell’atto medesimo all’ufficiale giudiziario. Ed ha aggiunto che, alla luce dei principi costituzionali richiamati in tale pronunzia, dei quali è stata sottolineata la portata generale, deve essere risolto il contrasto interpretativo manifestatosi nella giurisprudenza di questa Corte in ordine agli effetti da collegare alla mancata produzione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia del compimento delle formalità (ex art. 140 c.p.c.) al destinatario dell’atto, ravvisando quindi una questione di massima di particolare importanza, la cui definizione è necessaria per decidere la controversia de qua. Pertanto il ricorso è stato rimesso al Primo Presidente per eventuale assegnazione alle Sezioni unite. A tanto si è provveduto e la causa è stata rimessa all’odierna udienza di discussione, all’esito della quale la Corte:

OSSERVA

Motivi della decisione

1. Come emerge dalla relazione in calce al ricorso per Cassazione proposto dal Ministero delle finanze, tale ricorso (diretto ad impugnare la decisione della Commissione tributaria regionale di Roma depositata il 29 gennaio 1998) fu notificato al destinatario ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civile. Il deposito della copia dell’atto nella casa comunale risulta effettuato il 13 febbraio 1999, ma si tratta di un evidente errore materiale in quanto l’atto reca la data dell’11 marzo 1999, onde è impossibile che il detto adempimento abbia avuto luogo quasi un mese prima della formazione del ricorso, sicchè nella relata, dove si legge “13/2/99”, deve leggersi in realtà “13/3/99”, come si desume anche dalle annotazioni esistenti sulla prima pagina del ricorso stesso. Sempre dalla relazione di notifica, poi, si trae l’eseguita affissione dell’avviso del deposito e la spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento prevista dall’ultima parte del citato art. 140 (spedizione avvenuta il 15 marzo 1999). Detto avviso, però, non si trova allegato al ricorso, nè risulta comunque prodotto, mentre l’intimato (come sopra si è detto) non ha svolto in questa sede attività difensiva.

2. Muovendo da tali rilievi (e richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002) l’ordinanza della quinta sezione civile di questa Corte ha ravvisato un contrasto di giurisprudenza, e comunque una questione di massima di particolare importanza, in ordine agli effetti collegabili alla mancata produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario della notificazione, eseguita con le modalità di cui al citato art. 140.

Più esattamente, la questione rimessa all’esame delle sezioni unite può essere riassunta nei seguenti termini, se, in caso di notifica del ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. eseguita con il compimento delle formalità prescritte (deposito della copia dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso di deposito – ora in busta chiusa e sigillata: art. 174 d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 – alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento), la mancata allegazione di tale avviso determini l’inesistenza o la nullità della notificazione; e se sulla risposta a tale quesito influisca la sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, la quale ha anticipato per il notificante il perfezionamento della notificazione, eseguita col mezzo della posta, alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, facendo salvo per il destinatario il perfezionamento della notifica alla data della ricezione dell’atto stesso.

3. Il contrasto di giurisprudenza segnalato dall’ordinanza di rimessione in effetti non è ravvisabile, perchè i due orientamenti ipotizzati in conflitto riguardano due modalità diverse di notificazione: il primo orientamento (cui si riferiscono le sentenze, richiamate nella suddetta ordinanza, n. 8403 del 1999, n. 965 del 1999, n. 6599 del 1995, n. 2419 del 1995, n. 338 del 1995) concerne le notificazioni degli atti eseguite mediante il servizio postale (art. 149 cod. proc. civ. e legge 20 novembre 1982, n. 890); il secondo (cui si riferiscono le sentenze n. 4307 del 1999, n. 6060 del 1997, n. 6187 del 1994, n. 5825/SU del 1981 e Corte cost. 28 novembre 1986, n. 250) attiene alle notificazioni effettuate ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civile. Il primo tipo di procedimento notificatorio vede come centrale, nella sua struttura complessiva, l’attività affidata all’agente postale, mentre nel secondo la notificazione è eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario e si perfeziona con la spedizione (ad opera dello stesso ufficiale giudiziario) della raccomandata con avviso di ricevimento. La diversità esistente tra i due procedimenti (e, in particolare, la circostanza che, nella notifica a mezzo posta, l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione) giustifica i differenti approdi ermeneutici cui la giurisprudenza era pervenuta (salvi gli effetti dei recenti interventi della Corte costituzionale), sicchè non può ravvisarsi in proposito alcun contrasto.

Il caso in esame riguarda la notifica di un ricorso eseguita ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civile. In ordine a tale norma, ed all’interpretazione finora data ad essa dalla giurisprudenza, ad avviso del collegio una nuova riflessione si rende necessaria, nel quadro delle considerazioni che seguono.

4. Da lungo tempo nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato il principio secondo cui la notificazione, eseguita ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., si perfeziona – dopo il deposito dell’atto nella casa comunale (costituente il momento essenziale di o quello specifico procedimento notificatorio) e l’affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario – con la spedizione a quest’ultimo della raccomandata con avviso di ricevimento, senza che assumano rilevanza, ai fini del perfezionamento della notifica, nè la consegna della raccomandata al destinatario nè l’allegazione dell’avviso di ricevimento all’originale dell’atto notificato (ex multis e tra le più recenti: Cass., 20 febbraio 2004, n. 3389; 20 novembre 2000, n. 14986; 29 aprile 1999, n. 4307; 5 luglio 1997 n. 6060).

Sul punto questa Corte ebbe a pronunziarsi anche a sezioni unite (sentenza 5 novembre 1981, n. 5825, seguita anche da altre pronunzie), ribadendo il principio che la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. si perfeziona, dopo il deposito della copia dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, con la spedizione a quest’ultimo di raccomandata con avviso di ricevimento, contenente notizia del detto deposito, mentre resta a tal fine irrilevante l’effettiva consegna della raccomandata al destinatario, ovvero l’allegazione dell’avviso di ricevimento sottoscritto dallo stesso o da altra persona legittimata (principio ritenuto conforme agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sul presupposto che le menzionate formalità fossero idonee a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario, senza a alcun pregiudizio per il suo diritto di difesa e per il principio di uguaglianza).

Anche la Corte delle leggi si è collocata nella stessa prospettiva (Corte cost., sentenza n. 213 del 1975, ordinanza n. 76 del 1976, sentenza n. 250 del 1986, e, sia pure incidenter tantum. ordinanza n. 97 del 2004, in motivazione).

5. Peraltro la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 477 del 26 novembre 2002, relativa alle notificazioni degli atti a mezzo posta e alle comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziali, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 90, nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. La Corte delle leggi, dopo aver posto in luce che, in forza degli artt. 3 e 24 Cost., le garanzie di conoscibilità dell’atto, da parte del destinatario, devono coordinarsi con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri d’impulso (principio di portata generale), ha affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario (essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari, come l’agente postale, sottratta in toto al controllo e alla sfera di disponibilità del medesimo notificante), fermo restando per il destinatario il principio del perfezionamento della notificazione soltanto alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo.

Con successiva pronuncia (n. 28 del 2004) la Corte costituzionale ha affermato che – per effetto della citata sentenza n. 477 del 2002 – “risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulle notificazioni degli atti, principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario”. Per conseguenza, alla luce di tale principio le norme in tema di notificazioni di atti processuali – compreso l’art. 140 cod. proc. civ. (ord. n. 97 del 12 marzo 2004, cit.) – vanno interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso che la notificazione si perfezione nei confronti del notificante, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

6. Ne deriva che l’orientamento di questa Corte, sopra richiamato, non può più trovare conferma nella parte in cui affermava che la notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. si perfezionava, dopo il deposito della copia dell’atto e l’affissione dell’avviso relativo al deposito stesso, con la spedizione ai destinatario della raccomandala con avviso di ricevimento. A seguito delle menzionate pronunzie della Corte costituzionale il principio è che, anche per le notificazioni eseguite ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., al fine del rispetto di un termine pendente a carico del notificante (nella specie, termine d’impugnazione con ricorso per Cassazione) è sufficiente che l’atto, notificato con il rito di cui alla citata norma, sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario entro il predetto termine, mentre le formalità previste dal detto art. 140 possono essere eseguite anche in un momento successivo (in tali sensi, peraltro, questa Corte si è già espressa: Cass., 4 maggio 2004, n. 8447). Il consolidamento di tale effetto – che può definirsi provvisorio o anticipato – a vantaggio del notificante dipende comunque dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, perfezionamento che resta ancorato al momento in cui l’atto è ricevuto dal destinatario o perviene nella sua sfera di conoscibilità.

In questo quadro si può aggiungere (per completezza d’indagine) che l’effetto anticipato a vantaggio del notificante riguarda il termine pendente al momento in cui l’atto è consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica. Tale effetto, invero, è correlato all’esigenza di tutelare, nell’ambito applicativo degli artt. 3 e 24 della Costituzione, il diritto di difesa del notificante, anche sotto il profilo del principio di ragionevolezza, nonchè l’interesse del medesimo notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri d’impulso (v. Corte cost., sentenze n. 477 del 2002 e, prima ancora, n. 69 del 1994). Ragioni analoghe, invece, non sussistono quando il momento in cui la notifica si perfeziona sia rilevante non per l’osservanza di un termine pendente nei confronti del notificante, bensì per stabilire il dies a quo relativo alla decorrenza di un termine successivo del processo (o del grado o della fase processuale). In tali casi (e, più in generale, a fini diversi dall’osservanza di un termine pendente) il dies a quo prende a decorrere dal momento in cui il procedimento notificatorio si perfeziona anche per il destinatario dell’atto. Così sembra orientata anche la Corte delle leggi, secondo la quale, poiché la notificazione si perfeziona per il notificante con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, da quel momento possono essere compiute dal medesimo notificante le attività che presuppongono la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ferma restando, in ogni caso, la decorrenza del termine finale dalla consegna al destinatario (cfr. Corte cost., 2 aprile 2004, n. 107).

In altre parole, dal momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il notificante può compiere le attività che presuppongono la notificazione dell’atto stesso, ma la scadenza del termine finale per il compimento di queste attività si continua a calcolare a far tempo dal perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario.

Ne segue che il termine di venti giorni per il deposito del ricorso per Cassazione (termine stabilito a pena d’improcedibilità e decorrente, ai sensi dell’art. 369, primo comma, cod. proc. civ., dall’ultima notificazione alle parti contro le quali il ricorso stesso è proposto) continua ad avere come dies a quo quello della notificazione perfezionata nei confronti del destinatario (o dei destinatari) dell’atto.

7. Si deve ora verificare se, ed eventualmente con quali integrazioni, l’orientamento seguito da questa Corte circa il momento perfezionativo del procedimento notificatorio disciplinato dall’art. 140 cod. proc. civ., nei confronti del destinatario della notificazione, debba trovare conferma. E tale indagine richiede alcune considerazioni preliminari. L’intero sistema delle notificazioni, nella diversità di procedimenti in cui si articola, si fonda su ragionevoli presunzioni di conoscenza dell’atto da parte del soggetto al quale la notifica è rivolta, non essendo esigibile che quest’ultimo ne abbia sempre una conoscenza concreta (realizzabile soltanto nell’ipotesi di notificazione in mani proprie: art. 138 cod. proc. civ.), perché il perseguimento di un tale risultato finirebbe per rendere troppo difficile l’esercizio del diritto costituzionale di agire in giudizio e si porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 24, primo comma, della Costituzione.

Ma anche il diritto di resistere ad una pretesa è espressione di una situazione giuridica costituzionalmente tutelata, in quanto costituente esercizio del diritto di difesa (art. 24, comma secondo, Cost.), che postula un’effettiva instaurazione del contraddittorio, indispensabile per garantire il giusto processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.).

Pertanto, in un equo bilanciamento delle posizioni del notificante e del destinatario della notificazione, un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa al riguardo impone che le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario medesimo siano ispirate ad un criterio di effettività, come effettiva (e non soltanto formale) deve essere la tutela del contraddittorio. E ciò vuoi dire che devono essere valorizzati tutti gli elementi idonei a perseguire il detto criterio di effettività.

Ciò posto, e venendo all’esame dell’art. 140 cod. proc. civ., si osserva che nel procedimento disciplinato da detta norma la consegna della copia conforme dell’atto – rivelatasi impossibile nella residenza, nella dimora o nel domicilio del destinatario (localizzati nella casa di abitazione di quest’ultimo, o nel luogo in cui egli ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio: così Cass., s. u., 5 novembre 1981, n. 5825), per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 – viene eseguita dall’ufficiale giudiziario mediante deposito nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo. Tale deposito, pur costituendo formalità essenziale del procedimento de quo. non è idoneo da solo a porre la copia dell’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario, che non ha modo di essere informato del detto adempimento. Perciò la norma stabilisce una prima formalità integrativa, costituita dall’affissione – alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario – ad opera dell’ufficiale giudiziario di un avviso dell’avvenuto deposito, contenente gli elementi di cui all’art. 48 disp. att. cod. proc. civile. Ma anche questo secondo adempimento non è ritenuto dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso. Pertanto la norma richiede una formalità ulteriore e cioè la “notizia” (dell’avvenuto deposito) che l’ufficiale giudiziario deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Il dettato della norma realmente impone di ritenere che, con il compimento del terzo adempimento (e quindi con la spedizione della raccomandata), la notificazione debba considerarsi perfezionata nei confronti del destinatario dell’atto. E ciò non soltanto perché in tal senso orientano il tenore testuale della disposizione e la struttura del procedimento in essa contemplato ma anche perché, essendo essa diretta a disciplinare un effetto legale tipico (di conoscibilità), sul piano logico è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso ancorare tale effetto ad una data certa qua è quella derivante dalla spedizione della raccomandata stessa.

Da questo risultato ermeneutico, tuttavia, ad avviso del collegio non può desumersi – come, invece, l’orientamento fin qui seguito ha affermato – che l’allegazione dell’avviso di ricevimento all’originale dell’atto sia adempimento privo di rilevanza. In primo luogo, se il legislatore avesse considerato ravviso di ricevimento privo di rilevanza, non avrebbe richiesto che la raccomandata di cui all’art. 140 cod. proc. civ. ne fosse corredata. E non a caso, quando la legge, in base ad una scelta operata nell’ambito della discrezionalità legislativa, ha ritenuto sufficiente che la notizia di una avvenuta notificazione fosse data a mezzo di raccomandata semplice, ha disposto in tal senso (v. art. 139, comma terzo, cod. proc. civ., in caso di consegna della copia a mani del portiere o del vicino di casa, che è formalità ben più affidabile dell’affissione di un avviso alla porta, onde si spiega il minor rigore della modalità di trasmissione della “notizia”). Non giova addurre che, nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, l’allegazione all’originale dell’avviso di ricevimento è espressamente prevista (art. 149, comma secondo, ult. parte, cod. proc. civ. e art. 5, primo comma, legge n. 890 del 1982). In tali casi, invero, il detto avviso costituisce prova dell’eseguita notificazione (nei confronti del destinatario dell’atto, dopo Corte cost., n. 477 del 2002), dunque è parte integrante della relazione di notifica e perciò ben si spiega l’espressa previsione normativa.

Nel procedimento disciplinato dall’art. 140, invece, la notificazione si compie con la spedizione della raccomandata, che come atto della sequenza del processo perfeziona l’effetto di conoscibilità legale nei confronti del destinatario. Tuttavia, non diversamente da quanto avviene per il perfezionamento della notificazione nei confronti del notificante, anche per il destinatario si tratta di un effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l’allegazione, all’originale dell’atto, dell’avviso di ricevimento le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata. Al riguardo occorre considerare che la notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 ora citato postula che sia stato esattamente individuato il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario stesso e che la copia da notificare non sia stata consegnata per difficoltà di ordine materiale, quali la momentanea assenza, l’incapacità o il rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 del codice di rito (così Cass., 16 luglio 2004, n. 13183). Dall’avviso di ricevimento, e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, può emergere che la raccomandata non è stata consegnata perché il destinatario risulta trasferito (è il caso preso in esame dalla sentenza ora richiamata) oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni le quali comunque rivelano che l’atto in realtà non è pervenuto nella sfera di conoscibilità dell’interessato e che, dunque, l’effetto legale tipico, a tale evento ancorato, non si è prodotto.

In tali ipotesi sembra palese che la notifica debba essere considerata nulla (non inesistente, a meno che l’atto non sia stato indirizzato verso un luogo privo di qualsiasi collegamento con il destinatario) e che, quindi, debba essere rinnovata ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civile. Infatti, le suddette risultanze rendono quanto meno incerto, e possono addirittura escludere, che il luogo in cui l’ufficiale giudiziario ha svolto l’attività prevista dall’art. 140 cod. proc. civ. sia quello di effettiva ed attuale residenza, dimora o domicilio del destinatario, con i conseguenti riflessi sulla validità della notifica effettuata. Si tratta, dunque, di una verifica necessaria, postulata del resto dalla stessa previsione normativa nel momento in cui richiede che la spedizione della raccomandata abbia luogo con avviso di ricevimento. Ne consegue che quest’ultimo deve essere allegato all’originale dell’atto e che la sua mancanza, rendendo impossibile il suddetto controllo, determina la nullità della notificazione, peraltro sanabile con la costituzione dell’intimato oppure con la rinnovazione della notifica stessa ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civile.

8. Conclusivamente, devono essere affermati i seguenti principi di diritto:

“Qualora il ricorso per Cassazione sìa stato notificato ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., al fine del rispetto del termine d’impugnazione è sufficiente che il ricorso stesso sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario entro il predetto termine, fermo restando che il consolidamento di tale effetto anticipato per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio) nei confronti del destinatario, procedimento che, nei casi disciplinati dall’art. 140 cod. proc. civ., prevede il compimento degli adempimenti da tale norma stabiliti (deposito della copia dell’atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affissione dell’avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento).

Nei casi di cui sopra, il termine per il deposito del ricorso,stabilito a pena d’improcedibilità dall’art. 369, primo comma, cod. proc. civ., decorre dal perfezionamento della notifica per il destinatario.

Nei casi suddetti la notificazione nei confronti del destinatario dell’atto si ha per eseguita con il compimento dell’ultimo degli adempimenti prescritti (spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento). Tuttavia, poichè tale adempimento persegue lo scopo di consentire la verifica che l’atto sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, l’avviso di ricevimento deve essere allegato all’atto notificato e la sua mancanza provoca la nullità della notificazione, che resta sanata dalla costituzione dell’intimato o dalla rinnovazione della notifica ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civile”.

Nel caso in esame, pur risultando compiute le formalità di cui al citato art. 140, l’avviso di ricevimento del plico raccomandato(inviato al contribuente il 15 marzo 1999) non si trova allegato al ricorso nè si rinviene negli atti, mentre l’intimato non ha svolto difese in questa sede.

Pertanto deve essere disposta la nuova notifica del ricorso per Cassazione all’intimato, nei sensi di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte ordina la nuova notificazione del ricorso per Cassazione all’intimato, entro il termine di giorni sessanta dalla comunicazione della presente ordinanza, e rinvia la causa a nuovo ruolo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 21 ottobre 2004.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2005


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/10/2004) 15/12/2004, n. 23349

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – rel. Consigliere

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

BETZ DEARBORN SPA, in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA MASSIMO 57, presso lo studio dell’avvocato GUIDO BROCCHIERI, che la difende unitamente agli avvocati GIANFRANCO MACCONI, EUGENIO DELLA VALLE, giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 158/02 della Commissione tributaria regionale di ROMA, depositata il 09/01/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 27/10/04 dal Consigliere Dott. Maria Rosaria CULTRERA;

udito per il ricorrente, l’Avvocato dello Stato GIORDANO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorse;

udito per il resistente, l’Avvocato DELLA VALLE (con delega), che ha chiesto l’inammissibilitàin subordine il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MACCARONE Vincenzo che ha concluso per l’inammissibilità; in subordine l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate ufficio di Roma 3 ha impugnato innanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio la sentenza n. 27/43/2001, emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Roma, con cui è stato accolto il ricorso proposto dalla società BETZ DEARBORN s.p.a. già BETZ SUD s.p.a., avverso il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’imposta proporzionale di registro, versata in L. 48.910.000, in sede di registrazione dell’atto di fusione per incorporazione, senza concambio, della s.r.l. MISAN di cui deteneva per l’intero le quote. La doglianza era fondata sul richiamo alla direttiva CEE n. 85/303. Nel contraddittorio della controparte, l’organo di gravame ha dichiarato inammissibile l’appello, sul rilievo che la censura ivi mossa si fonda sulla trattazione di un argomento di causa nuovo rispetto alla prospettazione della difesa svolta in sede di prima istanza, dal momento che l’amministrazione con l’atto d’impugnazione ha richiamato il principio elaborato dalla Corte di Giustizia, e confermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui le disposizioni comunitarie non ostano alla riscossione dell’imposta di registro in caso di fusione per incorporazione, così modificando l’impostazione difensiva assunta in precedenza, secondo la quale la direttiva comunitaria invocata da controparte non poteva avere diretta applicazione nel nostro ordinamento, in mancanza del decreto legislativo di recepimento, non ancora adottato all’atto del versamento dell’imposta controversa.

Contro questa decisione l’amministrazione finanziaria e l’Agenzia delle Entrare ricorrono per Cassazione con unico mezzo. Resiste la controparte.

Motivi della decisione
L’amministrazione finanziaria ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 57 del d.lgs n. 546/92, dell’art. 4 lett. b) della tariffa allegata al d.p.r. n. 131/86, dell’art. 177 del Trattato CE 20 marzo 1957 e dei principi di diritto comunitario in tema di vincolatività delle pronunce della Corte di giustizia in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.. Denuncia duplice errore, commesso dall’organo di gravame sia nell’aver erroneamente ritenuto sussistente la violazione del jus novum in sede di gravame, sia per aver imputato all’ufficio intempestività nelle eccezioni oggetto d’appello. Sotto il primo profilo, rileva che la diversa impostazione difensiva assunta in sede d’impugnazione, nella quale in buona sostanza è stata eccepita l’esatta applicazione della direttiva CEE invocata da controparte, non ha determinato immutazione nè del petitum nè della causa petendi. Con l’atto di gravame l’Agenzia appellante non ha inteso, invero, convalidare il decisum dei primi giudici, bensì, senza mutare la tesi sostanziale già dedotta in prima istanza, ha contestato il criterio di legittimità che ha sorretto la decisione ad essa sfavorevole, richiamando statuizioni interpretative vincolanti provenienti dal giudice comunitario, alle quali la Commissione regionale avrebbe dovuto adeguarsi d’ufficio. Il resistente replica osservando che(in sostanza, in primo grado l’amministrazione finanziaria non contestò che la direttiva citata non si applicasse alla fattispecie, ma che non avesse piuttosto valore cogente, e dunque non fosse applicabile siccome non era stata ancora recepita in una norma interna. In sede d’appello, incentrò invece il nucleo dell’eccezione sull’interpretazione della direttiva alla quale i giudici di prima istanza avrebbero dovuto adeguarsi così ampliando il thema decidendum.

Richiama inoltre l’eccezione d’inammissibilità dell’appello già dedotta in quella sede, e sulla quale l’organo di gravame non si è pronunciato, ribadendo che esso è tardivo dal momento che è stato proposto oltre il termine breve di 60 giorni sancito nell’art. 51 del d.lgs n. 546/92, rilevando a sostegno che Sentenza della Commissione provinciale è stata notificata all’Agenzia delle entrate-Ufficio di Roma 1 – il giorno 13.4.01, mentre l’atto d’impugnazione è stato notificato il 14.3.2002. Per sostenere l’eccezione, osserva che non assume rilevanza la circostanza che la competenza territoriale in ordine alla controversia fosse attribuita all’ufficio di Roma 3, che in effetti propose l’impugnazione, dal momento che la notifica della pronuncia di primo grado venne effettuata in conformità all’avviso di segreteria, nè può ritenersi che la ripartizione di competenze in seno all’Agenzia abbia efficacia anche esterna. Nel merito confuta l’interpretazione della direttiva offerta dalla Corte di Giustizia UE n. c-152/97 del 27.10.98 alla quale si richiama la ricorrente, osservando che essa non è conforme ai principi ispiratori della direttiva più volte richiamata. Merita esame in linea preliminare, per evidenti ragioni di priorità logica, l’eccezione d’inammissibilità dell’appello per tardività della sua proposizione, che il resistente ha in questa sede riproposto.

Al riguardo deve affermarsi, anzitutto, l’ammissibilità della sua deduzione in sede di controricorso, siccome il resistente è stato vittorioso nel precedente grado di giudizio e dunque, non avendo interesse alla presente impugnazione, non aveva l’onere di proporre ricorso incidentale, ben potendo chiedere che la questione fosse esaminata e finalmente decisa, dal momento che l’organo di gravame non si è pronunciato su di essa essendo rimasta assorbita nella decisione assunta. In questo caso è pacifico che, ai fini della devoluzione, è sufficiente che l’eccezione già dedotta venga riproposta, unitamente alle difese proprie del giudizio d’impugnazione, in modo da evitare la presunzione di rinuncia posta dall’art. 346 c.p.c. (cfr. per tutte Cass. n. 7919 e n. 10966 del 2004). Nel merito l’eccezione è fondata.

Dall’esame degli atti, alla cui verifica si può accedere anche in questa sede in considerazione della natura processuale del vizio denunciato, emerge che effettivamente la sentenza della Commissione provinciale, che era stata notificata all’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Roma 1- in data 13-4-2001 venne impugnata da quest’ultimo organo – Ufficio di Roma 3- con atto del, 14-3-02 ben oltre il termine sancito nell’art. 51 del d.lgs n. 546/92. Ne discende la palese inammissibilità dell’appello. La destinataria della notifica – Agenzia delle Entrate – evidentemente non tenne conto della notifica della pronuncia, e non poteva certamente imputare al contribuente il fatto che, per una ripartizione tutta interna alla sua articolazione territoriale, l’adempimento fosse stato effettuato presso uno dei suoi uffici, che ricevette peraltro l’atto senza muovere obiezioni, diverso da quello che ne sarebbe stato l’effettivo destinatario, e che infatti propose l’impugnazione. La distinzione tra i suddetti uffici della medesima Agenzia è espressione di una distribuzione delle competenze ad essa intrinseca, disposta con un atto interno, vale a dire con i decreti direttoriali n. 10/3349/99 del 27.12.99 e n. 5591 del 15.1.2000, richiamati in controricorso e in relazione ai quali l’attuale ricorrente non adduce alcuna replica- che hanno natura oggettiva e soggettiva di atti amministrativi e sono privi di efficacia verso il pubblico degli utenti.

Per logico corollario, la notifica della sentenza è sicuramente andata a buon fine, e quindi, essendo inutilmente decorso il termine di sessanta giorni stabilito nella norma citata, il potere dell’Agenzia di proporre l’appello si era ormai consumato.

Giova richiamare a conferma il principio ricavabile dalla previsione dell’art. 5 della legge n. 249 del 18.3.68, che stabilisce che <le istanze o i ricorsi rivolti nel termine previsto dalla legge ad organi diversi da quello competente ma appartenenti alla medesima amministrazione centrale, non sono soggetti a dichiarazione d’irricevibilità per scadenza del termino, che può trovare applicazione nel caso di specie, dal momento che gli uffici dell’Agenzia operanti sul territorio romano rappresentano articolazione del medesimo organo – appunto l’Agenzia delle Entrate, e sono privi di autonoma e distinta soggettività giuridica, essendo costituiti i in buona sostanza, in funzione di un sistema di organizzazione finalizzato ad una più adeguata e razionale distribuzione interna del lavoro. Resta dunque inalterata la struttura soggettiva del rapporto col contribuente che s’instaura e permane, a dispetto di ogni altro avvicendamento interno tra i vari uffici, fra il medesimo e l’Agenzia considerata.

Oltretutto l’azione dell’amministrazione pubblica deve essere improntata ai principi di collaborazione e buona fede, e. dunque, ne discende che se l’atto del privato è stato indirizzato all’organo esattamente individuato, benchè privo di competenza per esigenze organizzative specifiche ad esso, esso produce gli effetti che la legge gli riconnette, essendo onere dell’ufficio ricevente curarne la trasmissione a quello competente.

Questa esegesi trova conforto nel principio espresso nel precedente di questa Corte n. 14212 del 28.7.2004, che, in un caso in cui si discuteva della presentazione ad organo incompetente di istanza di rimborso ai fini della formazione del silenzio rifiuto, ha sostenuto che la presentazione della domanda ad organo incompetente della medesima amministrazione centrale impedisce la decadenza (contra v. Cass. n. 6258/2004).

Tutto questo comporta che la declaratoria d’inammissibilità dell’appello deve essere confermata, seppur per ragioni diverse da quelle ravvisate dal giudice del gravame, correggendo quindi la motivazione della pronuncia impugnata, ai sensi dell’art. 384 con 2 c.p.c., nel senso che l’appello dell’Agenzia delle Entrate devesi dichiarare inammissibile perchè proposto oltre il termine di 60 gg. dalla notifica della sentenza gravata.

Ogni altra questione resta assorbita.

Ne discende il rigetto del presente ricorso.

Considerata la natura della questione trattata, appare opportuno disporre la compensazione integrale delle spese di giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2004.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2004


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Unite, n. 19854 del 05.10.2004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRIECO Angelo – Primo Presidente f.f.

Dott. ELEFANTE Antonino – Consigliere

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere

Dott. ALTIERI Enrico – rel. Consigliere

Dott. LO PIANO Michele – Consigliere

Dott. MORELLI Mario Rosario – Consigliere

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. MARZIALE Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

DI VITO ADALGISA, PIETROSANTO MAFALDA, DI VITO GIOVANNI, DI VITO IMMACOLATA, DI VITO MARCO, DI VITO RITA, DI VITO MARIA PIA, DI VITO MARIANO, TUTTI IN PROPRIO E NELLA QUALITA’ DI EREDI DI VITO ELISEO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FABIO MASSIMO 33, presso lo studio dell’avvocato FRANCA FAIOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato WALTER TAMMETTA, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale di Roma n. 64/25/98 depositata il 07/07/98;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/06/04 dal Consigliere Dott. Enrico ALTIERI;

udito l’Avvocato Walter TAMMETTA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con avviso di liquidazione notificato ad Eliseo Di Vito il 10 giugno 1996, l’ufficio del Registro di Formia rettificava, ai fini dell’in.v.i.m., il valore finale di un complesso immobiliare conferito in una costituenda società in nome collettivo, a seguito della contestuale trasformazione di una impresa familiare. Essendo il Di Vito deceduto, la notificazione era stata effettuata a mani della figlia Rita Di Vito.

Gli eredi del Di Vito proponevano ricorso alla commissione tributaria provinciale di Latina, deducendo preliminarmente la nullità della notificazione, perchè non effettuata agli eredi collettivamente ed impersonalmente. La commissione respingeva il ricorso.

Proponevano appello gli eredi e la commissione tributaria regionale del Lazio accoglieva il gravame con sentenza del 7 luglio 1998, ritenendo la nullità dell’avviso di liquidazione, in quanto notificato nel domicilio del de cujus ad uno solo degli eredi, e non, come stabilito dall’art. 65 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a tutti gli eredi, impersonalmente e collettivamente.

L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione, sulla base di due motivi.

Col primo mezzo sosteneva la nullità della sentenza, in relazione agli articoli 111 Cost., 36, n. 4, d.l.vo n. 546/92, e 360, n. 4, cod. proc. civ., in quanto la stessa avrebbe acriticamente accolto la tesi dei contribuenti, omettendo l’esposizione dei motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione si è fondata.

Col secondo mezzo, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 65 del d.P.R. n. 600/73, 156 e 160 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostiene che il citato art. 65 dispone che gli eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale e che la notifica degli atti concernenti il dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio del de cujus.

In mancanza di tale comunicazione, l’ufficio aveva regolarmente notificato l’avviso di liquidazione mediante consegna ad una figlia.

In ogni caso, il tempestivo ricorso di tutti gli eredi alla commissione tributaria provinciale competente dimostrava che l’atto aveva raggiunto il suo scopo, rendendosi applicabile il principio sancito dall’art. 156, richiamato dall’art. 160, cod. proc. civ..

Stante il contrasto formatosi sulla applicabilità delle sanatorie di cui agli articoli 156 e 160 cod. proc. civ. alla notificazione dell’accertamento tributario nella giurisprudenza della Sezione tributaria, quest’ultima, con ordinanza del 12 marzo 2003, rimetteva la causa al Primo Presidente, il quale ne disponeva l’assegnazione alle Sezioni Unite.

2. Il contrasto di giurisprudenza.

Nella sentenza del 12 settembre 2002, n. 17762, la Sezione tributaria, uniformandosi alle precedenti pronunce della prima Sezione 7 aprile 1994, n. 3294, e 9 giugno 1997, n. 5100, e a quella della stessa Sezione tributaria 29 maggio 2001, n. 7284, affermava che la notificazione dell’avviso di accertamento affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc, dalla tempestiva proposizione del ricorso del contribuente, atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di provocatio ad opponendum, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione e, dall’altro, l’art. 60, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (dettato in materia di accertamento delle imposte sui redditi, ma applicabile anche in tema di imposta di registro ed in.v.im.) richiama espressamente, per gli avvisi ed altri atti che devono essere notificati al contribuente, “le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile”, così rendendo applicabile l’art. 160 del codice medesimo, il quale, attraverso il rinvio al precedente articolo 156, prevede che la nullità non possa essere dichiarata quando l’atto ha raggiunto il suo scopo.

Tale sentenza si è posta in consapevole contrasto con le sentenze della Sezione tributaria 21 aprile 2001, n. 5924, e 11 marzo 2002, n. 3513, nelle quali è stato affermato che l’avviso di accertamento non è un atto processuale, nè è funzionale al processo – la cui instaurazione si correla non già alla notificazione dell’avviso di accertamento o di qualsiasi atto impositivo impugnabile, che ne costituisce un semplice antecedente, ma alla proposizione del ricorso di cui agli articoli 15 e seguenti del d.P.R. n. 636/1972 e, successivamente, 18 e 20 del d.l.vo n. 546 del 1992 – ma è atto amministrativo, esplicativo della potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria. Da ciò deriva l’inapplicabilità della disciplina della sanatoria delle nullità delle notificazioni degli atti processuali all’avviso di accertamento e, quindi, non può ritenersi, alla stregua di tale disciplina, che la proposizione del ricorso da parte del contribuente avverso l’atto notificato possa produrre l’effetto di impedire, in ogni caso, la verificazione della decadenza di diritto sostanziale, correlata alla mancata tempestiva e valida notifica di detto avviso prevista dall’art. 43, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.

Motivi della decisione

3.1. Il primo motivo deve essere rigettato, in quanto la decisione impugnata, contrariamente a quanto affermato dalla difesa dell’Amministrazione, contiene sufficienti elementi per cogliere la ratio della decisione impugnata ed una valutazione delle critiche ad essa rivolte, che non costituiscono un mero rinvio al contenuto della pronuncia di primo grado.

3.2. Merita, invece, accoglimento il secondo motivo, dovendosi seguire la tesi dell’applicabilità della sanatoria di cui agli articoli 156 e 160 cod. proc. civ., anche se per ragioni non del tutto coincidenti con quelle poste a base delle citate decisioni della Corte.

Si deve rilevare, anzitutto, che il problema viene posto soprattutto in relazione ai termini di decadenza previsti dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio dei poteri di accertamento, di rettifica e di riscossione, essendo stato sostenuto, quale conseguenza dell’applicabilità del regime di sanatoria previsto per la notifica degli atti processuali, che la sanatoria (costituita, nella specie, dalla tempestiva proposizione del ricorso da parte di tutti i legittimati) comporti un’attribuzione di validità ex tunc alla notificazione di atti di accertamento e, quindi, impedisca il verificarsi della decadenza.

E’ da escludersi, peraltro, che l’applicazione del regime di sanatoria previsto dalla legge processuale civile sia una mera conseguenza della natura pre processuale o quasi processuale dell’accertamento tributario, il quale, in tale ottica, viene definito come una mera provocatio ad opponendum. L’atto in questione, costituisce, infatti, come tutti gli atti amministrativi autoritativi, lo strumento attraverso il quale – in ossequio ai principi di tipicità e nominatività – l’amministrazione enuncia nei confronti del destinatario ciò che deve essere per lui di diritto nel caso concreto; per quanto attiene all’imposizione fiscale, le ragioni e il contenuto della pretesa tributaria. Il momento processuale, che è meramente eventuale, laddove necessaria ed indefettibile è l’emanazione dell’atto di accertamento, quando non vi sia stato spontaneo ed esatto adempimento dell’obbligazione tributaria, si ricollega all’atto, sia perchè la tutela giurisdizionale si esercita – secondo il sistema processuale vigente – attraverso un meccanismo d’impugnazione dello stesso, sia perchè l’enunciazione della pretesa tributaria costituisce, al contempo, l’oggetto del processo. Tali elementi di collegamento non possono, pertanto, qualificare l’accertamento come un atto di natura assimilata a quella processuale, cosa che, d’altra parte, non sarebbe sostenibile per qualsiasi altro atto amministrativo nei cui confronti sia prevista una tutela giurisdizionale di tipo impugnatorio.

La natura sostanziale dell’atto in questione non costituisce, però, un ostacolo insormontabile all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando, come nella specie, vi sia un espresso richiamo nella disciplina tributaria. Per quanto concerne le notificazioni, l’impiego del procedimento di notificazione nel processo civile risponde ad evidenti necessità di garanzia del contribuente e non è nuovo nell’ordinamento: un esempio significativo – che, come si dirà in seguito, ha dato luogo a pronunce giurisprudenziali nelle quali si è posto il problema della sanatoria per conseguimento dello scopo – è costituito dal decreto di espropriazione secondo l’art. 51 della legge fondamentale 25 giugno 1865, n. 2359, il quale stabilisce che il decreto di espropriazione “deve, a cura dell’espropriante, essere notificato a forma delle citazioni ai proprietari espropriati”.

Ciò posto, pur in difetto di un espresso richiamo, l’applicazione delle forme sulla notificazione comporta, quale necessità logica, quella del regime delle nullità (in particolare, quella di origine giurisprudenziale sulla differenza tra nullità e inesistenza) e quella sulle sanatorie, che costituisce una sorta di limite alla dichiarazione di nullità, non essendovi alcun principio o ragione sistematica per ritenere che in materia di notificazione di atti di accertamento, pur regolata dal codice di procedura civile, viga un regime diverso. La sanatoria del raggiungimento dello scopo per atti non processuali non è, del resto, estranea al sistema: appare significativo che per gli atti impugnabili dinanzi al giudice amministrativo la piena conoscenza dell’atto – secondo gli articoli 36 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e 21, comma 1^, della legge 6 dicembre 1971, n. 1024 – costituisce vicenda equipollente alla sua notificazione ed è perciò idonea a far decorrere il termine di decadenza per proporre il ricorso al giudice amministrativo.

Tanto premesso, si deve affrontare il problema dell’operatività della sanatoria in relazione alla decadenza dall’esercizio del potere di accertamento.

Secondo le Sezioni Unite, l’applicazione della sanatoria del raggiungimento dello scopo nel caso di impugnazione dell’atto la cui notificazione sia affetta da nullità significa che, se il contribuente mostra di aver avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto e ha potuto adeguatamente esercitare il proprio diritto di difesa, lo stesso contribuente non potrà, in via di principio, dedurre i vizi relativi alla notificazione a sostegno di una domanda di annullamento. A diverse conclusioni deve, peraltro, pervenirsi se la sanatoria, costituita dalla proposizione del ricorso alle commissioni sia intervenuta quando il termine per l’esercizio del potere di accertamento è scaduto. In tale ipotesi, infatti, il meccanismo della sanatoria deve essere combinato con quello, indefettibile, della decadenza dall’esercizio del potere, per cui la sanatoria può verificarsi solo se avvenuta prima del decorso del termine di decadenza. Vi è da rilevare, infatti, che la notificazione costituisce un elemento essenziale della fattispecie necessaria per evitare la decadenza dell’amministrazione. In altri termini, dall’esercizio del diritto di difesa mediante proposizione del ricorso non può mai derivare una convalida ex tunc di un atto imperfetto, di per sè inidoneo ad evitare la decadenza.

Si tratta di una conseguenza dell’applicazione di principi generali, nei casi in cui la legge pone limiti temporali all’esercizio di poteri amministrativi. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi del decreto di espropriazione emesso successivamente alla scadenza del termine indicato nella dichiarazione di pubblica utilità: in tale caso, secondo la giurisprudenza della Corte, l’atto si considera emesso in carenza di potere e nessun effetto sanante può derivare da una sua impugnazione dinanzi al giudice amministrativo.

Una consolidata giurisprudenza della Corte ha affermato che l’applicazione del regime processuale della notificazione al decreto di espropriazione – formalità che segna, secondo il secondo comma dell’art. 51 della legge n. 2359 del 1865, l’inizio del termine di decadenza per proporre opposizione alla stima – non consente di ritenere che, attraverso la sanatoria per raggiungimento dello scopo, l’espropriato che abbia proposto opposizione deducendo il vizio della notificazione possa considerarsi decaduto, in quanto la decadenza ha natura sostanziale. Nella sentenza n. 2318/90 la Corte ha affermato che la nullità della notificazione del decreto di espropriazione ha carattere sostanziale, e non processuale e, nell’ambito del procedimento espropriativo, impedisce il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima. Pertanto, anche se gl’interessati possono proporre opposizione anche subito dopo l’emanazione del decreto ablativo, non possono ritenersi soggetti al termine di decadenza, che per essi mai aveva iniziato a decorrere.

Quindi non può trovare applicazione il principio della sanatoria della notificazione nulla per il raggiungimento dello scopo, nell’ipotesi in cui l’atto sia comunque venuto a conoscenza dell’interessato.

Identico principio è stato affermato nella sentenza 319/87, nella quale la Corte ha ritenuto che, in caso di nullità della citazione contenente un atto di riscatto di fondi agrari, la sanatoria (consistente nella costituzione del convenuto) non può evitare la decadenza dall’esercizio del diritto di riscatto.

In altri termini, per ritornare all’accertamento tributario, la nullità della sua notificazione può essere sanata relativamente al conseguimento della finalità dell’atto di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributaria e consentirgli, così, un’adeguata difesa, ma non mai nel senso di attribuire ex tunc validità a un intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio di tale potere.

Vi è da considerare, inoltre, che la sanatoria del raggiungimento dello scopo non può eliminare gli effetti della decadenza, neppure quando questa ha natura processuale. Nella sentenza n. 9342/97 le Sezioni Unite hanno affermato che la tardiva notificazione della citazione in riassunzione è un atto per sua natura e ab origine inidoneo ad evitare la decadenza di cui all’art. 392 cod. proc. civ., per cui nessuna sanatoria può conseguire alla costituzione del convenuto, essendo l’atto ab origine inidoneo a produrre effetti.

Identica soluzione è stata adottata in tema di nullità della notificazione dell’appello ad alcune parti, in relazione alla quale la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la sanatoria, costituita dalla costituzione degli appellati, non può impedire la decadenza se la costituzione sia avvenuta successivamente alla scadenza del termine per proporre l’impugnazione.

Poste questi premesse, necessarie per delimitare gli effetti dell’applicazione della sanatoria, che può evitare la decadenza dal potere di accertamento soltanto ove sia intervenuta prima della scadenza del termine (per riferirsi al caso di specie, ove il ricorso alla commissione di primo grado sia proposto entro tale termine), vi è, comunque, da rilevare che la decadenza dell’amministrazione finanziaria dal potere di accertamento – secondo una consolidata giurisprudenza della Corte – non produce l’inesistenza degli atti impositivi successivamente emanati, per cui anche in tal caso il contribuente ha l’onere di dedurre la decadenza come specifico vizio nel ricorso introduttivo dinanzi alle commissioni tributarie, escludendosi un potere di declaratoria ex officio del giudice. E’ evidente, altresì, che la proposizione di un ricorso introduttivo nel quale si faccia valere, da sola o con altri vizi, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere di accertamento non svolgerà in nessun caso un indiscriminato effetto sanante nei confronti di tale vizio.

Applicando tali principi al caso di specie, il vizio dedotto deve essere indubbiamente ricondotto all’ipotesi di nullità e non a quello dell’inesistenza, essendo stata la notifica effettuata a uno degli eredi, persona non priva di un collegamento col destinatario previsto, e cioè gli eredi collettivamente e impersonalmente. E’ del pari evidente che l’ufficio finanziario era a conoscenza del decesso di Eliseo Di Vito, per cui non può essere addebitata agli eredi alcuna conseguenza per la mancata segnalazione all’ufficio del decesso e dei nominativi degli eredi. Avendo tutti gli eredi proposto ricorso avverso l’avviso di liquidazione dinanzi alla commissione tributaria provinciale, svolgendo adeguate difese e così dimostrando di avere una piena conoscenza del contenuto dell’atto impugnato, il vizio della notificazione non poteva essere dichiarato dal giudice.

Mentre, nella specie, nessuna questione era stata svolta dai ricorrenti sulla decadenza dell’ufficio del potere di accertamento.

L’accoglimento della censura comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della commissione tributaria regionale del Lazio, la quale dovrà, pertanto, esaminare gli altri motivi dedotti dai contribuenti a sostegno dell’appello e decidere anche sulle spese della presente fase.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite;

accoglie il secondo motivo e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale del Lazio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 3 giugno 2004.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2004

Riferimenti normativi

CPC Art.137

CPC Art.156

CPC Art.160

DPR 29-09-1973 n. 600, Art. 42

DPR 29-09-1973 n. 600, Art. 43

DPR 29-09-1973 n. 600, Art. 60


Cass. civ. Sez. V, (ud. 18-06-2003) 06-05-2004, n. 8625

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FAVARA Ugo – Presidente –

Dott. CICALA Mario – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIELLI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

s.n.c. A.R. di R.G. & C., con sede a Campobasso, in persona dell’amministratore unico G.R., elettivamente domiciliata in Roma, via xxx, presso l’avv. Giuseppe Petrucciani, rappresentata e difesa, per procura a margine del ricorso, dagli avvocati Angelo Cima e Pietro Colucci del foro di Campobasso;

– ricorrente –

contro

Comune di Campobasso;

– intimato non costituito –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Molise n. 184/2/99 dell’8 aprile 1999, depositata l’8 giugno 1999, notificata il 6 luglio 1999.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 18 giugno 2003 dal Relatore Consigliere Dott. Stefano Bielli;

Udito il P.M. in persona del sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto De Augustinis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con avviso di accertamento emesso il 22 dicembre 1995, il Comune di Campobasso rettificava, per il 1990 (richiedendone il maggiore importo, con le correlative sanzioni pecuniarie), l’Imposta comunale per l’esercizio di imprese, arti e professioni (ICIAP) a carico della s.n.c. A.R. di R.G. & C., modificando da mq. 72, 50 a mq. 200 la superficie denunciata il 27 giugno 1960 dalla contribuente come utilizzata per lo svolgimento dell’attività di concessionaria F. (in via xxx).

2. Con sentenza n. 203/3/1996 del 30 ottobre 1996, depositata l’11 gennaio 1997, la Commissione tributaria provinciale di Campobasso respingeva il ricorso proposto dalla s.n.c., contro l’avviso.

3. La società impugnava tale decisione, affermando di aver utilizzato dal 1991 un locale di mq. 126, sito in contrada xxx, mentre il locale di mq. 220, sito in via xxx, era rimasto inutilizzato per il 1990 e per il 1991 (per fitto a terzi, ristrutturazione e per essere stata iniziata in esso – dalla società – l’attività di vendita di autovetture solo dall’11 marzo 1991) ed osservando che il presupposto dell’ICIAP era l’effettivo utilizzo dei locali e non già, come invece, per la TARSU, il loro mero possesso.

con sentenza n. 184/2/99 dell’8 aprile 1999, depositata l’8 giugno 1999 e notificata il 6 luglio 1999, la Commissione tributaria regionale del Molise, in parziale riforma della predetta sentenza, appellata dalla contribuente, annullava le sanzioni pecuniarie indicate nell’avviso di accertamento e compensava le spese di lite, osservando: a) che il Comune, già nel corso del giudizio di primo grado, aveva dimostrato che l’accertamento della maggiore superficie era basato su elementi certi, tratti dalla dichiarazione della stessa contribuente ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani per il 1990, relativa ad un locale di mq. 220 (superficie indicata nell’avviso ICIAP limitatamente a mq. 200) destinato ad attività commerciale, tali da smentire l’assunto della società di aver utilizzato la maggiore superficie solo a partire dal 1992; b) che, a prescindere dai diversi criteri ispiratori della TARSU e dell’ICIAP, appariva difficile che, relativamente alla stessa attività, fosse stata dichiarata dalla società una superficie diversa; c) che, pertanto, ricorrevano le condizioni per l’assoggettamento al tributo, secondo quanto indicato nell’avviso; d) che le modifiche normative concernenti i tributi locali e le oggettive difficoltà per i contribuenti di far fronte ai molteplici obblighi a loro carico giustificavano la decisione di non applicare le sanzioni.

4. Con ricorso notificato il 16 settembre 1999 e depositato il 29 settembre 1999, la s.n.c. A.R. di R.G. & C. ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, articolando quattro motivi.

5. Non si costituisce in giudizio l’intimato Comune di Campobasso.

Motivi della decisione
1. Con i proposti motivi di impugnazione, la società ricorrente complessivamente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 4 della l. n. 144 del 1989, 62 del d. lgs. n. 507 del 1993; lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza su punti decisivi della controversia; si duole della carenza di motivazione “degli atti impositivi”.

2. Più in particolare, con il primo motivo, la contribuente ripropone, sotto il profilo della violazione di legge, l’assunto, già prospettato in appello, secondo cui, per l’applicazione dell’ICIAP, la superficie deve essere utilizzata per lo svolgimento di un’attività imprenditoriale, artistica o professionale (insediamento), mentre per l’applicazione della TARSU è sufficiente “l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte, a qualsiasi uso adibite” (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, come modificato dall’art. 1, comma 28, della l. n. 426 del 1998).

3. Il motivo è infondato, perché la ratio decidendi della sentenza non si basa sull’irrilevanza del modo di utilizzazione dei locali in questione, ma sull’accertamento, in punto di fatto, dell’esistenza, in essi, di un insediamento produttivo (“destinazione ad attività commerciale”).

Mentre la ricorrente afferma che il locale di mq. 220, nel 1990, non era adibito ad attività commerciale, la sentenza impugnata asserisce che nei locali della s.n.c. veniva svolta la “stessa attività” e che, in particolare, il locale di mq. 220 aveva una “destinazione ad attività commerciale”: la dichiarazione della contribuente, ai fini TARSU, relativa ad una superficie di mq. 220, viene richiamata nella sentenza di appello solo per dimostrare che l’entità della superficie (utilizzata – come affermato dal giudice regionale – per la “stessa attività”) non poteva essere diversa.

Si è dunque in presenza di un insindacabile accertamento in fatto del giudice merito, non già della denunciata violazione di legge.

4. Con il secondo motivo, la ricorrente si duole dell’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, in quanto questa non avrebbe fornito risposta in ordine alla contestazione dell’equiparazione dei presupposti della TARSU e dell’ICIAP.

5. Il motivo è infondato, perché non attiene al vizio di motivazione circa l’accertamento (in punto di fatto) dell’attività commerciale svolta nel locale di via xxx, ma solo all’asserita erronea equiparazione dei presupposti dei due tributi. Come già osservato nel p. 3.-, il giudice di appello ha deciso sulla base del non censurato rilievo che nel locale di via xxx veniva esercitata attività commerciale, con conseguente applicabilità dell’ICIAP, senza prospettare alcuna equiparazione dei presupposti dell’ICIAP e della TARSU “a prescindere dai diversi criteri ispiratori dei due tributi”).

6. Con il terzo motivo, la società lamenta il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato.

7. Il motivo è inammissibile, perché non prospettato in appello (v. il p. 3. – della parte narrativa di questa sentenza, nel quale sono riassunti i motivi di appello).

8. Con il quarto motivo, viene denunciata la nullità della notifica della sentenza della commissione regionale, perché eseguita dal messo comunale, senza l’autorizzazione del Presidente del Tribunale.

9. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse, avendo la società proposto tempestivo ricorso in relazione alla data dell’asseritamente nulla notificazione, dimostrando di aver ricevuto la comunicazione dell’atto e di averne preso piena cognizione, difendendosi nel merito: di qui l’irrilevanza della censura. Al riguardo è qui sufficiente ricordare che la notificazione di un atto processuale eseguita dal messo comunale senza la specifica autorizzazione del Presidente del tribunale, prevista dall’art. 34 del d.P.R. n. 1229 del 1959, come modificato dalla l. n. 546 del 1962, è affetta da nullità e non da inesistenza, con la conseguenza che è sanabile non solo a seguito della costituzione in giudizio della parte, ma anche in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova dell’avvenuta comunicazione dell’atto al notificato (v., tra le altre, Cass., n. 9395 del 1995; n. 1585 del 1996; n. 770 del 1999).

10. La mancata costituzione dell’intimato esclude ogni pronuncia sulle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 18 giugno 2003.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2004.


Cass. civ. Sez. I, (ud. 13-01-2004) 06-04-2004, n. 6761

La s.r.l. A. proponeva opposizione avverso la sentenza, resa il 20 luglio 1995, con cui il Tribunale di Bologna ne aveva dichiarato d’ufficio il fallimento. In particolare, l’opponente deduceva la nullità della notifica del decreto di convocazione in Camera di consiglio a, nel merito, l’insussistenza dello stato di insolvenza. Quanto al primo punto, che interessa in questa sede, l’opponente esponeva che essa aveva sede in Bologna via C. con numero civico originariamente contrassegnato con il n. 1. e successivamente, a seguito di una variazione di numerazione intervenuta in data 15 maggio 1995, con il n. 15/A; che il suo amministratore, D.R., era residente nella stessa via C. al n. 1.; che l’ufficiale giudiziario nella relata concernente il tentativo di notifica effettuato il 17 maggio 1995 aveva attestato che la s.r.l. A. ed il suo amministratore non risultavano conosciuti al numero civico 1. di via C.; che, pertanto, l’ufficiale giudiziario non aveva usato la diligenza ordinaria per rinvenire i destinatari delle notifiche e la relata doveva ritenersi falsa laddove aveva fatto menzione di ricerche svolte e di informazioni assunta.

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Angelo GRIECO – Presidente

Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO – Consigliere

Dott. Donato PLENTEDA – Consigliere

Dott. Carlo PICCININNI – Consigliere

Dott. Sergio DI AMATO – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:

FALLIMENTO A. S.R.L. in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DELLE MILIZIE 1 presso l’avvocato PIETRO SCIUBBA che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFREDO ROSSI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A. S.R.L., in persona dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso l’avvocato ANTONELLA FAIETA, rappresentata e difesa dagli avvocati FAUSTO PACIFICO, FRANCESCO GASPARDINI, LORENZO GIUSTO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sent. n. 1029/00 della Corte d’Appello di BOLOGNA, depositata il 27 luglio 2000;

udita la relazione dalla causa svolta nella pubblica udienza del 13 gennaio 2004 dal Consigliere Dott. Sergio DI AMATO;

udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La s.r.l. A. proponeva opposizione avverso la sentenza, resa il 20 luglio 1995, con cui il Tribunale di Bologna ne aveva dichiarato d’ufficio il fallimento. In particolare, l’opponente deduceva la nullità della notifica del decreto di convocazione in Camera di consiglio a, nel merito, l’insussistenza dello stato di insolvenza. Quanto al primo punto, che interessa in questa sede, l’opponente esponeva che essa aveva sede in Bologna via C. con numero civico originariamente contrassegnato con il n. 1. e successivamente, a seguito di una variazione di numerazione intervenuta in data 15 maggio 1995, con il n. 15/A; che il suo amministratore, D.R., era residente nella stessa via C. al n. 1.; che l’ufficiale giudiziario nella relata concernente il tentativo di notifica effettuato il 17 maggio 1995 aveva attestato che la s.r.l. A. ed il suo amministratore non risultavano conosciuti al numero civico 1. di via C.; che, pertanto, l’ufficiale giudiziario non aveva usato la diligenza ordinaria per rinvenire i destinatari delle notifiche e la relata doveva ritenersi falsa laddove aveva fatto menzione di ricerche svolte e di informazioni assunta.

Il fallimento si costituiva contestando la fondatezza dell’opposizione. Nel corso del giudizio di primo grado la società opponente impugnava con querela di falso la relata di notifica.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza del 15 luglio 1998, rigettava sia l’opposizione che la querela di falso e, per quanto qui ancora interessa, osservava: 1) che la sede legale della s.r.l. A. doveva identificarsi con la residenza del suo amministratore e che entrambe, dalle certificazioni pubbliche, risultavano al n. 19 di via C.; 2) che, pertanto, o la società e l’amministratore avevano effettivamente sede e residenza al n. 1. oppure la società, indipendentemente dalla numerazione successivamente attribuita dal Comune, aveva sede in uno dei locali (un magazzino ed un’autorimessa) cui si accedeva dal cancello, originariamente senza numero, adiacente al n. 19; 3) che in questa seconda ipotesi, di fatto riconducibile alla tesi dell’opponente, vi era una discrasia tra situazione reale e situazione resa conoscibile ai terzi, senza che vi fosse la prova dell’esistenza in loco di indicazioni idonee a consentire il reperimento degli interessati; 4) che non vi era prova che l’ufficiale giudiziario non avesse svolto adeguati accertamenti e che nella situazione descritta non si poteva ritenere che l’ufficiale giudiziario fosse tenuto ad una sistematica interrogazione di tutti i vicini.

Avverso detta sentenza la s.r.l. A. proponeva appello che la Corte di Bologna accoglieva, con sentenza del 27 luglio 2000, osservando che: 1) era infondata l’eccezione sollevata dal fallimento di inammissibilità dell’appello per mancata indicazione degli specifici motivi di gravame correlati alla motivazione della sentenza impugnata; infatti, nella specie la riproposizione di difese analoghe a quelle svolte nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado si convertiva nella specifica esposizione delle doglianze svolte dalla parte soccombente nei confronti della sentenza che non aveva accolto la prospettazione dell’opponente; in particolare, affermando che l’ufficiale giudiziario non si trovava nell’impossibilità di individuare sede della società e residenza dell’amministratore, l’appellante aveva contestato la fondatala dalla argomentazione dal primo giudice in ordine alla assenza dalla indicazione dei nominativi ed al mancato assolvimento dell’onere di far coincidere la situazione di fatto con quella dichiarata o almeno, nel caso di una qualche discrasia, di porre in essere gli accorgimenti per ovviarvi; 2) non costituiva domanda nuova, come assunto dal fallimento, la deduzione della nullità della notificazione per genericità della relazione dell’ufficiale giudiziario; infatti, l’atto di citazione evidenziava i medesimi motivi di nullità della notificazione dedotti con l’appello e nelle conclusioni finali del giudizio di primo grado, assunte all’udienza del 2 aprile 1998, l’opponente aveva insistito nella dichiarazione di nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa del debitore, richiamando in tal modo anche i motivi di nullità esposti originariamente; 3) quanto alla nullità della notificazione, indipendentemente dalla questione della coincidenza o meno della sede dalla società e della residenza dell’amministratore, era certo che entrambe non avevano subito variazioni così come non era cambiata la situazione reale dei luoghi che rendeva evidente come l’area cortilizia, alla quale era stata attribuita una autonoma numerazione, fosse comunque annessa all’edificio contrassegnato con il n. 1.; 4) in tale situazione non poteva sostenersi che fosse onere della società o del suo amministratore attuare una qualche comunicazione ai terzi, considerato anche che società ed amministratore erano rimasti rintracciabili nei medesimi luoghi in cui si trovavano da anni, come era dimostrato da numerose notifiche andata a buon fine sia prima che dopo l’omessa notifica del 17 maggio 1995 (compresa la notificazione della sentenza dichiarativa di fallimento ad opera dello stesso ufficiale giudiziario); 5) in tale situazione, infine, si doveva ritenere generica ed insufficiente la relazione dell’ufficiale giudiziario che nell’occasione si era limitato ad attestare che “da informazioni e ricerche assunte in loco” il destinatario non risultava conosciuto al civico indicato, senza fornire ulteriori precisazioni tali da consentire il necessario controllo sulla completezza delle notizie effettivamente raccolte e sulla regolarità del procedimento ed evidenziando, anzi, che nessuna ricerca anagrafica era stata effettuata presso il Comune; 6) in contrario non assumeva rilievo la circostanza, del resto neppure provata in modo certo, che i nominativi della società e del suo amministratore non figurassero dinanzi alla porta di ingresso dello stabile di via C. e neppure dinanzi al cancello dell’area cortilizia, atteso che tale circostanza non escludeva, comunque, la possibilità dall’ufficiale giudiziario di accertare, tramite una più attenta ricerca, che la società ed il suo amministratore avevano ivi la propria sede ed il proprio domicilio. Pertanto, la Corte di Bologna, ritenuta la nullità della successiva notificazione effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dichiarava la nullità della sentenza di fallimento della s.r.l. A..

Avverso detta sentenza il fallimento della s.r.l. A. propone ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi. La s.r.l. A. resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il fallimento ricorrente lamenta la violazione dell’art. 342 c.p.c. ed il vizio di motivazione, deducendo che la riproposizione di difese analoghe a quelle svolte nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era motivo di inammissibilità dell’appello per mancanza di adeguate critiche alla motivazione della sentenza impugnata; la Corte di appello, inoltre, non aveva spiegato perché la riproposizione delle difese si convertisse nella specifica esposizione delle doglianze né aveva indicato i punti di correlazione tra l’appello e la sentenza.

Il motivo è infondato. In tema di giudizio di appello, la ricorrenza dalla specificità dei motivi non può essere definita in via generala ed assoluta, ma va correlata con la motivazione della sentenza impugnata e deve ritenersi sussistente quando alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengono contrapposte quelle dell’appellato in modo da incrinare il fondamento logico – giuridico delle prime, come nell’ipotesi in cui l’appellante, pur non procedendo all’esplicito esame dei passaggi argomentativi della sentenza, svolga i motivi di appello in modo incompatibile con la complessiva argomentazione della decisione impugnata; infatti, l’esame dei singoli passaggi argomentativi e inutile, una volta che l’appellante abbia esposto argomentazioni incompatibili con le stesse premesse del ragionamento della sentenza impugnata (cfr. Cass. 23 ottobre 2003, n. 15936). Pertanto, riproponendo il rilievo di un domicilio e di una sede legale che non avevano subito modificazioni, se non una nuova numerazione accertabile con ricerche anagrafiche, e di una documentata rintracciabilità che era rimasta ferma nel tempo, l’appellante aveva contestato chiaramente le stesse premesse del ragionamento del primo giudice, secondo il quale sussisteva una discrasia tra risultanze legali e situazione di fatto che rendeva necessaria la presenza in loco di indicazioni per consentire di rintracciare i destinatari.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di merito aveva escluso la novità della domanda di nullità della notificazione per genericità della relata, senza tenere conto del tenore delle conclusioni assunte in primo grado, con le quali era stata chiesta la dichiarazione di falsità delle affermazioni contenute nella stessa relata.

Il motivo e infondato. La Corte di merito, contrariamente a quanto assume il fallimento ricorrente, ha espressamente preso in considerazione le conclusioni della s.r.l. A. nel giudizio di primo grado e le ha confrontate con le conclusioni dell’atto di citazione, affermando, con motivazione immune di vizi logici e giuridici, che l’accertamento della nullità della notificazione non poteva ritenersi abbandonato considerato che lo stesso era compreso nell’onnicomprensiva richiesta di declaratoria della nullità della sentenza dichiarativa di fallimento per violazione dei diritti di difesa.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., lamentando che la Corte di merito aveva disatteso il giudicato formatosi sull’accertamento della sede della società, che la sentenza di primo grado aveva individuato in via C.1. presso l’abitazione dell’amministratore.

Il motivo e infondato. La Corte di merito, come riferito in narrativa, ha espressamente affermato l’indifferenza della pretesa coincidenza tra il domicilio dell’amministratore e la sede della società ed ha fondato la decisione sulla insufficienza e genericità delle indagini che, sulla base della relata di notifica, l’ufficiale giudiziario risultava avere svolto in una situazione nella quale era stata dimostrata la reperibilità dei destinatari all’indirizzo indicato. Il motivo, pertanto, non coglie la ratio decidendi.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione degli art. 2475 c.c. n. 2, art. 2383 c.c., quarto comma, come richiamato dall’art. 2487 c.c., secondo comma, e art. 2193 c.c., lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto che l’ufficiale giudiziario fosse tenuto ad effettuare ricerche presso l’ufficio anagrafico e non fossero sufficienti le ricerche presso la sede della società ed il domicilio dell’amministratore risultanti dal registro delle imprese; inoltre, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., affermando che l’onere di provare l’esistenza di indicazioni atte a rintracciare la società e l’amministratore destinatari dalle notifichi doveva ritenersi a carico di chi ne sosteneva la nullità.

Il motivo e infondato. Il passaggio dalla notifica presso la sede della società ovvero, ove ciò non sia possibile, presso il domicilio del suo amministratore alla notifica prevista dall’art. 143 c.p.c. (Cass. s.u. 4 giugno 2002, n. 8091) presuppone che la società ed il suo amministratore non siano reperibili rispettivamente presso la sede risultante dal registro delle imprese e presso il domicilio anagrafico. La sussistenza del predetto presupposto di irreperibilità può ricorrere anche in una situazione nella quale, come nella specie, nel corso del giudizio si accerti che la società ed il suo amministratore siano stati in concreto rintracciati in altre precedenti e successive occasioni rispettivamente presso la sede risultante dal registro delle imprese e presso la residenza anagrafica; ciò, tuttavia, richiede che l’ufficiale giudiziario abbia svolto ricerche e chiesto informazioni in nodo adeguato, così da consentire di presumere che i diversi esiti di altre notificazioni siano riconducibili non ad una doverosa e diligente attività di ricerca dei destinatari, ma a circostanze fortunate non sempre ripetibili; inoltre, 4 necessario che, come previsto dall’art. 148 c.p.c., di detta attività si dia atto specificamente nella relazione di notifica. Pertanto, esattamente la Corta di appello ha ritenuto insuscettibile di valutazione, al fine di ritenere l’irreperibilità, l’attività di ricerca risultante da una relazione nella quale l’ufficiale giudiziario si limiti a riferire che “da informazioni e ricerche assunte in loco” il destinatario non risultava conosciuto al civico indicato; infatti, il generico tenore della relazione non consente di avere contezza dell’attività in concreto svolta né di verificare che siano state svolte le indagini e raccolte le informazioni che la situazione consentiva (Cass. 28 marzo 1987, n. 3025).

In tale situazione, inoltre, la Corte di merito ha esattamente ritenuto assorbita ogni questione in ordine alla pretesa assenza di indicazioni utili a rintracciare i destinatari. Infatti, l’indicazione del nome o della denominazione sociale sui citofoni o sulla cassetta postale o in altro modo non è oggetto di un obbligo di legge (Cass. 16 luglio 2003, n. 11138) e rappresenta soltanto un onere configurabile quando la situazione dei luoghi non consente di rintracciare il destinatario, malgrado doverose e diligenti ricerche sul posto. Proprio tale presupposto, tuttavia, è risultato mancante nella fattispecie, caratterizzata, da un lato, da un contesto in cui la sede ed il domicilio dei destinatari sono rimasti stabili e altre notifichi, in momenti precedenti e successivi, sono andate a buon fine e, dall’altro, dalla genericità delle ricerche attestate dall’ufficiale giudiziario.

Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione degli art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. per non avere tenuto presente, ai fini della decisione, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado relativamente al rigetto della querela di falso; da ciò, infatti, discendeva l’incontestabilità tra le parti della veridicità della relata di notifica laddove l’ufficiale giudiziario aveva affermato che “da informazioni assunte e ricerche esperite in loco” i destinatari non risultavano conosciuti al civico indicato. Pertanto, in violazione del giudicato la Corte di appello aveva affermato che la “relata … era del tutto insufficiente”.

Il motivo è infondato. Il giudicato sulla querela di falso se rende incontestabile la veridicità dall’affermazione che sulla base delle informazioni assunte e delle ricerche esperite l’ufficiale giudiziario non aveva potuto rintracciare i destinatari, non pregiudica alcuna valutazione sulla sufficienza e specificità di tali ricerche ed informazioni.

Soccorrono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.
rigetta il ricorso; compensa le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2004.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2004


Cass. civ. Sez. I, (ud. 23-06-2003) 02-12-2003, n. 18385

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Antonio SAGGIO – Presidente

Dott. Vincenzo PROTO – Consigliere

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI – Consigliere

Dott. Francesco FELICETTI – Consigliere

Dott. Onofrio FITTIPALDI – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MANCINI ORAZIO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA SALLUSTIO 9, presso l’avvocato BARTOLO SPALLINA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO LOMBARDI, giusta procura speciale per Notaio Mario Iannella di Benevento, rep. n. 269097 dell’8 agosto 2000;

– ricorrente –

contro

MANCINI FELICE, MANCINI GIOCONDINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BAIAMONTI 4, presso l’avvocato LUIGI BARULLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI GRASSI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sent. n. 339/00 del Tribunale di BENEVENTO, depositata il 26 aprile 2000;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 giugno 2003 dal Consigliere Dott. Onofrio FITTIPALDI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Spallina che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato Grassi che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato, ai sensi dell’art. 143 c.p.c. il 19 dicembre 1995, il sig. Mancini Orazio conveniva, innanzi al Pretore di Benevento, i signori Mancini Felice e Mancini Giocondina, chiedendo che fossero riconosciuti il suo diritto di proprietà su di una serie di beni immobili, per avvenuta usucapione degli stessi, e la concomitante invalidità dell’atto per notaio Iazzeolla del 9 marzo 1995 con il quale i convenuti risultavano avere acquistato, dai precedenti proprietari, i beni in questione.

Il Pretore, ritenuta la contumacia dei non costituitisi convenuti, con sentenza del 20 gennaio 1999, rigettata, per carenza di legittimazione attiva, la domanda di dichiarazione di invalidità, accoglieva l’altra domanda relativa alla usucapione.

Proponevano appello, con atto notificato il 22 febbraio 1999, il Mancini Felice e Mancini Giocondina, eccependo la nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, per l’essere esso stato notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c., nonché contestando nel merito il fondamento dell’accolta domanda e quindi concludendo, in via principale, perché, previa dichiarazione della nullità della notifica dell’atto introduttivo di I grado, gli atti fossero rimessi al primo giudice, ed, in via gradata, perché venisse rigettata nel merito la domanda del Mancini Orazio.

Allo scopo chiedevano, fra l’altro, interrogatorio formale diretto a dimostrare che l’appellato – a loro dire – ben conosceva la circostanza che essi si erano trasferiti in Canada.

Resisteva il Mancini Orazio.

Il Tribunale, dopo alcuni provvedimenti rivolti ad assicurare l’integrità del contraddittorio nei confronti della Mancini Giocondina, accoglieva il gravame, rilevando:

a) come la notifica di un atto giudiziario ai sensi dell’art. 143 c.p.c., in tanto può ritenersi legittimamente eseguita nei confronti di destinatario che si sia trasferito all’estero, in quanto la residenza, la dimora o il domicilio estero non risultino conosciuti e sussista l’oggettiva impossibilità della loro individuazione, malgrado l’esperimento delle indagini suggerite, nel caso concreto, dalla comune diligenza, le quali debbono risultare dalla stessa relazione dell’ufficiale notificatore;

b) come, nella fattispecie risultassero effettuate relazioni di notifica negative solo con riguardo al comune di Casalduni nel quale i convenuti avevano eletto domicilio nell’atto di compravendita;

c) come nessuna ricerca risultasse invece effettuata in Pontelandolfo, luogo di ultima residenza dei destinatari, da parte dell’ufficiale notificatore;

d) come l’irreperibilità risultasse – conseguentemente – essere stata accertata esclusivamente in base ai certificati anagrafici rilasciati dal Comune;

e) come si rendesse pertanto configurabile la fattispecie della “ignoranza colpevole” (Cass. 3358/91); f) come la causa andasse pertanto rimessa al giudice di primo grado.

Ricorre per cassazione il Mancini Orazio sulla base di 1 motivo.

Resistono, con controricorso assistito da memoria, gli intimati.

Motivi della decisione
Con il suo motivo il ricorrente, nel dedurre “violazione e falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c. – omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia”, lamenta l’erroneità – a suo dire – dell’impugnata sentenza, posto che, risultando ignota la residenza all’estero dei due convenuti, e rendendosi pertanto impossibile il ricorso alle modalità di notificazione di cui all’art. 142 c.p.c., l’unica formalità di notifica praticabile nella fattispecie si era resa appunto quella nei fatti da esso Mancini seguita, ed operata ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Il ricorrente pone più in particolare in luce, fra l’altro:

a) l’impossibilità di procedere a ricerche nel comune di Pontelandolfo – luogo di ultima residenza noto dei convenuti prima della loro cancellazione per irreperibilità al censimento del 1991 – una volta che il certificato anagrafico del suddetto comune li dava appunto – cancellati per irreperibilità;

b) il profilo per cui la diligenza nelle ricerche pretesa – in questi casi – dall’ordinamento sia pur sempre quella ordinaria (non comportando di certo essa l’onere di eseguire indagini straordinarie), e per cui essa, nella fattispecie concreta, si fosse già adeguatamente espressa, posto che esso Mancini si era preso cura di tentare la notifica nel domicilio contrattuale eletto in Casalduni;

c) l’ulteriore profilo per cui si rendesse pertanto del tutto illogica e perciò inesigibile, nella fattispecie concreta, pur di fronte ad una certificazione anagrafica del luogo di ultima residenza nota (Pontelandolfo), attestante l’irreperibilità della controparte, l’effettuazione di un preliminare tentativo di notifica proprio nel luogo di tale ultima residenza;

d) il fatto che il Tribunale di Benevento abbia del tutto omesso di considerare che, nella fattispecie, gli appellanti, comunque, nessuna prova avessero fornito della utilità in concreto di un tentativo di notifica eventualmente esperito in Pontelandolfo, ovvero della possibilità di conseguire, in quel luogo, attraverso i terzi, notizie ed informazioni circa la loro residenza all’estero.

Il motivo si rivela infondato e non può pertanto trovare alcun accoglimento.

Ed infatti, premesso come in fatto risulti incontestato (ed emerga, in ogni caso, anche dalla – consentita, dato il tipo di vizio lamentato – visione diretta degli atti processuali) come, in sede di notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, l’ufficiale giudiziario abbia fatto precedere le formalità di cui all’art. 143 c.p.c. (deposito dell’atto nella casa comunale di Pontelandolfo) dal solo tentativo di notifica compiuto in Casalduni (luogo di un domicilio eletto dai convenuti, in un contratto intercorso con terzi), va ribadito, ancora una volta, il principio già altre volte affermato da questa Suprema Corte, secondo cui il ricorso alle formalità di notifica di cui all’art. 143 c.p.c. non possa mai essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presupponga comunque e sempre che, nel luogo di ultima residenza nota siano compiute effettive ricerche (per tutte, vedi, oltre alla richiamata Cass. 3358/91: Cass. n. 3799/97; Cass. n. 6257/97; Cass. n. 4399/2001) e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto; il che equivale a dire che – quantomeno – in una fattispecie del genere, l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine – fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.

Va posto più in particolare in luce come, tutto il complesso di esigenze già sottolineate e poste in luce con la ben nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte n. 6737/2002 non possa ritenersi di certo soddisfatto attraverso il mero rinvio alle risultanze anagrafiche.

Il ricorso va pertanto rigettato,

Con condanna del ricorrente alla refusione delle spese di questa ulteriore fase, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione delle spese di questa fase in favore dei resistenti, che liquida in € 900,00 ciascuno per onorari ed in € 100,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso nella Camera di Consiglio della I Sezione civile della Suprema corte di Cassazione il 23 giugno 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 2 DIC. 2003