Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 13/12/1996) 13/12/1996, n. 11152

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Michele CANTILLO Presidente

” Antonio CATALANO Consigliere

” Giovanni VERUCCI “

” Giulio GRAZIADEI “

” Salvatore DI PALMA Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

MAZZARELLO GIUSEPPE, BOVI ANGELINA;

Intimati

avverso la sentenza n. 1824/91 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 03/06/91;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/96 dal Relatore Consigliere Dott. Salvatore DI PALMA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto del 14 luglio 1981, registrato presso l’Ufficio del Registro di Anzio il successivo 3 agosto, Giuseppe Mazzarello ed Angelina Bovi vendettero un immobile al valore dichiarato di lire 50.000.000. L’ufficio del registro procedette ad accertamento ai fini INVIM, rettificando il valore dichiarato in aumento per lire 70.000.000, e successivamente notificava ai contribuenti avviso di liquidazione del maggior valore accertato e delle imposte dovute.

Avverso il predetto avviso di liquidazione i contribuenti proposero ricorso alla Commissione Tributaria di 1° grado di Velletri, sostenendo, tra l’altro, l’illegittimità dell’avviso di liquidazione in quanto non preceduto da rituale notifica dell’avviso di accertamento, mai portato a loro conoscenza e quindi non divenuto definitivo.

La Commissione di primo grado, omettendo ogni pronunzia sulle eccezioni preliminari di rito, accolse nel merito il ricorso, dichiarando applicabile la nuova normativa (DPR n. 131 del 1986); più favorevole al contribuente e ritenendo, per l’effetto, che il valore dichiarato fosse addirittura superiore a quello che poteva essere dichiarato con i criteri automatici legali, in base ai quali l’immobile avrebbe avuto un valore di lire 47.520.000).

Avverso la predetta decisione l’Ufficio propose appello, sostenendo la definitività dell’avviso di accertamento, in quanto ritualmente notificato e mai impugnato.

I contribuenti proposero, a loro volta, appello incidentale, ribadendo le tesi difensive in rito e nel merito già proposte davanti alla Commissione di 1° grado.

La Commissione Tributari di 2° grado di Roma accolse l’appello dell’Ufficio, ritenendo che l’avviso di accertamento fosse stato ritualmente notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c. e che, quindi, fosse divenuto definitivo, con conseguente inapplicabilità della normativa del 1986.

I contribuenti impugnavano tale decisione dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, ribadendo ancora una volta la tesi della nullità della notifica dell’avviso di accertamento, in quanto una prima volta notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nonostante l’attestazione dello stesso nesso notificatore, secondo cui i contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo risultante dell’atto notarile, ed una seconda volta a norma dell’art. 60 lett. e) del DPR n. 600 del 1973, ma senza il rispetto delle formalità procedimentali di notifica previste dal sistema normativo in materia.

In subordine, i contribuenti eccepirono la decadenza dell’ufficio dall’accertamento in rettifica per tardività e, nel merito, la congruità del valore dichiarato.

L’Amministrazione Finanziaria oppose che il d.l. 10 luglio 1982 n. 429 convertito nella legge 7 agosto 1982 n. 516 aveva prorogato al 31 dicembre 1984 i termini di notifica ancora in corso e che la seconda notifica effettuata il 1° marzo 1984 doveva considerarsi rituale, in quanto all’indirizzo risultante dai registri anagrafici i due contribuenti risultavano trasferiti, per cui il messo notificatore non aveva potuto che procedere ai sensi del combinato disposto dell’art. 140 c.p.c. e 60 lett. e) DPR n. 600 del 1973.

La Corte adita, con sentenza del 3 maggio – 3 giugno 1991, tra l’altro, accolse il primo motivo di impugnazione e, per l’effetto, in riforma della decisione impugnata, dichiarò illegittimo l’avviso di liquidazione, notificato ai ricorrenti il 28 gennaio 1985 dall’ufficio del Registro di Anzio, e non dovute le somme ingiunte.

La Corte, in particolare – dopo aver premesso che l’Ufficio del Registro di Anzio aveva effettuato una prima notifica dell’avviso di accertamento in data 16 novembre 1983ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., e una seconda in data 8 febbraio 1984 ai sensi dell’art. 60 lett. E dpr n. 600 del 1973; e che la prima notifica è pacificamente nulla in quanto eseguita ex art. 140 cod. proc. civ.

nonostante l’attestazione del messo notificatore secondo cui i due contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo – ha affermato che anche la seconda notifica è affetta da nullità, in quanto l’art. 60 DPR n. 600 del 1973 ha innovato la disciplina della notificazione con il rito degli irreperibili di cui all’art. 143 cod. proc. civ. soltanto relativamente alla formalità dell’affissione dell’avviso, mentre ha lasciato inalterati i principi generali previsti dal codice di rito civile quanto alle formalità essenziali per il perfezionamento della fattispecie notificatoria; ed in quanto, nella specie, dalla relazione di notificazione risulta la mera attestazione, da parte del messo notificatore, del “trasferimento” dei destinatari, senza alcuna indicazione né delle fonti di apprendimento della circostanza del trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né dell’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca circa il nuovo recapito dei destinatari.

Dalla nullità della notificazione dell’avviso di accertamento la Corte ha dedotto l’illegittimità dell’avviso di liquidazione e, pertanto, la non debenza delle somme ivi indicate.

Avverso tale decisione, il Ministero delle Finanze ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico motivo di censura.

Motivi della decisione
2.1. Con l’unico motivo (con cui deduce “violazione artt. 140, 143 e 148 c.p.c. e art. 60, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600″), l’Amministrazione ricorrente, dopo avere premesso di non contestare la nullità della notifica del 16 novembre 1983 ex art. 140 c.p.c.”, perché nel luogo di residenza i contribuenti non erano più abitanti, avendo essi lasciata quella abitazione ove risultavano sconosciuti” – sostiene la legittimazione della notificazione dell’avviso di accertamento ex art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, osservando che, nell’ipotesi in cui, come nella specie, il messo notificatore dell’avviso di accertamento abbia appurato che il contribuente, pur anagraficamente residente all’indirizzo risultante dagli atti, si sia da colà trasferito, lo stesso non sarebbe tenuto ad effettuare alcuna altra indagine, ma dovrebbe limitarsi ad applicare l’art. 60, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 e non sarebbe nemmeno tenuto a dar conto delle attività svolte nella relazione di notificazione.

2.2. Preliminarmente, questa Corte deve rilevare che, in ordine alla dichiarazione di nullità della notificazione dell’avviso di accertamento “de quo”, effettuata in data 16 novembre 1983 ai sensi dell’art. 140 c.p.c., pronunciata dalla Corte romana, si è formato il giudicato interno, in quanto il Ministero delle finanze non ha impugnato tale capo di decisione.

2.3. L’oggetto del ricorso attiene alla validità della seconda notificazione del predetto avviso di accertamento effettuata in data 9 marzo 1983 ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973.

La fattispecie che ne à a fondamento è pacifica: i contribuenti, nell’atto pubblico di alienazione dell’immobile, hanno indicato come domicilio fiscale quello sito in Roma via Olindo Malagodi n. 26/14; a margine ed in calce all’avviso di accertamento in rettifica, notificato ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 in data 9 marzo 1984 risulta una doppia annotazione: la prima, del 16 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti si sono “trasferiti da via O. Malagodi”, e la seconda, del 20 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti medesimi sono anagraficamente residenti in Roma, via Olindo Malagodi n. 26/14.

La “ratio decidendi” della decisione, impugnata, che ha ritenuto siffatta notificazione invalida, si basa sul duplice rilievo, secondo cui il messo notificatore dell’avviso non ha indicato, nella relazione, le fonti di apprendimento della circostanza dell’indicato trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né l’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca volte ad individuare il nuovo recapito dei contribuenti stessi.

A prescindere dalla ambiguità di tale decisione (nella misura in cui parrebbe riferirsi alla invalidità della relazione di notificazione anziché a quella dell’attività di trasmissione e consegna dell’atto), la censura proposta pone la questione se sia validamente eseguita, ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, la notificazione di avviso di accertamento a contribuente che, pur anagraficamente residente ad un dato indirizzo, risulti da colà, di fatto, trasferito.

Non v’è dubbio, innanzitutto, che alla fattispecie – che attiene a notificazione di avviso di accertamento il rettifica ai fini Invim – si applichi il procedimento di notificazione prefigurato dall’art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, in virtù del doppio rinvio a tale procedimento operato dall’art. 20, terzo comma, prima proposizione, D.P.R. n. 643 del 1972 (istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili) e dall’art. 49, terzo comma, D.P.R. n. 634 del 1972 (disciplina dell’imposta di registro).

É noto che l’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notifica (e cioè nel comune – di domicilio fiscale, corrispondente a quello in cui il contribuente persona fisica, destinatario dell’atto da notificare, risulta anagraficamente iscritto: cfr. combinato disposto dell’art. 58, secondo comma, prima proposizione e dell’art. 60, primo comma, lett. c, dello stesso D.P.R.) non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione dell’avviso o dell’atto è eseguita mediante deposito dell’atto stesso nella casa del comune di domicilio fiscale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune medesimo e diviene produttiva di effetti l’ottavo giorno successivo a quello di affissione ai fini della decorrenza del termine per ricorrere.

É evidente – e confermato dalla espressa statuizione di inapplicabilità dell’art. 143 c.p.c. (art. 60, primo comma, lett. f) – che la fattispecie prefigurata dalla lett. e) corrisponde a quella di irreperibilità del contribuente nel comune di domicilio fiscale, vale a dire alle ipotesi previste dall’art. 143 c.p.c.

E questa Corte ha più volte chiarito – sia pure in fattispecie di irreperibilità di cui all’art. 140 c.p.c. – che la notificazione di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), dianzi descritta, è ritualmente eseguita nelle forme dalla disposizione stessa previste – senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, né di ulteriori ricerche al di fuori del comune di domicilio fiscale – soltanto nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il esso notificante deve svolgere nell’ambito del predetto comune, in questo non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente (cfr. sentt. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992).

Ciò posto, non vi è dubbio che, nei casi in cui, come nella specie, il contribuente destinatario della notificazione si sia trasferito dal luogo indicato nel registro anagrafico e si ignori, nonostante le ricerche effettuate dal messo notificante nell’ambito del comune di domicilio fiscale, il nuovo domicilio, sia applicabile il procedimento di notificazione previsto dall’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, posto che siffatte ipotesi corrispondono esattamente a quelle di irreperibilità ai sensi dell’art. 143, primo comma c.p.c. (cfr. Cass. S.U. n. 5825 del 1981).

Orbene dal momento che è regola generale quella secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti, che debbono essere notificati al contribuente, salvo il caso di consegna in mani proprie, deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario (art. 60, primo comma, lett. c); che questo corrisponde al domicilio risultante dall’iscrizione anagrafica in un determinato comune (art. 58, secondo comma, prima proposizione); che tale domicilio può essere mutato rispetto a quello indicato negli atti in possesso dell’amministrazione tributaria (art. 58, quarto comma); che le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate (art. 58, quinto comma); e che la valida notificazione dell’atto realizza interessi evidenti, giuridicamente tutelati, di cui sono portatori sia il contribuente sia l’amministrazione – è necessario che il messo notificante, in ipotesi di mutamento di indirizzo, svolga accurate ricerche nell’ambito del comune risultante dagli atti siccome di domicilio fiscale (cfr. art. 60, primo comma, lett. a; nonché Cass. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992 cit.).

Ma nella ipotesi in cui, quale quella di specie, il contribuente, ancorché anagraficamente iscritto in un comune ad un dato indirizzo, risulti di fatto trasferito da tale indirizzo, non si scorge quali altre, utili ricerche il messo notificante possa e debba svolgere: infatti, l’attestazione del mero trasferimento, senza ulteriori indicazioni, dal domicilio fiscale implica che il messo notificante abbia svolto le necessarie indagini per giungere a tale conclusione (ove, naturalmente, non si faccia questione, come non si fa specie, dell’effettivo compimento delle ricerche e della veridicità del trasferimento); e, d’altro canto, la contraria risultanza anagrafica comporta l’inutilità, in radice, e, quindi, la non doverosità di ulteriori ricerche (cfr., in questo senso Cass. n. 4086 del 1980 e per un caso analogo in materia di società, n. 8071 del 1995).

2.4. La decisione impugnata, nella misura in cui non ha fatto corretta applicazione dei principi dianzi affermati, deve essere annullata e la relativa causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso.

Cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione civile, il 15 marzo 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 DICEMBRE 1996.


Cass. civ. Sez. I, 11-02-1995, n. 1544

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Enzo BENEFORTI Presidente

” Rosario DE MUSIS Consigliere

” Giovanni OLLA “

” M. Rosario MORELLI “

” Laura MILANI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

CURATELA DEL FALLIMENTO “ROYALCAR” DI RADO DAMIANO, in persona del Curatore Rocco Morelli, elettivamente domiciliata in Roma Via Blumenstihl 45 c/o l’avv. Oreste F. Moricca che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Francesco M. Pugliese giusta delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

TOFFOLO ROSANNA, Titolare della Ditta individuale “LA TENDA”, elettivamente domiciliata in Roma via Cristoforo Colombo 440 c/o l’avv. Francesco Tassoni che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Elio Multari giusta delega a margine del controricorso.

Controricorrente

Avverso la sentenza 598/90 della Corte di Appello di Venezia dep. il 14.7.90.

E’ presente per il ricorrente l’avv. Moricca che chiede l’accoglimento del ricorso.

E’ presente per il resistente l’avv. Tassoni che chiede il rigetto del ricorso.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3.6.1994 dal Cons. Rel. Dr.ssa Milani.

Udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Aloisi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza 1.2.1989 il Tribunale di Treviso, in accoglimento della domanda proposta dalla curatela del fallimento “Royalcar” di Damiano Rado, condannava la ditta “La Tenda” di Rosanna Toffolo al pagamento della somma di L. 15.712.000, oltre interessi e spese del giudizio.

Interponeva appello la soccombente, con atto notificato a mezzo del servizio postale il 6/7 aprile 1989.

Nella dichiarata contumacia della curatela del fallimento, non costituitosi in secondo grado, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza 2/14 luglio 1990, riduceva a sole L. 274.605 la somma dovuta dalla ditta “La Tenda”.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la curatela del fallimento “Royalcar”. Resiste con controricorso Rosanna Toffolo.

Motivi della decisione
Con unico motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 106 e 107 D.P.R. 15.12.1959 n. 1229, per essere stato l’atto di citazione in appello notificato mediante il servizio postale dall’ufficiale giudiziario addetto all’ufficio unico notifiche presso il Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente, dovendosi nella specie la competenza attribuire, in via concorrente ed alternativa, o all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notifica doveva essere eseguita (Treviso), o a quello addetto all’autorità giudiziaria competente per la causa d’appello (Venezia): dall’incompetenza dell’ufficiale giudiziario il ricorrente fa discendere la nullità della notifica dell’atto d’appello e, conseguentemente, dell’intero procedimento di secondo grado e della relativa sentenza, non essendo intervenuta sanatoria data la mancata costituzione dell’appellato.

La doglianza è fondata, pur se non appaiono corrette le conseguenze che il ricorrente ne fa derivare.

Ed invero, posto che:

a) ai sensi dell’art. 106, 1° comma, D.P.R. n. 1229/1959, l’ufficiale giudiziario compie, con attribuzione esclusiva, gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto;

b) ai sensi del successivo art. 107, 2° comma, tutti gli ufficiali giudiziari possono eseguire, a mezzo del servizio postale, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede alla quale sono addetti;

se ne desume, come da costante giurisprudenza di questa Corte, che la competenza in materia di notificazione è per legge attribuita, in via concorrente ed alternativa, così all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notificazione deve essere eseguita, come a quello addetto all’autorità giudiziaria davanti alla quale deve trattarsi l’affare cui ha riguardo l’atto da notificare (Cass. sent. 3552/1984; in senso conf: sent. 5607 del 1987; 767/1985; 1778/1981; 1105/1980; e varie altre).

La norma non consente altre interpretazioni, posto il carattere “esclusivo” della competenza attribuita all’ufficiale giudiziario per le notifiche da eseguirsi nell’ambito dell’ufficio cui è addetto, salvo l’altro criterio, valido per le notifiche a mezzo del servizio postale, fissato con riferimento alla competenza delle autorità giudiziarie aventi sede nell’ambito dell’ufficio predetto.

Né, contrariamente a quanto deduce la controricorrente, la disciplina ha subito modifiche in virtù della legge 20.11.1982 n. 890 sulla notificazione degli atti a mezzo posta, essendosi questa limitata a stabilire, senza nulla immutare in materia di competenza territoriale, la facoltà, in genere, per l’ufficiale giudiziario di avvalersi del servizio postale per le notifiche di sua competenza, e l’obbligo di avvalersene per le notifiche da eseguirsi fuori del Comune ove ha sede l’ufficio di appartenenza. Deve dunque concludersi che, nella specie, l’atto d’appello doveva essere notificato, in via alternativa, o dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Treviso, luogo ove la notifica doveva essere eseguita, o dall’ufficiale giudiziario addetto alla Corte d’appello di Venezia, autorità giudiziaria competente per la trattazione della causa: ne deriva la nullità della notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente.

Trattasi peraltro, difformemente da quanto ritenuto dal ricorrente, di nullità relativa, suscettibile di essere sanata, con effetto retroattivo, dalla costituzione dell’intimato (come più volte stabilito da questa Corte: sent. 428/1987; sent. 5774/1984; sent. 4578/1984; sent. 4474/1981; ed altre), ovvero tramite la rinnovazione della notifica ad opera dell’ufficiale giudiziario competente, disposta dal giudice d’ufficio a norma dell’art. 291 c.p.c. (come affermato dalla sent. 7308/1983).

Tale provvedimento avrebbe nella specie dovuto adottare la Corte d’appello di Venezia, anziché dichiarare erroneamente la contumacia dell’appellato.

Non essendosi, dunque, ritualmente instaurato il contraddittorio in appello, il procedimento di secondo grado dovrà essere nuovamente celebrato, rinviandosi all’uopo la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, cui viene rimessa anche la pronuncia sulle spese di questa fase del giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE

Accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 3 giugno 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 FEBBRAIO 1995


Cass. civ. Sez. II, 21-05-1994, n. 5000

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Francesco FAVARA Presidente

Dott. Aldo MARCONI Consigliere

Dott. Antonio PATIERNO Consigliere

Dott. Giuseppe BOSELLI Consigliere

Dott. Sergio CARDILLO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

ORPELLO ANTONIO, elettivamente domiciliato in Roma, via S. Tommaso d’Aquino n. 90 presso lo studio del dott. Alfredo Pilloni e difeso dall’avvocato Francesco Del Vecchio in virtù di procura in calce al ricorso

Ricorrente

contro

VAGABOND s.p.a., in persona del legale rappresentante DOMENICO TACCHELLA, elettivamente domiciliata in Roma, via presso lo studio dell’avvocato Pasquale Paolitto e difeso dall’avvocato Giovanni Foresti in virtù di procura in calce al controricorso

Controricorrente

avverso la sentenza emessa dal Conciliatore di Verona il 13 dicembre 1990.

Sentita la relazione della causa svolta dal Cons. dott. SERGIO CARDILLO nella pubblica udienza del 24 gennaio 1994.

Udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. dott. MARTONE che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo assorbito il resto.

Svolgimento del processo
La società Vagabond s.p.a. convenne la ditta Orpello Sport di Antonio Orpello dinanzi al Conciliatore di Verona chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 852.200 a titolo di prezzo di merci vendute.

Nella contumacia del convenuto la causa fu istruita con la produzione di documenti e l’assunzione di una prova testimoniale.

Il Conciliatore con sentenza del 13 dicembre 1990 accolse la domanda.

Contro questa decisione ricorre Antonio Orpello sulla base di due motivi.

La società Vagabond resiste con controricorso illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia nullità della sentenza e del procedimento per omessa notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, è privo di fondamento.

L’atto di citazione risulta notificato in data 19 marzo 1990 a mezzo del servizio postale alla Ditta Orpello Sport di Orpello Antonio in persona del suo omonimo titolare che appose la firma quale destinatario sull’avviso di ricevimento del plico raccomandato.

L’avvenuta sottoscrizione della ricevuta di ritorno, che fa fede fino a querela di falso e perfeziona la notificazione ai sensi dell’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890, rende inconsistente l’assunto del ricorrente.

Con il secondo motivo si denunzia nullità della sentenza e del procedimento per nullità della notificazione dell’atto di citazione eseguita dal messo dell’Ufficio di Conciliazione fuori del territorio di sua competenza.

Il motivo è fondato.

La notificazione degli atti in materia civile per mezzo dei messi di conciliazione è soggetta alla disposizione dettata dell’art. 175, dell’allegato 1, al T.U. approvato con R.D. 28 dicembre 1924, n. 2271, la quale stabilisce che gli uscieri di conciliazione, denominati messi a norma della legge 3 febbraio 1957, n. 16, esercitano le loro funzioni per gli affari di competenza del conciliatore nel territorio di rispettiva giurisdizione.

La competenza delimitata non consente al messo di procedere alla notificazione quando il destinatario dell’atto sia residente fuori dell’ambito territoriale dell’ufficio di conciliazione cui esso è addetto poiché, a norma dell’art. 34 del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari), soltanto il messo di conciliazione del luogo dove l’atto deve essere notificato può essere autorizzato dal capo dell’ufficio giudiziario, ove manchino o siano impediti l’ufficiale giudiziario o l’aiutante ufficiale giudiziario e ricorrano motivi di urgenza, a procedere alla notificazione (v. sent. 19 gennaio 1971, n. 264; 4 maggio 1978, n. 2082; 11 dicembre 1987, n. 9165).

La notificazione fuori del territorio di competenza non può essere effettuata neppure per mezzo del servizio postale, non essendo applicabile la disposizione dell’art. 107 del D.P.R. n. 1229 del 1959 che stabilisce, con riferimento ai soli ufficiali giudiziari, che costoro possono eseguire per posta, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza dell’autorità giudiziaria della sede alla quale sono addetti.

Ne deriva che, nel caso in esame, non era consentito al messo addetto all’ufficio di conciliazione di Verona di effettuare, a mezzo del servizio postale, la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ad Antonio Orpello residente in Torre del Greco.

La nullità della notificazione non è stata sanata né dalla costituzione dell’intimato, che è rimasto contumace nel giudizio di merito, né dalla rinnovazione dell’atto ai sensi dell’art. 291 c.p.c., che non è stata disposta dal Conciliatore.

Pertanto il ricorso deve essere accolto e le sentenza impugnata va cassata con rinvio al altro giudice, che si designa in un diverso Conciliatore di Verona, il quale, nella nullità della notificazione della citazione introduttiva, fisserà all’attrice, ai sensi dell’art. 291 c.p.c., un termine perentorio per rinnovare la notificazione e provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo motivo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese al Conciliatore di Verona.

Così deciso in Roma in Camera di Consiglio il 24 gennaio 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 MAGGIO 1994.


Cass. civ. Sez. II, 03-02-1993, n. 1321

Quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Nullo l’atto depositato presso la Casa Comunale in luogo diverso dalla sede ufficiale

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Andrea VELA Presidente

” Enzo BENEFORTI Consigliere

” Domenico GIAVEDONI Rel. “

” Raffaele MAROTTA “

” Antonio VELLA “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

ADRIANI ANDREA elettivamente domiciliato in Roma, via di Villa Ada n. 57, presso l’avv. Maria Athena Lorizio che unitamente all’avv. Domenico D’Ascanio lo rappresenta e difende per delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

GIANGRAZI PAOLINO e GIANGRAZI FRANCESCO.

Intimati

Per la cassazione della sentenza n. 31 della Corte di Appello di Perugia del 22.12.88-13.2.89.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14.2.92 la Cons. Rel. Dott. Giavedoni.

Udito per i ricorrenti l’avv. Domenico D’Ascanio che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Fabrizio Amirante che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Questa Corte, con sentenza 30 aprile 1985, ha cassato la sentenza della Corte di Appello de L’Aquila che aveva rigettato, in riforma della sentenza di primo grado, la domanda di Paolino Giangrazi avente ad oggetto il rilascio di un immobile di proprietà dello stesso e detenuto senza titolo da Andrea Adriani, rinviando la causa per nuovo esame alla Corte d’Appello di Perugia.

Il giudizio è stato riassunto avanti al giudice di rinvio da Paolino Giangrazi nei confronti dell’originario convenuto Andrea Adriani, nonché di Francesco Giangrazi, chiamato in causa dall’Adriani a scopo di garanzia.

Entrambi gli appellati sono rimasti contumaci.

Con sentenza 13 febbraio 1989, la Corte di Perugia ha confermato la sentenza di primo grado e condannato Andrea Adriani alle spese dell’intero giudizio.

Avverso questa sentenza propone ora ricorso per cassazione il soccombente Adriani con un solo motivo di censura.

Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., nullità della citazione in riassunzione, del conseguente procedimento in sede di rinvio e della sentenza e, sinteticamente, assume che la notificazione nei suoi confronti, in quanto attuata con le forme delle notificazioni agli irreperibili, era irrituale e nulla perché l’Ufficiale giudiziario procedente aveva attestato di aver notificato la copia dell’atto nella “Casa del Comune” di Masciano che però non è comune, ma frazione del Comune di Campotosto de L’Aquila.

La censura è, per quanto di ragione, fondata.

Dalla relata dell’Ufficiale addetto alla Corte d’Appello di Perugia risulta, anzitutto che la notifica dell’atto di riassunzione sarebbe stata effettuata a mezzo posta il 13 febbraio 1987. Questa notificazione però evidentemente non ha avuto luogo perché alla relazione testé richiamata fa immediatamente seguito altra di notifica eseguita, in data 28 febbraio 1987, a cura dello stesso Ufficiale giudiziario nelle forme di cui all’articolo 140 c.p.c.

Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) il ricorrente si duole, come si è detto, che il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di Masciano, che viceversa non è comune autonomo, ma frazione del comune di Campotosto.

Orbene, accertato che Masciano non è sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo del ricorrente.

Infatti anche se alla frazione di Masciano risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato) è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso il c.d. “capoluogo”.

Si deve quindi riconoscere che a Masciano, quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

D’altronde l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente al notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità della notifica (non altrimenti sanata).

Ciò però non comporta, come ritiene il ricorrente, cassazione senza rinvio della sentenza impugnata.

Infatti il (primo) procedimento di rinvio era stato riassunto anche nei confronti dell’altro appellato Francesco Giangrazi, per cui dovendosi rispettare la norma che vuole identità soggettive dei partecipanti al giudizio precedente svoltosi avanti alla Corte Suprema e nel giudizio di rinvio, il giudice di quest’ultimo avrebbe dovuto anzitutto accertare la nullità della notifica della citazione nei confronti di Andrea Adriani (per le ragioni sopra svolte) e quindi ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dello stesso mediante (nuova) notificazione dell’atto di riassunzione.

A tanto dovrà ora provvedere il nuovo giudice di merito al quale, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata. Lo stesso, che si designa nella Corte d’Appello di Roma, provvederà anche per le spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la pronuncia sulle spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma il 14 febbraio 1992.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 3 FEBBRAIO 1993.


Cass. civ. Sez. I, 16-05-1990, n. 4274

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati

Dott. Giuseppe SCANZANO Presidente

” Nicola LIPARI Consigliere

” Angelo GRIECO “

” Antonio SAGGIO “

” Mario Rosario MORELLI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

GALLIVAGGI Attilio, elett. dom. in Roma, Viale delle Milizie n. 34, c-o l’avv. Sebastiano Ferlito, che lo rapp. e difende giusta delega in atti.

Ricorrente

contro

D’ASSIA Enrico, D’ASSIA Ottone

intimati

Avverso il provvedimento del Presidente della Corte di appello di Roma emesso in data 30.12.1987;

Udita la relazione svolta dal Cons. dott. Mario Rosario Morelli;

Udito per il ricorrente l’avv. Ferlito;

Udito il P.M. dott. Paolo Dettori, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione del 6 marzo 1980, Attilio Gallivaggi conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, Umberto di Savoia, Iolanda di Savoia in Calvi di Bergolo, Giovanna di Savoia, Maria di Savoia in Borbone Parma, Enrico, Maurizio, Ottone ed Elisabetta d’Assia, quale figli eredi di Mafalda di Savoia, per sentir dichiarare che Griggi Giuseppa, simulatamente registrata di maternità ignota, era figlia naturale della fu regina Margherita di Savoia, disponendosi conseguentemente la correzione degli atti dello stato civile riguardanti la Griggi, i suoi figli, ed in particolare Gallivaggi Rinaldo suo padre, e lui medesimo.

Con sentenze n. 4609 e n. 9896 del 1982, il Tribunale respingeva la domanda, ravvisandovi una istanza per dichiarazione giudiziale di maternità, non ritualmente introdotta ex art. 274 cod. civ.

Avverso dette decisioni interponeva appello il Gallivaggi.

Ed, anche ai fini di una eventuale attivazione della procedura di correzione ai sensi dell’art. 138 della legge sullo stato civile, chiedeva autorizzarsi la notificazione del gravame nella forma per pubblici proclami, stante la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i destinatari della domanda, non facilmente individuabili e reperibili, specie in relazione alla sopravvenuta morte dell’ex Re Umberto II.

Il giudice di secondo grado – inizialmente sospeso (a seguito di domanda di ricusazione proposta dall’appellante: sulla quale il

Collegio provvederà negativamente, con ordinanza che ha formato oggetto di separato ricorso per cassazione, n. 10725-87, anch’esso discusso all’odierna udienza) – veniva poi riassunto.

In quella sede, il Gallivaggi reiterava la richiesta di autorizzazione alla notifica del gravame nelle forme ex art. 150 c.p.c.

Ma il Presidente della Corte di Appello la respingeva, con decreto del 30 dicembre 1987, con cui assegnava all’appellante termine per la notifica dell’atto nelle forme ordinarie.

Avverso detto provvedimento ricorre ora per cassazione il Gallivaggi.

Gli intimati (Enrico ed Ottone d’Assia) non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Il ricorso – con il cui unico mezzo si critica il Presidente della Corte d’Appello per non aver autorizzato la chiesta notifica per pubblico proclami dell’appello, non ostante la pliralità e la difficile reperibilità dei suoi destinatari – è inammissibile.

Ed invero – a prescindere dalla considerazione che una siffatta censura, in ordine all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito (quale è appunto quello relativo all’autorizzazione del peculiare procedimento di notifica, ai sensi dell’art. 150 c.p.c.) non pare riconducibile ad alcuna delle tipologie di vizi sub art. 360 c.p.c. – va esclusa, in radice, la stessa ricorribilità del decreto impugnato.

Il quale ha, all’evidenza, funzione meramente ordinatoria e strumentale ed è privo quindi, dell’efficacia decisoria, che autorizza la proposizione del rimedio straordinario ex art. 111 Cost.

Sarà dunque solo avverso la sentenza emanando (nel giudizio di secondo grado) che il Gallivaggi potrà rivolgere le proprie doglianze, anche in ordine alle eventuali statuizioni sulla ritualità del contraddittorio, che dovessero risultare viziate (sotto alcuno dei profili contemplati dall’art. 360 c.p.c.) e per lui pregiudizievoli.

Nulla va disposto in ordine alle spese, in assenza di controparti costituite.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 30 gennaio 1989.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 MAGGIO 1990.


Cass. civ. Sez. lavoro, 21-08-1987, n. 6994

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Carlo NOCELLA Presidente

” Giorgio ONNIS Consigliere

” Domenico FARINARO “

” Romano PANZARANI “

” Fulvio ALIBERTI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MONTAGNANA Flaviana, MALASPINA Luciana, BARALDI Gloria, TOSI Luisa, TINTI Paolina, MONTAGNANA Valeria, RACCANELLI Deanna, FERRACIOLI Luciana, NANNINI Mirella, OLTRAMARI Fabio, TIOLI Liliana, LAMBORGHINI Roberta, elett.te dom.ti in Roma Via Montezebio, 43 presso lo studio dell’avv. Ettore Visciani, rapp.ti e difesi dall’avv. Mario Bacchiega per mandato a margine del ricorso

Ricorrenti

contro

DITTA BODAMER di Malek Mor, in persona del legale rapp.te pro-tempore, elett.te dom.ta in Roma Via G.B. Vico, 1 presso lo studio dell’avv. Mario Cassola che la rapp.ta e difende unitamente all’avv. Piero Gualtierotti come da mandato in calce al controricorso

Controricorrente

Per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Rovigo dell’1.10.82, dep. il 16.11.82 n. 620-82;

udita, nella pubblica del 3.2.87, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dr. Aliberti;

udito l’avv. Cassola;

udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Tridico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Montagnana Flaviana, Malaspina Luciana, Baraldi Gloria, Tosi Luisa, Tinti Paolina, Montagnana Valeria, Raccanelli Deanna, Ferraccioli Luciana, Nannini Mirella, Oltremari Fabio. Titoli Liliana, Lamborghini Roberta adivano con separati ricorsi il Pretore di Ficarolo con il quale chiedevano la condanna di Malek Mor al pagamento di somme di danaro in loro favore a titolo di integrazione salariale.

Il Pretore dichiarava la contumacia del Malek, cui i ricorsi erano stati notificati ex art. 143 c.p.c.; riuniva, poi, tutti i procedimenti.

Quindi il Pretore con sentenza 13.7-10.8.81 condannava IL Malek al pagamento delle somme indicate in sentenza.

Proponeva appello il Malek, cui resistevano le appellate. Il Tribunale di Rovigo, con sentenza 1.10-16.11.1982, accoglieva l’appello e dichiarava la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di I° grado nonché della sentenza impugnata. Rimetteva la causa al primo giudice.

Osservava che l’ufficiale giudiziario e la parte istante devono compiere tutte le possibili indagini al fine della ricerca dell’effettiva residenza del destinatario e l’ufficiale giudiziario deve, altresì, documentare la natura e l’esito di tali indagini nella relazione di notificazione, al fine di fornire al giudice gli elementi utili per il controllo sulla legittimità del ricorso alla forma di notifica di cui all’art. 143 c.p.c. Rilevato che dalla relazione di notificazione non emergeva la esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek e che tali indagini non emergevano da altri atti di causa, riteneva che tale osservazione già di per sé sola sarebbe stata sufficiente per giungere alla conclusione della nullità della notificazione, ma che esigenze di completa esposizione dei fatti imponevano un ulteriore rilievo: da certificato 4.3.1982 del Comune di Bergantino, prodotto dal procuratore dell’appellante, risultava che in data 20.6.1979 il Malek aveva dichiarato di trasferire la propria residenza da quel Comune e che il nuovo domicilio era in Vienna; osservava che con la normale diligenza l’ufficiale giudiziario o le istanti avrebbero potuto conoscere l’esatto indirizzo del Malek e notificare i ricorsi con le procedure previste per i soggetti residenti all’estero ed ovviamente in caso di esito negativo di tale ulteriore indagine sarebbe stato lecito effettuare la notificazione ex art. 143 c.p.c. Riteneva, poi, che dall’accertata nullità della notificazione dei ricorsi introduttivi derivava anche la nullità dei procedimenti di I° grado, nonché dell’impugnata decisione, né tale nullità era coperta da giudicato dal momento che anche la notificazione della sentenza del Pretore era avvenuta facendo ricorso alla forma indicata dallo art. 143 c.p.c., non applicabile nel caso in esame.

I nominati in epigrafe ricorrono avverso detta sentenza formulando due motivi. Il Malek resiste con controricorso.

Motivi della decisione
I ricorrenti con il I° motivo (indicando con la lettera A) denunziano violazione ed omessa applicazione di norme di diritto, deducendo che l’appello avverso la sentenza pretorile non era stato proposto nei 30 giorni successivi alla notifica della medesima, per cui l’appello era inammissibile. L’appellante aveva eccepito solo la nullità della notificazione del ricorso introduttivo di I° grado, ma non quella della notificazione della sentenza: il Collegio avrebbe dovuto esaminare pregiudizialmente la questione inerente la validità dell’appello; tale questione era stata ignorata dal Tribunale.

Con il 2° motivo (lettera B) denunziano falsa applicazione della legge sulla notificazione (L. 6.4.1981, n. 42).

Deducono che la notificazione del ricorso era avvenuta ai sensi dell’art. 143 c.p.c. perché Malek Mor risultava all’epoca emigrato o trasferito a Vienna senza indicazione alcuna di un indirizzo costituente residenza, dimora o domicilio.

Rilevano, poi, che, all’epoca vigeva l’art. 142 c.p.c., modificato dalla L. 6.2.1981, artt. 8 e 9, ma che non poteva essere applicata tale norma non essendo conosciuto l’indirizzo del destinatario; spettava a chi si trasferisce l’onere di lasciare il proprio esatto indirizzo ai fini della propria reperibilità, né si poteva invocare la normale diligenza dei ricorrenti o dell’ufficiale giudiziario per l’esecuzione di altre indagini essendo irrilevanti all’estero i poteri riconosciuti agli ufficiali giudiziari. Deducono, poi, che l’art. 160 c.p.c. non prevede, tra le nullità indicate, la nullità come conseguenza di mancanza di “normale diligenza” nelle indagini.

La Corte rileva che va, anzitutto, esaminata quanto prospettato dal resistente con riferimento allo art. 329 c.p.c. Assume il predetto che i ricorrenti avrebbero riproposto al Pretore di Ficarolo la domanda dallo stesso precedentemente accolta ed avrebbero richiamato nel ricorso la sentenza del Tribunale di Rovigo precisando che con la stessa era stata dichiarata la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di I° grado nonché della sentenza, con riemissione della causa al medesimo Pretore di Ficarolo.

La Corte rileva che agli effetti della valutazione in tema di acquiescenza ex art. 329 c.p.c. è indispensabile l’esame dell’atto con il quale sarebbe stato adito il Pretore di Ficarolo a seguito della sentenza del Tribunale di Rovigo in quanto solo dal ricorso è dato cogliere quanto interessa ai fini “de quibus”. Ma nel fascicolo del resistente non esiste copia di tale ricorso: quindi dalle deduzioni del resistente non possono essere tratte le conseguenze derivanti dall’applicazione del citato art. 329.

Passando all’esame del ricorso, la Corte osserva che i due motivi vanno esaminati congiuntamente, stante la loro evidente connessione, Rileva, quindi, che il tema in discussione è se le notificazioni a Malek Mor siano avvenute ricorrendo le condizioni che legittimano il ricorso alla forma prevista dall’art. 143 c.p.c. Il Tribunale di Rovigo ha rilevato “che dalle relazioni di notificazione di cui si discute non emerge affatto l’esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek, né tali indagini emergono da altri atti di causa”.

Orbene è evidente che mancava l’accertamento delle condizioni per ricorrere alla formula di notifica in questione, che era necessario in quanto non è sufficiente che l’ufficiale giudiziario o il richiedente non conoscano i luoghi (dimora, residenza o domicilio), occorrendo invece che l’ufficiale giudiziario compia tutte le possibili indagini volte alla ricerca del destinatario, documentando il relativo risultato (nella notifica) di guisa possa essere espletato il controllo sulla legittimità della forma di notificazione adottata.

Il rilievo di tale carenza è già sufficiente per affermare che la notifica ex art. 143 c.p.c. non poteva essere adottata nella fattispecie, con la conseguenza della nullità delle notificazioni stesse.

Il Tribunale ha anche osservato che le istanti o l’ufficiale giudiziario avrebbero potuto usare la normale diligenza (ovvero consultare gli atti dell’anagrafe di Bergantino) ed avrebbero così conosciuto il nuovo comune di residenza del Malek, per cui occorreva eseguire altre indagini al fine di conoscere l’esatto indirizzo.

La Corte osserva che nel ricorso non viene dedotto che siano state svolte, in concreto indagini e che esse, malgrado la normale diligenza impiegatavi, non abbiano dato esito (delle deduzioni appare che, in sostanza, non è ritenuto utilizzabile il criterio della normale diligenza per poter conoscere l’esatto indirizzo di una persona non residente nella Repubblica: non appare, però, idonea deduzione o dimostrazione perché a priori debba ritenersi che sempre ed in concreto è impossibile tale conoscenza).

Non appaiono, quindi, utili le deduzioni dei ricorrenti (né il richiamo alla sentenza 1201-81 di questa Corte) con le quali, in buona sostanza, si assume che poteva essere adottata che la forma di notificazione ex art. 143 c.p.c. stante la mancanza dello indirizzo del Malek a Vienna. Tali considerazioni non superano il rilievo che non appare provato che tale (completo) indirizzo non avrebbe potuto in concreto essere conosciuto con l’uso di normale diligenza.

In ordine alla deduzione secondo cui la mancanza della “normale diligenza” nelle indagini non è prevista come causa di nullità della notificazione, è agevole osservare che tale carenza comporta il venir meno delle condizioni per l’applicabilità della forma di cui all’art. 143 c.p.c.: il che inficia l’eseguita notificazione.

Alla nullità della notificazione del ricorso di I° grado consegue quella del procedimento e della sentenza di I° grado per il principio dell’estensione della nullità, essendo evidente che questi non sono indipendenti da quella. Va rilevato inoltre che il Malek ha dedotto che neppure era a conoscenza dell’avvenuta notifica che la inficiava di nullità e che l’aveva impugnata nel momento in cui ne era venuto a conoscenza e comunque entro l’anno dalla pubblicazione.

Il ricorso va, quindi, rigettato.

Concorrono giusti motivi per la totale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 1987.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 AGOSTO 1987


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. III, 02-12-1985, n. 5636

NOTIFICAZIONE (MATERIA CIVILE) – Relazione di notifica – Copia consegnata al destinatario – Omessa indicazione della data – Conseguenze – Distinzioni

Cass. civ. Sez. III, 02-12-1985 n. 5636


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Civ., n. 3316 del 14.05.1983

Quando la notificazione di un atto di citazione a militare in servizio non è eseguita in mani proprie, osservate le disposizioni di cui agli art. 139 segg. c.p.c., la formalità della consegna di una copia al p. m. per l’invio al comandante del corpo al quale il militare appartiene, secondo le modalità stabilite nell’art. 49 disp. att. c.p.c., espressamente richieste dal successivo art. 146 c.p.c. costituisce un adempimento necessario, la cui omissione importa la nullità della notificazione, senza che sia consentita alcuna distinzione fra militari di carriera e militari in servizio di leva o richiamati alle armi ed indipendentemente dalla conoscenza che di tale particolare stato abbia potuto avere colui su istanza del quale la notifica viene effettuata; tale adempimento è infatti, posto a tutela del destinatario della notificazione, in considerazione degli imprevedibili, improvvisi e più frequenti spostamenti a cui possono essere soggetti gli appartenenti ai corpi militari, indipendentemente dalla circostanza che essi siano o meno militari di carriera, le cui destinazioni debbono talvolta essere mantenute segrete per motivi di sicurezza connessi alla più efficiente realizzazione dei compiti loro affidati.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9363/2014 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso l’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNAMARIA RAMIREZ, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso l’avvocato ANDREA DEL VECCHIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CLAUDIO FERRARI, RACHELE GERVASONI, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 324/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 05/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato DANIELE MANCA BITTI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato CLAUDIO FERRARI che ha chiesto l’inammissibilità o rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del primo motivo; inammissibilità dei motivi secondo e terzo.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 1 luglio 2003, B.G., coniugato con M.F., chiedeva che il Tribunale di Brescia pronunciasse sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, vivendo egli separato dalla moglie fin da epoca anteriore alla separazione giudiziale, per la quale era intervenuta pronuncia della Corte di appello di Brescia in data 23 ottobre 2002; domandava l’assegnazione in proprio favore della casa coniugale e la revoca o, in subordine, la riduzione a somma non superiore a Euro 1.000,00 mensili dell’assegno per il concorso nel mantenimento della moglie: assegno che era stato fissato in sede di separazione nell’ammontare di Euro 2.582,30.
Si costituiva M.F., rimettendosi alla decisione del Tribunale per quanto riguardava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. In relazione alla domanda di riduzione dell’assegno di mantenimento assumeva che non si era verificato un mutamento, in senso peggiorativo, delle condizioni patrimoniali del marito a far data dalla pronuncia di separazione, nè alcuna modificazione, in termini migliorativi, di quelle di essa convenuta, che era casalinga priva di redditi propri.
Il Tribunale rendeva sentenza non definitiva con cui dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio e, con successiva pronuncia, determinava in Euro 8.000,00 mensili l’assegno di mantenimento a carico di B.;
condannava l’attore alla restituzione della somma di Euro 88.055,00, maggiorata degli interessi, importo che affermava dovesse essere rimborsato alla convenuta, essendo stato prelevato dal conto corrente a lei intestato; condannava infine lo stesso B. al pagamento della somma di 71.084,44, oltre interessi, quale quota dell’indennità di fine rapporto percepita dal marito, giusta la L. n. 898 del 1970, art. 12 bis.
Proposto gravame da parte di entrambi gli odierni contendenti, la Corte di appello di Brescia, con sentenza depositata il 5 marzo 2014, quantificava l’assegno che B.G. doveva corrispondere a M.F. in ragione di Euro 6.000,00 mensili, da rivalutarsi annualmente, e stabiliva che l’obbligo avesse decorrenza dal 18 settembre 2003; determinava, poi, la somma che B. avrebbe dovuto versare quale quota del trattamento di fine rapporto in Euro 47.389,62;
la stessa Corte respingeva infine l’appello incidentale di M.F..
B.G. ricorre contro la sentenza della Corte bresciana con una impugnazione che si articola in tre motivi.
Resiste con controricorso M.F..
Motivi della decisione
È anzitutto non concludente l’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, sollevata dalla controricorrente. Infatti, il ricorso scrutinato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, deve essere comunque rigettato per manifesta infondatezza, e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla (Cass. S.U. 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. 18 marzo 2016, n. 5442).
Le restanti eccezioni di inammissibilità – con cui è lamentata la carente autosufficienza del ricorso e il dirigersi di questo verso una censura dell’accertamento di fatto demandato al giudice del merito – prospettano vizi che investono l’atto di impugnazione nella sua interezza: ma è escluso che il ricorso proposto sia totalmente privo della necessaria autosufficienza, così come deve negarsi che lo stesso veicoli solo censure che investono l’accertamento di fatto posto in essere nei precedenti gradi del giudizio. Il problema dell’inammissibilità può porsi, semmai, con riferimento ai singoli motivi: deve infatti escludersi che il ricorso possa essere dichiarato in toto inammissibile, ove la mancanza di autosufficienza sia propria solo di uno o di alcuni dei motivi proposti (Cass. S.U. 5 luglio 2013, n. 16887); allo stesso modo, è il singolo motivo e non il ricorso a poter risultare inammissibile in quanto miri a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte (di inammissibilità del motivo, in tale ipotesi, parla Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
Si procede, dunque, allo scrutinio delle singole censure.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 40 c.p.c., commi 2 e 3, e ciò avendo riguardo alla ritenuta tardività e infondatezza dell’eccezione dell’appellante vertente sulla inammissibilità della domanda di restituzione della somma di 88.055,00 proposta dalla controparte.
L’istante rileva, in proposito, che ricorreva un’ipotesi di connessione tra cause soggette a riti diversi, non rientrante tra le ipotesi tassative di cui all’art. 40 c.p.c., comma 3, sicché le parti e il giudice non potevano legittimamente derogare alle norme processuali che imponevano, per la trattazione della causa avente ad oggetto il rimborso, il rito ordinario. In conseguenza l’eccezione di inammissibilità della domanda restitutoria ben poteva essere proposta per la prima volta in fase di appello. Non aveva poi fondamento l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la necessità che l’eccezione spiegata dal ricorrente fosse supportata dalla rappresentazione del pregiudizio da lui risentito a causa della trattazione della domanda col rito speciale.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata si basa su di una doppia ratio decidendi: per un verso B. aveva accettato il contraddittorio sulla domanda di restituzione, onde aveva prestato acquiescenza allo spostamento di competenza; per altro verso, nella fattispecie non vi poteva comunque essere regressione del giudizio in primo grado, essendo tassative le ipotesi previste, a tal fine, dall’art. 354 c.p.c.: la Corte di appello ha quindi ritenuto di poter esaminare nel merito la domanda, ma ha osservato che l’odierno ricorrente, con riferimento allo specifico oggetto della pretesa azionata, non aveva dedotto alcunché.
Entrambe le argomentazioni spese dalla Corte distrettuale sono corrette, anche se la prima ha naturalmente valore assorbente. Al riguardo, come questa Corte ha avuto modo di rilevare, proposta nei confronti del coniuge, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito camerale, una domanda di restituzione di somme di danaro o di beni mobili al di fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell’art. 40 c.p.c., comma 3, la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40, comma 2, di talché essa non può essere rilevata d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità della domanda di restituzione, esaminata e decisa nel merito in primo grado (Cass. 24 aprile 2007, n. 9915). Ebbene, nella fattispecie, come è stato osservato dalla Corte territoriale, nessuna eccezione fu sollevata in primo grado con riguardo alla ritenuta connessione.
È poi appena il caso di ribadire come anche la seconda ratio decidendi sia corretta. Infatti, la nullità conseguente all’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale si converte in motivo di impugnazione, senza però produrre l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice
ove quello dell’impugnazione sia anche giudice del merito (da ultimo: Cass. 18 giugno 2014, n. 13907).
Giustamente, pertanto, la Corte distrettuale ha preso in esame il merito della pretesa, per poi riconoscere che la stessa non era stata contrastata dal ricorrente.
Il secondo motivo lamenta l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., con conseguente violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5.
Anzitutto l’istante prospetta dubbi di costituzionalità quanto al criterio del “medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” cui fa riferimento lo stesso art. 5: e ciò avendo riguardo a un’interpretazione costante, secondo la quale l’assegno predetto dovrebbe appunto garantire al coniuge economicamente più debole il detto tenore di vita. Deduce, poi, che la Corte di merito non avrebbe fatto corretta applicazione delle norme che presiedono alla valutazione degli elementi istruttori: e ciò con riferimento, anzitutto, al comportamento tenuto dalla controricorrente in costanza del matrimonio (essendosi M.F. gradualmente distaccata dalla famiglia a causa dell’adesione un gruppo religioso: condotta che era stata del resto presa in considerazione nel corso del giudizio di separazione); l’istante sottolinea, in proposito, che avendo la controparte posto in atto, già nel corso del matrimonio, un comportamento in conflitto con i doveri derivanti dal vincolo coniugale, non le si poteva assicurare, per il futuro, il precedente tenore di vita. Nel motivo si afferma, poi, che l’importo dell’assegno di mantenimento risultava essere eccessivo rispetto alla reale, attuale capacità economica di esso ricorrente: in proposito, l’istante contesta in modo diffuso e articolato quanto ritenuto dal giudice del gravame in ordine al tenore di vita della famiglia B., al suo reddito personale e al suo patrimonio, nonché alla capacità economica della controricorrente.
Nemmeno tale motivo merita accoglimento.
Il ricorrente prospetta un dubbio di costituzionalità con riguardo alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6.
Peraltro, la Corte costituzionale si è pronunciata sul punto, ritenendo non fondata la questione di costituzionalità del cit. art. 5, comma 6, “nell’interpretazione di diritto vivente per cui (…) l’assegno divorzile deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” (Corte cost. 27 gennaio 2015, n. 11).
Per il resto, il motivo veicola censure che non investono l’erronea applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5. Infatti, la violazione di tale norma – di cui pure si legge nella rubrica del motivo – è prospettata quale conseguenza dell’incongruo apprezzamento delle prove: ed è ben noto che l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa questione non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 3, la quale ha ad oggetto l’erronea individuazione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ex plurimis: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110).
Ma le revisione critica della sentenza che sollecitata col secondo motivo non può farsi nemmeno rientrare nell’area applicativa dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo vigente. Infatti, nella nuova formulazione del cit. n. 5, attuata con il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, scompare ogni riferimento letterale
alla “motivazione” della sentenza impugnata; è stato osservato, sul punto dalle Sezioni Unite di questa Corte, che volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al “minimo costituzionale” il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Al contempo, la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per come riformulata, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente debba indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053).
Ora, il ricorrente orienta le proprie censure verso lo scorretto apprezzamento delle prove. Ma il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’odierna versione (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
L’istante, invece di porsi su di un piano di prospettazione critica delle risultanze di causa, avrebbe dovuto piuttosto indicare, nei termini che si sono esposti, il fatto storico oggetto di discussione delle parti, e decisivo per il giudizio, che il giudice del merito aveva mancato di esaminare. Ed è il caso di sottolineare, al riguardo, che la norma richiamata fa riferimento al “fatto” e quest’ultimo non può considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo piuttosto identificarsi in un preciso accadimento ovvero in una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (così Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152, con riferimento al testo dell’art. 360, n. 5, nella precedente formulazione, risultante dal D.Lgs. n. 40 del 2006).
Il terzo ed ultimo motivo ha ad oggetto sia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, che l’omessa o insufficiente motivazione quanto al calcolo della quota del trattamento di fine rapporto spettante a M.F..
Rileva il ricorrente che la Corte di appello era incorsa in violazione di legge laddove aveva quantificato l’importo dovuto per il titolo indicato nella somma di Euro 47.389,62; deduce, altresì, che sul punto la sentenza era carente di motivazione, non avendo essa esplicitato le ragioni della decisione e i criteri di calcolo impiegati per arrivare al risultato ottenuto; evidenzia, infine, che la liquidazione della quota dell’indennità di fine rapporto doveva essere ragguagliata alla somma effettivamente percepita dal coniuge beneficiario e che la Corte distrettuale aveva mancato di prendere in considerazione la documentazione prodotta dallo stesso ricorrente, da cui risultava che l’importo quietanzato di Euro 177.711,09 era stato assoggettato a tassazione per Euro 36.460,00.
Nemmeno sul punto la sentenza merita cassazione.
La Corte bresciana ha spiegato che la base su cui calcolare la percentuale di cui all’art. 12 bis cit. era costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto stesso, onde la somma dovuta andava determinata in ragione del 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, assumendo come riferimento gli anni in cui il rapporto di lavoro era coinciso con il matrimonio.
È da escludere, dunque, che la Corte territoriale abbia mancato di esporre il procedimento di calcolo dell’importo spettante. Il criterio adottato, poi, è pienamente rispondente a quanto prescritto dall’art. 12 bis cit..
Per quanto attiene alla tassazione, la Corte di appello ha tenuto specificamente conto di essa, come risulta confermato dal fatto che il calcolo dell’indennità è stato operato partendo dalla somma di Euro 177.711,09, “già detratte le ritenute fiscali” (pag. 21 della sentenza). La denunciata mancata valutazione della prova documentale indicata, del resto – e come si visto – non è sufficiente ad integrare l’omesso esame del fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Oltretutto, la censura è carente di autosufficienza, dal momento che la quietanza di cui è parola a pag. 32 del ricorso non è trascritta nel corpo del motivo.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
Si dà atto dell’obbligo della parte ricorrente di procedere, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri di legge; dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, parte ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2017