Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2021) 20-12-2021, n. 40758

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 35506/2018 proposto da:
P.L., elettivamente domiciliato in Roma Via Rosa Raimondi Garibaldi n. 141, presso lo studio dell’avvocato Petitta Leonardo, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
Poste Italiane Spa;
– intimato –
avverso la sentenza n. 8823/2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2021 da PORRECA PAOLO;
udito l’Avvocato;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale.
Svolgimento del processo
che:
l’avvocato P.L. conveniva in giudizio Poste Italiane, s.p.a., chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un indebito prelievo, ad opera di sconosciuti, dal suo conto corrente postale abilitato al servizio telematico “online”;
il Giudice di pace accoglieva la domanda, con pronuncia riformata dal Tribunale secondo cui l’evento di danno, non risultando un malfunzionamento del sistema telematico della società, non poteva addebitarsi alla convenuta, che aveva anzi avvisato la clientela di non inserire dati sensibili rispondendo ad “email” non verificate, dovendo invece ragionevolmente correlarsi all’incauta comunicazione, da parte del titolare del conto, delle credenziali di accesso a seguito della riferita ricezione e risposta a un’email” volta alla frode poi, infatti, posta in essere;
avverso questa decisione ricorre per cassazione P.L. sulla base di un unico motivo, corredato da memoria;
il processo è stato rinviato alla pubblica udienza con ordinanza n. 2755 del 2020 della sezione Sesta;
il Pubblico Ministero ha depositato memoria.
Motivi della decisione
che:
con l’unico motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 31, “ratione temporis” applicabile, e dell’art. 2729 c.c., poiché il Tribunale avrebbe errato imputando al deducente la prova del mancato funzionamento del sistema telematico della convenuta, omettendo, al contempo, di evincere presuntivamente dai fatti la mancata predisposizione, da parte della medesima società, d’idonee misure volte a prevenire frodi come quella in esame, tenuto conto che, come risultato, in risposta all’evocata e non filtrata “email”, erano stati inseriti codice identificativo e “password” ma, prudentemente, non il codice di dieci cifre necessario all’operazione;
Rilevato che:
va dato atto che il ricorso è stato chiamato per l’udienza pubblica di discussione, non tenuta in camera di consiglio ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, siccome successivamente prorogato al 31 luglio 2021 dal D.L. 1 aprile 2021, n. 44, art. 6, comma 1, lett. a), n. 1), convertito dalla L. 28 maggio 2021, n. 76, nonché fino al 31 dicembre 2021, ma con eccezione delle udienze già fissate per i mesi di agosto e settembre 2021, dal D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7, commi 1 e 2, quale convertito;
il ricorso è inammissibile;
l’atto risulta infatti notificato via p.e.c. al difensore dell’intimata, con accettazione, da parte del sistema, ma senza consegna per “casella piena”;
al contempo, l’intimata aveva eletto domicilio presso lo studio dell’avvocato Domenico Febbo, in Roma viale Europa n. 190;
il procedimento notificatorio avrebbe dunque dovuto riprendersi per tempo all’indirizzo di elezione;
come osservato esplicativamente nella richiamata ordinanza interlocutoria, questa Corte ha chiarito che una notificazione è validamente effettuata all’indirizzo p.e.c. del difensore di fiducia, quale risultante dal Reginde, indipendentemente dalla sua indicazione in atti, ai sensi dell’art. 16 sexies del D.L. n. 179 del 2012 – come convertito dalla L. n. 221 del 2012, e modificato dall’art. 47 del D.L. n. 90 del 2014, convertito a sua volta dalla L. n. 114 del 2014 – non potendosi configurare un diritto a ricevere le notificazioni esclusivamente presso il domiciliatario indicato (Cass., 24/05/2018, n. 12876);
se però la notificazione telematica non vada a buon fine per una ragione, come nel caso, non imputabile al notificante – essendo invece addebitabile al destinatario per inadeguata gestione dello spazio di archiviazione necessario alla ricezione dei messaggi (Cass., 20/05/2019, n. 13532, Cass., 21/03/2018, n. 8029) – il notificante stesso deve ritenersi abbia il più composito onere, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario (fisico) eletto, in un tempo adeguatamente contenuto (arg. ex Cass., Sez. U., 15/07/2016, n. 14594, che ha indicato il temine della metà di quello previsto dall’art. 325, c.p.c.; Cass., 19/07/2017, n. 17864, Cass., 31/07/2017, n. 19059, Cass., 11/05/2018, n. 11485, Cass., 09/08/2018, n. 20700);
la conclusione è in linea con il principio, recentemente ribadito, per cui dev’esser escluso che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 11/02/2021, n. 3557, pag. 5, in cui si richiamano: Cass. nn. 1982 del 2020, 2942 del 2019, 22892 del 2015);
solo in tal caso, dunque, potranno conservarsi gli effetti della originaria notifica: in tal senso, e misura, si può raccogliere l’affermazione di Cass., 18/11/2019, n. 29851, secondo cui, più in generale, in caso di notifica telematica effettuata dall’avvocato, il mancato perfezionamento della stessa per non avere il destinatario reso possibile la ricezione dei messaggi sulla propria casella p.e.c., pur chiaramente imputabile al destinatario, impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dall’art. 137 c.p.c. e ss., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al (citato) D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, ultima parte, prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo p.e.c. dal difensore si perfeziona al momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna (RAC);
parte ricorrente, nella memoria depositata prima del rinvio alla pubblica udienza, richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il titolare dell’account” di posta elettronica certificata ha il dovere di assicurarsi il corretto funzionamento della propria casella postale sicché, nel caso di notifica telematica di atti quali un rigetto di opposizione allo stato passivo, poi impugnato, o la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel giudizio di legittimità, effettuati alla casella di posta elettronica e rifiutati dal sistema con il messaggio di “casella piena”, la notificazione ovvero comunicazione debbono ritenersi regolarmente avvenute giacché, una volta ottenuta dall’ufficio l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di p.e.c., diventa responsabile della gestione della propria utenza, avendo l’onere non solo di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli a tale indirizzo, ma anche di attivarsi affinché i messaggi possano essere regolarmente recapitati (Cass., 21/05/2018, n. 12451, che cita Cass. n. 23650 del 2016, in cui poi la Cancelleria aveva effettuato la comunicazione dell’avviso di udienza anche via fax, preso atto dell’esito di “casella piena” della comunicazione via p.e.c.);
ritiene il Collegio che i principi in parola non siano dirimenti perché relativi a fattispecie diversa, in cui:
a) risultava indicato a tali fini l’indirizzo telematico;
b) soprattutto, non risultava effettuata una diversa elezione di domicilio fisico;
se, cioè, si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico sopra richiamato, ciò non può viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo elettronico di ricezione appositamente eletto;
e, parimenti, l’onere del notificante si articola come detto diversamente, dovendo tenersi congruo conto della specifica elezione di domicilio fisica;
pertanto, la notifica telematica al domicilio digitale sarà valida nell’ipotesi di avvenuta consegna, mentre, qualora vi sia una differente e specifica elezione di diverso domicilio (nell’odierna fattispecie, fisico), nell’eventualità di “casella telematica piena” (presso il domicilio digitale più sopra ricordato) per insufficiente gestione dello spazio da parte del destinatario della notifica, il notificante dovrà, per tempo, riprendere il procedimento notificatorio presso il domicilio eletto, e ciò a valere solo nel caso specificato, altrimenti non potendo sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante;
in senso opposto – per ritenere, cioè, la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico, essendo addebitabile al destinatario lo stato di casella p.e.c. piena – si sono richiamati (cfr. Cass., 11/02/2020, n. 3164):
– il disposto di cui all’art. 149 bis c.p.c., comma 3, in tema di notificazioni a mezzo posta elettronica eseguite dall’ufficiale giudiziario;
– il D.M. n. 44 del 2011, art. 20, comma 5, in cui si stabilisce che “il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione”;
la prima norma appare, però, neutra ai fini in parola, prevedendosi, infatti, solo che “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”;
seppure il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore deve potersi evolvere in una effettiva disponibilità da parte del destinatario suscettibile di essere dunque onerato di fare quanto necessario perché ciò avvenga, tale prospettiva ricostruttiva, ad avviso del Collegio, non tiene conto dei due elementi cui prima si è accennato:
i) il difetto di esclusività del domicilio digitale;
ii) la mancata elisione della prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico con effetti alternativi;
diversamente, la previsione legale del domicilio digitale dovrebbe intendersi aver soppresso ad ogni fine e valenza la facoltà processuale di elezione di diverso domicilio (fisico), in assenza di una specifica norma in questo senso;
il disposto del D.M., poi, data la natura secondaria della fonte, non è sufficiente a giustificare la conclusione che in presenza di casella di p.e.c. satura la notificazione si abbia per perfezionata;
neppure decisivo appare l’art. 138 c.p.c., comma 2, che considera il rifiuto del destinatario di ricevere la copia di un atto che si tenti di notificargli a mani proprie come equivalente a una notificazione di tale genere: la responsabilità, in ipotesi anche colposa, di lasciare la casella di p.e.c. satura, non può equivalere a un intenzionale rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa, tanto più attesa l’alternativa elezione di domicilio fisico utilizzabile;
il punto di caduta ed equilibrio appena ricostruito appare inoltre il più coerente con la fase di transizione del regime processuale dalla dimensione fisica, intesa in senso tradizionale, a quella esclusivamente telematica;
in questa cornice, infine, non può ritenersi giustificato un ordine di rinnovo giudiziale della notificazione, che risulterebbe privo di legittimazione normativa a fronte, invece, dell’opposto principio di ragionevole durata del processo;
ne consegue, nella fattispecie in scrutinio, l’inammissibilità del ricorso; non deve disporsi sulle spese in assenza di difesa della controparte.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2021

 


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 29/09/2021) 02/12/2021, n. 38010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23063/2015 R.G. proposto da:

Maxflora srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Domenico Siciliano, con domicilio eletto in Roma, via Antonio Gramsci, presso lo studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania n. 1057/17/15, depositata il 17 marzo 2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2021 dal Consigliere Enrico Manzon;

uditi gli Avv. Giovanni Palatiello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Salzano Francesco, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania rigettava l’appello proposto da Maxflora srl avverso la sentenza n. 429/1/13 della Commissione tributaria provinciale di Ragusa che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2007.

La CTR osservava in particolare che le pretese creditorie erariali erano ben fondate dalla metodologia accertativa utilizzata, di tipo presuntivo, che comunque l’atto impositivo impugnato era stato correttamente notificato e debitamente sottoscritto dal direttore dell’Agenzia delle entrate, ufficio locale; che in ogni caso non vi erano elementi per ridurre dette pretese, posto che la società contribuente non aveva adeguatamente assolto il proprio onere di provare i costi afferenti i ricavi presuntivamente accertati.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione
Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione del D.L. n. 78 del 2010, art. 29, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, poichè la CTR ha affermato la validità della procedura notificatoria dell’avviso di accertamento impugnato, trattandosi di atto impositivo del nuovo tipo “impoesattivo”, essendo stato lo stesso inviato “direttamente” a mezzo posta da parte dell’agenzia fiscale, peraltro senza recazione di relata di notifica, e ciò costituendo causa di inesistenza, non sanabile, della notificazione e quindi di invalidità per decadenza dell’atto impositivo medesimo.

La censura è infondata.

Pacifico in fatto che l’avviso di accertamento impugnato è stato notificato a mezzo posta direttamente dall’agenzia fiscale senza l’intermediazione di ufficiale giudiziario ovvero di messo notificatore, il Collegio ritiene di dare seguito a quanto già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla piena legittimità di tale procedura notificatoria anche con riguardo alla nuova tipologia di avvisi di accertamento (c.d. impoesattivi) introdotta con il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, (v. Cass. n. 27634 del 2020).

Tale disposizione legislativa, nella versione applicabile ratione temporis, prevede che “Le attività di riscossione relative agli atti indicati nella seguente lettera a) emessi a partire dal 1 ottobre 2011 e relativi ai periodi d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, sono potenziate mediante le seguenti disposizioni: a) l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15. L’intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 8, comma 3-bis, art. 48, comma 3-bis, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 68, e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 19, nonchè in caso di definitività dell’atto di accertamento impugnato. In tali ultimi casi il versamento delle somme dovute deve avvenire entro sessanta giorni dal ricevimento della raccomandata; la sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, non si applica nei casi di omesso, carente o tardivo versamento delle somme dovute, nei termini di cui ai periodi precedenti, sulla base degli atti ivi indicati; b) gli atti di cui alla lettera a) divengono esecutivi decorsi sessanta giorni dalla notifica e devono espressamente recare l’avvertimento che, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti delle riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata, con le modalità determinate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, di concerto con il Ragioniere generale dello Stato. L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera a); tale sospensione non si applica con riferimento alle azioni cautelari e conservative, nonchè ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore. L’agente della riscossione, con raccomandata semplice spedita all’indirizzo presso il quale è stato notificato l’atto di cui alla lettera a), informa il debitore di aver preso in carico le somme per la riscossione”.

Orbene, non può ritenersi che tale disposizione legislativa abbia un qualsiasi effetto abrogante della L. n. 890 del 1982, art. 14, che appunto prevede, senza alcuna distinzione tra gli atti ivi indicati, la facoltà degli Enti impositori di procedere alla notificazione a mezzo posta senza intermediazione alcuna, se non appunto quella dell’agente postale.

E, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, non si può a tal fine affermare che sia rilevante/scriminante la distinzione tra le tipologie di atti previste nel D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), non vedendosi alcuna ragione giuridica in questo senso, essendo la previsione che anche gli atti successivi a quelli indicati nella prima parte possano essere notificati con lettera raccomandata nient’altro che estensiva di detta facoltà di “notificazione diretta”.

Disattendendo un’ulteriore argomentazione della società contribuente, va peraltro ribadito che la notificazione di un atto impositivo non è affatto un elemento costitutivo di esistenza giuridica/validità del medesimo, bensì esclusivamente una sua condizione di efficacia (cfr. ex multis, Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21071 del 24/08/2018, Rv. 650056 – 01).

D’altro canto, non vi è ragione per affermare che l’idoneità a trasformarsi in titolo esecutivo solo dopo 60 giorni dalla notificazione stessa, a differenza dell’iscrizione a ruolo che D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 12, comma 4, ha effetto immediato, ne rappresenti invece un elemento costitutivo. Infatti è la stessa disposizione legislativa che chiarisce che con la novità normativa si è inteso aggiungere una nuova modalità di formazione di un titolo esecutivo legittimante la riscossione esattoriale, laddove il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. b), prevede appunto espressamente che “la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata..”.

Infine sul punto deve altresì darsi seguito al principio di diritto che “In caso di notificazione a mezzo posta dell’atto impositivo eseguita direttamente dall’Ufficio finanziario ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicchè non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione” (ex pluribus, Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 29642 del 14/11/2019, Rv. 655744 – 01).

In conclusione, indiscussa la ricezione dell’avviso di accertamento impugnato da parte della società contribuente, va affermata la piena ritualità della procedura notificatoria effettuata secondo la previsione di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 14, in base alla disciplina della legge medesima.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, poichè la CTR ha affermato la validità dell’atto impositivo impugnato nonostante non fosse provata al legittimazione a sottoscriverlo del direttore dell’Agenzia delle entrate, ufficio locale.

La censura è infondata.

Il giudice tributario di appello ha accertato in fatto, insindacabilmente, che il sottoscrittore dell’avviso di accertamento de quo è il direttore provinciale dell’agenzia fiscale.

Ciò posto, va ribadito in diritto che “In tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito nella L. n. 44 del 2012. (Principio affermato ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3)” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015, Rv. 637349 – 01).

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., poichè la CTR ha ritenuto nel merito che l’avviso di accertamento impugnato rosse fondato su presunzioni aventi le caratteristiche da dette disposizioni codicistiche, con ciò violando il principio generale sull’onere della prova sancito dalla prima.

La censura è infondata.

Va anzitutto ribadito che “La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poichè in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5” (Cass., n. 17313 del 19/08/2020, Rv. 658541 – 01).

Nel caso di specie la CTR siciliana non ha affatto violato tale precetto, correttamente attribuendo all’agenzia fiscale l’onere di suffragare le proprie pretese creditorie e peraltro affermando appunto che tale onere doveva considerarsi pienamente assolto.

Quanto al resto, la censura risulta inammissibile, introducendo valutazioni circa il giudizio di merito dato dal giudice tributario di appello, in particolare sulla valorizzazione delle prove agli atti, che non possono essere revisionate da questa Corte, secondo i consolidati principi di diritto che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (ex multis, Cass. n. 9097 del 07/04/2017) e che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015).

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè degli artt. 3, 27, 53 Cost., dell’art. 6 CEDU, comma 2, poichè la CTR ha ritenuto irrilevanti i prelevamenti effettuati dal legale rappresentante pro tempore della società contribuente, nonostante l’induttività della metodologia accertativa implicasse necessariamente di doverne tenere conto come componenti negative di reddito, altrimenti violandosi specificamente il principio costituzionale di capacità contributiva.

La censura è infondata.

Va ribadito che “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 22868 del 29/09/2017, Rv. 645900 – 01).

Trattandosi nel caso di specie della tipologia accertativa analitico-induttiva, emergendo ciò in modo inequivoco dalla stessa narrativa di ricorso, risulta evidente che la CTR siciliana ha deciso in piena conformità a tale arresto giurisprudenziale e non merita cassazione nemmeno in relazione a tale critica, non potendosi ovviamente “revisionarne” il giudizio di merito circa il mancato assolvimento dello specifico onere probatorio in questione da parte della società contribuente.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 29 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2021


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 06-07-2021) 16-12-2021, n. 40467

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29897/2019 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO COLOMBO, ANNA MARIA PETRALITO;

– ricorrente –

contro

AZIMUT SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL CONSOLATO 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SERRA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO GAMBA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 468/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 15/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/07/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Svolgimento del processo
che:

T.G. propose innanzi al Tribunale di Cremona opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il Decreto Ingiuntivo, notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c., emesso in favore di Azimut s.r.l. per l’importo di Euro 61.781,03, a titolo di corrispettivo per le opere eseguite extracapitolato presso l’immobile di proprietà dell’ingiunto, operata dal totale di Euro 68.331,53 la detrazione della somma di Euro 6.460,50 pari al costo per l’eliminazione dei vizi lamentati dal T.. L’opponente propose inoltre domanda riconvenzionale di condanna al pagamento della somma di Euro 41.977,67, a titolo risarcitorio ai sensi degli artt. 1669 e/o 2043 c.c., per i danni derivanti dai vizi a carico dell’immobile. Il Tribunale accolse sia l’opposizione che la domanda riconvenzionale nei limiti del minor importo (rivalutato) di Euro 17.500,00. Avverso detta sentenza propose appello Azimut s.r.l.. Con sentenza di data 15 marzo 2019 la Corte d’appello di Brescia accolse l’appello, dichiarando l’inammissibilità per tardività dell’opposizione al decreto ingiuntivo e condannando l’appellato al pagamento della somma di Euro 61.781,03 oltre interessi.

Premise la corte territoriale che in data (OMISSIS) era stata eseguita la notificazione del Decreto Ingiuntivo presso la residenza anagrafica del debitore a mezzo del servizio postale, con esito negativo per lo stato di “irreperibilità del destinatario” e che in data (OMISSIS) la notifica era stata eseguita dall’ufficiale giudiziario il quale, confermando la situazione verificata dall’ufficiale postale, aveva dichiarato che all’indirizzo di (OMISSIS) vi era uno “stabile sprovvisto di portineria”, “il nome non figura sul citofono nè sulla cassetta postale”, così da rendere “non applicabile la notifica ex art. 140 c.p.c.” e che erano state “vane le ricerche esperite sul posto”. Osservò quindi, non potendo essere poste in discussione le attestazioni dell’ufficiale giudiziario in mancanza di querela di falso, che non poteva reputarsi inidonea neppure l’attestazione riguardante il vano esperimento delle ricerche sul posto, perchè: l’espletamento di tale adempimento era attestato dal pubblico ufficiale; l’esito negativo era coerente al precedente tentativo mediante servizio postale; le ricerche non avrebbero potuto fornire un risultato diverso dato che l’indirizzo di (OMISSIS) corrispondeva all’effettiva ed attuale residenza dell’ingiunto.

Aggiunse che la domanda riconvenzionale non era autonoma rispetto alla pretesa creditoria, e pertanto risultava travolta dall’inammissibilità dell’opposizione con la formazione del relativo giudicato, perchè l’opposta aveva chiesto il pagamento delle opere extra contratto (e a tale domanda l’opponente aveva resistito sostenendo che il relativo costo era stato preso in considerazione nel corrispettivo della compravendita) ed inoltre aveva offerto, a deduzione del costo delle opere in questione, il minor valore determinato da tale costo, cui l’opponente aveva replicato offrendo una differente valutazione delle circostanze e delle criticità in parola.

Ha proposto ricorso per cassazione T.G. sulla base di due motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. Sono state depositate memorie.

Motivi della decisione
che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 140, 143 e 148 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che, come riconosciuto dalla stessa Corte d’appello, era provato che nel (OMISSIS) il T. avesse stabile residenza anagrafica all’indirizzo di (OMISSIS) e che la barratura della casella “vane ricerche” avrebbe dovuto essere completata adeguatamente mediante una relazione che desse conto dell’attività compiuta ai fini di consentire la notifica a mani o accertare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 140, dando conto in modo esaustivo delle attività compiute e spiegando così come il loro esito avesse portato alla conclusione inequivocabile del trasferimento altrove della residenza (peraltro si trattava di un’area di villette regolarmente e stabilmente abitate, ragion per cui era sufficiente chiedere informazioni ai vicini ivi residenti). Aggiunge che non poteva ricorrere lo stato di ignoranza incolpevole circa l’effettivo indirizzo di residenza del destinatario (che avrebbe legittimato la notifica ai sensi dell’art. 143), sia perchè il T. aveva stabile residenza nell’indirizzo in questione, dal quale era temporaneamente assente per impegni di lavoro, sia perchè tale residenza era nota ad Azimut.

Il motivo è fondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638 del 2017). Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107 del 2016), il che val quanto dire, come affermato da Cass. n. 18385 del 2003, che “l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione”. Va inoltre rammentato che i presupposti, legittimanti la notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c., non sono solo il dato soggettivo dell’ignoranza, da parte del richiedente o dell’ufficiale giudiziario, circa la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario dell’atto, nè il mero possesso del certificato anagrafico, dal quale risulti il destinatario stesso trasferito per ignota destinazione, essendo anche richiesto che la condizione di ignoranza non sia superabile attraverso le indagini possibili nel caso concreto, da compiersi ad opera del mittente con l’ordinaria diligenza: a tal fine, la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione (Cass. n. 19012 del 2017).

Nel caso di specie l’indicazione di “vane le ricerche esperite sul posto”, al cospetto dell’accertata residenza anagrafica, evidenzia una carenza del procedimento notificatorio sotto il profilo del requisito della effettività delle ricerche e della specifica indicazione di quali siano state le “effettive” ricerche compiute, rilevante nel caso di specie come requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto (art. 156 c.p.c., comma 2). In mancanza infatti della specifica indicazione delle effettive ricerche compiute, la generica indicazione di “vane le ricerche esperite sul posto” è inidonea ad integrare un fatto di cui l’ufficiale giudiziario dia conto nel processo verbale, per il quale incomba sulla parte interessata l’onere di proporre querelai di falso, ma ha la valenza esclusivamente di una valutazione, non assistita, come è noto, dalla precipua efficacia dell’atto pubblico (in particolare, l’ufficiale giudiziario ha stimato “vane” le ricerche esperite, ma ha omesso di attestare i fatti, che sarebbero avvenuti, corrispondenti alle ricerche eseguite). Non vale richiamare Cass. n. 17964 del 2017, come si fa nella memoria della controricorrente, la quale esclude che ricorra la nullità nel caso di mancata indicazione nel processo verbale delle indagini eseguite a condizione però che risulti comunque con assoluta certezza l’effettivo compimento delle stesse, circostanza che non risulta nel caso di specie (mentre sussisteva nel caso di cui al precedente appena citato).

Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale, ritenendo travolta la domanda riconvenzionale, ha confuso il contenuto di domande che restano autonome, con l’istituto della compensazione e che il contenuto della domanda riconvenzionale prescinde del tutto dall’opposizione a decreto ingiuntivo.

L’accoglimento del precedente motivo determina l’assorbimento del motivo.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 02/07/2021) 14/12/2021, n. 39970

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23301-2018 proposto da:

FALLIMENTO R.R., FALLIMENTO (OMISSIS) SNC, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CARNUCCIO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNIONE BANCHE ITALIANE SPA, (GIA’ BANCA CARIME SPA), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 2, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GRILLO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 561/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 22/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/07/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.

Svolgimento del processo
Che:

la Banca Carime s.p.a. si opponeva al precetto notificatole dalla curatela del Fallimento (OMISSIS) s.n.c., deducendo che il legittimato passivo del titolo giudiziale oggetto dell’intimazione era la s.p.a. Carical;

il Tribunale accoglieva l’opposizione con pronuncia riformata dalla Corte di appello secondo cui, in particolare, il giudice di prime cure aveva dato atto della diversità dei soggetti sociali, tra cui vi era stata cessione di ramo di azienda, senza accertare che il rapporto sotteso al titolo fosse stato ricompreso nella stessa “traslatio” laddove, al contempo, non poteva evincersi alcun giudicato opposto, sul punto, dalla decisione azionata come titolo, atteso che in quel giudizio non vi era stata cognizione specifica al riguardo, nè poteva ipotizzarsi una non contestazione in prime cure, in cui la società coinvolta era rimasta contumace, nè alcunchè in appello, dichiarato solo in rito inammissibile;

avverso la decisione di secondo grado ricorre per cassazione l’amministrazione fallimentare articolando tre motivi;

resiste con controricorso UBI Banca s.p.a. quale incorporante Banca Carime.

Motivi della decisione
Che:

con il primo e secondo motivo, suscettibile di sintesi per strettissima connessione, si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 616, c.p.c., nel testo “ratione temporis” applicabile, comma 2, poichè la decisione del Tribunale era inappellabile e dunque impugnabile solo con ricorso straordinario per cassazione, con conseguente intervenuto giudicato di cui era stato quindi omesso il rilievo;

con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., art. 2909 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 58 poichè la Corte territoriale avrebbe errato mancando di considerare che nella decisione azionata quale titolo s’indicava la Carime quale successore della Carical, mentre la Corte territoriale aveva affermato una mancata prova dell’inclusione del rapporto obbligatorio in questione nella cessione del ramo di azienda tra le due società senza, però, che tale documento fosse acquisito agli atti del giudizio “a quo”, mentre l’interpretazione extratestuale del titolo esecutivò sarebbe stata possibile solo in base alla documentazione ritualmente acquisita nel correlato processo;

Rilevato che:

nel controricorso si è eccepita la tardività del ricorso per cassazione in quanto la sentenza impugnata risulta essere stata notificata via p.e.c. al domiciliatario in appello oltre che al “dominus” difensore, ai fini di decorrenza del termine breve, infine spirato;

l’eccezione, afferente peraltro a profilo rilevabile d’ufficio, è fondata;

osserva il Collegio che la notifica via p.e.c. della sentenza di appello, risultante agli atti del controricorrente, rispetto alla quale è decorso invano termine per impugnare in questa sede, è stata effettuata in tale forma nonostante un’elezione di domicilio fisico in capo all’avvocato Silvio Dattola, destinatario come detto della notifica telematica;

questa Corte ha chiarito che:

a) a seguito dell’introduzione del c.d. domicilio digitale (corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 201, art. 16 sexies convertito dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla L. n. 114 del 2014), la notificazione va eseguita all’indirizzo p.e.c. del difensore costituito, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicchè è nulla la notificazione effettuata (ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82) presso la Cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo;

b) tale principio deve trovare certamente applicazione nei casi in cui il destinatario della notificazione abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario dinanzi a cui pende la lite (con la conseguente necessità. di ricorrere, per tale ipotesi, alla notificazione presso il c.d. domicilio digitale del destinatario), mentre non spiega efficacia nei casi in cui la Cancelleria del giudice dinanzi a cui pende la lite, lungi dal rilevare quale riferimento per il caso di omessa elezione di domicilio nel Comune di detto giudice (ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82), rappresenti il luogo di espressa identificazione elettiva del domicilio dell’interessato, dovendo escludersi che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte d’individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico – anche la Cancelleria dell’ufficio giudiziario – come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 29/01/2020, n. 1982);

resta inteso che qualora vi sia stata indicazione della domiciliazione digitale, non circoscritta alle sole comunicazioni, le notifiche, al fine di far decorre il termine breve, devono avvenire necessariamente in tale luogo telematico (Cass., 01/06/2020, n. 10355);

questo quadro ha portato a concludere che il domicilio digitale può essere utilizzato per la notificazione in questione, anche se non elide la prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico, sicchè le due opzioni concorrono (Cass., 11/02/2021, n. 3557);

in tal caso, la parte aveva solo eletto domiciliazione fisica, ma la domiciliazione digitale, pur non impedendo l’utilizzo della prima, restava, per volontà dell’ordinamento, una delle due possibilità ai fini in discussione;

nèdiscende la ritualità della notifica della sentenza qui gravata, nei sensi eccepiti dalla controricorrente, con conseguente sua idoneità all’attivazione del termine breve di impugnazione e tardività dell’odierno ricorso;

spese secondo soccombenza;

raddoppio c.u. se dovuto.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali di parte controricorrente liquidate in Euro 4.100,00 oltre a Euro 200,00 per esborsi, 15% di spese forfettarie, e accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 14/09/2021) 30/11/2021, n. 37398

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1660/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Frunzi e dall’Avv. Giuseppe Maria Frunzi, con domicilio eletto in Roma, via Baldo degli Ubaldi, n. 71, presso lo studio dell’Avv. Massimiliano Morichi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 1025/48/14 depositata il 4 febbraio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 settembre 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

Svolgimento del processo
che:

il concessionario della riscossione notificò a M.G. la cartella di pagamento n. (OMISSIS), con l’iscrizione a ruolo di IRPEF, di ILOR e di contributo al servizio sanitario nazionale per gli anni 1992 e 1993 (per complessive L. 3.322.517.000), operata sulla base di due avvisi di accertamento ((OMISSIS)) divenuti definitivi per mancata impugnazione;

deducendo che tali avvisi di accertamento non gli erano mai stati notificati, M.G.impugnò la cartella di pagamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Napoli (hinc anche: “CTP”), che accolse il ricorso del contribuente, “non avendo l’ufficio documentato l’esistenza degli avvisi di accertamento” (così la sentenza impugnata);

avverso tale pronuncia, l’Agenza delle entrate, Direzione provinciale II di Napoli, propose appello alla Commissione tributaria regionale della Campania (hinc anche: “CTR”), che lo rigettò con la motivazione che: a) “la cartella de quo non reca nè l’indicazione della data in cui il ruolo è stato reso esecutivo nè la data di consegna del ruolo al Concessionario, per cui non è possibile verificare se è stato rispettato il termine previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 2 comma 1. La cartella de quo risulta essere altresì nulla anche perchè notificata in data (OMISSIS), ovvero oltre il termine decadenziale previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, così come richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17, normativa che, secondo consolidata giurisprudenza, sancisce la decadenza del ruolo se nei termini previsti, oltre alla consegna del ruolo stesso alla D.R.E., non sia stata notificata la cartella al contribuente”; b) “(r)elativamente poi al comprovato vizio di notifica degli avvisi di rettifica originari, l’Ufficio stesso con memorie integrative depositate il 28/10/05, deposito tardivo perchè contenente documenti allegati da depositare 20 gg. prima dell’udienza, erroneamente afferma di aver già provveduto a depositare gli avvisi di rettifica de quo. Invero il deposito di tali atti è avvenuto tardivamente, ovvero tali atti sono stati depositati come allegati alle citate memorie integrative del 27/10/05. Pertanto solo in tale data, quindi a termine abbondantemente scaduto, nonostante l’ordinanza di deposito della stessa Commissione adita datata 18/12/2003, l’appellato è venuto finalmente a conoscenza di questi atti di rettifica e relative relate di notifica”; c) “(a) parte la decadenza del termine per la notifica di atti impositivi, le notifiche depositate risultano essere nulle in quanto operate a nomi di persone sconosciute ed in luoghi non indicati per uno e sconosciuto per l’altro, considerato che, come si evince dal certificato storico di residenza del 12/11/2005, allegato, l’appellato risiede a far data dal 09/10/1991 da sempre al (OMISSIS). La notifica di atti ad una persona fisica, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., va fatta nel domicilio del destinatario mediante consegna a mani proprie o di persone di famiglia convivente o infine a persone addette alla casa o all’ufficio. Nessuno dei casi citati ricorre nella relata de quo, per cui gli atti oggetto di notifica non sono mai esistiti o quanto meno venuti a conoscenza del legittimo destinatario, conoscenza che si è tardivamente verificata solo in data 28/10/05 a termine oramai da tempo scaduto. Infatti relativamente alle notifiche inerenti l’avviso di rettifica n. 5011026768 allegato in copia dall’Ufficio, nella relata di notifica non vi è indicato nè l’ora, nè la via, nè il comune o la frazione dove il messo notificatore ha notificato l’atto al sig. E.S., persona sconosciuta. Inoltre, per quanto riguarda la relata di notifica inerente l’avviso di rettifica n. 5011024141, il messo notificatore oltre ad aver notificato l’atto ad una persona totalmente sconosciuta oltre che sbagliata, considerando che il M.G. è domiciliato da sempre in (OMISSIS). Le suddette notifiche quindi risultano completamente nulle poichè in netto contrasto con quanto affermato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, il quale, rinviando all’art. 137 e seguenti del CPC, stabilisce che le notifiche devono essere eseguite in mani proprie del contribuente, e laddove la notifica non avvenga a mani proprie, la stessa deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario. La Corte di Cassazione (Vedi Cass. n. 1 131 del 04/02/98), in merito alla questione, ha più volte affermato che la successione preferenziale delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c., è tassativa, con la conseguenza che la notifica è nulla quando nella relata non è specificamente indicata la ragione per la quale l’atto non è stato consegnato allo stesso destinatario o ad alcune delle persone che nell’ordine tassativo lo seguono, così come stabilito dalla seguenti decisioni della CTC n. 6440 del 21/12/96, CTC n. 6425 del 10/10/90, CTC n. 1 188 del 10/11/1995. Per tutti questi motivi, quindi, nel caso di specie le suddette notifiche sono completamente errate”;

avverso tale decisione – depositata in segreteria il 4 febbraio 2014 e non notificata – ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate, che affida il proprio ricorso, notificato il 16 gennaio 2015, a sei motivi; M.G. resiste con controricorso, notificato il 5 marzo 2015;

M.G. ha depositato una memoria.

Motivi della decisione
che:

con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 1, per avere la CTR omesso di dichiarare inammissibili, in quanto proposti per la prima volta solo nel giudizio di appello – segnatamente, “con le “note di memoria” depositate il 14 novembre 2005″ – i motivi relativi alle nullità dell’impugnata cartella di pagamento perchè priva dell’indicazione della data in cui il ruolo era divenuto esecutivo e della data di consegna dello stesso ruolo al concessionario nonchè perchè notificata oltre il termine di decadenza previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 (richiamato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 17);

con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame del fatto decisivo che gli avvisi di accertamento prodromici alle iscrizioni a ruolo erano stati prodotti in giudizio dall’Agenzia delle entrate già in allegato al ricorso in appello – come risultava: a) dallo stesso ricorso, là dove l’Ufficio, premesso di avere regolarmente notificato i suddetti avvisi, affermava di “esibi(rli) in copia conforme all’originale”; b) dall’ordinanza n. 43/48/06, depositata il 6 ottobre 2006, con la quale la CTR sospese il processo per l’avvenuta presentazione di querela di falso relativamente alle relazioni di notificazione degli avvisi, là dove, premesso che l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello avverso la sentenza della CTP, affermava che “(e)ntrambi (gli avvisi) venivano esibiti in copia conforme all’originale”; c) dalla stessa sentenza impugnata, là dove, premesso che l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello avverso la sentenza della CTP, afferma che “Ma documentazione veniva esibita in copia conforme all’originale”) – o, comunque, all’udienza del 18 dicembre 2003, come risultava sempre dalla sentenza impugnata (là dove afferma che “(i)n data 28/10/2005 l’ufficio depositava memorie aggiuntive da cui si dava atto all’ufficio di avere depositato gli avvisi di rettifica in data 18/12/2003, data in cui il ricorrente ne era venuto a conoscenza”), e non soltanto il 28 dicembre 2005, in allegato alla memoria depositata dall’Ufficio in tale data, come ritenuto dalla CTR;

con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.P.R. n. 546 del 1992, artt. 61 e 32, per avere la CTR affermato che la produzione dei presupposti avvisi di accertamento il 25 ottobre 2005 era tardiva, atteso che, premesso che, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, richiamato dall’art. 61 stesso decreto, i documenti possono essere depositati fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione, poichè questa era fissata per il 2 maggio 2013, il deposito dei predetti avvisi era ampiamente tempestivo;

con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame dei fatti decisivi che, come evidenziato nella propria memoria del 4 aprile 2006, le notifiche degli avvisi di accertamento presupposti “sono state effettuate nel comune di residenza ((OMISSIS)) all’indirizzo di (OMISSIS)” e che “tale indirizzo ha costituito il luogo di residenza del contribuente almeno fino al 1993 ed il luogo di esercizio dell’attività negli anni successivi, e certamente nei periodi di imposta (…) 1998/1999 (…), come dimostra il fatto che a tale indirizzo sono stati regolarmente notificati, in periodi precedenti, altri provvedimenti dell’amministrazione (come l’invito a comparire per esperire la procedura di accertamento per adesione”);

con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione e falsa applicazione degli artt. 156 e 160 stesso codice, “in relazione all’art. 148 c.p.c.”, per avere la CTR affermato la nullità della notificazione “di uno dei due atti di accertamento” per la mancata indicazione, nella relativa relazione di notificazione, del luogo e dell’ora in cui è avvenuta la consegna dell’atto;

con il sesto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 139 c.p.c., per avere la CTR affermato la nullità della notificazione dei prodromici avvisi di accertamento in quanto consegnati non nella casa di abitazione (ubicata in (OMISSIS), (OMISSIS)) e a persone sconosciute, nonchè in quanto “nella relata non è specificamente indicata la ragione per la quale l’atto non è stato consegnato allo stesso destinatario o ad alcune delle persone che nell’ordine tassativo lo seguono”;

preliminarmente, deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), sollevata dal controricorrente nel controricorso;

contrariamente a quanto ritenuto dal controricorrente, il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle entrate contiene infatti, nelle pagine dalla prima alla quarta, sotto il titolo “Fatto e svolgimento del processo”, una sintetica esposizione del fatto sostanziale e processuale pienamente idonea a soddisfare il requisito dell’”esposizione sommaria dei fatti della causa” prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3);

la riproduzione, nell’ambito dell’esposizione del primo motivo, del ricorso introduttivo del giudizio, nell’ambito dell’esposizione del quarto motivo, della memoria dell’Agenzia delle entrate del 4 aprile 2006, e, nell’ambito dell’esposizione del sesto motivo, delle relazioni di notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento e dell’intestazione di uno di essi sono giustificate dall’esigenza del rispetto del principio di autosufficienza, codificato dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) (ex plurimis, Cass., 25/03/2013, n. 7455, 22/02/2016, n. 3385) e riguardante, appunto, la modalità di esposizione dei motivi, i quali, per essere idoneamente articolati come “domanda” rivolta alla Corte di cassazione, presuppongono “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi” su cui si fondano, onere che può essere adempiuto o mediante la riproduzione o trascrizione della parte rilevante o mediante l’indicazione dell’atto, documento, contratto o accordo collettivo;

da ciò consegue l’infondatezza dell’eccezione;

il primo motivo è fondato;

il processo tributario ha un oggetto che è rigidamente delimitato per quanto qui rileva – dalle contestazioni comprese nei motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo prospettati nel ricorso introduttivo (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 24), i quali costituiscono la causa petendi dell’auspicato annullamento del medesimo atto (Cass., 24/06/2011, n. 13934);

questa Corte ha conseguentemente affermato che, nel giudizio tributario di appello, si ha domanda nuova, come tale improponibile a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, quando il contribuente, nel giudizio di appello, “introduce, al fine di ottenere l’eliminazione – o la riduzione delle conseguenze – dell’atto impugnato, una “causa petendi” diversa, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, sicchè risulti inserito nel processo un nuovo tema d’indagine” (Cass., 30/07/2007, n. 16829);

nella specie, dalla lettura del ricorso introduttivo del giudizio riprodotto dalla ricorrente nel ricorso (in ossequio, come si è detto, al principio di autosufficienza) – risulta che il contribuente, impugnando la cartella di pagamento, contestò che la stessa “è nulla per assenza del titolo giustificativo della relativa iscrizione a ruolo delle imposte de quo. Infatti gli avvisi di accertamento citati nel dettaglio degli addebiti (pag. 2 della cartella) non sono mai pervenuti al Ricorrente per completa assenza di notifica degli stessi al Ricorrente stesso. – Mancando gli avvisi di accertamento posti a base della iscrizione a ruolo, la iscrizione stessa è nulla per assenza di titolo”;

con il ricorso introduttivo, il contribuente denunciò quindi la nullità della cartella di pagamento esclusivamente in quanto asseritamente non preceduta dalla notificazione dei prodromici avvisi di accertamento;

rispetto a siffatta censura, le doglianze con le quali il contribuente, solo nel giudizio di appello – segnatamente con la memoria depositata il 14 novembre 2005 (depositata dall’Agenzia delle entrate come allegato n. 11 al ricorso per cassazione) – denunciò la nullità della cartella di pagamento perchè priva dell’indicazione della data in cui il ruolo era divenuto esecutivo e della data di consegna dello stesso ruolo al concessionario nonchè perchè notificata oltre il termine di decadenza previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 (richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17) appaiono evidentemente nuove, giacchè introducono delle causae petendi che sono palesemente diverse da quella della nullità della cartella di pagamento perchè non preceduta dalla notificazione dei prodromici avvisi di accertamento;

ne consegue l’errore commesso dalla CTR col non dichiarare inammissibili d’ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, in quanto proposte solo nel giudizio di appello, le domande inerenti all’asserita nullità della cartella di pagamento impugnata perchè priva dell’indicazione della data in cui il ruolo era divenuto esecutivo e della data di consegna dello stesso ruolo al concessionario nonchè perchè notificata oltre il termine di decadenza previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43;

il secondo motivo non è fondato;

il controricorrente ha depositato, insieme con il controricorso (quarto allegato), copia del processo verbale dell’udienza del 18 dicembre 2003 contenente l’ordinanza con la quale la CTR – ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, allora vigente comma 3 (comma successivamente abrogato dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3-bis, comma 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248) – “ordina(va) all’Ufficio di depositare entro i termini di legge copie conformi degli avvisi di accertamenti anno 1992 e 1993”, rinviando, allo scopo, all’udienza del 5 febbraio 2004;

risulta dunque evidente che, alla data del 18 dicembre 2003, tali prodromici avvisi di accertamento (con le relative relazioni di notificazione) non erano concretamente rinvenibili negli atti di causa e non erano stati perciò effettivamente prodotti dall’Ufficio;

ne consegue l’infondatezza del motivo in esame, con il quale l’Agenzia delle entrate ha denunciato l’omesso esame del fatto decisivo che i prodromici avvisi di accertamento sarebbero stati prodotti in allegato al ricorso in appello o, comunque, all’udienza del 18 dicembre 2003 e non, come ritenuto dalla CTR, solo in allegato alla memoria depositata dall’Ufficio il 28 dicembre 2005;

il terzo motivo è fondato, nei termini che seguono;

questa Corte, premesso che, nel processo tributario, non vige un rigoroso principio dispositivo in materia di prova – atteso che, alla luce del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 1 e 3, l’iniziativa di parte non è un necessario e non surrogabile veicolo per l’acquisizione di documenti – ha affermato il principio, che è condiviso dal Collegio, secondo cui, in conseguenza di ciò, dalla scadenza del termine assegnato alla parte dall’ordinanza della commissione tributaria per la relativa produzione, e anche del termine di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, non deriva alcuna conseguenza in ordine all’utilizzabilità dei documenti, una volta che questi siano stati, comunque, acquisiti (Cass., 23/12/2000, n. 16176);

da ciò consegue l’error in procedendo commesso dalla CTR col ritenere (implicitamente) l’inutilizzabilità dei prodromici avvisi di accertamento, con le relative relazioni di notificazione, in quanto prodotti, il 28 dicembre 2005 (in allegato alla memoria depositata dall’Ufficio in tale data), dopo la scadenza del termine di “20 gg. prima dell’udienza” previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32;

deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità del quarto, quinto e sesto motivo sollevata dal controricorrente in quanto “”oggetto di discussione tra le parti” non è stato giammai la regolarità o meno delle notifiche degli avvisi, bensì la prodromica loro sussistenza”;

l’eccezione non è fondata giacchè, contrariamente a quanto asserito dal controricorrente, la questione della validità o no delle notificazioni dei due prodromici avvisi di accertamento fu sollevata dallo stesso controricorrente (come controeccezione) nella già menzionata memoria da lui depositata il 14 novembre 2005 ed è stata perciò conseguentemente esaminata e decisa dalla CTR;

deve ora essere esaminato, in ordine logico, il quinto motivo;

preliminarmente, deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità di tale motivo sollevata dal controricorrente nel controricorso per “la mancata individuazione di quale dei due avvisi ivi si faccia riferimento”, atteso che il motivo non può che fare necessariamente riferimento all’avviso di accertamento n. 5011026778 – con riguardo al quale la CTR ha affermato la nullità della notificazione per la mancata indicazione, nella relativa relazione di notificazione, del luogo e dell’ora in cui è avvenuta la consegna dell’atto – sicchè nessun dubbio può sussistere in ordine all’avviso cui il motivo di ricorso si riferisce;

il motivo è fondato;

con riguardo alla parte di esso relativa alla mancata indicazione, nella relazione di notificazione dell’avviso di accertamento n. 5011026778, del luogo della notificazione, questa Corte ha affermato il principio, che è condiviso dal Collegio, che, “(p)oichè la relazione di notificazione si riferisce, di norma, all’atto notificato, così come strutturato, in assenza di indicazioni difformi deve presumersi che la notificazione sia stata effettuata nel luogo in esso indicato, sicchè l’omessa indicazione del detto luogo nella “relata”, ove emendabile col riferimento alle risultanze dell’atto, non comporta nullità della notificazione, ma mera irregolarità formale, non essendo la nullità prevista dall’art. 160 c.p.c.” (09/04/1996, n. 3263, 03/03/2010, n. 5079; in senso analogo, Cass., 24/01/2007, n. 1550);

nella specie, dall’intestazione dell’avviso di accertamento n. 5011026768, riprodotta dalla ricorrente nel ricorso (in ossequio, come si è detto, al principio di autosufficienza), risulta che esso era intestato a M.G. “domicilio fiscale (OMISSIS)”;

si deve perciò presumere che la notificazione dell’avviso sia stata effettuata in tale luogo, con la conseguenza che l’omessa indicazione di esso nella relazione di notificazione, in quanto emendabile con riferimento alle risultanze dell’atto, non comporta la nullità della sua notificazione, ma una mera irregolarità formale;

con riguardo alla parte del motivo relativa alla mancata indicazione, nella relazione di notificazione dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), dell’ora della notificazione, si deve osservare che l’art. 47 disp. att. c.p.c. stabilisce che, nella relazione di notificazione, di cui all’art. 148 c.p.c., deve essere inserita l’indicazione dell’ora nella quale la notificazione è stata eseguita “se la parte interessata lo chiede”;

nella specie, poichè non risulta che la parte contribuente abbia neppure allegato (nè provato) di avere fatto una tale richiesta, ne consegue che nessuna invalidità della notificazione dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS) poteva discendere dalla mancata indicazione, nella relativa relata, dell’ora della notificazione;

il quarto motivo è fondato;

ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), la notificazione degli avvisi di accertamento deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario, che, ai sensi dello stesso D.P.R. (“(l)e persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”), coincide con il comune di residenza del contribuente;

ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea, la notificazione va eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e ss. c.p.c. e, quindi, anche secondo l’art. 139 di tale codice, il cui prima comma stabilisce che, se la notificazione non è fatta in mani proprie, essa deve essere eseguita “ricercando (il destinatario) nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio”;

pertanto, la notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento ben poteva essere validamente eseguita nel comune di residenza del contribuente dove egli “(aveva) l’ufficio o esercita(va) l’industria o il commercio”;

da ciò discende la decisività per il giudizio dei fatti, addotti dall’Agenzia delle entrate nella memoria del 4 aprile 2006, depositata il 5 aprile 2006 (trascritta, nelle parti rilevanti, nel ricorso e allegata allo stesso come allegato n. 14) che le notificazioni degli avvisi di accertamento presupposti erano avvenute nel comune di residenza del contribuente dove egli esercitava la propria attività (segnatamente in (OMISSIS));

poichè la CTR non ha esaminato tali fatti, il motivo deve essere accolto;

passando all’esame del sesto motivo, preliminarmente deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità di esso sollevata dal controricorrente nel controricorso sull’assunto che “manca la decisivtà del fatto”, atteso che, con tale motivo, la ricorrente ha denunciato non l’omesso esame di un fatto decisivo ma delle violazioni e false applicazioni di norme di legge (segnatamente, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 139 c.p.c.);

il motivo è fondato sotto tutti e tre i profili in cui si articola;

in primo luogo, è erronea l’affermazione della CTR secondo cui la notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento sarebbe nulla perchè essi non sono stati consegnati nella casa di abitazione del contribuente, atteso che, come si è visto, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, e dell’art. 139 c.p.c., comma 1, gli avvisi di accertamento non devono essere necessariamente notificati nella casa di abitazione del contribuente ma possono essere, in via alternativa, notificati dove egli ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio;

in secondo luogo, è erronea anche l’affermazione della CTR secondo cui la notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento sarebbe nulla perchè essi sono stati consegnati a persone sconosciute;

l’art. 139 c.p.c., comma 2, stabilisce che, se il destinatario non viene trovato in uno dei luoghi indicati nello stesso articolo, comma 1 (casa di abitazione ovvero, alternativamente, luogo dove egli ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio), “l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purchè non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”;

questa Corte ha più volte affermato il principio, che il Collegio condivide, secondo cui, nel caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., “la qualità di persona di famiglia, di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, di vicina di casa, di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, di provare l’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità su indicate ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario” (Cass. 17/05/2013, n. 12181, 05/04/2018, n. 8418; nello stesso senso, tra le tante, Cass., 30/10/2018, n. 27587);

nella relazione di notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento, riprodotte dalla ricorrente nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, si attesta che gli stessi avvisi furono consegnati a persone addette alla ricezione degli atti;

alla luce del principio appena esposto, era quindi onere del contribuente, destinatario degli avvisi di accertamento, fornire eventualmente la prova dell’inesistenza di alcun rapporto con i consegnatari comportante la suddetta qualità di addetto alla ricezione degli atti;

non risultando che tale prova sia stata fornita – anzi, l’impugnazione, con querela di falso, delle relazioni di notificazione degli avvisi di accertamento proposta dal contribuente era stata rigettata dal Tribunale di Nola con la sentenza n. 1326/2011, depositata il 24 novembre 2011 (prodotta dall’Agenzia delle entrate come allegato n. 16 al ricorso) – e operando, quindi, la presunzione di sussistenza della qualità di persone addette alla ricezione degli atti in copi ai consegnatari dei due avvisi di accertamento, ne discende l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha affermato la nullità della notificazione degli stessi in quanto notificati a persone sconosciute;

in terzo luogo, è erronea anche l’affermazione della CTR secondo cui la notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento sarebbe nulla anche in quanto “nella relata non è specificamente indicata la ragione per la quale l’atto non è stato consegnato allo stesso destinatario o ad alcune delle persone che nell’ordine tassativo lo seguono”;

questa Corte ha affermato il principio, che il Collegio condivide, secondo cui, “(i)n tema di notificazione dell’atto di accertamento ai fini delle imposte sul reddito, qualora la notifica sia eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., la consegna dell’atto ad una delle persone ed in uno dei luoghi indicati dalla norma, facendo presumere l’avvenuta vana ricerca del destinatario, rende irrilevante la mancata indicazione nella relata delle ragioni che hanno impedito al messo finanziario di eseguire la notifica a mani del destinatario, essendo tale indicazione prescritta soltanto nell’ipotesi in cui la notifica sia eseguita a mani del portiere” (Cass., 29/09/2005, n. 19079);

risulta quindi l’errore commesso dalla CTR col ritenere la nullità della notificazione dei due prodromici avvisi di accertamento perchè nelle relative relazioni di notificazione non erano indicate le ragioni che avevano impedito al messo notificatore di eseguire la notifica in mani proprie del destinatario;

la fondatezza del motivo risulta poi evidente anche alla luce della considerazione che la notificazione dei due avvisi di accertamento è avvenuta a mani di addetti alla ricezione degli atti, cioè di soggetti compresi nella prima delle categorie di persone, diverse dal destinatario, previste dall’art. 139 c.p.c. in via successiva e preferenziale;

pertanto, il primo, il terzo, il quarto il quinto e il sesto motivo devono essere accolti, rigettato il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, perchè si uniformi al principio di diritto sopra enunciati e provveda, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.
accoglie il primo, il terzo, il quarto il quinto e il sesto motivo, rigettato il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 27/10/2021) 29/11/2021, n. 37259

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALSAMO Milena – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34102/2018 proposto da:

O.G., elettivamente domiciliato in Roma Via Degli Avignonesi 5, presso lo studio dell’avvocato Abbamonte Andrea, rappresentato e difeso dall’avvocato Carbone Angelo;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, Regione Campania Settore Finanze e Tributi;

– intimata –

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3855/2018 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA, depositata il 20/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/09/2021 dal consigliere Dott. RUSSO RITA.

Svolgimento del processo
che:

1. O.G. impugnava il preavviso di fermo amministrativo n. (OMISSIS), notificato il (OMISSIS), nonchè le due cartelle di pagamento n. (OMISSIS) (avente ad oggetto il pagamento dell’importo di Euro 11.124,82 a titolo di Irpef ed addizionali per l’anno 2009, e tassa automobilistica per l’anno 2008) e n. (OMISSIS) (avente ad oggetto il pagamento dell’importo di Euro 1.224,88 a titolo di contravvenzioni al codice della strada e tassa automobilistica per l’anno 2009) ivi richiamate. Lamentava, tra l’altro, la mancata notifica delle richiamate cartelle esattoriali, eccepiva la intervenuta prescrizione delle pretese tributarie in esse recate, la violazione del diritto alla difesa di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1. La società Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a. deduceva la regolarità della notifica delle cartelle prodromiche, depositando copia delle relate.

In primo grado, la Commissione tributaria provinciale ha dichiarato il difetto di giurisdizione con riguardo alla parte della cartella avente ad oggetto sanzioni amministrative irrogate per violazioni al Codice della Strada, ed ha accolto il ricorso limitatamente alla cartella n. (OMISSIS), per intervenuta prescrizione.

Il contribuente ha proposto appello che è stato respinto dalla CTR della Campania, rilevando che, pur se la L. n. 890 del 1982, art. 7, prevede l’invio della raccomandata informativa, la notifica della cartella di pagamento può avvenire anche a mezzo di raccomandata ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, così come avvenuto nella fattispecie; – che, come già ritenuto dal giudice di primo grado, quando l’atto è’ consegnato a mani di familiare convivente deve presumersi che lo stesso sia aggiunto nella sfera di conoscibilità del destinatario; osserva che la cartella è stata notificata a mezzo raccomandata, e quindi si deve ritenere perfezionata, il che rende cristallizzato il credito azionato, posto che il fermo amministrativo è avvenuto il 19 gennaio 2016 e la notifica della cartella di pagamento il 21 febbraio 2013; che era generico il disconoscimento operato in contestazione della conformità all’originale di documentazione depositata in mera fotocopia.

Avverso la predetta sentenza, il contribuente ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, per cassazione.

L’Agenzia delle entrate non ritualmente costituita nei termini di legge, ha presentato istanza per la partecipazione all’eventuale udienza di discussione orale.

La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 24 settembre 2021.

Con ordinanza del 20.10.2021 la causa è stata rimessa sul ruolo per l’adunanzà camerale del 27 ottobre 2021, riconvocando il Collegio.

Motivi della decisione
che:

2. – Con il primo motivo del ricorso, la parte lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, nonchè la violazione di norme relative al mancato invio della comunicazione di avvenuta notifica. Il ricorrente deduce di aver eccepito la nullità della notifica della cartella esattoriale n. (OMISSIS), in quanto il procedimento di notifica non si era perfezionato stante il mancato invio della comunicazione di avvenuta notifica (C.A.N.), ritenuta dal medesimo necessarià, in quanto la notifica risultava esser stata fatta a mani della madre del ricorrente, senza però che l’Agenzia delle entrate avesse fornito prova della presunta convivenza della stessa con il ricorrente, ed in ogni caso senza prova della C.A.N..

3. Il motivo è infondato.

4. Il giudice d’appello rilevava che la cartella di pagamento n. (OMISSIS) richiamata nel preavviso di fermo amministrativo era stata notificata direttamente dall’agente della riscossione a mezzo raccomandata ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 comma 1, e non ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 7. Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982, e di conseguenza non è necessario in caso di consegna della raccomandata a persona diversa dal destinatario, l’invio della C.A.N. (Cass. n. 8293 del 04/04/2018; Cass. n. 12083 del 13/06/2016; Cass. n. 28872 del 12/11/2018; Cass. n. 10037 del 10/04/2019).

Quanto al resto, se la notifica è eseguita nel domicilio o residenza del destinatario, mediante consegna dell’atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno provvisorio, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario (e non il notificante) ha l’onere di fornire (Cass. n. 28591 del 29/11/2017).

5.Con il secondo motivo, la parte lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 2712 e 2719 c.c.. Il ricorrente si duole dell’avvenuto deposito agli atti di causa della notifica della raccomandata A/R in fotocopia che non è autentica, e pertanto deduce che non è stato assolto l’onere della prova.

6. Il motivo non merita accoglimento.

7. La CTR ha rilevato che la contestazione concernente il deposito in mera fotocopia della documentazione attestante la notifica delle cartelle esattoriali è stata solo genericamente espressa e pertanto da ritenersi tamquam non esset, con ciò correttamente uniformandosi ai principi espressi da questa Corte, secondo i quali il disconoscimento deve essere specifico e non può limitarsi a formule generiche quali “si contesta nella forma e nella sostanza” (Cass. n. 28096/2009; n. 14416/2013); ovvero “si contesta la documentazione prodotta o altre simili (Cass. n. 3655/1987). E’ la stessa parte peraltro che richiama la giurisprudenza della Corte laddove si richiede che la contestazione della validità probatoria della fotocopia deve essere formulata in modo chiaro e circostanziato, trascurando tuttavia di indicare in concreto e trascrivere le contestazioni circostanziate che avrebbe inserito negli atti di causa.

8. Con il terzo motivo, la parte lamenta la violazione e falsa applicazione del D.L. 30 Dicembre 1982, n. 953, art. 5, comma 51, convertito con la Legge 28 Febbraio 1983, n. 53, circa la prescrizione del termine triennale della tassa automobilistica, sostiene infatti che la prescrizione sia intervenuta ancor prima che venisse notificata la cartella, e ancor prima che venisse emesso il ruolo, atteso che l’imposta è dell’anno 2008, e la cartella è indicata in sentenza come notificata il 21 febbraio 2013, ovverosia cinque anni dopo.

9. La doglianza è destituita di fondamento.

Indubbiamente la tassa automobilistica è soggetta a termine triennale di prescrizione per la sua riscossione, come previsto dal D.L. n. 953 del 1982, art. 5, comma 51, conv., con modif., in L. n. 53 del 1983, che decorre dall’anno in cui doveva essere effettuato il pagamento (Cass. n. 23261 del 23/10/2020).

Sennonchè, una volta accertata la regolare notifica della cartella prodromica, il contribuente non può più impugnare l’atto successivo – vale a dire il preavviso di fermo – lamentando vizi dell’atto divenuto definitivo. Il contribuente non può, mediante l’impugnazione dell’estratto del ruolo, formulare l’eccezione di prescrizione e decadenza per mancata notifica nei termini di legge delle relative cartelle di pagamento, dovendo essa proporsi entro il termine di impugnazione di quest’ultime, decorso il quale, divengono definitive (Cass. n. 19010 del 16/07/2019) Il principio è stato successivamente ribadito da questa Corte affermando che “risulta evidente che qualsivoglia eccezione relativa ad atto impositivo divenuto definitivo, come quella di prescrizione del credito fiscale maturato precedentemente a tale notifica (nella specie, quale conseguenza della dedotta irregolarità della notifica al ricorrente della cartella di pagamento a questo diretta, come tale inidonea, secondo l’assunto del contribuente, ad interrompere il termine prescrizionale del tributo recato da detta cartella), è assolutamente preclusa, secondo il fermo principio della non impugnabilità se non per vizi propri di un atto successivo ad altro divenuto definitivo perchè rimasto incontestato” (Cass. n. 3005/2020, in motiv.) Il preavviso di fermo che faccia seguito a un atto impositivo divenuto definitivo per mancata impugnazione, non integra un nuovo e autonomo atto impositivo, con la conseguenza che, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, esso resta sindacabile in giudizio solo per vizi propri e non per questioni attinenti all’atto da cui è sorto il debito. Tali ultimi vizi, dunque, non possono essere fatti valere con l’impugnazione dell’intimazione di pagamento, salvo che il contribuente non sia venuto a conoscenza della pretesa impositiva solo con la notificazione dell’intimazione predetta (cfr Cassazione, sentenze n. 16641 del 2011 e Cass. n. 8704 del 2013). In conclusione, il ricorso va respinto; nulla sulle spese in difetto di regolare costituzione delle parti intimate.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, sussiste l’obbligo della parte impugnante in via principale non vittoriosa di versare una somma pari al contributo unificato gìà versato all’atto della proposizione dell’impugnazione, se dovuto Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione della Corte di cassazione condotta da remoto, riconvocata, il 27 ottobre 2021.

Conclusione
Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/09/2021) 23/11/2021, n. 36215

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo M. – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20953/2016 proposto da:

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Fuschino Mario;

– ricorrente –

contro

Eta Estrusione Tecnologie Avanzate Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma V. Panama 74 presso lo studio dell’avvocato Iacobelli Gianni Emilio, rappresentato e difeso dall’avvocato Nebbia Giuseppe;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, Data pubblicazione 23/11/2021 – intimata –

avverso la sentenza n. 112/2016 della COMM. TRIB. REG. MOLISE, depositata il 23/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/09/2021 dal consigliere Dott. MARINA CIRESE.

Svolgimento del processo
Estrusione Tecnologie Avanzate s.p.a. proponeva ricorso avverso l’iscrizione ipotecaria effettuata dall’Agente della Riscossione Equitalia Polis s.p.a. su beni di proprietà della società a fronte di un credito pari ad Euro 8.055.353,97, deducendo la nullità dell’atto per inesistenza della notifica, essendo stato l’avviso comunicato a mezzo raccomandata e non già con le forme previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

La CTP di Isernia con sentenza in data 29.12.2011 accoglieva il ricorso dichiarando l’inesistenza dell’atto, atteso che la notifica non era stata effettuata ritualmente, in assenza di relata di notifica, e rigettava la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..

Interposto appello avverso detta pronuncia da parte di Equitalia Polis s.p.a., all’esito del giudizio in cui la società contribuente proponeva ricorso incidentale, la CTR del Molise, con sentenza in data 23.2.2016, rigettava entrambi gli appelli ritenendo che la notifica dell’iscrizione ipotecaria potesse avvenire solo mediante le forme di cui agli artt. 137 e ss. c.p.c. e che il comportamento dell’Agente della Riscossione non potesse essere connotato da colpa grave.

Avverso detta pronuncia proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi l’Agente per la riscossione. Parte intimata resisteva con controricorso e proponeva altresì ricorso incidentale articolato in due motivi.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso principale, rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60”, parte ricorrente deduceva l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto inesistente la notifica dell’avviso di iscrizione ipotecaria, in quanto atto non direttamente notificabile dall’Agente per la riscossione a mezzo del servizio postale secondo la procedura di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

2. Con il secondo motivo di ricorso principale rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 156 c.p.c., comma 3”, parte ricorrente deduceva che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto la notifica inesistente invece che nulla, con conseguente impossibilità di applicare l’art. 156 c.p.c., comma 3.

Va rilevato preliminarmente che la società contribuente nel controricorso ha rappresentato che l’ipoteca per cui è processo è stata integralmente cancellata da Equitalia Polis in data (OMISSIS) a seguito di diffida stragiudiziale del (OMISSIS), concludendo pertanto che sarebbe venuto meno l’interesse di Equitalia al ricorso ex art. 100 c.p.c. Ritiene tuttavia il Collegio che, a prescindere dalla circostanza che nel fascicolo d’ufficio non vi è alcun documento che attesti l’avvenuta cancellazione dell’ipoteca, permane in capo all’odierno ricorrente l’interesse ad impugnare.

Il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte (Cassazione civile sez. II, 05/02/2020, n. 2670; Conforme a Cass. 27 gennaio 2012 n. 1236). Non è pertanto sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12637 del 19/05/2008; Cass. Civ. Sez. Lav., 23.5.2008, n. 13373).

Nella specie l’avvenuta cancellazione dell’iscrizione ipotecaria non fa di per sè venir meno l’interesse del concessionario per la riscossione all’accertamento della legittimità dell’iscrizione ipotecaria, tanto più in presenza di una domanda risarcitoria della controparte che si assume basata proprio sulla contestazione di questa legittimità anche con riguardo alla fase dell’iscrizione.

Passando quindi ad esaminare il ricorso principale, il primo motivo è fondato.

La Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione (vedi Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

Tale principio reiteratamente affermato da questa Corte con riguardo alla notifica delle cartelle esattoriali, si è ritenuto applicabile anche alla notifica degli avvisi di iscrizione ipotecaria (Cass. n. 21663 del 2015), alla cui stregua detta notifica può essere effettuata anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Ciò, in quanto il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva di soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di una apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantire, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario dell’atto. Tanto trova implicita conferma nel citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione (vedi Cass., Sez. 5, n. 17248/17).

Il secondo motivo del ricorso principale è assorbito.

Passando alla disamina del ricorso incidentale, lo stesso si articola in due motivi.

3. Con il primo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c.”, la società contribuente censurava la sentenza impugnata che negava la sussistenza dei presupposti ex art. 96 c.p.c., comma 2, atteso che l’agente della riscossione ha proceduto all’iscrizione dell’ipoteca in assenza di efficacia del titolo che era stato sospeso ed ha resistito nel processo per colpa grave.

4. Con il secondo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546, del 1992, art. 15, degli art. 91 e 92 c.p.c. nonchè del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, la società contribuente deduceva che la CTR ha errato nel compensare le spese di lite nella misura del 50% ed ha errato nell’applicazione della tabella dei compensi.

Il primo motivo è infondato.

Parte ricorrente assume la violazione dell’art. 96 c.p.c. in quanto sussisterebbe la colpa grave dell’agente della riscossione nell’iscrivere l’ipoteca, per 16 milioni di Euro, nonostante la sospensione giudiziale della cartella prodromica, e nel resistere in giudizio senza provvedere (se non in data 27 Febbraio 2012 a seguito di ulteriore diffida stragiudiziale) alla cancellazione dell’iscrizione ipotecaria stessa. Tale comportamento avrebbe causato gravissimi e documentati danni alla società che si era vista negare vari finanziamenti bancari proprio per iscrizione pregiudizievole.

Va ritenuto tuttavia che, come recentemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. 3, n. 23661/20), l’iscrizione di ipoteca, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell’imposta, non è riconducibile all’ipoteca legale prevista dall’art. 2817 c.c., nè è ad essa assimilabile, mancando un preesistente atto negoziale il cui adempimento il legislatore abbia inteso garantire; essa, peraltro, neppure può accostarsi all’ipoteca giudiziale disciplinata dall’art. 2818 c.c., con lo scopo di rafforzare l’adempimento di una generica obbligazione pecuniaria ed avente titolo in un provvedimento del giudice, in quanto quella in esame si fonda su di un provvedimento amministrativo” (Cass. 7/03/2016, n. 4464; v. anche Cass., ord., 20/12/2017, n. 30569).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’iscrizione ipotecaria prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, non costituisce atto dell’espropriazione forzata ma va riferita ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria (Cass., S.U.., 18/09/2019) ed è atto solo preordinato all’esecuzione, avente funzione di garanzia e di cautela (Cass. 30/05/2018, n. 13618).

Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 96 c.p.c., comma 2, che fa espresso riferimento al caso in cui il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è iscritta ipoteca giudiziale oppure è iniziata o compiuta l’esecuzione forzata.

Il secondo motivo di ricorso incidentale è assorbito dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo e rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, per la disamina delle altre questioni di legittimità della cartella ed a cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo, rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite;

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, del doppio contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale effettuata da remoto, il 8 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35641

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4796/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3429/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto il ricorso presentato da P.A., in proprio e quale legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, avverso l’avviso di accertamento con il quale era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2006.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione dell’Ufficio finanziario.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione del contribuente nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legale rappresentante di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la sua estraneità all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica dell’avviso di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno 2006 rispetto ai parametri di mercato”; mentre appariva “del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla salvaguardia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria aveva fornito il contribuente.

3. Contro la suddetta decisione d’appello ha proposto ricorso per cassazione P.A., con cinque motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione”.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamenta che per il periodo d’imposta 2006 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione dell’avviso di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, che, al paragrafo 2, stabilisce il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che possa arrecarle pregiudizio.

Sostiene, altresì, che non si pone in sintonia con il diritto dell’Unione una interpretazione che escluda l’applicabilità della L. n. 212 del 2000, rt. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica “a tavolino” e che i giudici di appello sarebbero incorsi nei censurati vizi laddove hanno ritenuto insussistente la violazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale, perchè, ove fosse stato consegnato un processo verbale di chiusura delle indagini da parte degli organi di controllo, avrebbe potuto prospettare, prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano meramente pretestuose.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., il ricorrente, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, ha dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; ha, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55.

Fin dal ricorso introduttivo aveva eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, neppure prodotti nel corso del giudizio di merito da parte dell’Agenzia delle entrate, ma i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Evidenzia pure che, in violazione dell’art. 2697 c.c., i giudici di merito avevano accolto il gravame, ritenendo fondata nel merito la pretesa impositiva ed assolto l’onere probatorio da parte dell’Ufficio finanziario, senza tenere conto della mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, dei documenti oggetto di contestazione e, tra questi, delle fatture richiamate dalla stessa sentenza impugnata. In tal modo, i giudici regionali, ad avviso del ricorrente, avevano finito per avallare un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

Ad avviso del ricorrente era altresì ravvisabile la violazione dell’art. 2697 c.c., perchè si era ritenuto che l’onere di provare l’estraneità all’attività dell’associazione incombesse sul contribuente e perchè si era affermato che era emersa la sua partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, nonostante l’assoluta mancanza di prove.

3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello hanno omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonostante l’Agenzia delle entrate fosse a conoscenza dell’intervenuta cessazione dell’attività, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento era, peraltro, contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Rileva che nel giudizio di merito aveva eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, poichè mancava nella specie ogni intermediazione dell’agente di notificazione tra l’autore dell’atto ed il suo destinatario, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso.

5. Con il quinto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadisce che in secondo grado aveva preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre aveva prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

6. Il primo motivo è infondato.

6.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dallo stesso ricorrente, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione del ricorrente, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di I.V.A.), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

6.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

6.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

6.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823/2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720). Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

6.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502).

Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

6.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che il contribuente non ha assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, ha omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei suoi confronti.

Avendo piuttosto il contribuente genericamente affermato che se gli fosse stato consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbe potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che lo stesso abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

7. Infondato è il terzo motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

8. Anche il quarto motivo deve essere respinto.

8.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

8.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982. A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la circolare n. 70/2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001, su g.u. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

8.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevedeche, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato di recente dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui, che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione.

8.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

9. Il quinto motivo è infondato.

9.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale- nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

9.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., Sez. U, 14/02/2006, nn. 3116 e 3118; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889)- che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

9.3. Nel caso di specie, il ricorrente ha eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

10. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

10.1. Il ricorrente contesta che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2006, non abbia fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dal contribuente sul quale gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

10.2. La Commissione regionale ha, inoltre, ritenuto provata la partecipazione del ricorrente nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una sua responsabilità quale legale rappresentante di fatto; l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

10.3. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

11. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35640

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4795/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, e M.G., in proprio e nella qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3428/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto i ricorsi riuniti presentati da P.A. e M.G., in proprio e quali legali rappresentanti della Associazione Calcio Mottese, avverso gli avvisi di accertamento con i quali era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2005, considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione dei contribuenti nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legali rappresentanti di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la estraneità dei contribuenti all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica degli avvisi di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava “legittimamente effettuato in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione rispetto ai parametri di mercato, mentre appariva del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla custodia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria avevano fornito i contribuenti.

3. Contro la suddetta decisione d’appello hanno proposto ricorso per cassazione P.A. e M.G., con sei motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione” al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i contribuenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamentano che per il periodo d’imposta 2005 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione degli avvisi di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, e che un’interpretazione che escluda l’applicabilità del citato art. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica cd. “a tavolino” non si pone in sintonia con i principi comunitari.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., i ricorrenti, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, hanno dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; hanno, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 e art. 42, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 e art. 56, comma 5, nonchè dell’art. 112 c.p.c..

Pur avendo fin dal ricorso introduttivo eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, ed in particolare le fatture asseritamente emesse e rinvenute presso la L.D.V. s.r.l. e presso l’impresa individuale Doratura Metalli di S.G., riconducibili agli anni d’imposta 2006 e 2007, i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento, contenuto nell’atto impositivo, ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Si dolgono, inoltre, che, in violazione dell’art. 2697 c.c., neppure la C.T.R. ha attribuito rilevanza alla mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, delle fatture rinvenute nel corso degli accessi mirati nei confronti della L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.; piuttosto, modificando la motivazione dell’avviso di accertamento, i giudici di appello erano giunti ad affermare che l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione” (ossia nel 2005), sebbene nell’atto impositivo si facesse riferimento a fatture che avrebbero “concorso alla determinazione della base imponibile ai fini delle II.DD e IVA per gli anni d’imposta 2006 e 2007” – la cui esistenza era sempre stata contestata – non tenendo conto che il reddito d’impresa asseritamente “conseguito” nel 2005 era stato determinato “considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007” ed avallando un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

3. Con il terzo motivo i contribuenti censurano la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno affermato che era emersa la loro partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, pur a fronte della prova, fornita nel giudizio di merito, della cessazione dell’attività dell’Associazione, intervenuta in data 31 maggio 2011, come da comunicazione inoltrata all’Agenzia delle entrate ed all’Ufficio Siae competente.

4. Con il quarto motivo denunciano la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento, secondo i ricorrenti, era peraltro contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

5. Con il quinto motivo deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Nel giudizio di merito avevano eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso, nel gennaio 2012.

6. Con il sesto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadiscono che in secondo grado avevano preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre, avevano prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

7. Il primo motivo è infondato.

7.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dagli stessi ricorrenti, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

7.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

7.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

7.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823 del 2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720) Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

7.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502). Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

7.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che i contribuenti non hanno assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, hanno omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei loro confronti.

Avendo piuttosto i contribuenti genericamente affermato che se fosse stato loro consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbero potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che essi abbiano assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

8. Infondato è il quarto motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

9. Anche il quinto motivo deve essere respinto.

9.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

9.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982.

A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la Circolare n. 70 del 2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001 su G.U. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

9.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione. 9.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

10. Il sesto motivo è infondato.

10.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale – nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

10.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., sez. U, 14/02/2006, n. 3116 e Cass. n. 3118 del 2006; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889) – che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

10.3. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

11. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

11.1. Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem alle risultanze dell’indagine condotta dai verificatori (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex multis Cass., sez. 5, 5/04/2013, n. 8399; Cass., sez. 5, 5/02/2009, n. 2749).

In via generale, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3. Il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti richiamati nell’avviso per integrare la motivazione, ma non anche gli eventuali altri atti il cui contenuto sia (quantomeno nella parte rilevante) già riportato nell’avviso o che siano in esso meramente menzionati, ove la motivazione sia già sufficiente (e la loro menzione abbia, pertanto, mero valore “narrativo”): ne deriva che, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta per il contribuente dimostrare l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui quello impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’avviso impugnato, sia necessaria ad integrarne la motivazione (v. Cass., sez. 5, 18/12/2009, n. 26683).

11.2 n giudice d’appello ha dunque correttamente affermato, in base ad un accertamento in fatto che i ricorrenti non hanno specificamente censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, che gli avvisi erano adeguatamente motivati, e ciò perchè contenevano, come emerge dall’avviso di accertamento riprodotto dagli stessi contribuenti nel ricorso per cassazione in omaggio al principio di autosufficienza, il riferimento al processo verbale di constatazione del 29 aprile 2011, peraltro notificato anche ad P.A., ed agli accessi mirati del 21 aprile 2011 e del 19 aprile 2011 eseguiti nei confronti delle società L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.. Tanto bastava, infatti, a giustificare l’azione di recupero di maggiore imposta ed a porre l’Associazione sportiva dilettantistica ed il legale rappresentante in grado di apprestare le proprie difese, sia limitandosi alla mera negazione dei fatti costitutivi della pretesa, sia contrastando gli atti impositivi mediante acquisizione di eventuale ulteriore documentazione idonea a smentire le risultanze della verifica.

11.3. Peraltro, la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale requisito formale di validità dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7), va nettamente distinta da quella attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Cass., sez. 5, 1/08/2000, n. 10052), indicazione che non è richiesta – come dianzi osservato – quale elemento costitutivo della validità dell’atto e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria, le quali trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente per ottenerne l’annullamento.

La produzione in giudizio delle fatture emesse dall’Associazione Calcio Mottese e rinvenute nel corso degli accessi mirati di cui si è detto ricade, quindi, nell’ambito degli oneri probatori e non dei requisiti di validità dell’atto impositivo.

11.4. Sotto tale ultimo profilo, i ricorrenti contestano che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2005, non abbiano fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, ottenuta considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dalle parti contribuenti sulle quali gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

La sentenza non incorre, pertanto, nelle violazioni denunciate con il mezzo in esame.

12. Anche il terzo motivo va disatteso.

12.1. La Commissione regionale ha ritenuto provata la partecipazione dei ricorrenti nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una responsabilità degli odierni ricorrenti quali legali rappresentanti di fatto; in difetto di prova contraria, non offerta dai ricorrenti, l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

12.2. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

13. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 23-03-2021) 11-11-2021, n. 33285

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina – M. –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. ANTEZZA F. – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9568/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, domicilia;

– ricorrente –

contro

F.E., (C.F.: (OMISSIS)), nato a (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. Cristina Flaccomio, con domicilio eletto presso il citato difensore (con studio in Roma, via G. La Farina n. 6);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per l’Umbria n. 625/01/2014), pronunciata il 23 settembre 2014 e depositata il 13 ottobre 2014;

udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 23 marzo 2021 dal Consigliere Fabio Antezza.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate (“A.E.”) ricorre, con due motivi, per la cassazione della sentenza, indicata in epigrafe, di rigetto dell’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza n. 93/01/2013, emessa dalla CTP di Terni, che aveva accolto l’impugnazione dell’avviso di accertamento IVA, IRPEF e IRAP, per l’anno 2006.

2. Il Giudice di primo grado, in particolare, dichiarò nullo l’atto impositivo, emesso anche all’esito di un accesso domiciliare nel corso del quale fu rinvenuta documentazione bancaria fonte di successive indagini finanziarie, per la violazione del termine dilatorio di sessanta giorni di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (c.d. “statuto dei diritti del contribuente”), con conseguente assorbimento delle altre questioni ed eccezioni.

3. La CTR, con la sentenza oggetto di attuale impugnazione, rigettò l’appello dell’A.E. confermando la statuizione impugnata.

Nel dettaglio, sempre per quanto emerge dalla sentenza impugnata e dagli atti di parte, il Giudice d’appello ritenne violato il contraddittorio endoprocedimentale, sotto il profilo del rispetto del termine dilatorio di cui innanzi, in quanto, a fronte di un PVC consegnato al contribuente il 24 ottobre 2011 all’esito anche di accesso domiciliare, l’avviso di accertamento fu sottoscritto (emanato) il 21 dicembre 2011, quindi ante tempus ed in assenza di particolare e motivata urgenza.

Diversamente da quanto prospettato dall’A.E., la Commissione ritenne difatti ininfluente, ai fini del rispetto del termine in oggetto, che nella specie la notificazione dell’atto impositivo fosse avvenuta oltre il sessantesimo giorno dal rilascio del PVC (in particolare, il 28 dicembre 2011) ed escluse la sussistenza di un caso di particolare e motivata urgenza, non potendosi identificare esso nella mera imminente scadenza del termine decadenziale con riferimento all’adozione dell’avviso di accertamento (perché non annoverabile tra gli eventi imprevedibili).

4. Come premesso, avverso la sentenza di secondo grado l’A.E. ha proposto ricorso fondato su due motivi, sostenuto da memoria, ed il contribuente si è difeso con controricorso (sostenuto da memorie), con il quale prospetta anche profili di “inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso” oltre che inammissibilità dei singoli motivi.

Motivi della decisione
1. Priorità logico-giuridica ha la disamina della questione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’eccezione è inconferente in ragione della esposizione sommaria dei fatti di causa che, anche per ragioni di specificità in termini di “autosufficienza”, ha necessitato della riproduzione, nelle loro parti essenziali, tanto della relazione di notificazione dell’avviso di accertamento quanto della sentenza impugnata, ed in merito al prospettato passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

1.1. Infondata è altresì l’eccezione di giudicato della sentenza di primo grado.

Il contribuente, in sostanza, deduce l’inammissibilità dell’appello, alla quale conseguirebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in forza del mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso in appello per raccomandata a mezzo del servizio postale, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 e art. 16, comma 3, (applicabili al processo d’appello anche in forza dell’art. 53, medesimo D.Lgs.). L’appellante, in particolare, a detta dello stesso controricorrente, avrebbe depositato, nei termini di cui al citato art. 22, solo la fotocopia del relativo avviso di ricevimento (pag. 5 del controricorso).

Il rilievo non è pertinente anche se, differentemente da quanto prospettato dal ricorrente, con riferimento ad esso non si pone, nella specie, questione d’inammissibilità, potendo questa Corte comunque rilevare d’ufficio una causa d’inammissibilità dell’appello che il Giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione (ex plurimis, limitando i riferimenti solo alle statuizioni più recenti: Cass. sez. 2, 19/10/2018, n. 26525, Rv. 650843-01; Cass. sez. 1, 07/07/2017, n. 16863, Rv. 644842-01).

Come emerge dagli atti processuali, conoscibili da questa Corte in ragione della natura processuale della questione in esame, oltre che dal ricorso e dal controricorso (comprese le depositate memorie), nella specie trattasi di notificazione diretta eseguita da “messo notificatore speciale” ( F.D.) dell’A.E. a mezzo posta, L. n. 890 del 1982, ex art. 14 (sulla legittimità costituzionale del citato art. 14 si vedano, in termini generali, Corte Cost., n. 104 del 2019 e Corte Cost., n. 2 del 2020; per l’utilizzabilità del procedimento di notificazione diretta anche con riferimento al ricorso in appello innanzi alle CTR, si vedano, ex plurimis: Cass. sez. 5, 13/07/2016, n. 14273, Rv. 640538-01; Cass. sez. 5, 30/12/2015, n. 26053, Rv. 638459-01; Cass. sez. 5, 18/11/2011, n. 24245, Rv. 620276-01).

Nella specie, la relata apposta dal messo attesta, facente piena prova fino a querela di falso (Cass. sez. 5, 13/02/2008, n. 3433, Rv. 601914-01), la notificazione a mezzo del servizio postale in data 25 novembre 2013. A ciò deve aggiungersi, peraltro, che l’avviso di ricevimento, depositato già in sede di merito e, come esplicitato dallo stesso controricorrente, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 oltre ad indicare la detta data di spedizione in forma manoscritta (quindi giuridicamente irrilevante per i presenti fini), reca il timbro postale relativo alla consegna del plico a familiare convivente del destinatario (con successiva emissione della CAN) indicante la data del successivo 26 novembre 2013.

Sicché, in relazione alla sentenza di primo grado depositata il 7 maggio 2013 (per quanto emerge da ricorso e controricorso), il rispetto dei termini per impugnare (considerato anche il periodo di sospensione feriale) nella specie emerge in forza di plurime circostanze.

Esso, difatti, risulta in forza dell’attestazione di cui alla relata del messo autorizzato dall’A.E. (cfr. Cass. n. sez. 5, 13/02/2008, n. 601914-01), in quanto recante la data del 25 novembre 2013, ma anche dalla data di ricezione del plico emergente dall’avviso di ricevimento (depositato nei termini di cui al citato art. 22), perchè certificata dall’agente postale come avvenuta il 26 novembre 2013 (conformemente a quanto statuito, ex plurimis, da Cass. Sez. U, 29/05/2017, n. 13452, Rv. 644364-03, e, tra le successive conformi, da Cass. sez. 6-5, 11/05/2018, n. 11559, Rv. 648380-01, oltre che da Cass. sez. 5, 08/10/2020, n. 21683, in motivazione, la quale, riprendendo le argomentazioni di cui alle citate Sezioni Unite, ribadisce la necessità che la produzione di copia dell’avviso di ricevimento avvenga, a pena di inammissibilità, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 per la costituzione del ricorrente).

2. Nel merito (cassatorio) il ricorso è infondato.

3. Con i due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta in ragione della connessione delle questioni inerenti i relativi oggetti, si deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nonchè (motivo n. 1) del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

Ci si duole (motivo n. 1), in sostanza, dell’interpretazione data dalla CTR alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nel senso per cui l’emanazione del provvedimento impositivo, alla quale si riferisce il termine dilatorio in oggetto, coinciderebbe con l’emissione dell’atto e, quindi, con la sua sottoscrizione, e non con la sua successiva notificazione. Per l’A.E., in sintesi, l’atto sottoscritto e non notificato (e, con esso, la pretesa erariale) non avrebbe data certa; esso, in termini maggiormente categorici, non potrebbe considerarsi atto “perfetto”.

In subordine, per l’ipotesi di infondatezza della censura di cui innanzi, con il motivo n. 2 la ricorrente prospetta una rivisitazione dell’approdo costituito da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, ravvisante, quale ipotesi di nullità del provvedimento impositivo, l’omesso rispetto del termine dilatorio, qualora lo si legga nel senso dell’irrilevanza, ai fini di essa, della prova che “la mancata partecipazione al procedimento del contribuente avrebbe portato alla enunciazione di un atto diverso (in ulteriore subordine, si sollecita questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE).

Le prospettazioni di cui innanzi sono argomentate in ragione di principi costituzionali (collaborazione, buona fede, buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa), in forza di statuizioni della Corte di giustizia (Corte giust., sentenza 3 luglio 2014, in cause riunite C-129/13 e C-130/13) nonchè, a dire della ricorrente, dall’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 156 del 9 luglio 2014.

3.1. I motivi in esame sono infondati anche se ammissibili, differentemente da quanto prospettato dal controricorrente che, invece, difendendosi in ordine al motivo n. 1 di ricorso, inammissibilmente, mira sostanzialmente a sindacare, con controricorso, la decisione d’appello per non aver rilevato una presunta novità della domanda tradottasi in motivo d’appello che, peraltro, neanche prospetta di aver dedotto in secondo grado. La risoluzione della questione di cui alla seconda doglianza, invece, al momento della decisione da parte della CTR (e finanche al momento della proposizione del ricorso per cassazione) era ancora in fieri nella giurisprudenza di legittimità, con conseguente non operatività, nella specie, dell’art. 360 bis c.p.c..

3.2. Nel merito cassatorio, occorre muovere da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, per la quale l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite, non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.

Successivamente, Cass. Sez. U., 09/12/2015, n. 24823 ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (e sempre che, nella specie si sia effettivamente trattato di tale tipo di indagini).

3.3. Premesso il quadro normativo di riferimento, in merito all’ambito di operatività del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, anche in rapporto alla c.d. “prova di resistenza”, il collegio ritiene di dare continuità ai principi di recente sanciti e ribaditi da questa Corte (ex plurimis: Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 701, Rv. 652456-01, Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 702, in motivazione, e Cass. sez. 5, 11/09/2019, n. 22644, Rv. 655048-01), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed Eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale (con conseguente insussistenza dei presupposti del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sollecitato dalla ricorrente). Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropè – Organizagoes de Calgado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Da tema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financien, p. 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 p. 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 p.p. 30,31, resa proprio sull’IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, p. 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale).

3.4. Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell’interpretazione dell’art. 12, comma 7, in oggetto questa Corte ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell’atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo.

Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la “prova di resistenza”, nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., p. 80; Sopropè, cit., p. 37).

Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contraddittorio, viene meno in presenza di un’espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione.

In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato evidenziato da questa Corte, con le statuizioni innanzi già citate, che l’operatività della “prova di resistenza”, di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un’espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un’espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinchè possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull’intervenuto rispetto del contraddittorio o meno.

A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità.

Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza.

In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non opera nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino.

Ne consegue in definitiva che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la “prova di resistenza”, sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie).

Sicchè, anche per i tributi armonizzati, tra i quali, come nella specie, l’IVA, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l’ipotesi della violazione del termine dilatorio.

3.5. L’applicazione alla fattispecie concreta dei principi di cui innanzi implica che correttamente la CTR ha ritenuto operante il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, quindi non necessaria la prova di resistenza (anche per l’IVA), trattandosi di provvedimento impositivo, avviso di accertamento IVA (tributo armonizzato), IRPEF e IRAP (tributi non armonizzati), emesso all’esito di accesso domiciliare.

Parimenti infondata è la censura che si incentra sull’interpretazione del riferimento che il citato comma 7 fa all’emanazione dell’atto ante tempus, in continuità all’orientamento di legittimità attualmente consolidatosi ed in linea con il descritto quadro normativo di riferimento (in forza del consapevole superamento del precedente difforme costituito da Cass. sez. 5, 09/07/2014, n. 15648, Rv. 632232-01).

L’atto impositivo sottoscritto dal funzionario dell’ufficio in data anteriore alla scadenza del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, ancorchè, come nella specie, notificato successivamente alla sua scadenza, è difatti illegittimo, atteso che la norma tende a garantire il contraddittorio procedimentale consentendo al contribuente di far valere le sue ragioni quando l’atto impositivo è ancora in fieri, integrando, viceversa, la notificazione una mera condizione di efficacia dell’atto amministrativo ormai perfetto e, quindi, già emanato (in termini si vedano anche Cass. sez. 5, 31/07/2018, n. 20267, Rv. 650151-01; Cass. sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17202, Rv. 644932-01; Cass. sez. 6-5, 07/03/2016, n. 5361, in motivazione; Cass. sez. 6-5, 28/05/2015, n. 11088, in motivazione).

3.6. La lettura del citato art. 12, comma 7, innanzi evidenziata, emergente tanto delle ripercorse Sezioni unite del 2015 quanto dall’ulteriore sintetizzata elaborazione di questa Corte, implica, in questa sede, per la rilevanza con riferimento alla fattispecie, il necessario superamento di quanto statuito da Cass. sez. 5, 26/11/2014, n. 633378-01.

Per tale ultima decisione (comunque antecedente agli approdi di legittimità innanzi riportati), “in tema di contenzioso tributario, deve considerarsi inammissibile per carenza d’interesse concreto del ricorrente la censura relativa al mancato rispetto del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, qualora, in caso di avviso di accertamento emanato prima, ma notificato successivamente alla sua scadenza, il contribuente non abbia formulato alcuna osservazione nei sessanta giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, attesa l’assenza di un effettivo pregiudizio all’esercizio dei mezzi di tutela accordati dalla legge e, cioè, della possibilità di far valere le proprie ragioni nella fase amministrativa dell’accertamento” (cfr., massima ufficiale).

Da un lato, difatti, tale statuizione implicitamente accede all’orientamento, ora prevalente, consolidato ed in questa sede ribadito, per il quale rileva, ai fini del rispetto del termine dilatorio, il momento dell’emissione del provvedimento inteso in termini di sottoscrizione di esso.

Per altro verso, però, la detta decisione, facendo derivare l’inammissibilità (per carenza d’interesse) della censura relativa alla violazione del citato art. 12, comma 7, dalla mancata formulazione di osservazioni nel termine dilatorio, non si mostra in linea con il suesposto orientamento, pacifico, per il quale, in caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, il mero non rispetto del termine dilatorio implica nullità, cosi reintroducendo la c.d. “prova di resistenza”.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità, anche in ragione del descritto consolidarsi degli orientamenti oggetto delle questioni prospettate dalla ricorrente.

P.Q.M.
rigetta il ricorso, spese compensate.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23-06-2021) 09-11-2021, n. 32950

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10354-2015 proposto da:

D.S.G., G.G. e G.P., nella qualità di eredi di G.D., e da S.D.R., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBERICO II n. 4, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BORGIA, rappresentati e difesi dagli avvocati ANDREA LO CASTRO e CONCETTA BOSURGI;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MESSINA, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ARTURO MERLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 505/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 10/04/2014 R.G.N. 264/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’Appello di Messina ha respinto l’appello di S.D.R. e di G.D., entrambi direttori di sezione amministrativa inquadrati nell’area D posizione economica D3, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, proposta nei confronti del Comune di Messina, di pagamento della retribuzione di posizione e di risultato prevista dal CCNL 31.3.1999 e dal CCNL 22.1.2004 per i dipendenti del comparto regioni autonomie locali in favore dei titolari di posizione organizzativa di alta professionalità;

2. la Corte territoriale, richiamata la disciplina contrattuale, ha evidenziato che gli appellanti ne avevano invocato l’applicazione sostenendo di aver svolto attività comportanti funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e, pertanto, riconducibili alla previsione del CCNL 31 marzo 1999, art. 8, lett. a), per il personale del comparto autonomie locali;

3. il giudice d’appello ha accertato, in punto di fatto, che in realtà l’ente nel periodo in discussione non aveva ancora completato l’iter procedimentale previsto dalla contrattazione collettiva per l’istituzione delle posizioni organizzative ed ha aggiunto, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che il diritto soggettivo può sorgere solo alle condizioni previste dal c.c.n.l. e quindi, prima dell’istituzione e del conferimento formale, il dipendente non può domandare né la retribuzione di risultato e di posizione né il risarcimento del danno da perdita di chances;

4. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso S.D.R. e gli eredi di G.D. sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha resistito con controricorso il Comune di Messina.

Motivi della decisione
CHE:

1. il ricorso denuncia, con il primo motivo, violazione ed errata del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, dell’art. 36 Cost., del CCNL 31 marzo 1999, artt. 8 e 9, del CCNL 22 gennaio 2004, art. 10, perché ha errato la Corte territoriale nel ritenere che la domanda dovesse essere respinta per il solo fatto che non fossero state ultimate le procedure previste dalla contrattazione collettiva in relazione alla istituzione ed al conferimento delle posizioni organizzative;

1.1. i ricorrenti, sulla premessa dell’applicabilità alla fattispecie del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e dell’art. 36 Cost., sostengono di avere agito per ottenere la retribuzione adeguata alla qualità e quantità del lavoro prestato e di avere invocato i CCNL succedutisi nel tempo solo come parametro di riferimento per la quantificazione del compenso aggiuntivo, che andava riconosciuto, a prescindere dal conferimento dell’incarico con atto formale, in ragione della maggiore complessità dell’attività prestata e della più incisiva responsabilità che dalla stessa derivava;

2. la seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita al giudice d’appello l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti nonché la violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost., comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU;

2.1. assumono i ricorrenti che la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare che l’iter amministrativo era stato già avviato e si trovava in una fase avanzata in quanto l’ente, oltre a deliberare l’istituzione delle posizioni organizzative, aveva anche individuato i criteri generali per la valutazione ed aveva istituito il Nucleo di valutazione;

3. il primo motivo di ricorso è infondato;

questa Corte ha più volte affermato (cfr. fra le tante Cass. nn. 15902/2018; 4890/2018; 28085/2017; 12724/2017; 12556/2017; 14591/2016; 2550/2015; 11198/2015) che il diritto del pubblico dipendente a percepire l’indennità di posizione sorge solo se la P.A. datrice di lavoro ha istituito la relativa posizione, perchè l’istituzione rientra nell’attività organizzativa dell’Amministrazione la quale deve tener conto delle proprie esigenze e soprattutto dei vincoli di bilancio, che, altrimenti, non risulterebbero rispettati laddove si dovesse pervenire all’affermazione di un obbligo indiscriminato;

3.1. è stato precisato anche che l’esclusiva rilevanza da attribuire all’atto costitutivo delle posizioni organizzative, adottato discrezionalmente, comporta che è da escludere che prima dell’adozione di tale atto sia configurabile un danno da perdita di chance per il dipendente che assuma l’elevata probabilità di essere destinatario dell’incarico e l’irrilevanza, ai suddetti fini, di eventuali atti preparatori endoprocedimentali nonché dell’espletamento di fatto di mansioni assimilabili a quelle della posizione non istituita;

3.2. i richiamati principi sono stati affermati da Cass. n. 11198/2015 e da Cass. n. 15902/2018 anche in relazione alla disciplina dettata dal CCNL 31.3.1999 di revisione del sistema di classificazione del personale per il comparto delle regioni e delle autonomie locali e si è evidenziato, in continuità con quanto già statuito da Cass. S.U. n. 16540/2008, che l’apparente diversità di formulazione delle disposizioni contrattuali rispetto a quelle relative ad altri comparti non legittima conclusioni diverse, in quanto le esigenze di servizio sono comunque valorizzate nell’art. 9, che subordina l’istituzione delle posizioni organizzate all’attuazione dei principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (all’epoca vigente), alla ridefinizione delle strutture e delle dotazioni organiche dell’ente, all’istituzione e attivazione dei servizi di controllo interno o dei nuclei di valutazione;

3.3. correttamente, pertanto, la Corte territoriale, all’esito dell’accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha escluso la fondatezza della domanda sul rilievo che la pretesa si riferiva alle funzioni esercitate in un arco temporale in cui non esisteva alcuna posizione organizzativa formalmente istituita dal Comune di Messina, perché l’iter era stato solo avviato dall’ente ed era ancora in corso, in ragione della complessità degli adempimenti e delle scelte organizzative da compiere;

3.4. i ricorrenti non prospettano argomenti che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso ed erroneamente richiamano il principio di diritto affermato da Cass. n. 8148/2018 che si riferisce a fattispecie non assimilabile a quella oggetto di causa perchè in quel caso faceva difetto solo il conferimento formale dell’incarico e le posizioni organizzative erano state formalmente istituite dall’ente, che aveva portato a compimento tutte le procedure, anche quelle inerenti la graduazione degli incarichi, necessario presupposto per l’attribuzione della retribuzione di posizione e di risultato;

4. il secondo motivo è inammissibile, sia perché la censura esula dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato da Cass. S.U. n. 8053/2014, sia in quanto le argomentazioni svolte sono prive della necessaria specifica attinenza al decisum;

la Corte territoriale, infatti, non ha omesso di considerare che l’iter era già stato avviato (pag. 3 della motivazione) bensì ha ritenuto la circostanza non decisiva alla luce dell’orientamento sopra richiamato, alla stregua del quale il diritto soggettivo può sorgere solo una volta ultimate le procedure ed istituite formalmente le posizioni, senza che possano assumere rilevanza “atti preparatori endoprocedimentali” (pag. 5 della motivazione);

5. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

6. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 13-07-2021) 18-10-2021, n. 28573

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4052/2020 proposto da:

Repubblica Federativa del Brasile, in persona dell’Avvocato Generale dell’Unione pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ventiquattro Maggio n. 43, presso lo studio dell’avvocato Giardina Andrea, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Bernava Andrea, Curcuruto Monica, Martuccelli Silvio, giusta procura speciale per Notaio J.A. di (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.p.a., in persona del curatore avv. S.S., elettivamente domiciliato in Roma, Viale di Villa Grazioli n. 20, presso lo studio dell’avvocato Albanese Ginammi Lorenzo, rappresentata e difesa dall’avvocato Cesare Fabio, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Repubblica Federativa del Brasile, in persona dell’Avvocato Generale dell’Unione pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ventiquattro Maggio n. 43, presso lo studio dell’avvocato Giardina Andrea, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Bernava Andrea, Curcuruto Monica, Martuccelli Silvio, giusta procura speciale per Notaio J.A. di (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2744/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 19/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/07/2021 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;

lette le conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, conv. in L. n. 176 del 2020, del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA, che chiede l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Montevarchi, su ricorso della (OMISSIS) Spa (poi fallita), emetteva decreto ingiuntivo n. 47/2012 che ordinava alla Repubblica Federativa del Brasile (RFB) di pagare il residuo importo di Euro 246.771.392,40, a titolo di corrispettivo dell’incarico di progettazione del collegamento ferroviario (TAV) tra (OMISSIS), commissionato alla (OMISSIS) dalla Valec Engenharia Construcoes e Ferrovias S.a. (impresa statale cui era delegato lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria brasiliana), per il quale la RFB rivestiva la posizione di garante.

La RFB proponeva ricorso ex art. 188 disp. att. c.p.c. (dichiarato inammissibile dal tribunale in data 18 gennaio 2013) per fare dichiarare inefficace il decreto ingiuntivo per inesistenza della notifica e, contemporaneamente, in pendenza dell’esecuzione presso terzi iniziata ai suoi danni, proponeva opposizione che veniva dichiarata inammissibile perchè tardiva: il tribunale riteneva valida la notifica del decreto con sentenza n. 1454/2017, impugnata da RFB dinanzi alla Corte d’appello di Firenze che, con sentenza del 19 novembre 2019, nel contraddittorio con il Fallimento (OMISSIS), dichiarava nulla la notifica del decreto e ammissibile l’opposizione della RFB ex art. 650 c.p.c., ma la rigettava nel merito confermando il decreto opposto.

La Corte territoriale, dichiarando inammissibile il primo motivo di appello con cui RFB aveva censurato la mancata dichiarazione di inesistenza della notificazione del decreto, osservava che l’unico mezzo per far valere l’inesistenza della notificazione fosse quello di cui all’art. 188 disp. att. c.p.c. (peraltro già dichiarato inammissibile dal Tribunale in altro procedimento) e non la proposta opposizione a decreto ingiuntivo; che la notifica del decreto non era valida (diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice) nè inesistente ma nulla, in quanto l’atto era comunque pervenuto a un soggetto (Ministero della giustizia brasiliano) ricollegabile alla destinataria RFB, la quale, venutane a conoscenza tardivamente, poteva proporre opposizione ex art. 650 c.p.c.: in particolare, la notifica era stata effettuata a mezzo dell’ufficiale giudiziario tramite corriere internazionale all’autorità consolare italiana in Brasile che lo aveva trasmesso al Ministero della giustizia brasiliano che aveva rimesso la richiesta al Tribunale Superiore di giustizia, il quale, tuttavia, aveva rifiutato l’autorizzazione, ai sensi dell’art. 2 del Trattato del 17 ottobre 1989, ratificato dall’Italia con L. n. 336 del 18 agosto 1993, relativo all’assistenza giudiziaria ed al riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile; infine, la Corte dichiarava assorbito il secondo motivo di gravame di RFB e rigettava il terzo, in relazione al quale giudicava la RFB responsabile in via sussidiaria per le obbligazioni inadempiute da Valec, ai sensi dell’art. 37, comma 6 Costituzione brasiliana, e corretta la quantificazione del compenso dovuto; rigettava l’eccezione di giudicato formulata dal Fallimento (OMISSIS) sul presupposto (secondo l’eccipiente) che la fondatezza della pretesa creditoria risultasse da altri decreti ingiuntivi: il n. 314/2011 (nei confronti di RFB, quale garante, per l’importo di Euro 15.000.000,00) e il n. 123/2009 (nei confronti di Valec per l’importo di Euro 246.771.392,40).

Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione, in via principale, la RFB con tre motivi e, in via incidentale, il Fallimento (OMISSIS) con due motivi.

Il ricorso è stato esaminato in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176.

Il P.G. ha depositato requisitoria scritta e le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, la ricorrente principale RFB denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 188 disp. att. c.p.c., artt. 644 e 645 c.p.c., artt. 4, 15, 16 e 18 del citato Trattato del 17 ottobre 1989, ratificato ed eseguito con L. n. 336 del 1993, e omessa motivazione su un fatto decisivo costituente oggetto del giudizio, per avere dichiarato inammissibile il motivo di appello con cui RFB aveva censurato la mancata declaratoria di inesistenza della notificazione del decreto ingiuntivo n. 47/2012 (che la RFB sosteneva essere stata) effettuata senza rispettare le formalità previste dal Trattato sull’assistenza giudiziaria, il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile, cioè dall’ufficiale giudiziario a mezzo posta. La Corte avrebbe erroneamente ritenuto che l’unico mezzo per far valere l’inesistenza della notificazione fosse quello di cui all’art. 188 disp. att. c.p.c., mentre era certamente ammessa anche l’azione ordinaria (come quella proposta) per far dichiarare l’inesistenza della notificazione e, di conseguenza, l’inefficacia del decreto.

2.- Il motivo è fondato.

3.- Preliminarmente, si osserva che la Corte territoriale, pur avendo dichiarato inammissibile il motivo di appello di RFB volto a far dichiarare l’inesistenza della notifica e, dunque, l’inefficacia del decreto ingiuntivo n. 47/2012, ha comunque esaminato nel merito la questione della esistenza e validità della notifica del decreto che ha ritenuto nulla (e non inesistente) e ciò le ha consentito coerentemente – ma erroneamente – di ritenere ammissibile l’azione (qualificata in termini) di opposizione tardiva, sulla quale ha deciso nel merito rigettandola.

La censura formulata da RFB è, in realtà, volta chiaramente a contestare la sentenza impugnata nella parte decisiva concernente la valutazione di (esistenza e) nullità della notifica del decreto che è all’origine della valutazione di ammissibilità (e infondatezza) dell’opposizione tardiva di RFB ex art. 650 c.p.c.: in tal senso la censura è fondata per quanto si dirà, benchè indirizzata anche a una ratio (inerente alla dichiarazione di inammissibilità del primo motivo di appello) non decisiva, come si è detto.

3.1.- Peraltro, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata (a pag. 9), secondo cui “l’ipotesi di inesistenza della notifica può ricevere tutela solo ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c. ((mezzo) già proposto e respinto dal primo giudice, così residuando la sola tutela in via ordinaria) e non con il ricorso all’opposizione a d.i.”, risulta astratta e dunque erronea, la Corte di merito non considerando che l’azione di RFB era volta prioritariamente (con il primo motivo di appello) a dedurre in via ordinaria anche, e soprattutto, l’inesistenza della notifica del decreto.

E’ noto che la mancanza o inesistenza giuridica della notificazione del decreto ingiuntivo possono essere fatte valere, oltre che con il ricorso per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento ex art. 188 disp. att. c.p.c., anche in via ordinaria (u.c. stessa disposizione) e con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione che si fondi su titolo costituito dal decreto medesimo, diversamente da quanto accade nei casi di notifica nulla o irregolare, nei quali l’inefficacia deve essere fatta valere con l’opposizione tardiva, ai sensi dell’art. 650 c.p.c. (cfr. Cass. n. 5231 e 12870 del 1993, n. 9287 del 1997, n. 11498 del 2000, n. 17478 del 2011, n. 1509 del 2019, n. 9050 del 2020): infatti la notificazione del decreto ingiuntivo comunque effettuata, anche se nulla, è indice della volontà del creditore di avvalersi del decreto stesso, escludendo ogni presunzione di abbandono del titolo, ciò che costituisce il fondamento della previsione d’inefficacia di cui all’art. 644 c.p.c. (cfr. Cass. n. 11498 del 2000, n. 22959 del 2007, n. 17478 del 2011, n. 1509 del 2019).

3.2.- Nè rileva che, nella specie, RFB abbia contestualmente proposto anche ulteriori ragioni difensive (condensate negli altri motivi del ricorso per cassazione), cumulando con l’azione per la dichiarazione di inefficacia del decreto ingiuntivo per inesistenza della notifica quella di opposizione a decreto ingiuntivo, al fine di contestare nel merito la fondatezza della pretesa creditoria di (OMISSIS) e di provocare l’annullamento o la revoca del decreto nell’ipotesi in cui si fosse ritenuta la notifica non inesistente.

Ne consegue che, se e una volta giudicata inesistente la notifica del (e inefficace il) decreto, si verifica il consolidamento della presunzione di abbandono del titolo che preclude l’esame della fondatezza della pretesa creditoria azionata in via monitoria, diversamente da quanto accade nel caso di nullità o irregolarità della notifica che, facendo escludere quella presunzione, onera l’ingiunto di proporre opposizione tardiva, fornendo la prova di non avere avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, con l’effetto di consentire, in caso positivo, l’esame della causa nel merito.

Le due ipotesi devono essere tenute distinte, non potendosi – al fine di consentire l’esame del merito della pretesa creditoria anche nel caso di notificazione mancata o giuridicamente assente – utilmente richiamare (come invece in Cass. n. 11229 del 2021, al p. 4.3.1 della motivazione) il principio secondo cui l’opposizione proposta al fine di eccepire l’inefficacia del decreto non esime il giudice dal decidere non solo sulla proposta eccezione di inefficacia del titolo, ma anche sulla fondatezza della pretesa creditoria già azionata in via monitoria (cfr. Cass. n. 3908 del 2016, cui adde n. 8955 e 21050 del 2006), essendo tale principio riferito al ben diverso caso di avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo oltre i termini di legge. A tal fine, è significativo che il rimedio dell’opposizione a decreto ex art. 650 c.p.c. o in via ordinaria nel termine prefissato dal provvedimento notificato (cfr. Cass. n. 3783 del 1995, n. 67 del 2002) è ritenuto applicabile anche alla notificazione del decreto ingiuntivo fuori termine (cfr. Cass. n. 8126 del 2010, n. 19239 del 2004), ipotesi che, come nel caso della notificazione nulla o irregolare, postula la pendenza della lite che è realizzata dalla notifica del decreto (art. 643 c.p.c.): comune a tali casi – diversamente da quanto accade se la notifica è inesistente – è che il ricorso per ingiunzione è qualificabile come domanda giudiziale, idonea a costituire il rapporto processuale, sebbene per iniziativa della parte convenuta che si difende anche nel merito, con la conseguenza che è compito del giudice adito provvedere, oltre che sull’eccezione di inefficacia del decreto, anche sulla fondatezza della pretesa azionata nel procedimento monitorio (cfr. Cass. n. 14910 del 2013).

4.- Venendo ad esaminare la questione di fondo inerente alla notifica del decreto ingiuntivo da parte di (OMISSIS), è utile riportare i passi salienti della sentenza impugnata (pag. 10-11): “La comunicazione al Ministero della giustizia brasiliano, da questo poi rimessa al Tribunale Superiore di giustizia, anche se attinge un organo avente palese collegamento con lo Stato brasiliano, non ne importa la notifica al medesimo che, per essere completata secondo le modalità previste dal Trattato, doveva essere successivamente soggetta a commissione rogatoria, come lo fu; ma la medesima doveva essere completata con l’autorizzazione alla notifica da parte dell’autorità giudiziaria incaricata, ovvero del Tribunale Superiore della Giustizia, secondo la normativa dello Stato richiesto, come previsto dall’art. 15, comma 1 del Trattato, ove si afferma “Per l’esecuzione della commissione rogatoria, si applicherà la legge della parte richiesta”. Come è pacifico e documentato – prosegue la Corte fiorentina – tale autorizzazione fu rifiutata ai sensi dell’art. 2 del medesimo Trattato, così oggettivamente escludendosi la conoscenza dell’ingiunzione da parte della Repubblica Federativa del Brasile proprio a causa del mancato completamento della procedura. In altri termini, la notifica dell’ingiunzione è pervenuta a soggetto (Ministero della giustizia brasiliano) ricollegabile al destinatario (RFB), ma non al medesimo: è dunque nulla e non inesistente”. Per queste ragioni la Corte ha affermato che “la sentenza (del Tribunale di Arezzo) va dunque riformata laddove assume la correttezza della notifica in quanto effettuata presso il Ministero della Giustizia brasiliano che, seppure ricollegabile allo Stato brasiliano quale suo organo e competente alla ricezione della richiesta di notifica, non era peraltro legittimato a ricevere la notifica, che in effetti non fu eseguita nei confronti della Repubblica Federativa del Brasile”.

Di conseguenza, ritenendo trattarsi di notifica nulla e non inesistente, la Corte fiorentina ha concluso che la RFB, venuta successivamente a conoscenza dell’ingiunzione, era legittimata a proporre opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e ha deciso la causa nel merito nel senso della fondatezza della pretesa creditoria del Fallimento (OMISSIS). Questa conclusione, come si è anticipato, non è condivisibile.

4.1.- La nozione di inesistenza della notificazione di un atto giudiziario è configurabile “nei casi di totale mancanza materiale dell’atto, nonchè nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi ex lege eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Cass. SU n. 14916 del 2016, n. 29729 del 2019).

La Corte di merito ha affermato che la notificazione della citazione “fu effettuata per la via diplomatica, con invio all’autorità consolare (italiana in Brasile) che trasmetteva l’atto all’autorità centrale (brasiliana, cioè al Ministero della giustizia brasiliano)” (pag. 9).

Sebbene il Trattato italo-brasiliano del 17 ottobre 1989, sull’assistenza giudiziaria in materia civile, preveda l’invio delle comunicazioni e della documentazione “per il tramite delle rispettive Autorità centrali” (art. 4, comma 1) – che avrebbe richiesto l’inoltro dell’atto all’Autorità centrale italiana, cioè al Ministero della giustizia italiano (art. 3 del Trattato), per la successiva trasmissione all’autorità brasiliana competente -, la Corte territoriale ha ritenuto non rilevante la mancanza di tale fase (v. pag. 9 della sentenza impugnata). Per avvalorare tale affermazione (nonostante in un precedente si sia ritenuta inesistente la notifica mediante corriere internazionale, in presenza di convenzione internazionale che preveda specifiche modalità per l’esecuzione delle notificazioni all’estero di atti giudiziari, cfr. Cass. n. 11966 del 2003), si potrebbe considerare che l’atto, seppur impropriamente trasmesso direttamente tramite corriere all’autorità consolare italiana, è comunque pervenuto all’Autorità centrale brasiliana (Ministero della giustizia) per il tramite dell’autorità consolare italiana (cui sono riconosciuti dal D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, art. 30, poteri specifici in materia di notificazioni e rogatorie), risultando, in tal modo, realizzata “la trasmissione (…) per via diplomatica” che è ugualmente ammessa dal Trattato, a norma dell’art. 4, comma 2.

4.2.- Il Collegio reputa comunque decisiva la questione se la notificazione del decreto da parte di (OMISSIS) abbia avuto esito positivo nella fase della “consegna”, in particolare se la stessa possa “considerarsi ex lege eseguita” oppure “meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (cfr. SU del 2016 citata). A tal fine, si deve considerare che “l’art. 142 c.p.c., in tema di notificazione a persona non residente, nè dimorante, nè domiciliata nella Repubblica, attribuisce il valore di fonte primaria alle convenzioni internazionali, in difetto delle quali è dato ricorso alla disciplina codicistica interna” (Cass. SU n. 14570 del 2007, n. 11966 del 2003). Le convenzioni internazionali costituiscono fonti di obblighi internazionali vincolanti per lo stesso legislatore (ex art. 117 Cost., comma 1), idonee a conformare il modello legale di notificazione, anche in relazione a suoi scopi.

Nella fattispecie, fonte primaria è il Trattato italo-brasiliano del 1989, alla luce del quale si deve valutare il modo in cui si atteggia, nella fattispecie, il principio che esclude l’inesistenza della notificazione nei casi in cui la consegna dell’atto avvenga a persona ed in luogo comunque riferibili al destinatario (RFB).

Per quanto interessa, è utile riportare le principali disposizioni del suddetto Trattato rilevanti nella specie: l’art. 1 prevede che “ciascuna Parte presta all’altra Parte, su richiesta, assistenza per l’esecuzione degli atti e delle procedure giudiziarie (…), in particolare provvedendo alla notificazione degli atti (…)” e “riconosce e dichiara esecutive (…) le sentenze emesse in materia civile dalle Autorità Giudiziarie dell’altra Parte” (commi 1 e 2); l’art. 2 (rubricato “Rifiuto dell’assistenza, del riconoscimento e dell’esecuzione”) prevede che “L’assistenza giudiziaria nonchè il riconoscimento e l’esecuzione degli atti e delle sentenze saranno negati se sono contrari all’ordine pubblico della Parte richiesta”; l’art. 15 prevede che per la “Esecuzione delle Commissioni Rogatorie” “si applicherà la legge della Parte richiesta” (comma 1); l’art. 16 (“Documenti comprovanti la notificazione di atti”) dispone che “La prova della notificazione dell’atto giudiziario è data da una ricevuta firmata dalla persona che ha ricevuto l’atto ovvero da un attestato dell’autorità competente, entrambi redatti nella forma prevista dalla legge della Parte richiesta. Se la persona alla quale è destinato l’atto da notificare rifiuta di riceverlo, la prova è data da una dichiarazione sottoscritta dall’Ufficiale Giudiziario competente nella quale è fatta menzione del luogo, della data della consegna e della identità della persona cui l’atto è stato consegnato”.

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto la notifica esistente per essere l’atto comunque pervenuto a un soggetto (il Ministero della giustizia brasiliano) avente un collegamento con la RFB – ma non valida (quindi nulla), a causa dell’esito negativo della commissione rogatoria, a seguito del rifiuto di autorizzazione da parte del Tribunale Superiore di giustizia e, di conseguenza, ammissibile l’opposizione tardiva di RFB. Tuttavia, proprio con riferimento alla notifica di atti giudiziari in Brasile, questa Corte ha ritenuto che la ricezione dell’atto da parte della sola autorità centrale brasiliana (Ministero federale della giustizia) comporta che la notifica debba considerarsi come non avvenuta, cioè che l’atto non è stato notificato al destinatario (cfr. Cass. n. 19839 del 2009), occorrendo pur sempre che siano depositati, a norma degli artt. 4 e 16 del Trattato in esame, la ricevuta firmata dall’effettivo destinatario e l’attestato del funzionario brasiliano competente, previsti dall’art. 16, comma 1, da cui si ricava l’avvenuta consegna del piego o l’eventuale rifiuto di riceverlo.

L’organo individuato nel Trattato come “autorità centrale” (il Ministero della giustizia brasiliano) non coincide con il destinatario della notifica che è la RFB che è rimasta estranea alla procedura notificatoria.

La stessa Corte fiorentina ha affermato che “il Ministero della giustizia (…) non era peraltro legittimato a ricevere la notifica, che in effetti non fu eseguita nei confronti della Repubblica Federativa del Brasile” ed ha escluso che quest’ultima abbia avuto conoscenza dell’ingiunzione “proprio a causa del mancato completamento della procedura” (pag. 9-10), la quale era soggetta a commissione rogatoria conclusasi, secondo la normativa dello Stato richiesto ex art. 15 comma 1 del Trattato, con il diniego di autorizzazione da parte del Tribunale Superiore della Giustizia, in data 1 febbraio 2013.

Seguendo l’opposta linea di pensiero, dovrebbe ravvisarsi nell’inoltro diretto degli atti giudiziari a qualunque organismo statale una modalità riconoscibile come notificazione alla RFB, con l’effetto di aggirare le disposizioni del Trattato che costituiscono fonte normativa primaria in materia, le quali prevedono forme tipiche e non surrogabili di notificazione tra i due Stati (l’art. 1 del Trattato stabilisce che ciascuna parte presta all’altra “assistenza (…) in particolare provvedendo alla notificazione degli atti” e l’art. 2 consente il rifiuto dell’assistenza giudiziaria e dell’esecuzione degli atti e delle sentenze in caso di contrasto con l’ordine pubblico della parte richiesta).

Si deve concludere che la notificazione del decreto è stata meramente tentata da (OMISSIS) ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa e quindi – come rilevato anche dal Procuratore Generale giuridicamente inesistente, esorbitando completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, come conformato dalla convenzione applicabile, difettando l’elemento essenziale della consegna dell’atto al destinatario.

5.- La dichiarazione di inesistenza della notifica del decreto non è impedita dal provvedimento di rigetto o inammissibilità di precedente istanza proposta ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c., che è privo del requisito della definitività ed avendo il debitore proposto nei modi ordinari, come consentito, la domanda volta a far dichiarare inesistente la notificazione del decreto ingiuntivo e quest’ultimo inefficace (cfr. Cass. n. 5239 del 2018, n. 12614 del 2014).

6.- In conseguenza dell’accoglimento del primo motivo, sono assorbiti gli altri due motivi del ricorso principale di RFB, entrambi diretti a contestare la fondatezza nel merito della pretesa creditoria di (OMISSIS) (per diversi profili: il secondo motivo riguardando la questione della responsabilità sussidiaria di RFB, il terzo quella della debenza del corrispettivo, stante la mancanza del contratto formale), il cui esame (per le ragioni dette sub 3.2) è precluso per non essere il decreto stato notificato, risultando esso inefficace e, in tal senso, fondata l’azione di accertamento di RFB. 7.- Sono assorbiti anche i due motivi del ricorso incidentale del Fallimento (OMISSIS): il primo denuncia violazione del giudicato sull’accertamento della responsabilità sussidiaria di RFB per i debiti contratti da Valec nei confronti di (OMISSIS), per effetto dei decreti ingiuntivi n. 314/2011 (che aveva ingiunto a RFB, quale garante di Valec, il pagamento di Euro 15.000.000,00) e n. 123/2009 (che aveva ingiunto a Valec il pagamento di Euro 246.771.392,40); il secondo motivo denuncia omessa pronuncia sulla eccezione di giudicato nei confronti di RFB, quale garante, in relazione al decreto n. 123/2009 (cd. Valec) non opposto dal debitore principale. Ed infatti, a prescindere dal fatto che gli ipotizzati giudicati, qualora fondati, farebbero venir meno (in tutto o in parte) l’interesse del creditore (OMISSIS) verso la pretesa azionata con il decreto n. 47/2012, avversato in questa sede da RFB, vale il medesimo rilievo già esposto (sub 3.2 e 6): l’inesistenza della notificazione (e conseguente inefficacia) del suddetto decreto, che è oggetto dell’azione ordinaria di accertamento proposta da RFB, preclude l’esame delle questioni inerenti alla fondatezza nel merito della pretesa creditoria racchiusa nel decreto, tra le quali è compresa quella inerente al giudicato che integra pur sempre una questione di merito.

8.- In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, anche per le spese della presente fase.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale di RFB e dichiara assorbiti gli altri motivi del medesimo ricorso e il ricorso incidentale; in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2021


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 19/05/2021) 15/10/2021, n. 28295

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12413-2016 proposto da:

E.D., elettivamente domiciliato in Roma via Attilio Regolo n. 12/D presso lo studio dell’avv.to Simone Paolini rappresentato e difeso dall’avv.to MARIA CONCETTA CIOFFI;

– ricorrente –

contro

SARIN IMMOBILIARE SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRISTOFORO COLOMBO n. 440, presso lo studio dell’avvocato ORESTE VACCARO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO COZZOLINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 478/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 08/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/05/2021 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, con sentenza del 28 novembre 2007 dichiarava la risoluzione del contratto preliminare del 19 maggio 1992 avente ad oggetto l’immobile sito in (OMISSIS), per inadempimento di E.D., promissario acquirente, ordinandogli il rilascio dell’immobile in favore di Sarin Immobiliare Srl, promittente venditrice, condannandolo al versamento della penale contrattualmente prevista nella misura di Euro 8056,72 e sancendo il diritto della Sarin Immobiliare Srl a trattenere a tale titolo la somma di Euro 7746,85 versata dal promissario acquirente, nonchè condannando E.D. al pagamento della somma mensile di Euro 135 per l’occupazione senza titolo dell’immobile dal 5 settembre 2003 fino al rilascio.

2. E.D. proponeva appello tardivo ai sensi dell’art. 327 c.p.c., comma 2, avverso detta sentenza.

L’appellante E. chiedeva di dichiarare la nullità della citazione introduttiva derivante dalla violazione del termine minimo per comparire, la nullità degli atti successivi e della sentenza di primo grado, il rigetto della domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita proposta dalla Sarin Immobiliare, avendo interamente versato il corrispettivo pattuito mediante rilascio di effetti cambiari. Inoltre, chiedeva di accogliere la sua domanda riconvenzionale di trasferimento dell’immobile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2932 c.c., sul presupposto che la mancata stipula del definitivo fosse imputabile solo alla società venditrice.

2.1 Si costituiva in giudizio la società Sarin Immobiliare ed eccepiva la tardività dell’appello e la mancanza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 327 c.p.c., comma 2.

3. La Corte d’Appello riteneva di dover esaminare con priorità l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dell’appello tardivo sollevata dalla parte appellata Sarin immobiliare.

Il giudice del gravame evidenziava che l’ E. era stato citato innanzi al Tribunale per l’udienza del 14 febbraio 2006 con atto di citazione ricevuto da familiare convivente in data 29 dicembre 2005. La nullità della citazione era dovuta solo all’inosservanza del termine minimo per comparire di 60 giorni sancita dall’art. 164 c.p.c..

Il Tribunale non aveva disposto, nonostante la mancata comparizione del convenuto, la rinnovazione della notifica della citazione nel rispetto dei termini di comparizione e aveva dichiarato la contumacia dell’ E. sulla base della produzione documentale dell’attrice, pronunciando in senso a lui sfavorevole. La sentenza non era stata notificata dalla Sarin, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione. La medesima sentenza era stata notificata in formula esecutiva in data 29 giugno 2009 unitamente al precetto a fini esecutivi ed era stata impugnata dall’ E., ai sensi dell’art. 327 c.p.c., comma 2, con atto consegnato all’ufficiale giudiziario in data 3 agosto 2009 modificato in pari data alla Sarin immobiliare.

Tutto ciò premesso doveva darsi atto che tra le parti non era in contestazione la nullità della citazione per violazione del termine per comparire degli atti conseguenti quanto piuttosto la tempestività e ammissibilità dell’appello ex art. 327 c.p.c., comma 2.

3.1 Secondo la Corte d’Appello di Catanzaro, ai sensi dell’art. 327 c.p.c., comma 2, il termine annuale di decadenza dall’impugnazione era derogato nella sola ipotesi in cui la parte contumace non avesse avuto effettiva conoscenza del processo. In altri termini, ai fini dell’applicabilità della deroga al meccanismo acceleratorio del termine generale di impugnazione, non rilevava la nullità della citazione o della notificazione in sè considerate, ma la mancata conoscenza del processo derivante da tale nullità. In tal senso, la giurisprudenza di legittimità, pronunciandosi sul riparto dell’onere probatorio ai fini dell’applicabilità della suddetta norma aveva rimarcato che, ai fini dell’applicabilità art. 327 c.p.c., comma 2, non bastava il requisito oggettivo della nullità della citazione o della sua notificazione ma occorreva anche il requisito soggettivo e cioè la mancata conoscenza del processo.

Ciò premesso, nel caso in esame il presupposto soggettivo per l’applicabilità dell’art. 327 c.p.c., comma 2 non era sussistente poichè l’ E. aveva avuto conoscenza certa del processo, avendo ricevuto il 29 dicembre 2005 la notifica della citazione. In altri termini, la nullità della citazione per violazione del termine per comparire aveva comportato la violazione del diritto di difesa emendabile in appello, ove tempestivo, mediante un nuovo esame del merito delle domande formulate in primo grado, ma non aveva inciso in alcun modo sulla conoscenza del processo instaurato in Tribunale nei suoi confronti. L’appello doveva quindi dichiararsi tardivo perchè proposto oltre il termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1.

4. E.D. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

5. Sarin immobiliare Srl ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 327 c.p.c., comma 2, comma 1, lett. b).

La censura attiene alla declaratoria di tardività dell’appello del ricorrente avverso la sentenza di primo grado nonostante la sua contumacia fondata sul presupposto della conoscibilità o conoscenza del processo. Secondo il ricorrente l’esistenza del presupposto soggettivo di conoscenza del processo non si risolve in una prova diabolica di tale conoscenza ma solo nella prova di circostanze di fatto positive dalle quali si possa desumere il difetto di anteriore conoscenza del processo. L’impugnazione non può essere agganciata ad una data fissa quale la pubblicazione della sentenza, quando la parte contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo. La sentenza è stata notificata in forma esecutiva ex art. 479 c.p.c. alla parte personalmente perchè contumace e il termine breve per impugnare e far valere la nullità conseguente al vizio di notifica della citazione decorrere da tale momento, rendendo del tutto irrilevante il decorso di un anno dalla pubblicazione.

La valida notificazione della sentenza intervenuta successivamente al decorso dell’anno dalla pubblicazione, anche se effettuata al contumace involontario, sarebbe comunque idonea a far decorrere il termine breve per proporre impugnazione. Nel caso di specie, la sentenza è stata notificata in forma esecutiva unitamente al precetto in data 21 luglio 2009 e a brevissima distanza è stato proposto appello da parte dell’ E.. Tale appello, pertanto, non dovrebbe ritenersi tardivo altrimenti perderebbe rilievo la contumacia involontaria, non avendo l’ E. mai ricevuto la notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado nelle forme e nei termini previsti dalla legge. Egli, dunque, non ha avuto conoscenza del processo ed è rimasto estraneo ad esso. Peraltro, la notifica a persona senza collegamento col destinatario dovrebbe ritenersi inesistente e non nulla. Anche la presunzione di conoscenza dell’atto quando consegnato al familiare convivente non opererebbe quando la persona convivente non sia identificabile a causa della mancata indicazione del nominativo, del rapporto con il destinatario o dell’eleggibilità della sua firma.

2.1 I primi due motivi, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

La sentenza della Corte d’Appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità che, con orientamento del tutto consolidato, ha affermato il seguente principio di diritto: “Il contumace, per evitare la decadenza dall’impugnazione per decorso del termine ex art. 327 c.p.c., deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza del processo a causa di detta nullità, senza che rilevi la conoscenza legale dello stesso, essendo sufficiente quella di fatto” (ex plurimis Sez. 3, Sent. n. 532 del 2020).

Peraltro, quando – come nel caso in esame – il contumace eccepisca l’invalidità della notifica della sua citazione a giudizio occorre distinguere le ipotesi di inesistenza della notifica da quelle di nullità. Si è detto, infatti, che per stabilire se sia ammissibile una impugnazione tardivamente proposta, sul presupposto che l’impugnante non abbia avuto conoscenza del processo a causa di un vizio della notificazione dell’atto introduttivo, occorre distinguere due ipotesi: “se la notificazione è inesistente, la mancata conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario si presume iuris tantum, ed è onere dell’altra parte dimostrare che l’impugnante ha avuto comunque contezza del processo; se invece la notificazione è nulla, si presume iuris tantum la conoscenza della pendenza del processo da parte dell’impugnante, e dovrà essere quest’ultimo a provare che la nullità gli ha impedito la materiale conoscenza dell’atto” (Sez. 3, Sent. n. 18243 del 2008).

Il medesimo contumace ha, quindi, l’onere di dimostrare l’esistenza di circostanze di fatto positive dalle quali si possa desumere il difetto di anteriore conoscenza o la presa di conoscenza del processo in una certa data e tale prova può essere fornita anche mediante presunzioni, senza che, però, possa delinearsi, come effetto della presunzione semplice di mancata conoscenza del processo, l’inversione dell’onere della prova nei confronti di chi eccepisce la decadenza dall’impugnazione (Sez. 2, Sent. n. 8 del 2019).

Nella specie, non solo il ricorrente non ha fornito alcuna prova della sua mancata conoscenza del processo ma dalla sua stessa eccezione di nullità della citazione per l’inosservanza del termine minimo per comparire di 60 giorni sancito dall’art. 164 c.p.c. si desume la conoscenza della pendenza del processo. In tal caso, pertanto, non può trovare applicazione l’art. 327 c.p.c., comma 2, che consente al contumace soccombente l’impugnazione della sentenza anche dopo la scadenza del termine annuale dalla sua pubblicazione, mancando il presupposto soggettivo, rappresentato dalla mancata conoscenza del processo a causa della nullità della notificazione dell’atto introduttivo.

L’eccezione circa la mancata identificazione della persona che ha ricevuto il 29 dicembre 2005 la notificazione della citazione, qualificata nella relata come “familiare convivente”, è del tutto nuova, non risultando nei motivi di appello. In ogni caso costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello secondo il quale: “In tema di notificazione a mezzo del servizio postale, eseguita mediante consegna dell’atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno temporanea, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare, onde non è sufficiente, per affermare la nullità della notifica, neppure la mancata indicazione della qualità di convivente sull’avviso di ricevimento della raccomandata, mentre ogni indagine circa l’identificazione del luogo in cui è stata eseguita la notificazione resta assorbita dall’anzidetta presunzione di convivenza, la quale può essere superata soltanto dalla prova, posta a carico del destinatario della notifica, dell’insussistenza del rapporto di convivenza con il familiare consegnatario dell’atto” (Sez. 5, Sent. n. 15973 del 2014; Sez. 1, Sent. n. 24852 del 2006).

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: “violazione e falsa applicazione degli artt. 163 e 164 c.p.c. nonchè dell’art. 354 c.p.c. in relazione all’art. 360, lett. a) nonchè omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

Il ricorrente si duole del fatto che la corte territoriale non ha ritenuto la nullità della citazione per violazione del termine a comparire rinnovando il giudizio di merito.

Secondo il ricorrente la Corte d’Appello doveva dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, revocare la dichiarazione di contumacia e disporre la rinnovazione della notifica dell’atto introduttivo per passare successivamente all’istruttoria della causa.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 354 c.p.c. nonchè omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Secondo il ricorrente non sarebbe stato specificato il percorso seguito dalla Corte d’Appello circa il mancato accoglimento delle sue richieste.

4. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili in quanto entrambi presuppongono l’accoglimento del primo motivo. Il rigetto della censura circa l’erronea declaratoria di inammissibilità dell’appello per tardività rende, infatti, inammissibili le censure sulla violazione degli artt. 163 e 164 e 354 c.p.c. da parte della Corte d’Appello di Catanzaro.

5. Il ricorso è rigettato.

6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4100 più 200.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione civile, il 19 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 05/07/2021) 12/10/2021, n. 27661

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27950/16 R.G. proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. (già Serit Sicilia s.p.a.), in persona del legale rappresentante, giusta procura rilasciata in calce al ricorso, dall’avv. Alberto Cutaia, con domicilio eletto in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione;

– ricorrente –

contro

R.G.;

– intimato –

e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– contro ricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 1386/30/16 depositata in data 12 aprile 2016;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 luglio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. R.G. impugnò l’intimazione notificatagli dalla Serit Sicilia s.p.a. sulla scorta del mancato pagamento degli importi portati dalla cartella di pagamento n. (OMISSIS), emessa per il recupero di I.V.A., Irap e Irpef in relazione agli anni 2001, 2002, 2003 e 2004, deducendo la decadenza dai termini di riscossione e l’omessa notifica della cartella esattoriale.

2. La Commissione tributaria provinciale adita accolse il ricorso, ritenendo che la relata di notifica della cartella di pagamento non attestasse che l’atto fosse stato consegnato, a norma dell’art. 139 c.p.c., a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda.

3. La sentenza venne appellata sia dalla Serit Sicilia s.p.a., che osservò che la notifica della cartella era stata effettuata in data 4 dicembre 2008 presso la casa di abitazione del contribuente, a mani di C.M., qualificatasi come “zia”, non avendo l’incaricato alla notificazione rinvenuto il contribuente nel luogo di residenza, sia dall’Agenzia delle entrate, che eccepì che il difetto di notifica della cartella atteneva esclusivamente all’attività del concessionario della riscossione, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non era legittimata passiva in relazione alla domanda proposta dal contribuente con l’originario ricorso.

La Commissione tributaria regionale dichiarò il difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate e rigettò l’appello del Concessionario.

Rilevò, in particolare, che in tema di notificazioni, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, ai fini dell’operatività della presunzione di consegna, per “persona di famiglia” poteva intendersi soltanto chi fosse stato rinvenuto dal notificatore nell’abitazione (o nell’ufficio) del destinatario dell’atto, circostanza questa che non si evinceva dalla relazione di notifica prodotta in giudizio; il messo notificatore si era infatti limitato ad attestare di avere notificato l’atto in via (OMISSIS), presso l’indi r. anagrafico di R.G., a C.M., qualificatasi zia, ma non aveva specificato se, in quel momento, la consegnataria fosse all’interno dell’abitazione del R. o si trovasse piuttosto “lungo la via (OMISSIS)”.

Aggiunse che la C. non risultava convivente con il R., per cui non poteva operare la “presunzione circa il buon esito della notifica”, e che poteva considerarsi “persona di famiglia” solo chi fosse legato al notificatario da un vincolo formale di familiarità o affinità.

4. Contro la decisione d’appello ha proposto ricorso per cassazione Riscossione Sicilia s.p.a. (già Serit Sicilia s.p.a.), con un unico motivo.

R.G. ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ritualmente intimati, non hanno svolto attività difensiva in questa sede. L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso in riferimento al Ministero dell’Economia e delle Finanze, posto che, come questa Corte ha in più occasioni precisato, in tema di contenzioso tributario, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1, di tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” facenti capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), unico soggetto passivamente legittimato è l’Agenzia delle Entrate, ente dotato di autonoma e distinta soggettività impositiva, nonchè di legittimazione sostanziale e processuale (Cass., sez. 5, 28/01/2015, n. 1550; Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1462).

2. Con l’unico motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., sottolineando che la citata disposizione normativa stabilisce una presunzione di ricezione dell’atto fondata sul rapporto diretto che il luogo in cui avviene la consegna e la persona che materialmente riceve l’atto hanno con il destinatario.

Lamenta che la C.T.R. ha erroneamente ritenuto inoperante la presunzione, sebbene risultasse dalla relata che la notificazione era stata effettuata presso la via (OMISSIS) (abitazione di residenza del R.), con consegna, in assenza del destinatario, in busta sigillata, a C.M., qualificatasi zia, stante la irrilevanza della questione della convivenza ai fini della presunzione di cui si discute.

3. Preliminarmente deve darsi atto che la ricorrente contesta solo la statuizione della sentenza che la vede soccombente in relazione alla questione della regolarità della notifica della cartella di pagamento, ma non in relazione alla statuizione concernente l’accertato difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate in ordine a procedure che afferiscono esclusivamente all’attività di riscossione.

4. Nel merito, la censura è fondata.

4.1. Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora la notifica della cartella di pagamento abbia avuto luogo ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, l’obbligo, posto a carico del messo finanziario, di ricercare il destinatario presso il luogo indicato nell’atto da notificare come sua residenza o sede del suo ufficio fa presumere che la notifica sia stata effettuata proprio in detto luogo, la cui mancata o incompleta indicazione nella relata di notifica non ne determina di per sè la nullità, che può derivare soltanto dall’esecuzione della notifica in luogo diverso da quello indicato dalla legge, sempre che tale prova venga fornita dall’interessato al fine di superare la presunzione di cui sopra (Cass., sez. 5, 29/09/2005, n. 19079; Cass., sez. 1, 13/03/1997, n. 6951).

4.2. E’ da rilevare che, nel caso di specie, nella relata di notifica, prodotta unitamente al ricorso per cassazione in ossequio al principio di autosufficienza, tale indicazione non è stata omessa, risultando anzi indicato l’indirizzo, comprensivo del numero civico, il che fa ritenere che la consegna dell’atto sia avvenuta presso il luogo di abitazione del contribuente, e non lungo la pubblica via, come affermato dai giudici regionali.

Neanche risulta fornita la prova dell’effettuazione della notificazione in un luogo diverso da quelli indicati dalla legge, ossia in un luogo diverso dall’abitazione del destinatario, poichè non si evince dalla relata di notifica che la persona che ha ritirato il plico abbia dichiarato che non si trattava della abitazione del R..

4.3. Peraltro, escluso, per le ragioni sopra indicate, che la notificazione sia avvenuta in luogo diverso dall’abitazione del destinatario, è anche irrilevante accertare se la persona che ha curato il ritiro del plico fosse convivente con il notificatario, posto che, secondo l’indirizzo univoco di questa Corte, al quale questo Collegio intende dare continuità, non ravvisandosi valide ragioni per discostarsene, la notificazione mediante consegna a persona di famiglia non postula necessariamente nè il solo rapporto di parentela – al quale è equiparato quello di affinità – nè l’ulteriore requisito della convivenza, non espressamente menzionato dall’art. 139 c.p.c., risultando piuttosto sufficiente l’esistenza di un vincolo (di parentela o di affinità) tale da giustificare la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario (Cass., sez. 1, 5/09/1997, n. 8597; Cass., sez. 1, 7/02/2000, n. 1331; Cass., sez. 5, 24/01/2007, n. 1550), restando in ogni caso a carico di chi assume di non avere ricevuto l’atto l’onere di dimostrare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria.

4.4. La decisione gravata si è chiaramente discostata dai principi su esposti, sia perchè ha ritenuto non provato, in assenza di prova contraria, non fornita dal R., che la consegnataria al momento della notifica si trovasse all’interno dell’abitazione di quest’ultimo, sia perchè ha affermato che, non essendo la C. convivente con il R., non potesse operare la presunzione derivante dal richiamato art. 139 c.p.c., comma 2.

Del tutto inconferente risulta, infine, il richiamo effettuato dalla Commissione tributaria regionale alla sentenza n. 7830 del 2015 resa da questa Corte, che riguarda la diversa ipotesi di consegna dell’atto alla madre del destinatario, non già presso l’abitazione del destinatario, ma presso l’abitazione della madre.

5. Conclusivamente, in accoglimento del ricorso, la sentenza va cassata limitatamente alla statuizione con cui si rigetta l’appello di Riscossione Sicilia s.p.a., con rinvio alla competente Commissione tributaria regionale che, uniformandosi ai principi sopra esposti, dovrà procedere al riesame, nonchè alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Accoglie il ricorso proposto nei confronti di R.G.; cassa la sentenza impugnata limitatamente al capo con cui si rigetta l’appello proposto da Riscossione Sicilia s.p.a. e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2021


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 30-03-2021) 07-10-2021, n. 27270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33651/2018 proposto da:

Z.R., in qualità di erede di T.A., rappresentato e difeso dall’avv.to FELICE DE SIMONE, domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO CHINOTTO 1, presso lo studio dell’avvocato STEFANO CARNEVALE, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

C.S.;

– intimato –

contro

C.A., rappresentato e difeso dall’avv.to Giuseppe Colavita, giusta procura speciale in atti domiciliato in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4340/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
1. Z.R., in qualità di erede di T.A., ricorre, affidandosi a due motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che – riformando la pronuncia con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal sinistro stradale occorso nel (OMISSIS) e causato dalla collisione fra due motoveicoli, condotti rispettivamente dal T. e da C.A. (collisione dalla quale erano derivate lesioni personali ad entrambi), ritenendo insufficiente la prova raggiunta sulla dinamica del sinistro – aveva riconosciuto il concorso di colpa nella causazione dell’evento fra i conducenti di entrambi i motoveicoli coinvolti ed aveva liquidato la somma a ciascuno spettante, respingendo, tuttavia, la domanda nei confronti della Generali Ass.ni Spa (già Alleanza Toro Spa) in qualità di impresa designata dal FGVS (evocata in giudizio L. n. 669 del 1969, ex art. 19, lett. b), per mancanza di prova della scopertura assicurativa di entrambi i veicoli.

2. Hanno resistito sia C.A., spiegando anche ricorso incidentale sulla scorta di due motivi, sia la compagnia Generali Ass.ni Spa con controricorso.

3. Entrambi hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2733 e 2697 c.c. e degli art. 115 e 116 c.p.c..

1.1. Lamenta che la Corte d’Appello aveva violato l’art. 116 c.p.c., in quanto aveva fatto prevalere il proprio libero convincimento sulle emergenze processuali, fondate sulle prove legali raccolte, quali l’interrogatorio formale deferito alla controparte (dal quale emergeva, in termini confessori, l’assenza di copertura assicurativa del motoveicolo da lui condotto), e le prove testimoniali assunte che avevano confermato la medesima circostanza.

1.2. Deduce, altresì, la violazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la decisione aveva omesso di considerare che la parte convenuta aveva spiegato una difesa del tutto generica sulla circostanza relativa alla scopertura assicurativa, proponendo solo nella comparsa conclusionale una eccezione più argomentata ma, comunque, tardiva.

1.3. Si duole, inoltre, della violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, secondo il quale chi eccepisce l’inefficacia dei fatti dedotti deve provare quelli su cui l’eccezione si fonda: tale principio, in thesi, era rimasto del tutto inosservato dalla Corte, tanto più che si trattava di una situazione caratterizzata dalla “vicinanza della prova”, visto che la compagnia di assicurazioni avrebbe certamente ed agevolmente potuto compiere indagini sull’esistenza della copertura assicurativa dei due motoveicoli.

1.4. Lamenta, infine, che non era stata assegnata alcuna valenza al fatto che la Compagnia aveva spiegato azione di rivalsa nei confronti dello stesso C., rendendo una motivazione, pertanto, del tutto contraddittoria.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole inoltre, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in quanto la Corte territoriale non aveva tenuto conto né delle risultanze della prova testimoniale (dalla quale era emersa la scopertura assicurativa del mezzo), né delle dichiarazioni confessorie rese in sede di interrogatorio formale dall’odierno controricorrente, né della condotta processuale delle parti in relazione alla mancata tempestiva contestazione della scopertura assicurativa.

3. Con il ricorso incidentale proposto da C.A., preceduto dalla espressa adesione ai motivi prospettati nel ricorso principale, vengono dedotte due censure, contenenti argomentazioni ad esso sovrapponibili.

3.1. Con la prima, infatti, si lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle risultanze istruttorie e delle prove testimoniali con violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e dell’art. 2967 c.c..

3.2. Con la seconda si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, error in iudicando ed error in procedendo, con violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e della L. n. 990 del 1969, art. 19, lett. b).

4. Deve preliminarmente respingersi l’eccezione sollevata dalla compagnia di assicurazione in relazione al difetto di notifica del ricorso principale e di quello incidentale: si assume, al riguardo, che la notifica a mezzo PEC di entrambi i ricorsi sarebbe priva dell’indicazione dell’elenco da cui era stato estratto l’indirizzo PEC del destinatario, come previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter.

Da ciò deriverebbe, in thesi, la nullità della notifica ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

4.1. Il rilievo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare la prevalenza del principio del raggiungimento dello scopo degli atti processuali, in ragione del quale va esclusa l’efficacia invalidante della mancata indicazione, nella relata di notifica, dell’elenco pubblico – tra quelli previsti dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter, da cui è stato estratto l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (cfr. Cass. Sez. U., 7665/2016; Cass. 6079/2017, 30927/2018).

4.2. E’ stato specificamente affermato, al riguardo, che “le Sezioni Unite di questa Corte, valorizzando l’introduzione del cd. “domicilio digitale”, hanno ritenuto valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis, atteso che, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi” (Cass. Sez. U., 23620/2018). Numerose pronunce hanno poi ribadito la piena legittimità di notifiche eseguite presso l’indirizzo PEC risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC) istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, espressamente incluso fra i pubblici elenchi del D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-ter (ex multis Cass. 9893/2019), ribadendo espressamente “il principio, enunciato dalle S.U. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia” (Cass. 29749/2019)” (cfr. Cass. 20039/2020 in motivazione).

5. Passando all’esame congiunto, per la sostanziale sovrapponibilità, del ricorso principale e di quello incidentale, il Collegio ritiene che essi siano entrambi infondati.

5.1. La motivazione della Corte territoriale, infatti, pur sintetica in quanto sommariamente riferita alla circostanza che gli attori non avevano affatto fornito la prova della scopertura assicurativa della quale erano onerati, “nemmeno attraverso la prova orale da ognuno indicata” (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata), resiste a tutte le critiche prospettate.

5.2. Per ragioni di antecedenza logica deve essere preliminarmente esaminato il secondo motivo del ricorso principale, che risulta inammissibile.

5.3. Infatti, la critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’omesso esame di tutto il materiale probatorio raccolto lamentando che la Corte “avrebbe omesso di considerare il fatto decisivo per cui risulta dagli atti, dalle risultanze istruttorie e dalle mancate contestazioni di controparte che i veicoli coinvolti nel sinistro fossero entrambi privi di copertura assicurativa” (cfr. pag. 17 u. cpv. del ricorso): in tal modo, la doglianza si risolve in una critica generica della intera motivazione (non più consentita), non essendo stato indicato quale fosse il fatto storico, principale o secondario, e decisivo per una diversa soluzione della controversia, che la Corte avrebbe omesso di considerare per giungere alla motivazione resa.

5.4. Per il resto, in relazione ai motivi prospettati in entrambi i ricorsi, si osserva preliminarmente come le censure in essi contenute non contengano la contestazione di una errata ripartizione degli oneri probatori fra le parti: ed anzi, il ricorrente principale lamenta, in relazione al primo motivo, “una valutazione imprudente della prova” che si risolverebbe in una interpretazione arbitraria del giudice (cfr. pag. 13 terzo cpv. del ricorso principale), mentre il ricorrente incidentale dà perfino atto di essere consapevole che “la prova della scopertura assicurativa incombe in capo al danneggiato” (cfr. pag. 16 secondo cpv. del suo ricorso) anche se può essere affidata a presunzioni, soprattutto nel caso in cui non sia intervenuta alcuna autorità e non siano stati redatti i relativi verbali.

5.5. Pertanto, pacifico, in relazione al caso di specie, che la scopertura assicurativa rappresenti l’elemento costitutivo della domanda di garanzia spiegata nei confronti della compagnia designata dal FGVS, anche se si tratta di una prova negativa (cfr. in termini Cass. 384/2007; Cass. 14854/2013 e, più specificamente Cass. 26991/2017), le censure proposte, lungi dal denunciare alcuna effettiva violazione del paradigma dell’art. 2697 c.c., nonché di quello dell’art. 116 c.p.c., si limitano a lamentare unicamente una pretesa erronea valutazione di risultanze probatorie.

5.6. Preliminarmente, non è inutile rimarcare come la violazione dell’art. 2697 c.c., si configuri nel caso in cui il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (cfr. Sez. U., Sentenza n. 16598 del 05/08/2016): in buona sostanza, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 11892/2016).

6. Nel caso di specie, i ricorrenti errano nel ritenere che nell’istruttoria siano state raccolte “prove legali”, in quanto il compendio probatorio è costituito dalle prove testimoniali assunte e dall’interrogatorio formale deferito ad una parte che era (ed è) litisconsorte necessario della compagnia di assicurazione evocata in giudizio dall’altra (L. n. 990 del 1969, ex art. 23, applicabile ratione temporis, norma successivamente trasposta nel D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 291, comma 4), qualità che, ex art. 2733 c.c., comma 2, preclude di assegnare valore di prova legale alla confessione su fatti che riguardino entrambi, visto che la norma testé richiamata, in tali casi, rimette esplicitamente al libero apprezzamento del giudice la valutazione delle dichiarazioni rese.

7. Per il resto, le censure si risolvono in una critica alla motivazione.

Vale solo la pena di rilevare, al riguardo, che l’esame della prova testimoniale è rimessa all’insindacabile funzione valutativa del giudice di merito, essendo fondata sul principio del libero convincimento; che la circostanza, apparentemente contraddittoria, rappresentata dall’azione di rivalsa spiegata dalla compagnia, non configura una condotta processuale significativa e significante, volta a dimostrare l’ammissione della scopertura assicurativa contestata, in quanto essa era ragionevolmente imposta da un comportamento difensivo prudenziale; infine, il principio di “vicinanza della prova” è stato invocato in modo talmente generico da risultare recessivo rispetto a tutte le altre argomentazioni prospettate, anche in ragione della circostanza opposta dalla compagnia di assicurazione, concernente l’assenza, all’epoca dei fatti (2003), di un sistema informatico tale da consentire una agevole verifica della copertura assicurativa dei veicoli interessati.

8. Pertanto, il Collegio ritiene che la Corte territoriale sia pervenuta ad una valutazione delle emergenze istruttorie che, pur con motivazione sintetica, mostra di essersi attenuta alla ripartizione degli oneri probatori affermati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, tanto da poter essere considerata al di sopra della sufficienza costituzionale: essa, infatti, può essere agevolmente ricondotta alle ragioni sopra illustrate che rendono entrambi i ricorsi – principale ed incidentale – infondati.

9. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui sono tenuti per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuti.

P.Q.M.
La Corte;

rigetta il ricorso principale e quello incidentale.

Condanna il ricorrente principale e quello incidentale, in solido, alle spese del giudizio di legittimità in favore della parte controricorrente, spese che liquida in Euro 2900,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021