Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 07-05-2021) 29-09-2021, n. 26308

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18053/2019 proposto da:

Avv. D.C., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da sè medesimo;

– ricorrente –

e contro

SPEZIA RISORSE SPA, COMUNE di LA SPEZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 99/2019 del TRIBUNALE di LA SPEZIA, depositata il 11/02/2019;

1335 udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/05/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Svolgimento del processo
Con ricorso della L. n. 689 del 1981, ex art. 22, D.C. propose, dinanzi al Giudice di pace di La Spezia, opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento n. prot. 1148/2442 del 14 gennaio 2013, emessa da Spezia Risorse S.p.a. per l’importo di Euro 502,57, relativa a verbali di infrazione del C.d.S., lamentando l’inesistenza della notifica, il vizio di motivazione, la violazione dell’art. 112 c.p.c., l’inutilizzabilità dell’ingiunzione fiscale per la riscossione di sanzioni amministrative, la carenza di potere del concessionario e l’illegittimità della maggiorazione semestrale e chiedendo “nel merito, in via principale, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua per i motivi suesposti; nel merito, in subordine, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua, relativamente alla sanzione L. n. 689 del 1981, ex art. 27; con vittoria di spese, diritti, onorari ed accessori di legge”.

Si costituì Spezia Risorse S.p.a. che chiese il rigetto dell’opposizione e la chiamata, in causa dell’ente creditore, Comune di La Spezia, che si costituì e chiese, a sua volta, il rigetto della domanda.

Il Giudice adito, con sentenza n. 420/2013, pubblicata il 23 settembre 2013, rigettò la domanda avanzata con l’opposizione.

Avverso tale decisione il D. propose appello, cui resistettero entrambi gli appellati.

Il Tribunale di La Spezia, con sentenza n. 99/2019, pubblicata in data 11 febbraio 2019, rigettò il gravame e condannò l’appellante alle spese di quel grado del giudizio.

Avverso la sentenza del Tribunale D.C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo è così rubricato: “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) ed e) e artt. 19 e 24, nonché degli artt. 101 e 115 c.p.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della carenza di potere del concessionario”.

Con tale mezzo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto tardivamente proposte le doglianze relative alla carenza di potere, del concessionario per incompetenza e alla decadenza della ingiunzione di pagamento, per essere state introdotte soltanto con la comparsa conclusionale di secondo grado, sul rilievo che trattavasi di motivi ulteriori di invalidità dell’atto opposto la cui deduzione integrava domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi.

Ad avviso del ricorrente si tratterebbe, invece, di eccezioni o mere difese, sempre deducibili e rilevabili anche d’ufficio.

1.1. Il motivo è infondato, in quanto, essendo stato introdotto in primo grado un rimedio impugnatorio, non era possibile già nel prosieguo del primo grado introdurre nuovi motivi a sostegno dell’opposizione e a maggior ragione ciò non era più possibile con la comparsa conclusionale in appello, come correttamente affermato dal Tribunale.

Questa Corte ha peraltro ha già avuto occasione di precisare che l’opposizione all’ingiunzione fiscale integra una domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione stessa, rispetto alla quale l’opponente assume la veste di attore. Ne consegue che il mutamento, in grado di appello, della ragione addotta a sostegno dell’indicata illegittimità configura non un’eccezione nuova – proponibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 – bensì una modificazione della causa petendi e, quindi, dell’originaria domanda, soggetta alla preclusione di cui del citato art. 345, comma 1 (Cass., ord., 4/12/2018 n. 31256, relativa proprio ad una fattispecie inerente alla riscossione di una sanzione amministrativa irrogata per la violazione del C.d.S.), nè quelle dedotte nella comparsa conclusionale in appello possono qualificarsi, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, quali mere difese, sicché avrebbero dovuto, comunque, essere tempestivamente e ritualmente sollevate.

1.2. Va pure rilevato che la sentenza è motivata e che i vizi motivazionali indicati in rubrica, oltre a non essere sussistenti nella specie, neppure risultano indicati nell’illustrazione del mezzo.

2. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26… del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 149 c.p.c.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto delle nullità – inesistenza della notifica”, il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta, pur in. assenza della compilazione della relata di notifica, trascurando, ad avviso del D., di tener conto del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 26 e 60.

2.1. Il motivo è inammissibile in quanto non si correla con la motivazione specificamente enunciata sul punto dal Tribunale, che ha pure richiamato espressamente al riguardo pertinenti precedenti giurisprudenziali (v. sentenza impugnata p. 2-3).

Inoltre, l’illustrazione del motivo si articola anche con considerazioni che suppongono la conoscenza del tenore della notificazione in questione che non viene testualmente riportata nè del relativo atto sono fornite le indicazioni specifiche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

2.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

3. Con il terzo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), il D.Lgs. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, sulla “Motivazione del provvedimento”, quale rubrica aggiunta dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 21. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della motivazione per relationem della ingiunzione di pagamento” (così testualmente), il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove il Tribunale ha ritenuto che la motivazione per relationem sia da ritenersi valida e sufficiente, contenendo l’ingiunzione quantomeno gli estremi dei verbali che sarebbero stati notificati, dei quali il ricorrente deduce, invece, di averne contestato la notificazione, e sostiene che gli estremi dei verbali non contenenti neppure la violazione contestata né il luogo e il tempo della stessa, ancorché fossero stati richiamati, non avrebbero permesso di integrare la motivazione richiesta all’atto amministrativo, non essendo stati né allegati o riprodotti; assume; infine, che “l’adeguata motivazione dell’atto impositivo deve esserci intesa in un rapporto di relazione con il diritto di difesa del contribuente che deve essere posto in condizione tale da esercitare pienamente il proprio diritto di difesa”.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Ed invero le censure proposte sono del tutto generiche in quanto non viene riportato quando e i quali esatti termini la prospettazione di quanto dedotto in ricorso sia stata fatta valere nel giudizio di merito e tanto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

A quanto precede va aggiunto che il ricorrente neppure ha criticato le specifiche argomentazioni volte dal Tribunale, in particolare con riferimento all’avvenuta notificazione dei verbali al contravventore, come accertato dal primo Giudice con statuizione non specificamente contestata dall’appellante, e con riferimento alla ritenuta insussistenza del vizio di motivazione della sentenza appellata, dovendosi presumere la conoscenza in capo al ricorrente dei verbali presupposti richiamati nell’atto impugnato, stante l’avvenuta notificazione degli stessi e considerato che, anche a prescindere dalla previa notifica, la menzione degli estremi dei verbali consentiva al D. l’esercizio del diritto all’accesso degli stessi (v. sentenza impugnata, p. 3 e 4).

3.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2.

4. Il quarto motivo è così, rubricato; “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del R.D. n. 639 del 1910, artt. 2 e 3, L. n. 689 del 1981, art. 27, richiamato dall’art. 206 C.d.S.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della validità del procedimento di cui al R.D. n. 639 del 1910”.

Con il mezzo all’esame il ricorrente censura l’affermazione del Giudice del merito secondo cui anche i Comuni possono avvalersi della riscossione di cui all’ingiunzione fiscale anche per il tramite di agenti di riscossione. Ad avviso del D., invece, le società locali di accertamento e riscossione delle entrate, anche nel caso rispecchino il modello speciale previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, comma 5, lett. b), non sarebbero legittimate a procedere alla riscossione dei proventi derivanti da violazione del C.d.S. mediante ingiunzione di cui al R.D. n. 639 del 1910.

4.1. Il motivo è infondato.

Il ricorrente neppure si cura di mettere in discussione il pertinente precedente di legittimità richiamato dal Tribunale.

Comunque, l’affermazione del Tribunale che viene in questa sede contestata e secondo cui ben può il concessionario per la riscossione di emettere l’ingiunzione di cui a R.D. n. 639 del 1910, è del tutto corretta al luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che il Collegio condivide e al quale va data continuità in questa sede, secondo cui ai fini del recupero delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del C.d.S., i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite ingiunzione, di cui al R.D. n. 639 del 1910, anche affidando il relativo servizio ai concessionari, iscritti all’albo di cui al D.Lgs. n. 44 del 1997, art. 53, essendo tale affidamento consentito dal D.L. n. 209 del 2002, art. 4, comma 2 sexies, del quale non è intervenuta l’abrogazione – pure inizialmente disposta dal D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2, conv. con mod. nella L. n. 106 del 2011 – non essendo entrate in vigore le disposizioni cui essa era subordinata (Cass., ord., 28/09/2017, n. 22710; v., in senso conforme, Cass. 21/03/2019, n. 8039 e Cass., ord., 20/02/2020, n. 4501).

4.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

5. Con il quinto motivo si deduce “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione de(…) (ll’) L. n. 689 del 1981, art. 27. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della maggiorazione del di(e)ci per cento semestrale”.

Il ricorrente censura l’affermazione del Tribunale secondo cui la maggiorazione del dieci per cento semestrale è legittima quale sanzione aggiuntiva da ritardo” senza null’altro affermare in relazione alle doglianze sollevate al riguardo.

Ad avviso del ricorrente, tale maggiorazione non sarebbe invece dovuta, in quanto la L. n. 689 del 1981, art. 27, riguarderebbe il caso in cui sia stata omessa un’ordinanza o una sentenza “di cui non vi è prova o notizia”.

5.1. Il motivo è infondato. Ed infatti il richiamo alla L. n. 689 del 1981, art. 27, operato dall’art. 206 C.d.S., è integrale; pertanto, la tesi del ricorrente non può essere in alcun modo condivisa, evidenziandosi che, pur non rinvenendosi precedenti specifici sul punto, l’affermazione del Tribunale trova implicita conferma nella giurisprudenza richiamata da quello stesso Giudice ed in quella successiva, che si è espressa in senso conforme, pur se taluni arresti si riferiscono a cartella di pagamento, in quanto i principi ivi affermati ben possono essere applicati al caso di specie. Si fa al riguardo riferimento a Cass., ord., 23/03/2021, n. 8116, secondo cui in materia di sanzioni amministrative (nella specie per violazioni stradali), la maggiorazione del dieci per cento semestrale, della L. n. 689 del 1981, ex art. 27, per il caso di ritardo nel pagamento della somma dovuta, ha natura di sanzione aggiuntiva, che sorge dal momento in cui diviene esigibile la sanzione principale sicchè è legittima l’iscrizione a ruolo, e l’emissione della relativa cartella esattoriale, per un importo che includa, oltre a quanto dovuto per la sanzione principale, anche l’aumento derivante dalla sanzione aggiuntiva (v. anche Cass. 20/10/2016, n. 21259, alla cui esaustiva motivazione si rinvia, e Cass. 1/02/2016, n. 1884).

5.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

7. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.

8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del, gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 28-04-2021) 27-09-2021, n. 26099

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28333-2019 proposto da:

BUSINESS FOR FUN SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V. ELEONORA D’ARBOREA 30, presso lo studio dell’avvocato BERNARDO CARTONI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1004/15/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 06/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 28/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE CAPOZZI.

Svolgimento del processo
che la s.r.l. “BUSINNES FOR FUN” propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza CTR Lombardia, di rigetto dell’appello proposto avverso una decisione CTP Milano, che aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso per omessa produzione degli originali delle tre cartelle di pagamento impugnate; in particolare, la CTR ha ritenuto che la notifica delle tre cartelle di pagamento impugnate, avvenuta a mezzo PEC, era rituale, in quanto le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, pur se con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”, erano entrambe validi ed efficaci; ha ritenuto comunque tardivo il ricorso proposto dalla società contribuente; ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità della previsione di un compenso per la riscossione; ha infine ritenuto tardiva l’eccezione di non conformità all’originale delle copie cartacee degli atti prodotti, siccome sollevata solo in appello.

Motivi della decisione
che il ricorso è affidato ad un unico motivo, con il quale la società ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 1, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 20, comma 1-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto erroneamente la sentenza impugnata aveva affermato che la PEC, con la quale le tre cartelle le erano state notificate, aveva il crisma dell’autenticità, sebbene i files contenenti le cartelle avessero un’estensione “pdf” e non “p7m”; al contrario, l’allegato al messaggio PEC, riproduttivo delle cartelle esattoriali notificate, doveva rappresentare un vero e proprio documento informatico, dotato di firma digitale, si da dover essere generato in formato “p7m”, estensione che rappresentava la c.d. busta crittografica, contenente al suo interno il documento originale, l’evidenza informatica della firma e la chiave per la sua verifica; pertanto la notifica delle tre cartelle, di cui era causa, era da qualificare come giuridicamente inesistente, con la conseguenza che il ricorso di essa società non era tardivo; quanto rappresentato dalla CTR non era condivisibile, avendo essa fatto riferimento ad una sentenza della Cassazione non applicabile alla specie in esame, siccome riferita alla notifica con modalità telematiche degli atti del processo, mentre, nella specie, trattavasi della notifica di cartelle di pagamento, che erano atti amministrativi di natura impositiva, per i quali la riproduzione in formato pdf non era idonea a garantire le esigenze di sicurezza, integrità ed immodificabilità del documento, che potevano assicurare solo i files con estensione “p7m”;

che l’Agenzia delle entrate riscossione (ADER) si è costituita con controricorso;

che l’unico motivo di ricorso proposto dalla società ricorrente è infondato;

che correttamente la CTR ha ritenuto che le tre cartelle di pagamento impugnate fossero state ritualmente notificate alla società ricorrente a mezzo PEC, atteso che, per la validità di detta notifica, non era necessario che i documenti trasmessi avessero estensione “p7m”, essendo sufficiente che essi avessero estensione “pdf”;

che invero la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. SS. UU. n. 10266 del 2018) ha escluso la sussistenza dell’obbligo esclusivo di usare la firma digitale in formato CADES, nel quale il file generato si presenta con l’estensione finale “p7m”, rispetto alla firma digitale in formato PADES, nel quale il file sottoscritto mantiene il comune aspetto “nomefile.pdf”, atteso che anche la busta crittografica generata con la firma PADES contiene pur sempre il documento, le evidenze informatiche ed i prescritti certificati, si che anche tale ultimo formato offre tutte le garanzie e consente di effettuare le verifiche del caso, anche secondo il diritto Euro unitario, non essendo ravvisabili elementi obiettivi, in dottrina e prassi, tali da far ritenere che solo la firma in formato CADES offra garanzie di autenticità, laddove il diritto dell’UE e la normativa vigente nel nostro paese certificano l’equivalenza delle due firme digitali, egualmente ammesse dall’ordinamento, sia pure con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”;

che, in ogni caso, l’eventuale irritualità della notificazione di un atto a mezzo PEC non ne comporta la nullità, se la consegna dello stesso ha comunque prodotto, come nella specie in esame, il risultato della sua conoscenza, ben potendosi applicare alla specie l’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 23620 del 2018); invero, la natura sostanziale e non processuale delle cartelle di pagamento non esclude l’applicabilità alla notifica delle stesse delle norme dettate in materia processuale, essendo tali ultime norme espressamente richiamate nella disciplina tributaria qualificabile come “amministrativa”; e il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, concernente la notifica delle cartelle di pagamento, rinvia al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in materia di notifica degli avvisi di accertamento; e quest’ultimo articolo rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, ivi compresa la norma di cui sopra citata, art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 6417 del 2019);

che è pertanto da ritenere che la CTR abbia fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziale vigenti in materia di notifiche di cartelle di pagamento a mezzo PEC;

che il ricorso in esame va pertanto respinto, con condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali, quantificate come in dispositivo;

che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto dalla società contribuente e la condanna al pagamento delle spese processuali, quantificate in complessivi Euro 5.200,00, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 06/07/2021) 15/09/2021, n. 24880

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11277/2015 R.G. proposto da:

P.R., rappresentato e difeso dall’avv. Attilio Panagrosso, presso cui è elettivamente domiciliato in Cimitile al vico Carradori n. 1;

– ricorrente –

contro

Equitalia Sud S.p.A., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Fulvio Ceglio, presso con cui è elettivamente domiciliata in Roma alla via dei Pontefici n. 3, presso lo studio Capece Minutolo del Sasso;

– controricorrente –

e:

Camera di commercio di (OMISSIS) e Camera di commercio di (OMISSIS) – Registro delle imprese;

– intimate –

avverso la sentenza n. 8407/32/14 della Commissione tributaria regionale della Campania, pronunciata in data 11 luglio 2014, depositata in data 3 ottobre 2014 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 luglio 2021 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
che:

P.R. ricorre con un unico motivo avverso Equitalia Sud S.p.A., la Camera di commercio di (OMISSIS) e la Camera di commercio di (OMISSIS) – Registro delle imprese – per la cassazione della sentenza n. 8407/32/14 della Commissione tributaria regionale della Campania, pronunciata in data 11 luglio 2014, depositata in data 3 ottobre 2014 e non notificata, che ha accolto parzialmente l’appello dell’ufficio, in controversia concernente l’impugnativa di un estratto di ruolo relativo a numerose cartelle di pagamento, di cui il contribuente contestava di aver ricevuto la notifica;

con la sentenza impugnata la C.t.r. ha ritenuto che delle notifiche delle cartelle specificamente indicate fossero avvenute regolarmente mediante consegna alla sorella del destinatario o a persona addetta alla casa e che le relate risultavano sottoscritte dal soggetto ricevente;

per quanto ancora di interesse, la C.t.r. riteneva, inoltre, che la mancata (indicazione, nella relata, della qualità di convivente accanto al nome della sorella del destinatario, non comportasse la nullità della notifica, che era avvenuta presso l’abitazione di quest’ultimo;

a seguito del ricorso, Equitalia Sud S.p.A. si è costituita e resiste con controricorso, mentre la Camera di commercio di (OMISSIS) e la Camera di commercio di (OMISSIS) – Registro delle imprese – sono rimaste intimate;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 6 luglio 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

il contribuente ha depositato memoria telematica.

Motivi della decisione
che:

con l’unico motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione delle norme che disciplinano la notifica degli atti a persona diversa del destinatario;

secondo il ricorrente, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 7, in tema di notificazione di atti a mezzo del servizio postale e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari, il rapporto di convivenza del familiare, a cui viene materialmente consegnato l’atto, deve essere esplicitamente indicato nella relata di notifica; nel caso di specie, invece, nella relata non sarebbe stato indicato il rapporto di convivenza della sorella del contribuente, che materialmente ha ricevuto la notifica delle cartelle di pagamento contestate;

inoltre, rileva il ricorrente che la L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 36, comma 2-quater di conversione del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 (decreto cd. Milleproroghe), ha aggiunto alla L. n. 890 del 1982, art. 7, ulteriore comma, il quale prevede che “se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”;

secondo il ricorrente, la previsione, che apparentemente ricalca la disciplina prevista dall’art. 139 c.p.c., se ne discosta poichè prevede la comunicazione dell’avvenuta notifica in tutte le ipotesi in cui l’atto non viene consegnato personalmente al destinatario della notifica;

di contro l’art. 139 c.p.c., onera l’ufficiale giudiziario incaricato della notifica a spedire l’avviso dell’avvenuta notificazione solo nell’eventualità che l’atto venga consegnato al portiere dello stabile ovvero ad un vicino di casa del destinatario che accetta di riceverlo (cfr. art. 139, commi 3 e 4);

inoltre, la previsione contenuta nell’art. 36, comma 2-quinquies, sancisce che “la disposizione di cui al comma 2-quater, si applica ai procedimenti di notifica effettuati, ai sensi della citata L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Le notificazioni delle sentenze già effettuate, ai sensi della citata L. n. 890 del 1982, art. 7, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto non producono la decorrenza del relativo termine di impugnazione se non vi è stata consegna del piego personalmente al destinatario e se è provato che questi non ne ha avuto conoscenza”;

al riguardo osserva il ricorrente che la legge di conversione del c.d. Decreto Milleproroghe è entrata in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 29 febbraio del 2008 n. 51, data da cui far decorrere gli effetti delle novità introdotte;

per il caso di notifiche avvenute a mezzo posta, qualora il notificatore non abbia spedito l’avviso, cosi come richiesto della L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, si verifica un’ ipotesi di mancato perfezionamento della notifica e/o di nullità della stessa;

dunque, secondo il ricorrente, la Commissione regionale avrebbe dovuto dichiarare nulle le notifiche impugnate, perchè tutte consegnate a persona diversa dal destinatario, senza essere seguite dalla raccomandata, così come prescritto dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6;

il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile, perchè difetta di autosufficienza;

invero, la C.t.r. ha accertato che, in ordine alla notifica delle quattro cartelle di pagamento contestate, la prima (contrassegnata nella sentenza impugnata con la lettera a) era stata regolarmente eseguita ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3;

in particolare, la norma citata, prevede che “nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c., la notificazione della cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune”;

nel ricorso non è rinvenibile alcuna doglianza specifica su tale statuizione, pertanto deve ritenersi che l’accertamento del giudice di appello sul punto non sia stato in alcun modo impugnato;

in relazione alla notifica delle ulteriori cartelle (contrassegnate nella sentenza impugnata con le lettere b, c, e d), la C.t.r ha ritenuto che l’Equitalia avesse prodotto le relate della notifica, debitamente sottoscritte dai soggetti riceventi (per le prime due la sorella del destinatario e per la terza un’adetta alla casa) e che fossero riconducibili con sicurezza alle cartelle contestate;

in particolare, con riferimento alle notifiche consegnate alla sorella del destinatario, la C.t.r. ha ritenuto che non vi fosse alcuna nullità della notifica nel caso in cui nella relata non fosse indicato il rapporto di convivenza;

la soluzione della C.t.r. appare in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, eseguita mediante consegna dell’atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno provvisorio, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l’atto da notificare, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l’onere di fornire” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 28591 del 29/11/2017; Sez. 5, Sentenza n. 27587 del 30/10/2018); pertanto, risulta destituito di fondamento l’assunto del ricorrente, secondo cui, in ordine alla notifica delle cartelle di pagamento ricevute materialmente dalla sorella del contribuente, il rapporto di convivenza, non manifestato all’ufficiale giudiziario, non poteva presumersi;

sotto altro profilo, il ricorrente sostiene la nullità della notifica delle cartelle (evidentemente quelle contrassegnate nella sentenza impugnata dalle lettere b, c e d) recapitate materialmente alla sorella del destinatario ed all’addetta alla casa, in quanto la consegna sarebbe avvenuta a persona diversa dal destinatario senza l’inoltro della successiva raccomandata informativa, prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, come introdotto dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 36 comma 2-quater di conversione del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248;

ai sensi dell’articolo citato, “L’agente postale consegna il piego nelle mani proprie del destinatario, anche se dichiarato fallito (…) Se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”;

sul punto Equitalia contesta l’applicabilità della normativa richiamata dal ricorrente, in quanto afferma di aver effettuato le notifiche a mezzo del messo notificatore e non a mezzo posta;

di fronte alle contestazioni specifiche della controricorrente ed in assenza di un univoco accertamento fattuale in sentenza sulle circostanze contestate, il ricorrente avrebbe dovuto indicare le specifiche modalità di notifica delle cartelle di pagamento, per consentire al collegio l’esame della ricorrenza dei presupposti per l’applicazione della normativa invocata;

nè la mancanza di autosufficienza del ricorso può essere sanata dalla produzione della copia delle relate da parte della controricorrente, peraltro a dimostrazione che la notifica non è stata effettuata a mezzo posta;

“i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza” (Cass. Sez. 5, Sentenza n, 29093 del 13/11/2018);

nel caso di specie, in cui il ricorrente deduce la nullità delle notifiche per il mancato invio della raccomandata informativa, prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, la trascrizione della relata avrebbe consentito alla Corte di verificare le modalità della notifica e se la normativa invocata dal ricorrente era applicabile in concreto;

con la memoria depositata telematicamente, il ricorrente invoca, invece, l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 60, lett. b-bis, a seguito della modifica introdotta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 27, lett. a), conv. dalla L. 4 agosto 2006 n. 248, valevole non solo per le notifiche degli avvisi di accertamento, ma anche per quelle delle cartelle di pagamento, in quanto richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c.;

il riferimento, nella memoria illustrativa, a norme che non si riferiscono alla notifica a mezzo posta e che sono del tutto diverse da quelle di cui si è denunziata la violazione in ricorso, concorre ad ingenerare confusione sulle modalità di notifica concretamente adottate ed evidenzia ulteriormente la carenza di autosufficienza del ricorso;

le spese seguono la soccombenza di parte ricorrente e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre il 15% per spese generali, Euro 200,00 per esborsi, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/11/2020) 12/08/2021, n. 22752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23563-2012 proposto da:

EVICAR SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MISIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO DE BENEDICTIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE (OMISSIS) – AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SRT;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 116/2011 della COMM. TRIB. REG. della LOMBARDIA, depositata il 20/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MELE. Per la cassazione della sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia n. 116/49/2011, depositata il 20/07/2011.

Udita la relazione della causa svolte nelle camere di consiglio del 10 dicembre 2020 e del 24 maggio 2021 dal relatore, cons. Francesco Mele.

Svolgimento del processo

che:

– Evicar srl proponeva separati ricorsi avverso avvisi di accertamento relativi a IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno d’imposta 2002 – traenti origine da un PVC della Guardia di Finanza.

– Nel contraddittorio tra le parti, la commissione tributaria provinciale di Cremona rigettava i ricorsi, previamente riuniti, con sentenza che era gravata di appello da parte della società contribuente.

– La commissione tributaria regionale rigettava l’appello.

– Per la cassazione della predetta sentenza la contribuente propone ricorso affidato a tre motivi, al quale resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione

che:

– La ricorrente ha depositato in data 27.11.2019 istanza con cui- dopo avere premesso di trovarsi in fase di esecuzione di concordato preventivo omologato- ha chiesto rinviarsi la trattazione del giudizio, a ragione dell’ivi rappresentato imminente pagamento della obbligazione tributaria per cui è causa, nella misura prevista dalla proposta di concordato preventivo, il che avrebbe comportato la cessazione della materia del contendere; allegava nota del Commissario liquidatore, con acclusa istanza autorizzativa di rinuncia al ricorso, e contenente la precisazione che il pagamento del credito vantato dalla Agenzia delle Entrate non avrebbe potuto avere luogo prima del 15 dicembre 2019: da qui la necessità di differire la trattazione della causa.

– Preso atto di quanto precede e rilevata la evidente opportunità, il collegio ha disposto che la causa venisse rinviata a nuovo ruolo.

– La causa è stata poi trattata all’adunanza camerale del 24.11.2020. – Successivamente all’adunanza parte contribuente ha depositato istanza di cessazione della materia del contendere, veniva disposta rituale riconvocazione del collegio per il 24 maggio 2021. – All’esito della odierna camera di consiglio così fissata, il collegio osserva che risultano versati in atti i modelli F24 attestanti avvenuti pagamenti relativi agli atti impositivi per cui è causa.

– Considerato che non sussiste una perfetta coincidenza tra i versamenti effettuati e gli importi portati negli atti impositivi, va, comunque, rilevata la sopravvenuta carenza di interesse della contribuente -che ha dedotto, appunto, la cessazione della materia del contendere- alla prosecuzione del giudizio con conseguente inammissibilità del ricorso.

– Spese compensate.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spese compensate.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020, il 24 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 13-07-2021) 30-07-2021, n. 21970

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6178-2019 proposto da:

M.A., ME.TI., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati NICOLA SCOTTI GALLETTA, MARCO SCOTTI GALLETTA ed ANTONIO SCOTTI GALLETTA;

– ricorrenti –

contro

ZINCONIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 504, presso lo studio dell’avvocato NICOLA IELPO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

F.S., B.D.O.J.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2/2019 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 07/01/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, la quale chiede che le Sezioni Unite accolgano il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle restanti censure.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18 marzo 2008, la Spinone s.r.l. chiese l’accertamento della simulazione o, in subordine, la revoca ex art. 2901 c.c. di due successivi contratti di compravendita, conclusi l’uno in data 11 aprile 2005 e l’altro il 15 aprile 2005, aventi ad oggetto il medesimo immobile, il primo stipulato tra i venditori Me.Ti. ed M.A. e l’acquirente F.S., ed il secondo tra quest’ultima e B.D.O.J..

Il Tribunale di Tempio Pausania accolse la domanda di simulazione assoluta dei due contratti di compravendita.

Con sentenza del 7 gennaio 2019, n. 2, la Corte d’appello di Cagliari, sezione di Sassari, adita dai soccombenti, ha respinto l’impugnazione.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che non fosse inesistente, nè nullo l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, proposto dalla Spinone s.r.l., rappresentata dall’amministratrice unica D.P.C., sebbene tale società fosse stata cancellata dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l., e ciò per un duplice argomento: perchè la fusione comporta, a norma dell’art. 2504-bis c.c., una mera vicenda evolutivo-modificativa del medesimo soggetto, che permane e conserva la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo; perchè, in ogni caso, l’incorporante si è costituita all’udienza del 6 maggio 2011 innanzi al Tribunale, ratificando l’operato dell’amministratrice della incorporata, donde l’efficacia sanante degli atti compiuti dal falsus procurator.

Nel merito, ha ritenuto infondato sia il motivo concernente la simulazione dell’intero contratto di compravendita del bene immobile, sebbene in comproprietà con la M., non debitrice della società istante, sia il motivo sull’esistenza di idonei elementi a prova della simulazione.

Avverso questa sentenza i soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Si difende con controricorso la Zinconia s.r.l..

Proposta la trattazione presso la Sezione VI-3, con ipotizzato rigetto del primo motivo di ricorso per la permanenza in vita del soggetto incorporato, su istanza dei ricorrenti la causa è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite con decreto del 25 settembre 2020, essendosi riscontrato un contrasto di giurisprudenza, con riguardo alla legittimazione processuale della società incorporata cancellata dal registro delle imprese.

Il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri due.

Entrambe le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
I. – I motivi.

I motivi del ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell’art. 1722 c.c., comma 1, n. 4, e art. 2495 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 83 c.p.c., art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 2 e 4, e art. 164 c.p.c., in quanto, essendo stata cancellata la Spinone s.r.l. dal registro delle imprese per incorporazione ed essendosi, quindi, estinta, il suo ex amministratore unico, ormai decaduto dalla carica, non avrebbe potuto agire in giudizio per conto della società, nè rilasciare la procura al difensore, ma il giudizio avrebbe dovuto essere, semmai, proposto dalla società incorporante, cui il diritto di credito si è trasferito a seguito della fusione; invece, la sentenza di primo grado è stata resa nei confronti della Spinone s.r.l. ed i ricorrenti solo nell’eseguire le visure camerali, in vista dell’atto di appello, si sono avveduti della cancellazione della società dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l.. In definitiva, l’atto di citazione e l’intero procedimento sono inesistenti o, in subordine, viziati da nullità assoluta, in quanto la vocatio in ius proviene da soggetto inesistente; nè la corte d’appello avrebbe potuto ritenere sanato il rapporto processuale mediante la costituzione in giudizio della Zinconia s.r.l. in primo grado;

2) in via subordinata, violazione e falsa applicazione dell’art. 1413 c.c. e art. 100 c.p.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, non avendo la sentenza impugnata considerato la circostanza della comproprietà dell’immobile in capo alla M., non in comunione dei beni con il Me., e della quale la società attrice non era creditrice, onde al più si sarebbe potuta dichiarare la simulazione del contratto solo per la quota del 50%;

3) sempre in via subordinata, falsa applicazione degli artt. 1414 e 2729 c.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, quanto alla prova della simulazione, che non avrebbe potuto essere dichiarata sulla base degli insufficienti elementi presuntivi in atti.

II. – La “sorte” della società incorporata o fusa.

Gli argomenti esposti dalla corte del merito impongono di ricostruire i profili societari delle operazioni c.d. straordinarie, ed in particolare della fusione.

1. – Le operazioni sociali straordinarie.

1.1. – Le modificazioni che possono interessare il soggetto collettivo e la sua attività, pur nella permanenza dei soci e dell’intrapresa economica sul mercato, sono varie e di diversa intensità, da minima a massima.

Ci si vuol riferire a quelle varie operazioni che, usualmente di competenza dell’assemblea straordinaria, ma a volte anche degli amministratori, comportano un profilo di riorganizzazione dell’impresa e, dunque, ricevono una disciplina ad hoc, atta a renderla giuridicamente più agile ed economicamente meno onerosa, riducendo i costi di transazione.

Si va dal mutamento della denominazione, la quale lascia sussistere il medesimo soggetto, sia pure diversamente nominato; alla cessione e all’affitto di azienda o di ramo d’azienda, ove muta il gestore della stessa, senza modificazione nè soggettiva del concedente, nè oggettiva dell’azienda come universitas facti, quale complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), arrestandosi l’efficacia della vicenda modificativa al solo trasferimento della proprietà o godimento dell’azienda (art. 2556 c.c.); alla trasformazione, la quale del pari, sebbene sotto un’altra forma, lascia permanere l’ente nella sua originaria identità; sino alla fusione ed alla scissione, in cui, al contrario, almeno in alcuni casi e per taluni dei soggetti partecipanti (società incorporate, società fuse, società scissa che assegni l’intero suo patrimonio a più società), il mutamento è radicale, con la scomparsa di essi dalla scena giuridica, allo stesso modo dello scioglimento e della liquidazione della società, seguite dalla cancellazione dal registro delle imprese.

1.2. – Pertanto, è stato da tempo chiarito che il mutamento della denominazione sociale configura una modificazione dell’atto costitutivo (Cass. 28 giugno 1997, n. 5798), ma non determina l’estinzione dell’ente e la nascita di un nuovo diverso soggetto giuridico, comportando solo l’incidenza su di un aspetto organizzativo della società (fra le tante, Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089); del pari, si è precisato che, in caso di trasferimento della sede sociale all’estero, un mutamento di identità non potrebbe essere ricollegato al contemporaneo cambiamento della denominazione sociale, che non fa venir meno la “continuità” giuridica della società (Cass. 28 settembre 2005, n. 18944).

Nelle società di persone, parimenti, il mutamento della ragione sociale per effetto della sostituzione del socio, come accade per l’unico socio accomandatario ex art. 2314 c.c., determina esclusivamente una modificazione dell’atto costitutivo, ma non la nascita o il mutamento della società in un soggetto giuridico diverso, onde essa non si estingue, nè sorge una diversa società (Cass. 29 luglio 2008, n. 20558; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826, sia pure massimata, erroneamente, con riguardo alla medesimezza del soggetto nella trasformazione; Cass. 13 aprile 1989, n. 1781; con qualche episodica incertezza: cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12150, in tema di contenzioso tributario).

Gli stessi principi sono sottesi ad altre decisioni, pur rese in una prospettiva diversa, quale la tutela della denominazione in presenza del mutamento dell’oggetto sociale (Cass. 13 marzo 2014, n. 5931) ed a fronte della prospettata perdita dell’avviamento dovuta al mutamento del nome (Cass. 17 luglio 2007, n. 15950).

1.3. – La cessione di azienda è, del pari, evento che non tocca l’identità soggettiva del cedente e del cessionario, provvedendo agli artt. 2558 c.c. e ss. unicamente a regolamentare il subentro nei contratti, diritti ed obblighi aziendali e fermo restando, sul piano processuale, il regime della successione a titolo particolare nel diritto controverso, laddove ne ricorrano gli estremi: come tale, essa è presupposta nelle pronunce rese in materia (per tutte, Cass., sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5054; v., fra le altre, Cass. 10 dicembre 2019, n. 32134).

1.4. – Nella trasformazione – ove il cambiamento organizzativo è più intenso, trattandosi di modificare il tipo sociale o, addirittura, di trascorrere da una struttura societaria ad un’altra che non sia tale, e viceversa – resta che l’operazione comporta soltanto il mutamento formale dell’organizzazione societaria già esistente, non la creazione di un nuovo ente che si distingue dal vecchio, sicchè l’ente trasformato, quand’anche consegua la personalità giuridica di cui prima era sprovvisto (o al converso la perda), non si estingue per rinascere sotto altra forma, nè dà luogo ad un nuovo centro d’imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva; il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata resta di proprietà della medesima società, che non cambia, pur nella sua nuova veste e denominazione (v. Cass. 3 agosto 1988, n. 4815).

Tutte le successive decisioni hanno confermato tale principio: osservandosi, ad esempio, che la trasformazione della società in nome collettivo in società in accomandita semplice comporta soltanto il mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello originario, onde non incide sui rapporti sostanziali e processuali che al soggetto fanno capo (Cass. 25 marzo 1992, n. 3713).

Lo stesso si reputa nelle ipotesi di trasformazione da società personale a società di capitali (Cass. 12 novembre 2003, n. 17066; Cass. 4 novembre 1998, n. 11077), da società per azioni a s.r.l (Cass. 3 gennaio 2002, n. 26; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963), da s.r.l. a società per azioni (Cass. 13 settembre 2002, n. 13434), e così via.

Sino a ribadire costantemente che la trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione del soggetto e nella correlativa creazione di uno diverso, ma configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto (cfr., e plurimis, Cass., sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019; nonchè es. Cass. 19 maggio 2016, n. 10332; Cass. 20 giugno 2011, n. 13467; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass. 13 settembre 2002, n. 13434; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963, ed altre).

1.5. – Lo scioglimento della società, con la sua cancellazione dal registro delle imprese – per esplicito dettato normativo, all’evidenza volto a superare il regime di “diritto vivente” della permanenza in vita sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti – comporta, invece, l’estinzione della società (art. 2495 c.c.), con subentro dei soci a mò di successori universali per le eventuali sopravvenienze o sopravvivenze non contemplate nel bilancio di liquidazione (Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 e Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072).

2. – Il fenomeno della fusione di società.

Con tali fenomeni deve essere, a questo punto, confrontata la fusione di società.

Ai sensi dell’art. 2501 c.c., la fusione si attua mediante la costituzione di una nuova società o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre.

La peculiarità dell’operazione, analogamente alla scissione, sta nella prosecuzione dei soci nell’attività d’impresa mediante una diversa struttura organizzativa, una volta, evidentemente, venuto meno l’interesse, l’utilità o la possibilità di perseguirla con la società dapprima partecipata.

Sebbene i soci e i patrimoni dei conferenti restino sempre i medesimi che, a suo tempo, avevano concorso all’originario progetto economico mediante la costituzione della primigenia società, si ha che, in seguito, il perseguimento delle finalità economico-patrimonial-finanziarie, nell’esercizio dell’autonomia negoziale garantita dall’art. 41 Cost., avrà indotto ad una riorganizzazione di quella intrapresa, ancora più radicale rispetto ad altre, sopra prospettate.

Diversa certamente la situazione si presenta, dunque, in paragone a quella del mero scioglimento della società: dove l’entità economica viene liquidata e cessa di operare sul mercato, senza nessun subentro di un altro soggetto o la continuazione dell’impresa.

Non si può disconoscere pertanto che – al contrario che nello scioglimento e liquidazione della società – con la fusione l’operazione economica abbia il significato opposto: non l’uscita dal mercato, ma la permanenza dei soci sul medesimo, sia pure in forme diverse.

E, tuttavia, occorre pur ragionare se la società originaria – sia essa liquidata, incorporata o fusa – a seguito della cancellazione dal registro delle imprese si estingua come organizzazione e come soggetto dell’ordinamento giuridico, oppure no.

A riguardo dell’operazione di fusione, un certo disorientamento si è creato all’interno della Corte, donde la rimessione alle Sezioni unite. La ricerca del superamento delle incertezze, a fronte di soluzioni non sistematiche, è particolarmente auspicabile, considerando che la questione può involgere non soltanto ogni tipo di giudizio in cui sia parte una società, ma che anche altri settori dell’ordinamento, diversi dal diritto societario, sono suscettibili di seguire la stessa disciplina (cfr. es. art. 42-bis c.c., in tema di fusione e scissione di associazioni e fondazioni).

2.1. – La tesi della natura evolutivo-modificativa con sopravvivenza della società incorporata o fusa.

2.1.1. – E’ stata affermata, poco dopo l’entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la tesi secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504-bis c.c., la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo.

Si tratta della nota ordinanza Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637, la quale ha così escluso che la fusione per incorporazione determini l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c..

Per vero, dall’intera motivazione dell’ordinanza, resa in sede di regolamento di giurisdizione (su contratto d’appalto di servizi di biglietteria e distribuzione pubblicitaria, relativo alle manifestazioni promosse dalla Fondazione Accademia di Santa Cecilia, e che dichiarò la giurisdizione del giudice amministrativo) – procedimento in cui la ricorrente aveva chiesto fosse dichiarata, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., l’interruzione del processo di cassazione, in conseguenza della fusione per incorporazione della società stessa in altra società azionaria – emerge trattarsi di un’affermazione ad abundantiam, secondaria sia quanto al capo specifico, sia nel contesto della complessiva decisione.

In sostanza, la corte ha affermato dapprima il principio di diritto, secondo cui l’estinzione della società, ricorrente per cassazione, dopo il ricorso non determina l’interruzione del giudizio, dominato ormai dall’impulso d’ufficio; e, poi, ha smentito anche l’esistenza della premessa minore, aggiungendo che l’incorporazione non aveva prodotto l’estinzione della società incorporata, con conseguente disapplicazione radicale dell’istituto della interruzione del processo.

Se pure, pertanto, l’affermazione sulla mancata estinzione del soggetto incorporato non integri propriamente un obiter dictum quale passaggio della decisione estraneo al thema decidendum – dal momento che è almeno dubbio se, nel sillogismo giudiziario, volto in tal caso alla pronuncia processuale di interruzione del giudizio, debba costituire primario antecedente logico il presupposto di diritto (l’interruzione del processo non si applica in cassazione) o quello di fatto (la società non era estinta) – resta che l’affermazione non era necessitata.

2.1.2. – La tesi è stata, da allora, seguita da plurime decisioni, le quali hanno fatto proprio il pedissequo richiamo alla “vicenda meramente evolutivo-modificativa”, con esclusione dell’effetto successorio ed estintivo.

Si tratta di pronunce che, per lo più, hanno inteso risolvere questioni processuali, senza indagare le sottese tematiche societarie, ma guidate dal non celato fine di evitare aggravio di incombenti per le parti, ritardi nel processo o formalismi, reputati dal collegio privi di valore a tutela di posizioni od interessi sostanziali e, quindi, vitandi.

Così, quanto alla posizione processuale attiva della parte, alla società incorporata è stato attribuito il potere di impugnazione (fra le altre, cfr. Cass. 16 settembre 2016, n. 18188, che ha riformato la sentenza della corte di appello, la quale aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da società già cancellata dal registro delle imprese per fusione).

Con riguardo alla posizione processuale passiva, numerose pronunce hanno affermato che la società incorporata o fusa possa essere convenuta in giudizio.

Al riguardo, peraltro, una decisione (Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698) non attiene alla fusione post riforma, ma a quella anteriormente perfezionatasi. Essa si occupa di una vicenda processuale in cui sia l’atto di citazione, sia l’appello erano stati notificati alla società incorporata, nonostante la precedente iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione, concludendo per la radicale nullità “sia della vocatio in ius che della notifica dell’atto di citazione, dirette nei confronti di un soggetto non più esistente”, reputate “radicalmente nulle, non essendo stata tale nullità, rilevabile d’ufficio, neppure sanata dalla costituzione in giudizio del soggetto incorporante. Ne consegue l’inesistenza delle sentenze di primo e di secondo grado”. Dunque, la decisione non costituisce precedente, ai fini della questione in esame, in quanto attiene a vicenda ante riforma del 2003, pur avendo reputato necessario confutare, in presenza di estinzione, l’effetto interruttivo del processo a seguito di fusione.

Quanto all’essere la società incorporata destinataria dell’atto di impugnazione, una sentenza di poco posteriore alle citate Sezioni unite del 2006 ritenne ammissibile il ricorso per cassazione, in presenza della notificazione alla società parte del giudizio di merito, ma ormai incorporata in altra prima della notificazione del ricorso (Cass. 23 giugno 2006, n. 14526). La sentenza richiama due precedenti, in tema di mutamento dei soci e di trasformazione (Cass. 13 agosto 2004, n. 15737; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089), assimilando tali fenomeni, per vero diversi, alla fusione; inoltre, come questa Corte ha già rilevato (v. Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820), la pronuncia espressamente intese solo tutelare l’affidamento dell’impugnante nella sopravvivenza della società estinta.

La successiva sentenza delle Sezioni unite del 14 settembre 2010, n. 19509 ha affermato, ancora però in una fusione anteriore al 2004, che la società incorporata si estingue, e, ciò nonostante, non è nullo l’atto d’appello indirizzato alla società estinta e notificato presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, enunciando il principio per cui l’impugnazione è valida, se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della giuridica mediante la notificazione dello stesso; l’accento, qui, è posto sull’affidamento dell’altra parte processuale.

Nello stesso filone si iscrivono – stavolta con riguardo al testo come modificato nel 2003 – le ordinanze del 18 novembre 2014, n. 24498 e del 12 febbraio 2019, n. 4042, le quali hanno reputato ammissibile l’appello proposto nei confronti della società incorporata.

Altre recenti sentenze richiamano il principio dell’effetto c.d. evolutivo-modificativo, quando, però, ciò non sarebbe stato necessario: l’una, in quanto non occorreva negare l’estinzione dell’incorporata, per reputare che, a seguito della fusione, si abbia la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato o incorporante, essendo ciò il lineare portato della disposizione ex art. 2504-bis c.c. (Cass. 16 maggio 2017, n. 12119); l’altra, avendo invero reputato ammissibile il ricorso per cassazione da parte di società che aveva, sì, deliberato la fusione per incorporazione prima del ricorso, ma a quel momento non era stata ancora cancellata dal registro delle imprese, evento occorso solo dopo la notificazione del ricorso (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32208); la terza, perchè reputa collegati fra di loro in modo necessario due concetti, che in realtà non lo sono, quando afferma che “L’art. 2501 c.c., proprio perchè nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, induce a ritenere che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all’incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda”, ai soli fini della diversa questione dell’attribuzione alla società incorporante della qualifica di responsabile dell’inquinamento ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 253, Codice dell’ambiente (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32142).

Non possono rinvenirsi dei precedenti, invece, in quelle pronunce in materia tributaria (cfr. Cass. 4 marzo 2021, n. 5953; Cass. 23 luglio 2020, n. 15757; Cass. 17 luglio 2019, n. 19222), dove vigono, a quei fini, i principi della neutralità e della simmetria fiscale della fusione e della scissione di società (artt. 172 e 173 t.u.i.r.), i quali perseguono l’obiettivo di evitare che si pervenga alla incorporazione di società inattive a fini elusivi e alla fusione di “scatole vuote” o piene solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, esigendosi che la società abbia una residua efficienza, nell’ambito della c.d. disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale di cui al L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, inserito dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1.

2.2. – La tesi dell’estinzione con effetto devolutivo-successorio.

Di contro, una pluralità di decisioni ha mostrato una certa difficoltà a seguire la tesi opposta, distaccandosene gradualmente.

Di recente, così, si è enunciato il principio (Cass. 19 maggio 2020, n. 9137) secondo cui, ove la società sia incorporata in altra, la legittimazione attiva all’impugnazione spetta alla società incorporante.

Altra di poco anteriore decisione (Cass. 2 marzo 2020, n. 5640, non massimata) conclude per l’inammissibilità della domanda proposta dalla società incorporata, in quanto reputa legittimata all’azione la sola società incorporante; peraltro, in motivazione contiene un richiamo al dictum delle Sezioni unite del 2006, in concreto disatteso.

Già in precedenza, si era cominciato ad affermare che solo la società incorporante, non l’incorporata estinta per incorporazione, possa essere la destinataria dell’atto di impugnazione: premesso che il nuovo art. 2504-bis c.c. ha sancito il subentro in tutti i rapporti preesistenti anche processuali “all’evidente fine di evitare irragionevoli interruzioni del giudizio, contrarie, peraltro, ai principi del giusto processo”, essa ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto contro società già incorporata in altra (Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820).

Nello stesso senso ha ragionato una successiva decisione, la quale ha ritenuto necessaria destinataria dell’impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, la società incorporante, e non la incorporata, soggetto non più esistente a seguito della fusione: perchè l’art. 2504-bis c.c. prevede “la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda, non già la permanenza in vita della società incorporata fino alla cessazione dei rapporti che la riguardano, che implicherebbe anche una anomala e non prevista prorogatio sine die dei suoi organi rappresentativi” (Cass. 24 maggio 2019, n. 14177, pur richiamando, in motivazione, precedenti di orientamento vario ed ancora il tema dell’affidamento dell’altra parte del processo).

Possono ricordarsi, all’interno dei presupposti logico-giuridici di tale orientamento, anche le recenti decisioni (Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737; Cass. 19 giugno 2020, n. 11984) che, nel ragionare sulla fallibilità della società scissa nella scissione totalitaria, hanno respinto la tesi della scissione come fenomeno operante solo una modificazione dell’atto costitutivo, invece che successorio ed estintivo della società scissa.

Si tratta, dunque, di precedenti alquanto sporadici ed occasionali.

2.3. – Ricostruzione del sistema. Come è noto, il legislatore interno non ha dettato una disposizione specifica volta alla qualificazione giuridica della fusione societaria, nè ha indicato i suoi effetti sul piano soggettivo.

La ricostruzione del sistema positivo esige l’esame, condotto mediante i criteri ermeneutici imposti dall’art. 12 preleggi, della disciplina complessiva della fusione e degli elementi normativi evincibili dal sistema del codice civile e delle leggi speciali, in una col diritto interno dovendosi, altresì, tenere conto delle direttive comunitarie ed Eurounitarie, trattandosi di materia armonizzata.

2.3.1. – Come sopra esposto, le tesi sono state ispirate dal testo letterale – ante e post riforma del diritto societario, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – dell’art. 2504-bis c.c..

L’art. 2502 c.c. del 1942, comma 4 prevedeva che “la società incorporante o quella che risulta dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Si affermava dunque senz’altro – sul solco dell’elaborazione risalente al codice di commercio del 1882, che faceva riferimento, in tema di fusione, alle società che “cessano di esistere” (art. 194, comma 2) ed alle “società estinte” (art. 196) – che la fusione societaria realizza un fenomeno di successione a titolo universale, in virtù del quale si determina l’estinzione della società incorporata (in caso di fusione per incorporazione) o di tutte le società fuse (in caso di fusione propria) e la successione, rispettivamente della società incorporante o della nuova società risultante dalla fusione, in tutti i rapporti giuridici.

Nella successiva evoluzione, l’art. 2504-bis c.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, art. 13, dispose, sugli effetti della fusione, che “(l)a società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Il legislatore, peraltro, in tale occasione ritenne che non fosse suo compito prendere posizione sulla natura giuridica della fusione. Afferma, invero, la Relazione del Ministro di grazia e giustizia, concernente il D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, che una più analitica descrizione degli effetti della fusione “è sembrata da un lato superflua, dall’altro inopportuna, in base all’assunto che il compito del legislatore è quello di disciplinare il procedimento di fusione, piuttosto che quello di definire la natura giuridica dell’istituto, prendendo posizione sul dibattito fra coloro che ravvisano nella fusione un fenomeno di successione in universum ius e coloro che invece lo considerano alla stregua di una peculiare modificazione dell’atto costitutivo” (art. 13).

La disposizione attuale, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003, recita sugli “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Su tale diversa formulazione, taluni studiosi, seguiti dai precedenti sopra ricordati, hanno ritenuto di fondare la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione.

Può rilevarsi sin d’ora come si è trattato, da un lato, della migliore individuazione e descrizione dei soggetti fusi o incorporati; dall’altro lato, della più esplicita precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione; resta il riferimento ai diritti ed obblighi assunti.

Orbene, la detta modifica letterale è alquanto anodina allo scopo di fondare una tesi così radicale, qual è quella della vita sempiterna della società incorporata o fusa, che permarrebbe ad aeternum nonostante la irreversibile riorganizzazione – materiale e giuridica operata.

A ben vedere, poi, questa tesi potrebbe ritenersi in contrasto con lo stesso dettato letterale della nuova disposizione: che, se è vero abbia eliminato la parola “estinte”, ha però, nel contempo, ed in modo assai meno equivoco, anche stabilito che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne muta appunto il titolare, sebbene l’oggettivo rapporto resti il medesimo.

Ciò in piena coerenza, pertanto, con le varie forme di successione di un soggetto ad un altro come controparte contrattuale o nel singolo rapporto obbligatorio; mentre la “prosecuzione” dei rapporti processuali è disposizione del tutto coincidente con quella dell’art. 110 c.p.c., il quale prevede che il processo prosegue nei confronti del successore universale e che presuppone, tutto all’opposto, l’estinzione della parte originaria del processo.

Insomma, è perfettamente condivisibile l’idea che l’espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non autorizzi a ritenere che il soggetto incorporato non sia estinto; ed, anzi, in forza del diritto positivo, in particolare processuale, è proprio il contrario, laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto tutti i rapporti della parte venuta meno: il quale, nell’usuale linguaggio giuridico, viene denominato successore universale.

2.3.2. – E’, altresì, singolare che di tale pretesa dirompente novità la legge delega o la Relazione alla riforma del diritto societario non facciano parola, nè altro emerga dai lavori preparatori e dalle stesse riunioni della commissione ministeriale, incaricata della stesura dei decreti legislativi delegati, richiamandosi, piuttosto, nella Relazione al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il “rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria”.

2.3.3. – Ma ancor più stridente, sul piano sistematico, è la conclusione della mancata estinzione e permanenza, come soggetto giuridico, della società incorporata, se si considera l’innovativa questa sì – soluzione sancita nel contempo dall’art. 2495 c.c., comma 2, in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese.

E’ la nota questione degli effetti della cancellazione: prima della riforma del 2003 ritenuta non costitutiva dell’estinzione, reputandosi la società in vita sino all’integrale estinzione di tutti i rapporti attivi e passivi; dopo la riforma, in espressa contrapposizione a quel “diritto vivente”, voluta quale spartiacque definitivo tra la vita e la scomparsa della persona giuridica, che non può esistere dopo la cancellazione, ma si estingue definitivamente.

Non è qui il luogo per indagare il tema della possibile applicazione dell’art. 2191 c.c., ove l’iscrizione della cancellazione fosse stata disposta, per avventura, al di fuori delle condizioni previste dalla legge o dell’effettivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici.

Il punto qui di rilievo è un altro: ovvero che, nel mentre la scelta del legislatore della riforma societaria è stata quella, drastica, dell’estinzione dell’ente dopo la cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell’art. 2495 c.c., per la fusione si pretenderebbe il contrario, quanto alla società incorporata o fusa, che pur abbia provveduto – a seguito dell’iscrizione dell’atto di fusione ai sensi dell’art. 2504 c.c. – alla cancellazione dal registro delle imprese.

E’ singolare, anzi, che l’itinerario degli interpreti abbia seguito, al riguardo, un filo logico opposto a quello adoperato per la fusione: qui si passa, dalla ricostruzione giurisprudenziale di una permanenza in vita della società cancellata sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti (allo scopo di risolvere le ardue questioni delle sopravvivenze e sopravvenienze attive e passive), alla smentita dal legislatore del 2003 con la nota frase “(f)erma restando l’estinzione della società”, posta in esordio del comma 2 dell’art. 2495 c.c.; là, dalla natura estintiva della fusione, tratta dal testo originario dell’art. 2504-bis c.c., si sarebbe passati ad un effetto solo modificativo senza estinzione, sebbene la società fusa o incorporata sia stata cancellata dal registro delle imprese.

E’ noto, inoltre, che l’effetto estintivo derivante dall’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese si produce non soltanto quando essa segua al procedimento di scioglimento e liquidazione, ma anche quando alla cancellazione si pervenga per altre vie: come, ad esempio, quando la società non abbia depositato i bilanci per tre esercizi, ai sensi dell’art. 2490 c.c., comma 6, o, per le società partecipate pubbliche, del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, art. 20.

Sarebbe, dunque, distonico con il sistema ordinamentale delle società escludere l’effetto estintivo, nonostante la nuova situazione del registro delle imprese, ed ipotizzare un’eccezione così radicale, come quella della permanenza in vita della società incorporata o fusa, dalle parole della nuova disposizione, non sorrette da nessun altro elemento di sistema.

2.3.4. – Ulteriori spunti si traggono da altre norme in tema di procedimento di fusione.

L’art. 2504 c.c., comma 2, dispone che l’atto di fusione debba essere depositato per l’iscrizione nell’ufficio del registro delle imprese di ciascuna delle società partecipanti alla fusione; gli effetti giuridici si producono dal momento dell’adempimento delle formalità pubblicitarie, concernenti il deposito per l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione previsto dalla norma, avente efficacia costitutiva.

Ma l’art. 2504 c.c., comma 3, stabilisce che il “deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione”: ciò conferma, secondo logica giuridica, che il definitivo ente societario – sia quello preesistente in tal modo riorganizzato, sia il soggetto nuovo – non possa “convivere” con la perdurante personalità giuridica ed autonoma soggettività delle società fuse o incorporate, le quali debbono quindi, come struttura formale, estinguersi prima.

E’ vero che il momento di produzione degli effetti della fusione può non coincidere con la pubblicità dell’atto di fusione, atteso che può non esservi coincidenza, anche per volontà delle parti, fra il momento di espletamento della pubblicità di cui all’art. 2504 c.c., comma 2, e quello della produzione degli effetti della concentrazione.

Ciò, però, non vuol dire altro che, per volontà delle parti assecondata dalle disposizioni normative, l’estinzione della società incorporata sarà rinviata a quel momento.

2.3.5. – E’ appena il caso di rilevare che la questione dell’assoggettabilità a fallimento della società incorporata o fusa (ma lo stesso ordine di concetti vale per la società interamente scissa) solo in parte interseca quella della sua esistenza: dal momento che ivi vige il disposto speciale della L. Fall., art. 10, il quale, in perfetta equiparazione al debitore persona fisica, sancisce la fallibilità degli imprenditori, individuali come collettivi, alle condizioni che sia trascorso non oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese e che l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o nel termine detto; la ratio generale di tale disposizione è nota, onde non necessita discornerne in questa sede.

In tal modo, per quanto riguarda le società, può fallire un “ente” che non è più tale, entro un anno dall’evento estintivo.

Si richiama il principio per cui “un fenomeno di riorganizzazione societario… come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”; ed il tema della soggezione della società fusa o scissa alle procedure concorsuali “non risulta propriamente attenere al piano dell’organizzazione societaria dell’impresa… Attiene, piuttosto, al piano dell’operatività dell’impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori” (cfr. Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737).

Dunque, che la società possa essere assoggettata a fallimento dopo la fusione o la scissione, ancorchè cancellata dal registro delle imprese, non è elemento normativo a favore della tesi della sua sopravvivenza alla cancellazione; se proprio se ne voglia trarre un indizio, è allora piuttosto elemento in senso contrario, atteso che solo una norma speciale come quella della L. Fall., art. 10 ha potuto sancire un simile precetto.

Ed al riguardo, si noti, si è stabilito il principio di diritto che, ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio L. Fall., ex art. 15, il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione debbano essere notificati all’ente incorporante, che ne prosegue tutti i rapporti anche processuali anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l’eventuale dichiarazione di fallimento (Cass. 11 agosto 2016, n. 17050; e v. Cass., 18 febbraio 2007, n. 2210).

2.3.6. – Appaiono anodine, ai fini in discorso, tutte quelle disposizioni dell’ordinamento positivo, che prevedono il subentro e la continuità dei rapporti a seguito delle operazioni di fusione per incorporazione: ciò, al pari di quanto esposto circa la scarsa significanza del regime di traslazione dei rapporti, enunciato dallo stesso art. 2504-bis c.c..

Invero, nessun indizio contrario all’estinzione potrebbe rinvenirsi in quelle disposizioni sparse, dell’ordinamento positivo o del “diritto vivente”, in cui si sancisce la prosecuzione di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata, fusa o scissa.

Al riguardo, si possono considerare l’art. 1902 c.c., sulla fusione tra imprese assicuratrici, secondo cui il contratto di assicurazione “continua con l’impresa assicuratrice che risulta dalla fusione o che incorpora le imprese preesistenti”; le regole che, ad integrazione di quanto previsto dalla citata disposizione, detta il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 168, Codice delle assicurazioni private, stabilendo che il trasferimento di portafoglio “non è causa di risoluzione dei contratti, ma i contraenti… possono recedere”, a talune condizioni; l’art. 2112 c.c., il cui comma 5 dispone che il rapporto di lavoro continua in caso di fusione, al pari che nel trasferimento d’azienda.

Altresì, usualmente gli interpreti enumerano il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 29, sulla responsabilità delle persone giuridiche, secondo cui, nel caso di fusione, “l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”; il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 32, il quale, ove la società risultante dalla fusione sia responsabile per reati da essa commessi, consente al giudice di ritenere la reiterazione nell’illecito anche in relazione alle condanne pronunciate nei confronti degli enti partecipanti alla fusione, per i reati commessi anteriormente ad essa.

Vi si aggiunge, per i profili processuali, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 42, che, nel caso di fusione o di scissione dell’ente originariamente responsabile, dispone che “il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova” (Cass. pen. 22 giugno 2017, n. 41768 ha ritenuto l’ente incorporante destinatario, a fini della corretta instaurazione del contraddittorio, della citazione a giudizio, contenente le ragioni da cui inferire il titolo di responsabilità, restando valida la contestazione dell’imputazione formulata con riferimento alla persona giuridica originariamente responsabile dell’illecito); mentre il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 70 intende espressamente chiarire che, nel caso di fusione o scissione dell’ente responsabile, “il giudice dà atto nel dispositivo che la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari della scissione, indicando l’ente originariamente responsabile” e che la “sentenza pronunciata nei confronti dell’ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati”.

Norme, quelle degli artt. da 29 a 33 D.Lgs. citato, ritenute manifestamente non incostituzionali in relazione agli artt. 27, 29, 76 e 117, in riferimento all’art. 7 della Cedu, Cost., nonchè coerenti con l’orientamento della Corte di giustizia (Corte di giustizia dell’Unione Europea 5 marzo 2015, C-343/13, Modelo Continente Hipermercados SA), la quale, in materia di responsabilità amministrativa ed in presenza di fusione con incorporazione della società responsabile, ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante deriva dalla direttiva comunitaria 78/855/CEE relativa alle fusioni delle società per azioni (Cass. pen. 12 febbraio 2016, n. 11442).

Nell’ambito delle leggi speciali, il D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 385, art. 57, comma 4, t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, prevede che i privilegi e le garanzie esistenti “a favore di banche incorporate da altre banche, di banche partecipanti a fusioni con costituzione di nuove banche ovvero di banche scisse conservano la loro validità e il loro grado, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, a favore, rispettivamente, della banca incorporante, della banca risultante dalla fusione o della banca beneficiaria del trasferimento per scissione”.

In tema di sistemi di garanzia per i depositanti, il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 96-quater.3 dispone che, in caso di fusione o scissione, se “alcuni depositi della banca cedente divengono protetti da un sistema di garanzia diverso rispetto a quello a cui aderisce la banca cedente, il sistema cui aderisce la banca cedente trasferisce all’altro i contributi ricevuti… in proporzione all’importo dei depositi protetti trasferiti”.

Mentre il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 127-quater, t.u. dell’intermediazione finanziaria, stabilisce che, quando gli statuti contemplano la c.d. maggiorazione del dividendo a favore degli azionisti stabili, se la cessione delle azioni comporta la perdita del beneficio, non così “in caso di successione universale, nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”; del pari, in caso di “fusione o scissione della società che abbia emesso le azioni… i benefici si trasferiscono sulle azioni emesse dalle società risultanti”.

Analogamente, per la figura della c.d. maggiorazione del voto, secondo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-quinquies il diritto di voto maggiorato di regola “è conservato in caso di successione per causa di morte nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”, passando alla società incorporante.

Regole ispirate agli stessi concetti prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-sexies, quanto alle azioni a voto plurimo preesistenti della società quotata.

In materia tributaria, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 172, comma 4, t.u. sulle imposte dirette, stabilisce che “dalla data in cui ha effetto la fusione la società risultante dalla fusione o incorporante subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi”: dove, si noti, il comma 10 del medesimo art. 172 compie un espresso riferimento ai “soggetti che si estinguono per effetto delle operazioni medesime”.

Affine la ratio del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 15, che detta disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie: in caso di fusione o scissione, la “società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni”.

E si potrebbe continuare.

Ma quel che qui si vuol dire è che si tratta di disposizioni speciali, rispetto al quadro generale disegnato dall’art. 2504-bis c.c., le quali palesano null’altro che la continuità nei rapporti giuridici: non certamente, invece, la contestuale sopravvivenza del loro originario titolare.

2.3.7 – L’interpretazione sistematica secondo il diritto comunitario ed Eurounitario conduce a risultati ancora più univoci.

Trattandosi di un’area armonizzata del diritto societario sul piano Europeo, l’interprete nazionale non può che tenerne conto: il principio dell’interpretazione conforme comporta invero il dovere di scegliere, tra le diverse interpretazioni possibili di un enunciato del diritto interno, quella che sia maggiormente idonea ad allinearla al dettato della norma comunitaria, anche orientando la lettura della disciplina nazionale in modo che essa non conduca a scelte di fondo radicalmente differenti rispetto a quelle compiute in altri Stati membri. Ciò perchè il fenomeno della fusione è unitario, onde la disciplina finale non può non essere omogenea, nelle sue linee essenziali e portanti, avendo una comune radice: sarebbe, invero, distonico sostenere in teoria (e gestire in pratica) effetti delle fusioni societarie diversi, a seconda che essi si producano nell’ordinamento italiano o in altri ordinamenti dell’Unione, come avverrebbe ove una società fosse esistente per il primo ed estinta per i secondi.

Dunque, indipendentemente dall’avere il legislatore interno del 2003 ripreso il dato testuale delle direttive comunitarie, queste esercitano il loro vincolo sull’interpretazione, alla stregua del principio secondo cui le norme interne devono essere interpretate conformemente al diritto comunitario, alla luce della sua lettera e finalità, per raggiungere il risultato previsto da questo.

In tal senso, vale appena ricordare, è la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, la quale afferma il reiterato principio secondo cui “dalla necessità di garantire tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione del diritto dell’Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del proprio significato e della propria portata, devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione Europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione” (e plurimis, Corte di giustizia dell’Unione Europea 7 agosto 2018, cause riunite C-61/17, C-62/17 e C-72/17, Bichat, punto 29; 11 maggio 2017, C-59/16, The Shirtmakers BV, punto 21; 1 dicembre 2016, C-395/15, Daouidi, punto 50; 29 ottobre 2015, C-174/14, Saudagor, punto 52; 5 marzo 2015, n. 343/13, Modelo Continente Hipermercados SA, punto 27).

a) Orbene, iniziando dalla terza direttiva 78/855/CEE del consiglio del 9 ottobre 1978, relativa alle fusioni tra società per azioni, l’art. 3 definisce la fusione come “l’operazione con la quale una o più società, tramite uno scioglimento senza liquidazione, trasferiscono ad un’altra l’intero patrimonio attivo e passivo mediante l’attribuzione agli azionisti della o delle società incorporate di azioni della incorporante…”.

E l’art. 19 dispone: “La fusione produce ipso iure e simultaneamente i seguenti effetti: a) il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante; b) gli azionisti della società incorporata divengono azionisti della società incorporante; c) la società incorporata si estingue”.

Compare dunque, a partire dalla III direttiva, sia l’effetto traslativo successorio, sia l’effetto estintivo per la società incorporata.

La direttiva 78/855/CEE è stata abrogata, a far data dal 1 luglio 2011, dalla direttiva 2011/35/Ue del parlamento Europeo e del consiglio, del 5 aprile 2011, relativa alle fusioni delle società per azioni. Come risulta dal suo considerando 1, quest’ultima direttiva è intesa, per motivi di chiarezza e razionalizzazione, a procedere alla codificazione della direttiva 78/855, che era stata modificata più volte in modo sostanziale. L’art. 19, par. 1, della direttiva 2011/35 riprende l’art. 19, par. 1, della direttiva 78/855 in termini identici.

Così, anche l’art. 23 di tale direttiva, con riferimento alla fusione mediante costituzione di una nuova società, afferma che “le espressioni “società partecipanti alla fusione” o “società incorporata” indicano le società che si estinguono”.

b) Indicazioni ancor più stringenti si traggono dalla disciplina delle fusioni transfrontaliere, dove l’interesse alla omogeneità degli effetti in tutti i Paesi è il presupposto, essendo la possibilità di operare al di là dei confini nazionali parte delle alternative di sviluppo offerte alle società.

L’art. 14 della direttiva 2005/56/CE, relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, dispone per la fusione per incorporazione che “la società incorporata si estingue” e che nella fusione mediante costituzione di nuova società “le società che partecipano alla fusione si estinguono”.

Ulteriore indizio si trae dalla stessa nozione di “fusione”, contenuta nell’art. 2: la quale è definita volta a volta (indipendentemente dalla forma per incorporazione o per costituzione di una società nuova) come l’operazione mediante la quale le società trasferiscono “all’atto dello scioglimento senza liquidazione, la totalità del loro patrimonio attivo e passivo ad altra società”: la prima, in sostanza, automaticamente si scioglie, pur senza seguire il procedimento di liquidazione, proseguendo altrove i propri rapporti e titolarità, e poi scompare.

La direttiva 56/2005/CE è stata attuata dal D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 108, il cui art. 16, sul punto, si limita a stabilire che “La fusione transfrontaliera produce gli effetti di cui all’art. 2504-bis c.c., comma 1”, con rinvio dunque a norma già parte del diritto interno.

La direttiva 2017/1132/UE, pubblicata il 30 giugno 2017 ed entrata in vigore il successivo 20 luglio 2017, come da ultimo novellata dalla direttiva 2019/2121/UE del 27 novembre 2019, ha offerto una codificazione del diritto Europeo societario, mediante l’unificazione in un unico testo delle precedenti direttive in materia societaria. Per quanto qui interessa, sia gli artt. 105 e 109, sia l’art. 131, rispettivamente sugli “Effetti della fusione ” e sugli “Effetti della fusione transfrontaliera”, continuano dunque a prevedere che “la società incorporata si estingue” e “le società che partecipano alla fusione si estinguono”, per le prime precisandosi “ipso iure e simultaneamente”.

Anche l’art. 29 del reg. (CE) n. 2157/2001 del Consiglio dell’8 ottobre 2001, in materia di costituzione di una società Europea per fusione, e l’art. 33 del reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003, in materia di costituzione di una società cooperativa Europea per fusione, prevedono espressamente l’estinzione delle società incorporate o che si fondono “ipso iure e simultaneamente”.

In particolare, si fa notare in dottrina che la formula utilizzata nelle direttive recepisce quella impiegata nell’art. 236-3 del Code de Commerce francese, nella circolarità che contraddistingue la formazione della normativa Europea; la giurisprudenza e la casistica Europee confermano come la società incorporata viene meno sotto un profilo formale.

Se ciò avviene negli ordinamenti armonizzati, non può dunque che favorirsi la medesima interpretazione nel diritto interno.

Tutto ciò, pur in presenza del caveat con riguardo ai concetti delle fonti sovranazionali, nonchè del noto pragmatismo che impronta le relative decisioni – basti pensare al contenuto della sentenza Corte di giustizia 5 marzo 2015, C-343/13, cit., dove la Corte riconosce che la società incorporata si estingue dal punto di vista formale per effetto della fusione, tuttavia valorizzando lo scioglimento senza liquidazione e senza dissoluzione della realtà economica, al fine di affermare, a fini antielusivi, che la società incorporante non rimane uguale a sè stessa e che si verifica “la trasmissione, alla società incorporante, dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa” – fornisce dunque un imprescindibile dato interpretativo.

2.4. – Conclusioni.

Gli aspetti “sostanziali” della vicenda della fusione societaria che si possono riassumere in quelli della concentrazione, della successione e dell’estinzione – non possono essere disgiunti da quelli “processuali”: occorre, infatti, stabilire una coerenza fra di essi, derivando peraltro i profili processuali dalla questione concreta che venga all’esame nel giudizio.

a) Concentrazione.

Non vi è dubbio che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell’atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di concentrazione giuridica ed economica (ve n’è traccia espressa nel diritto positivo: v. la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 5) o “integrazione” o “compenetrazione”, dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporata o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione.

L’operazione è connotata da irreversibilità, secondo il chiaro disposto dell’art. 2504-quater c.c., che vieta la pronuncia d’invalidità della fusione, una volta eseguite le iscrizioni ai sensi dell’art. 2504 c.c., comma 2.

La fusione comporta un’ampissima riorganizzazione aziendale.

Beni, persone e capitali vengono diversamente destinati, secondo il programma economico per tempo approfonditamente elaborato nel progetto di fusione, nessun elemento formale rimanendo uguale a se stesso. Solo i soci mantengono tale veste (salvo il loro diritto di recesso): dal momento che essi divengono titolari di una quota del capitale della incorporante o della società risultante dalla fusione, secondo quel rapporto matematico e proporzionale che è il “rapporto di cambio”, richiamato dall’art. 2501-ter c.c..

Che la fusione sia inquadrabile tra le vicende modificative dell’atto costitutivo delle società partecipanti è senz’altro corretto, ma questo non è, tuttavia, l’unico effetto della fusione: il fatto che la (diversa) società, incorporante o risultante dalla fusione, assuma i diritti e gli obblighi delle società interessate sta in sè ad indicare che gli effetti sono certamente più pregnanti di quelli riconducibili ad una semplice modificazione dell’atto costitutivo.

Tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, vengono ormai imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante, e la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

b) Estinzione.

Onde, se tutti i rapporti passano ad altro soggetto, con cancellazione dal registro delle imprese, quello primigenio non li conserva, ma si estingue.

Se, quanto ai rapporti giuridici, provvede l’art. 2504-bis c.c., chiarendo che essi proseguono tutti in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, quale successore per legge esplicitamente identificato, si ha, nel contempo, che le persone fisiche (soci, esponenti aziendali, dipendenti) perdono il loro ruolo originario (derivando la loro sorte dal progetto di fusione) e le persone giuridiche – diverse dalla incorporante o risultante dalla fusione – si estinguono.

Cessano, infatti, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano, e così via; in una parola, la primigenia organizzazione di dissolve e nessuna situazione soggettiva residua.

Ora, se nessuna posizione giuridica soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di un’entità astratta.

Le società incorporate o fuse non restano, pertanto, soggetti del mercato, non le si vede ciononostante proporre cause civili o esservi convenute.

Se così non fosse, si potrebbe ad esempio giungere ad ammettere in giudizio una difesa duplice, ed anche contraddittoria, in relazione alle medesime posizioni soggettive, da parte dell’incorporata e dell’incorporante: come potrebbe ben accadere sul piano degli interessi sostanziali, visto che i soci della prima resterebbero, allora, quelli che tali erano al momento dell’atto di fusione, mentre i soci dell’incorporante sarebbero anche altri e sempre variabili, potendo quindi rappresentare posizioni di interesse difformi rispetto ad uno stesso rapporto giuridico.

Non ha dunque pregio sostenere che, nonostante la completa “rivoluzione” o, come recitano la direttive, “dissoluzione” aziendale con la chiusura o l’inglobamento di uffici o filiali, le riassegnazioni di personale, la cessazione dalla carica di tutti gli esponenti aziendali, l’annullamento delle azioni, la consegna di altre azioni secondo il rapporto di cambio, e molto altro – l’ente, come soggetto giuridico, permanga sul mercato e sia titolare di diritti ed obblighi.

Occorre, in definitiva, tenere distinto il profilo negoziale del contratto di società da quello giuridico-formale dell’originario soggetto di diritto dal primo scaturito, distinguendo tra la società come insieme di rapporti, che prosegue in una diversa organizzazione, dalla società come ente, che si estingue.

Come, al momento della stipulazione dell’atto costitutivo anche di società personale e, per le persone giuridiche, subordinatamente alla iscrizione della costituzione nel registro delle imprese, si distinguono – da un lato – il contratto di società concluso tra i soci fondatori, quale esercizio dell’autonomia negoziale privata ex art. 1322 c.c., che con lo statuto fissa e regolamenta gli aspetti della futura comune intrapresa economica, e – dall’altro lato – la contestuale nascita di un nuovo soggetto di diritti, autonomo centro d’imputazione di tutti i rapporti attivi e passivi afferenti quella attività: così, specularmente, al momento della stipula dell’atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese delle diverse società partecipanti e seguito dalla cancellazione dell’iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci – da un lato – modificano l’originario contratto sociale mediante la delibera di fusione ed i successivi adempimenti, ma – dall’altro lato – provocano, nel contempo, la “scomparsa” dalla scena giuridica dell’originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ossia la sua estinzione.

Alla successione dei soggetti sul piano giuridico-formale si affianca, sul piano economico-sostanziale, una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale, benchè secondo nuovi assetti e piani industriali.

L’estinzione riguarda solo la società incorporata, la quale non sopravvive quale flatus, ma si estingue; resta, invece, come soggetto giuridico l’incorporante, dal momento che la modificazione soggettiva attiene soltanto alla titolarità dei rapporti giuridici, che facevano capo alla prima.

Certamente quindi, sotto il profilo strutturale, la fusione si presenta come una modificazione degli statuti sociali delle società interessate, mediante le rispettive deliberazioni di approvazione del progetto di fusione (art. 2502 c.c.): destinate però ad apportare, all’originario regolamento di interessi fra i soci di ciascuna società fusa o incorporata, una innovazione decisamente radicale, posto che scompare quella “forma” di esercizio dell’impresa, a favore di altro involucro formale.

Occorre in definitiva concludere che, dal momento dell’iscrizione della cancellazione della società incorporata dal registro delle imprese, questa si estingue, quale evento uguale e contrario all’iscrizione della costituzione di cui all’art. 2330 c.c.; restano le persone fisiche – amministratori, sindaci, dipendenti, soci – che perdono, però, tale veste, ove non vengano riassorbiti nella società incorporante o risultante dalla fusione.

c) Successione.

Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.

La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La successione universale, come vicenda giuridica, ben si attaglia invero anche a quella fra enti, avente ad oggetto un patrimonio unitariamente considerato e non soltanto elementi che lo compongono.

La fusione non è, in sè, operazione che mira a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione), nè unicamente a trasferirli ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come il conferimento in società, la cessione dei crediti o dei debiti, la cessione di azienda, etc.), quanto a darvi prosecuzione, mediante il diverso assetto organizzativo: ma ciò non può essere sminuito ed artificiosamente ridotto ad una vicenda modificativa senza successione in senso proprio in quei rapporti.

Riorganizzazione e concentrazione, da un lato, ed estinzione e successione, dall’altro lato, non sono concetti incompatibili ed antitetici. In sostanza, si verificano entrambi gli effetti, l’estinzione e la successione, senza distinzione sul piano cronologico, derivando entrambe dall’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2504 c.c. (salva la possibilità di stabilire una data diversa ex art. 2504-bis c.c., commi 2 e 3).

d) Legittimazione processuale.

Alla stregua di quanto esposto, la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato fonda la legittimazione attiva dell’incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; viceversa quest’ultima, non mantenendo la propria soggettività dopo l’avvenuta fusione e la cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonoma legittimazione processuale attiva o passiva.

e) Fusione in corso di causa.

Le ragioni sottese al precedente orientamento furono, come si è visto, in primis quelle di evitare l’interruzione del processo, che è ripetutamente sembrato opportuno evitare, attese le peculiarità di una fusione societaria (cfr. Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698; Cass., sez. un., 14 settembre 2010, n. 19509; e v. Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637): l’argomento di fondo è incentrato sugli interessi tutelati e l’assenza di pericolo per il diritto alla difesa nel processo.

Tali ragioni non possono essere disconosciute e ciò induce il Collegio ad una precisazione al riguardo.

In ragione del subentro omnicomprensivo in tutte le situazioni giuridiche attive e passive delle società, incorporate o fuse, da parte della società in esito della fusione, questa va assimilata alla successione universale fra persone fisiche. In via di principio, perciò, alla fusione, divenuta efficace in corso di causa, in mancanza di disposizioni derogatorie troverebbe applicazione il regime degli artt. 110 e 300 c.p.c., con l’interruzione del processo e la sua prosecuzione dal successore universale o in suo confronto, previa riassunzione, quale fenomeno riconducibile al “venir meno” della parte, di cui all’art. 110 c.p.c..

Tuttavia, in presenza di fusione sopraggiunta nel corso del giudizio, la dizione dell’art. 2504-bis c.c. – secondo cui in tutti i rapporti giuridici delle società incorporate “anche processuali” vi è una “prosecuzione” dell’incorporante – vale ad evitare ex lege l’interruzione stessa, dato che l’incorporata ne prosegue senza soluzione di continuità i rapporti, anche processuali.

In tal modo è dato leggere la modificazione operata nel 2003, al più limitato, ma opportuno fine di superare gli inconvenienti prodotti dall’interruzione del processo in caso di fusione di società, evitando l’applicazione dell’istituto, allora non congruente allo scopo.

Onde, sul punto, il precedente orientamento che escludeva l’interruzione del processo va confermato con riguardo alla fusione delle società post riforma del 2003, dovendo in tal modo ricostruirsi il portato dell’art. 2504-bis c.c., attesa l’esigenza di ragionevole durata del processo e l’assenza della lesione di interessi di qualsiasi parte.

Nel caso della fusione, dunque, è la legge stessa a disporre, mediante l’art. 2504-bis c.c., che il processo non debba essere interrotto: ma ciò non perchè la società incorporata, fusa o scissa sia ancora esistente, ma semplicemente perchè la incorporante, la società risultante dalla fusione o le società beneficiarie sono, di volta in volta, i soggetti divenuti titolari sia di quel rapporto sostanziale, sia del corrispondente c.d. rapporto processuale, ossia del giudizio che quello abbia ad oggetto.

La ratio degli artt. 299 ss. c.p.c. conferma tale ricostruzione: posto che, se l’istituto dell’interruzione del processo mira a tutelare sia la parte colpita dall’evento interruttivo, sia la controparte, ai fini della migliore esplicazione del diritto di difesa di entrambe (art. 24 Cost.), tale esigenza non si avverte, o in ogni caso è ex lege recessiva, a fronte della superiore esigenza di continuità nei rapporti sostanziali e processuali, a fini di certezza.

In tal modo, l’esclusione dell’interruzione del processo limita le conseguenze della fusione sul processo, dovendosi allora, ad onere della incorporante, provare soltanto tale sua qualità ai fini della legittimazione, ove intenda compiere atti processuali.

III. – Introduzione della causa da parte di società estinta per incorporazione con successivo intervento della incorporante. Principio di diritto.

1. – In conseguenza di quanto esposto, non sussiste la facoltà di intraprendere un giudizio in capo al soggetto estinto per fusione.

Una società ormai estinta non è soggetto di diritti e neppure ha la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione.

Ne deriva che, ove essa intraprenda un giudizio, ciò avviene sulla base di una valutazione operata dai precedenti organi, i quali però non sono ormai più tali, spettando una simile valutazione all’esclusiva titolare, la società incorporante, per mezzo del suo legale rappresentante. Se la perduranza di quei rapporti giuridici nel soggetto incorporante o unificato giustifica, da un lato, il medesimo ad agire per tutelarli, al fine di vedere realizzate le sue pretese, dall’altro lato non autorizza però la società incorporata o fusa a farle valere essa stessa.

Non si dà dunque applicazione dell’istituto della ratifica degli atti compiuti dal falsus procurator, perchè qui non è tale il rappresentante, ma diverso è l’effettivo titolare del diritto.

2. – Quest’ultimo, però, ha la facoltà di intervenire in giudizio, una volta che il medesimo sia stato ormai instaurato dal non legittimato.

Si è già affermato dalla Corte che la facoltà concessa ad ogni interessato di intervenire nel processo, pendente tra altri soggetti, per far valere un diritto proprio nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse, sussiste indipendentemente dalla effettiva esistenza, nel soggetto che ha inizialmente proposto la domanda giudiziale, delle condizioni necessarie all’esperimento di essa, sicchè il soggetto legittimato ad intervenire può sostituirsi al non legittimato, anche nel corso del processo, nell’esercizio dell’azione giudiziale.

Ciò in quanto il rapporto processuale, che si costituisce mediante l’intervento della parte legittimata a far valere la pretesa avanzata in giudizio da un soggetto carente della legittimazione attiva, non dipende dalla sorte dell’originario rapporto costituito dall’attore, poichè il vero legittimato rispetto all’oggetto della lite, della quale è parte il non legittimato, ha una posizione sostanziale autonoma, con la conseguenza che la sorte del rapporto processuale posto in essere mediante l’intervento non è subordinata a quella dell’originario rapporto su cui si è innestato (cfr. Cass. 26 marzo 2010, n. 7300; Cass. 24 dicembre 1993, n. 12777; Cass. 13 dicembre 1990, n. 11828).

In tal modo, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., si realizza l’intervento volontario del legittimato e la conseguente sua sostituzione nel processo da questi promosso e che esiste come struttura formale, secondo le regole proprie dell’intervento in giudizio.

L’azione a tutela di un diritto già facente capo alla società fusa, e poi trasferito alla società incorporata, può dunque essere da questa proposta nelle forme dell’intervento in giudizio.

Ove il nuovo ente intenda esperire tale intervento, dovrà rilasciare mandato al difensore ai fini del conferimento dello ius postulandi, secondo le regole generali di cui agli artt. 82 c.p.c. e ss., trattandosi di un soggetto giuridico diverso.

3. – Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto:

“La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., nel rispetto delle regole che lo disciplinano”.

IV. – Decisione sui motivi di ricorso.

1. – Alla luce del principio predetto, il primo motivo è infondato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

Nella specie, la Spinone s.r.l., essendosi fusa per incorporazione nella Zinconia s.r.l. il 23 luglio 2004, con contestuale cancellazione dal registro delle imprese, era priva di capacità e legittimazione processuale nel marzo del 2008, quando ha intrapreso il presente giudizio, essendosi già estinta ed avendo, da lungo tempo, cessato i suoi organi amministrativi dalle funzioni di legale rappresentanza.

Sorti dubbi di legittimazione al riguardo, nel corso del primo grado la società incorporante si è costituita, facendo proprio il giudizio.

Nel prosieguo, quindi, è stata accolta la domanda di simulazione proposta, come azionata anche dall’interventore in giudizio: il giudice di primo grado ha dichiarato la simulazione del contratto ed il giudice d’appello ha espressamente escluso ogni nullità del processo, sia per la natura meramente modificativo-evolutiva della fusione, sia per l’avvenuta costituzione in causa della società incorporante.

Ne deriva che, mutata la motivazione alla stregua del principio enunciato, il primo motivo va respinto.

2. – Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili.

La corte del merito ha condiviso l’accertamento, in punto di fatto operato dal tribunale, relativo alla volontà delle parti di non trasferire affatto la proprietà del bene oggetto delle due compravendite consecutive, dunque reputate simulate in via assoluta.

La ratio decidendi, espressa nella decisione impugnata, si fonda su di una triplice valutazione: la proposizione dell’azione di simulazione con riguardo alla compravendita nella sua interezza e non pro quota, la mancata censura circa la consapevole partecipazione della comproprietaria M. alla simulazione e l’irrilevanza, in tale situazione, dell’insussistenza di una posizione debitrice in proprio della medesima. Valutazioni che, però, il secondo motivo non censura.

Il terzo motivo, dal suo canto, non individua l’errore di giudizio o la regola di diritto che sarebbe stata male applicata.

Onde entrambi si scontrano con le valutazioni fattuali, compiute dai giudici di merito, in una inammissibile contestazione sull’esito della valutazione nel merito delle prove in atti, mentre il vizio di omesso esame di fatto decisivo è dedotto in termini inosservanti del relativo paradigma.

In conclusione, il ricorso va respinto.

V. – Spese.

Le spese vengono interamente compensate, attesa la novità del principio enunciato.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa per intero le spese del giudizio.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 13 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 04/05/2021) 21/07/2021, n. 20766

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8619-2014 proposto da:

CINQUE TERRE NEL SOLE DI G.A. & C SAS, elettivamente domiciliato in ROMA, L.GO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE GRANARA;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli, avvocati ERSILIO GAVINO e GIOVANNI CALISI;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI GENOVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 61/2013 della COMM.TRIB.REG.LIGURIA, depositata il 26/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS STANISLAO, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
CHE:

1. La società “Cinque Terre nel Sole” s.a.s di G.A. & C”, ricorre sulla base di cinque motivi, illustrati nelle memorie difensive, per la cassazione della sentenza n. 61/2913, depositata il 28.09.2013, con la quale la CTR della Liguria, nel confermare la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso della società, rigettava il gravame proposto da quest’ultima, confermando la legittimità della cartella emessa, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis per il recupero dell’Iva, anche se non preceduta dalla comunicazione dell’esito della liquidazione, nonchè la tempestività della notifica della cartella al coobbligato, cessionario dell’azienda, la ritualità della notifica disposta a mezzo posta ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e la regolarità della cartella esattoriale sebbene priva della sottoscrizione del responsabile, in quanto emessa in epoca antecedente alla entrata in vigore della L. n. 31 del 2008. Con successivo ricorso impugnava l’iscrizione di ipoteca conseguente all’omessa opposizione della cartella da parte della società M.H..

Sia l’ente concessionario che l’Agenzia delle Entrate hanno replicato con controricorso.

La concessionaria ha depositato memorie illustrative in prossimità dell’udienza. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60 nonchè della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7; per avere i giudici regionali ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento anche se non preceduto dalla notifica della comunicazione dell’esito della liquidazione nè alla cedente (società cessata il 19.10.2019) nè ad essa, atteso che, ancorchè si trattasse di controllo automatizzato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis troverebbe applicazione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis il quale prevede che, se dai controlli automatici emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione, l’esito della liquidazione è comunicato ai sensi di cui all’art. 80, comma 6, al contribuente; ribadisce che il comma 6 stabilisce, a sua volta, che “l’Ufficio prima della iscrizione a ruolo invita il contribuente a versare le somme dovute entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, con applicazione della sopra tassa del 30% della somma non versta o versta in meno”. Detta disposizione, ad avviso della contribuente, trova conferma nella L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, che impone all’amministrazione finanziaria, in caso di incertezze su aspetti rilevanti delle dichiarazioni, l’obbligo di invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari.

Sostiene che il preventivo invito le avrebbe consentito di predisporre difese in relazione all’erroneo comportamento della società Hotel H di M.H. & C s.a.s. (predisposizione della dichiarazione in fase di cessazione della società) e sia della ditta individuale di H. M. (presentazione della dichiarazione Iva senza il modulo relativo alla società estinta), comè si inferirebbe dalle controdeduzioni dell’Agenzia delle Entrate depositate nel giudizio di merito.

Deduce che, a tal proposito, aveva dedotto l’omessa motivazione della cartella a cui non risultava allegato l’atto richiamato, vale a dire la dichiarazione IVA della cedente e che, se avesse ricevuto la dovuta comunicazione, avrebbe provveduto alla rettifica della dichiarazione Iva delle società cedenti con compensazione del debito IVA della società con il credito IVA maturato dalla ditta individuale, azzerando quasi totalmente il debito iscritto a ruolo.

Ribadisce, altresì, che l’incertezza che impone la notifica della previa comunicazione può riguardare anche l’eventuale risultanza di un omesso pagamento (pag. 29 del ricorso).

3. La seconda censura prospetta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60, della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7 e degli artt. 1310 e 2064 c.c.; per avere i giudici regionali affermato la rilevanza degli effetti della notifica di un atto impeditivo della decadenza anche nei confronti del coobbligato in solido dell’obbligazione tributaria. Rileva la società ricorrente l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di riscossione in quanto la cartella di pagamento, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 25 deve essere notificata a pena di decadenza entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con la conseguenza che la notifica della cartella doveva essere effettuata entro il 31 dicembre 2005, mentre quella notificata alla società “Cinque Terre nel sole” risaliva al dicembre 2010. Al riguardo, la società contribuente assume che alcuna disposizione tributaria prevede una deroga alle norme civilistiche, con la conseguenza che l’ente finanziario non può esigere dalla cessionaria i debiti tributari della cedente notificando la cartella solo a quest’ultima.

4.Insiste, con il terzo motivo, nel censurare la L. n. 212 del 2000, art. 7 la ricorrente insiste nell’affermare l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per la carente indicazione del responsabile del procedimento sia nella cartella che nella iscrizione ipotecaria.

5. Il quarto mezzo prospetta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 per avere la CTR affermato la legittimità della notifica dell’atto impositivo a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento direttamente da parte del concessionario per la riscossione; dovendo, al contrario, il concessionario predisporre le operazioni notificatorie attraverso i soggetti abilitati, i messi comunali e gli ufficiali della riscossione.

6.Con l’ultima censura che deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, la contribuente contesta l’affermazione del giudicante secondo il quale l’appello era stato formulato genericamente, avendo essa richiamata sia il ricorso introduttivo che le memorie depositate nel primo grado e “tenendo conto delle osservazioni esposte sulla base delle ragioni e dei motivi di opposizione”.

7. Il primo motivo è destituito di fondamento.

Dalla sentenza impugnata risulta l’esclusione dell’obbligo della previa comunicazione dell’esito della liquidazione per il caso di recupero di somme non versate sulla base della dichiarazione del contribuente, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis sostenendo che la L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, fa riferimento alle sole ipotesi in cui sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, con ciò escludendo che, nel caso di specie, si vertesse in detta ultima fattispecie. Il che trova conferma nell’affermazione della stessa contribuente che si rinviene a pag. 29 del ricorso laddove si afferma la necessità della previa comunicazione anche nelle ipotesi in cui difetti l’incertezza nella dichiarazione IVA. Detto assunto trova riscontro alcuna nella giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale “la notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non preceduta dalla comunicazione del c.d. “avviso bonario” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; nè il contraddittorio endoprocedimentale è invariabilmente imposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, il quale lo prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36 bis, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo” (Cass. 33344/2019; n. 17479 del 28/06/2019; n. 8619/2018; n. 4360/2017; n. 11292 del 31/05/2016; n. 3154 del 2015; n. 8342 del 2012).

Peraltro, l’allegazione secondo la quale sarebbe mancata la dichiarazione Iva (in realtà non risultante in modo chiaro dalla sentenza impugnata), non trova conforto nella giurisprudenza di questa Corte laddove afferma che “In caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi nonchè da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell’anagrafe tributaria, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54-bis e 60” (v. S.U.. n. 17758/2016; Cass. n. 4392/2018).

8. Parimenti destituito di fondamento è il secondo motivo di ricorso.

E’ orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello che alla stregua della disciplina dettata dal codice civile con riguardo alla solidarietà fra coobbligati, applicabile – in mancanza di specifiche deroghe di legge – anche alla solidarietà tra debitori d’imposta, l’avviso di accertamento (ovvero l’atto impositivo) validamente notificato solo ad alcuni condebitori spiega, nei loro confronti, tutti gli effetti che gli sono propri, mentre, nei rapporti tra l’Amministrazione finanziaria e gli altri condebitori, cui non sia stato notificato o sia stato invalidamente notificato, lo stesso, benchè inidoneo a produrre effetti che possano comportare pregiudizio di posizioni soggettive dei contribuenti, quali il decorso dei termini di decadenza per insorgere avverso l’accertamento medesimo, determina pur sempre l’effetto conservativo d’impedire la decadenza per l’Amministrazione dal diritto all’accertamento, consentendole di procedere alla notifica, o alla sua rinnovazione, anche dopo lo spirare del termine all’uopo stabilito(v. Cass. n. 2545/2018; n. 13248 del 25/05/2017; n. 1463/2016; N. 16945 del 2008).

Pur riferendosi all’ipotesi dell’emanazione di un atto impositivo, il principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale è evidentemente riferibile anche alla diversa ipotesi, quale quella in esame, del termine decadenziale previsto per l’emissione della cartella esattoriale dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

Evidente ne è infatti l’eadem ratio legis et juris. Pacifico e comunque accertato in fatto dal giudice tributario di appello, che nel caso di specie il termine decadenziale è stato rispettato nei confronti dell’obbligato principale. Del resto nell’analoga fattispecie concreta della dichiarazione congiunta dei redditi dei coniugi, questa Corte ha già avuto modo di affermare, conformemente, l’equiparabilità dell’atto della riscossione a quello impositivo rispetto al termine decadenziale, nello specifico senso – che qui rileva – della sufficienza anche ad uno soltanto dei coobbligati solidali, della notifica dell’uno ovvero dell’altro entro tale termine, trovando applicazione l’art. 1310 c.c., comma 1, ancorchè si tratti di decadenza e non di prescrizione (v. Sez. 5, n. 27005 del 21/12/2007 e n. 1463 del 27/01/2016). Vero è tuttavia che altra giurisprudenza di questa stessa Corte in campo civilistico ha diversamente affermato che “In tema di solidarietà tra coobbligati, dell’art. 1310 c.c., il comma 1 dettato in materia di prescrizione, non è applicabile anche in tema di decadenza, non solo per la chiarezza del testo normativo, riferito solo alla prescrizione, ma anche per la profonda diversità dei due istituti” (Sez. 2, Sentenza n. 16945 del 20/06/2008, Rv. 604067 – 01; conforme, Sez. 2, Sentenza n. 8288 del 19/06/2000, Rv. 537735 – 01).

Vi è però da tener conto della diversità e della specialità della disciplina tributaria, in particolare procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico (dunque ben diversa da quella di diritto privato sicuramente de-procedimentalizzata) regolata da sue proprie norme, quali appunto quella che risulta applicabile nel caso di specie (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 1), secondo l’interpretazione che sopra si è profilata, ovvero quella analoga in materia sanzionatoria di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 2.

Pertanto, la tempestiva notifica della cartella di pagamento nei confronti di uno dei condebitori, sebbene inidonea a pregiudicare le posizioni soggettive degli altri obbligati in solido, impedisce che si produca nei confronti degli stessi la decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 in quanto, in materia tributaria, a differenza di quella civile, trova applicazione, anche in detta ipotesi, l’art. 1310 c.c., comma 1, sebbene dettato in tema di prescrizione, in ragione della specialità della relativa disciplina procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico regolata da norme proprie.

Infine, in caso di cessione di azienda, l’art. 2650 c.c., comma 2, che prevede che dei debiti dell’azienda risponda anche l’acquirente, purchè essi risultino dai libri contabili obbligatori – non trova applicazione con riferimento ai debiti tributari, atteso che, data la loro particolare natura, i medesimi non sono equiparabili a quelli di diritto comune. Ne discende che l’acquirente dell’azienda non può sottrarsi alla responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta, deducendo che i medesimi non siano stati iscritti nei registri contabili obbligatori (Cass. n. 16473/2008).

9. La terza censura è infondata.

Giova sottolineare come questa Corte si è assestata sul principio secondo il quale “la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, – convertito dalla L. n. 31 del 2008 – ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data” (ex plurimus, Cass. n. 27856/2018) Se il medesimo vizio è riferito non già solo alla cartella di pagamento, ma altresì ad atto affatto diverso, segnatamente, alla iscrizione ipotecaria notificata dalla concessionaria, peraltro in epoca anteriore al 1 giugno 2008, non è consentito estendere il disposto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 ad atti diversi dalle cartelle; pertanto, non trova alcuna base giuridica la proposta estensione dell’obbligo in questione ad un atto diverso, quale è l’iscrizione ipotecaria, funzionalmente distinto dalla cartella di pagamento, disciplinata dal D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26 atto quest’ultimo destinato a portare a conoscenza del contribuente il ruolo, limitatamente alla partita iscritta a suo carico, e con il quale si avanza la pretesa impositiva (v. Cass. n. 23672/2018).

L’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’agente della riscossione non è richiesta dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 (cd. Statuto del contribuente) a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 (Cass. n. 1150/2019; n. 11856/2017).

10. Il quarto mezzo non merita accoglimento.

In relazione alla notifica a mezzo del servizio postale, la Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione(v, Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017;; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, – Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

11. L’ultimo mezzo non supera il vaglio di ammissibilità, in assenza di trascrizione dei motivi dell’appello ovvero della localizzazione dell’atto di gravame nel fascicolo del giudizio di merito, non essendo idonea a confutare la statuizione del giudice di appello la mera affermazione della ricorrente di aver richiamato le attività difensive del primo grado (Cass. n. 122664/2012) In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla refusione delle spese sostenute dalla concessionaria che liquida in Euro 7.000,00, oltre rimborso forfettario, Euro 200,00 per esborsi, e accessori come per legge; Euro 6.000,00 in favore dell’Agenzia delle Entrate, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, all’udienza tenuta mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il 4 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 09-06-2021) 20-07-2021, n. 20650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176;

sul ricorso iscritto al n. 25933/2012 R.G. proposto da:

G.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Cristiana Toscano e dall’Avv. Salvatore Coletta, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini, n. 114/B, presso lo studio di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, con sede in (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 130/39/12 depositata il 2 aprile 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 giugno 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate notificò a G.F., titolare di un’impresa individuale di “abbigliamento fascia fine/lusso”, un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale, sulla base dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, accertò maggiori ricavi per Euro 69.409,00, con i conseguenti maggior reddito, ai fini dell’IRES, maggior valore della produzione netta, ai fini dell’IRAP, e maggior volume d’affari, ai fini dell’IVA, oltre agli interessi e alle correlative sanzioni.

2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Latina (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso della società contribuente.

3. Avverso tale pronuncia, G.F. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina (hinc anche: “CTR”), deducendo, tra l’altro, che “la notifica dell’invito (a comparire) avrebbe dovuto essere eseguita non presso la sua residenza (per altro errata, via (OMISSIS) snc, invece che via (OMISSIS)) ma in via (OMISSIS) sede dell’impresa” (così la sentenza impugnata).

Nelle controdeduzioni, l’Agenzia delle entrate, “quanto alla notifica dell’invito, ne affermava la regolarità avendo provveduto all’invio dello stesso con raccomandata del 3.4.09 (al domicilio fiscale della ricorrente in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58), che l’addetto alla consegna, vista la temporanea assenza della contribuente, aveva provveduto ad inserire nella cassetta della posta e ad inviare comunicazione di avvenuto deposito con raccomandata (allegata) del 10.4.09 consegnata dal portalettere nella stessa data” (così la sentenza impugnata).

4. La CTR rigettò l’appello della contribuente con la motivazione che “(I)l collegio condivide la tesi giurisprudenziale e anche dottrinaria che attribuisce agli studi di settore natura di elementi atti a fondare presunzioni semplici, con la conseguenza che il mero scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dagli studi di settore non ne consente l’automatica applicazione; del resto, sulla questione all’esame anche le SS. UU. della Corte di Cassazione (Sentenza n. 26635 del 18. 12.2009) hanno ritenuto che la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore e dei parametri è basata su “presunzioni semplici”, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata “ex lege” in relazione ai soli risultati di tali strumenti. Tuttavia, evidenziato ciò, nella fattispecie non sono riscontrabili illegittimità di sorta; l’accertamento è infatti basato su elementi di notevole rilevanza, e pertanto non può che condividersi la sentenza impugnata e quindi la tesi esposta dai primi giudici sia in relazione alla eccepita carenza di motivazione ritenuta infondata che alla notifica dell’invito al contraddittorio in effetti eseguita correttamente al domicilio fiscale della ricorrente (via (OMISSIS) snc) come del resto indicato nella dichiarazione dei redditi, nonché, nel merito, alle varie incongruenze riscontrate e sopra specificate”.

4. Avverso tale sentenza della CTR – depositata il 2 aprile 2012 ricorre per cassazione G.F., che affida il proprio ricorso, notificato l’8/9-12 novembre 2012, a tre motivi.

5. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 20/21 dicembre 2012.

6. Con ordinanza adottata nell’adunanza camerale del 28 marzo 2019, vista la richiesta di sospensione del giudizio avanzata, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, comma 10, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, da G.F., questa Corte sospese il giudizio fino al 10 giugno 2019, rinviando la causa a nuovo ruolo.

G.F. non risulta essersi poi avvalsa della definizione agevolata della controversia ai sensi del citato del D.L. n. 119 del 2018, art. 6.

7. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni motivate, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 3-bis, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, comma 3, e art. 60, comma 1, “in relazione” alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante fosse stata effettuata: a) nel domicilio fiscale della persona fisica G.F. anziché nel domicilio fiscale dell’impresa di cui essa era titolare; b) all’indirizzo del domicilio fiscale della persona fisica G.F. “in suo possesso (Via (OMISSIS))” anziché “all’indirizzo corretto (contrada (OMISSIS))”.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione dell’art. 149 cit. codice, e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, “in relazione” alla L. n. 212 del 2000, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante: a) “sulla busta presumibilmente contenente l’invito si legge solo un indirizzo incompleto (Via (OMISSIS)) ed un timbro “Atto non ritirato entro 6 mesi, che dovrebbe configurare una attestazione di compiuta giacenza, senza però menzione del compimento di tutte le prescrizioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, per la validità della compiuta giacenza”; b) “anche l’avviso di spedizione (CAD), compilato in modo assai criptico e senza l’osservanza delle formalità di legge porta lo stesso incompleto indirizzo e la menzione (casella barrata con crocetta) di una “immissione in cassetta dello stabile”, laddove in sito sussistono una pluralità di stabili non identificati da civici. Peraltro, non è dato di comprendere se sia stata svolta una effettiva ricerca del destinatario di altro soggetto abilitato a ricevere la notifica”.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “omessa e insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia”, segnatamente, sul “se il contraddittorio non si sia svolto a causa dei vizi di notifica dell’invito o per fatto e colpa del contribuente”, in quanto “i Giudici di appello hanno optato per la seconda ipotesi (…) senza procedere alla disamina approfondita dei lamentati vizi di notifica, senza esaminare attentamente i documenti postali prodotti e senza controllare il rispetto delle norme di legge che presiedono alla attività notificatoria in caso di notifiche a mezzo posta”.

4. Il primo motivo non è fondato sotto entrambi i profili in cui si articola.

4.1. Quanto al primo di essi (riassunto sopra sub a), questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che all’impresa individuale non può essere riconosciuta alcuna soggettività, o autonoma imputabilità, diversa da quella del suo imprenditore, in quanto essa si identifica con il suo titolare sia sotto l’aspetto sostanziale sia sotto l’aspetto processuale (Cass., 30/05/2007, n. 12757; nello stesso senso, Cass., 15/01/1981, n. 344).

Quindi, nel caso di impresa individuale, l’obbligazione tributaria fa capo alla persona fisica dell’imprenditore, che è il destinatario della pretesa fiscale (Cass., 17/04/2013, n. 9256, la quale ha anche precisato che l’obbligazione tributaria non fa capo neppure alla ditta, che è solo un elemento distintivo dell’impresa).

Da tanto discende immediatamente che – posto che, salvo il caso di consegna in mani proprie, la notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente “deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c) – nel caso di impresa individuale, poiché il destinatario della pretesa tributaria e, quindi, degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente (tra i quali l’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis), è la persona fisica dell’imprenditore, la notificazione di tutti i predetti atti deve essere fatta nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore.

Nessun error in iudicando ha pertanto commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditrice individuale G.F..

4.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), dalla sentenza impugnata risulta che l’invito a comparire fu notificato nel domicilio fiscale della contribuente “via (OMISSIS) s.n.c. (…) come (…) indicato nella dichiarazione dei redditi”.

Tanto rilevato, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio che, in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio, non corrisponde l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto, sicché, in caso di originaria difformità, non importa se per errore o per malizia, tra residenza anagrafica e domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, la notificazione dell’avviso di accertamento perfezionata presso quest’ultimo indirizzo (anche mediante compiuta giacenza) si deve ritenere valida (Cass., 20/05/2021, n. 13843; in senso analogo, Cass., 14/12/2016, n. 25680).

Pertanto, nessun error in iudicando ha commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata dall’amministrazione finanziaria presso l’indirizzo indicato dalla contribuente nella dichiarazione dei redditi.

5. Il secondo motivo è inammissibile nel primo profilo e non fondato nel secondo profilo in cui è articolato.

5.1. Il primo profilo (riassunto sopra sub a) è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, ove sia contestata la rituale notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, “per il rispetto del principio di autosufficienza, è necessaria la trascrizione integrale delle retate e degli atti relativi al procedimento notificatorio, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza in base alla sola lettura del ricorso, senza necessità di accedere a fonti esterne allo stesso” (Cass., 30/11/2018, n. 31038; in senso analogo, tra le tante, Cass., 28/02/2017, n. 5185, 05/11/2019, n. 28483, 13/11/2019, n. 29404).

Nel caso di specie, premesso che, nella notificazione a mezzo posta, l’attestazione della sussistenza delle condizioni di legge per la notificazione “per compiuta giacenza” – in particolare: temporanea assenza del destinatario e mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere il piego – è fatta dall’ufficiale postale non sulla busta contenente l’atto da notificare ma sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato (L. n. 890 del 1982, art. 8, nel testo applicabile ratione temporis), la ricorrente non ha adempiuto l’onere nè di trascrivere tale avviso di ricevimento nè di allegarlo al ricorso (ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

5.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), l’infondatezza di esso discende dal fatto che, sull’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cosiddetta CAD) – depositato dalla ricorrente insieme con il ricorso vi è l’attestazione dell’ufficiale postale sia della temporanea assenza del destinatario, sia della mancanza di altre persone abilitate a ricevere il piego sia, infine, dell’immissione della comunicazione nella cassetta della corrispondenza dello stabile di “via (OMISSIS)”.

Tenuto conto che, da un lato, come specificato nella sentenza impugnata, la contribuente, nella dichiarazione dei redditi, aveva indicato quale proprio indirizzo di domicilio fiscale “via (OMISSIS) s.n.c.” – e, quindi, un indirizzo privo di numero civico – e, dall’altro lato, che l’ufficiale postale, avendo attestato la temporanea assenza della destinataria, aveva necessariamente individuato la sua abitazione (ancorché priva del numero civico), ne discende che il procedimento di notificazione dell’invito a comparire si deve ritenere regolarmente perfezionato con la prova del ricevimento della CAD. 6. Il terzo motivo è inammissibile.

Premesso che al presente ricorso si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo di tale articolo sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, questa Corte ha chiarito che il “fatto”, controverso e decisivo per il giudizio, ivi menzionato deve essere inteso come “un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico” e non è assimilabile, in alcun modo, a una “questione” o una “argomentazione” (Cass., 08/10/2014, n. 21152, 03/10/2018, n. 24035).

Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto l’asserita omissione o insufficienza della motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla valutazione, compiuta dalla CTR, circa la validità o no della notificazione dell’invito a comparire, cioè circa un elemento che, palesemente, non concreta un “fatto” nel senso storico-naturalistico precisato dal ricordato principio di diritto, bensì una questione giuridica (già proposta, sotto il profilo della violazione di legge, con i due precedenti motivi).

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 30-04-2021) 20-07-2021, n. 20736

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3815/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Russo ed elettivamente domiciliato in Roma, via Aureliana n. 25, presso l’avv. Arianna Scione e l’avv. Antonia Scione;

– controricorrente –

Per la cassazione della sentenza della C.T.R. per la Campania, n. 6132/28/14, depositata in data il 17/6/2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30 aprile 2021 dal relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

Svolgimento del processo
che:

1. In seguito ad accertamento nei confronti di M.G. relativo all’anno di imposta 2005, divenuto definitivo per mancata impugnazione, fu emessa nei confronti del predetto una cartella di pagamento, notificatagli il 8/6/2011, con la quale gli fu chiesto il pagamento della somma iscritta a ruolo.

Impugnato il predetto atto dal contribuente, che deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2005 in essa indicato ed eccepiva la prescrizione dell’azione di accertamento per essere stata detta notifica effettuata il 8/6/2011, oltre il termine di decadenza del 31/12/2010, la C.T.P. di Caserta, avendo reputato la regolarità della notifica dell’atto presupposto, rigettò il ricorso con sentenza n. 286/09/2012, depositata il 3/5/2012, che fu riformata dalla C.T.R. per la Campania, adita dallo stesso contribuente, con sentenza n. 6132/28/14, depositata il 17/6/2014.

2. Contro quest’ultima decisione, l’Agenzia delle Entrate propone dunque ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi. Il contribuente si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione delle norme sulla notificazione a mezzo posta e degli artt. 2700 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non completa la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento per mancato deposito dell’originale della ricevuta di ritorno, senza considerare che il duplicato tiene luogo dell’originale e che l’avviso di ricevimento, parte integrante del procedimento notificatorio, è munito di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c., in quanto avente natura di atto pubblico, sicchè la contestazione dell’attendibilità del duplicato deve avvenire mediante querela di falso.

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, introdotto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, commi 2-quater e 2-quinques, convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 139 c.p.c., comma 4, e art. 149 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. fondato la nullità dell’avviso di accertamento sulla carente allegazione della ricevuta di ricezione dell’avviso spedito dall’ufficiale giudiziario, senza considerare che la comunicazione di avvenuta notifica (C.A.N.), richiesta all’agente postale che consegni il piego a persona diversa dal destinatario, è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che la notificazione si perfeziona con la consegna dell’atto e non con la consegna della C.A.N., essendo richiesta come formalità l’indicazione nell’avviso di ricevimento dell’atto consegnato il numero della raccomandata della comunicazione di avvenuta notifica e la data dell’invio.

3.1 I due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono fondati.

La C.T.R. ha infatti fondato l’accoglimento dell’appello del contribuente sulla reputata irregolarità del procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento, costituente atto presupposto della cartella impugnata, rilevando la mancata produzione dell’originale dell’avviso di ricevimento, il carente contenuto del suo duplicato, siccome privo della sottoscrizione del ricevente e della specificazione del suo nominativo, e l’omessa allegazione dell’avvenuta ricezione dell’avviso spedito dall’Ufficiale giudiziario.

Tali argomentazioni non si confrontano però con i principi espressi da questa Corte in ordine alla prova del perfezionamento della notifica eseguita a mezzo posta, come di seguito riportati.

Va innanzitutto detto che, in tema di notifiche a mezzo posta, nell’ipotesi di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’unico atto idoneo a provare l’avvenuta notificazione è, ai sensi del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, art. 8, (non abrogato nè modificato, neanche implicitamente, a seguito dell’emenda della L. n. 890 del 1982, art. 6, introdotta dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. e, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461), il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale, che, peraltro, non deve essere sottoscritto dalla persona alla quale il piego era stato consegnato, assumendo rilevanza il registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione dell’avviso originario, del quale il duplicato deve essere una riproduzione fedele in quanto contenente tutte le indicazioni proprie dello stesso, compresa quella afferente al soggetto che ha ricevuto l’atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 3, 30/1/2019, n. 2551; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348), nè il nominativo del soggetto che ha ricevuto l’atto notificando, purchè il giudice, attraverso le indicazioni in esso contenute, sia posto nelle condizioni di verificare in quali esatti termini e, nel caso, a mani di quale soggetto, il recapito dell’atto si sia perfezionato (in tal senso, Cass., 30/1/2019, n. 2551), atteso che la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto, si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica e che incombe sul destinatario, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria e, in particolare, l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità suindicate (Cass., Sez. 5, 30/10/2018, n. 27587).

Peraltro, tale duplicato, alla medesima stregua dell’originale ha natura di atto pubblico e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta essere avvenuti in sua presenza, sicchè il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348).

Pertanto, alla luce di tali principi deve ritenersi erroneo il ragionamento seguito dai giudici di merito, i quali non hanno considerato nè la valenza probatoria del duplicato prodotto, nè l’irrilevanza della mancata sottoscrizione dello stesso, nè la idoneità dello sbarramento della casella dicente “incaricato” al fine di porre il giudice nelle condizioni di verificare a mani di quale soggetto la consegna del plico fosse avvenuta.

3.2 Quanto alla raccomandata c.d. “informativa”, va innanzitutto premesso come il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, sulle imposte sui redditi, a sua volta menzionato dalla normativa in materia di imposte indirette e di riscossione (così come del resto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, in tema di processo tributario, salva la disposizione di cui all’art. 17), nel rinviare alle norme processualcivilistiche attraverso il richiamo all’art. 137 c.p.c. e ss., ad eccezione degli artt. 142, 143, 146, 150 e 151, non applicabili in ragione della specificità della materia, e salve le regole e gli adattamenti in esso previsti, consenta di ritenere operante anche per gli atti sostanziali l’art. 149 c.p.c., in tema di notificazioni mezzo del servizio postale, integrato dalle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, il cui art. 14, regola la notifica degli atti tributari sostanziali e della riscossione.

Tale rinvio fa salve, come si è detto, alcune deroghe, tra le quali spiccano sia quella sancita dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, comma 1, come modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, secondo cui la notifica deve essere eseguita, in via preferenziale, direttamente dagli Uffici a mezzo del servizio postale e soltanto in via residuale, quando la prima risulti impossibile attraverso i canoni ordinari della notificazione, attraverso l’intermediazione dell’agente notificatore, come da regola generale, sia quella che, accanto alla tradizionale figura dell’ufficiale giudiziario, annovera, tra i soggetti che fungono da intermediari nell’attività informativa degli atti recettizi dell’Amministrazione finanziaria, i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’ufficio finanziario di appartenenza, i quali soli, alla stregua della lettura combinata delle norme processualcivilistiche e di quelle speciali, possono avvalersi del procedimento notificatorio tributario, essendo invece l’ufficiale giudiziario tenuto al rispetto dei principi del codice di procedura civile.

Ciò detto, va evidenziato come, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., l’Ufficiale giudiziario che non abbia potuto eseguire la consegna per irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c., a ricevere l’atto, sia tenuto a depositarne copia nella casa del Comune in cui la notificazione deve essere eseguita, affiggendo avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e a dargliene notizia con raccomandata con avviso di ricevimento.

Quest’ultimo incombente è stato introdotto anche con riguardo alla notifica a mezzo posta dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 4, lett. c), n. 1), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 marzo 2005, n. 80, che ha sostituito integralmente L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, i commi 2, 3 e 4, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione, pronunciata dalla Corte Cost. con la sentenza n. 346 del 1998, che aveva reputato contrastare con i principi di uguaglianza e di diritto di difesa la precedente previsione, nella parte in cui, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario oppure per inidoneità o assenza o rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, come indicate alla medesima L., art. 7, commi 2 e 3, imponeva all’agente postale di depositare l’atto presso l’ufficio e di rilasciarne avviso mediante affissione alla porta d’ingresso o immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, senza prevedere che gli si desse anche comunicazione del tentativo di notifica mediante raccomandata con avviso di ricevimento, oltre a stabilire che, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, il piego fosse restituito al mittente dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Questa disposizione era stata infatti considerata dalla Corte costituzionale gravemente pregiudizievole per il notificatario in quanto contrastante con i diritti di uguaglianza e di diritto di difesa, posto che egli, a causa della sua assenza dall’abitazione, azienda o ufficio, protrattasi per oltre dieci giorni o di mancanza delle persone indicate dall’art. 7, non si sarebbe più trovato nelle condizioni di ritirare il piego o comunque avrebbe versato in una situazione di notevole difficoltà nell’individuare l’atto notificatogli, diversamente da quanto previsto in caso di notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Da ciò deriva, dunque, l’introduzione, nelle notifiche postali, dell’obbligo di avviso, al destinatario, del deposito dell’atto e delle formalità seguite, con l’indicazione secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data di ritiro del piego se anteriore. Successivamente, con sentenza n. 3 del 2010, è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale anche dell’art. 140 c.p.c., laddove, per come interpretato dal diritto vivente, prescriveva che la notifica si intendeva perfezionata con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione, essendo stato ritenuto che tale disposizione, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto notificato, attuava un “non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante, su cui ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notifica torio, e quelli del destinatario, in una materia nella quale le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità, dando luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8”.

Tale intervento della Corte costituzionale ha sostanzialmente determinato un nuovo scostamento tra le due discipline, quella di cui all’art. 140 c.p.c., e quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, come affermato anche da questa Corte, atteso che, “mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore”, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost., “fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale”, senza che tale difformità si esponga a dubbi di legittimità costituzionale, posto che “non è predicabile un dovere costituzionale del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili sul piano degli effetti e degli interessi della disciplina, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali (inclusa la disciplina delle notificazioni) a condizione che non siano lesi i diritti di difesa” (in questi termini Cass., Sez. 2, 4/3/2020, n. 6089).

Diversa fattispecie è quella prevista, invece, dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, abrogato dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. f), come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461, a decorrere dal 1 gennaio 2018 e, pertanto, applicabile alla fattispecie ratione temporis, secondo cui “se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”, che si riferisce all’ipotesi in cui la consegna avvenga a mani del familiare convivente, di persona addetta alla casa o al servizio del destinatario o di portiere dello stabile e che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Cass., Sez. 3, 22/5/2015, n. 10554).

A questo proposito, questa Corte ha affermato che “anche alla comunicazione di avvenuta notifica di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7 – e ad onta del minor livello di garantismo che caratterizza la disciplina della sua trasmissione postale (raccomandata semplice), rispetto a quello che caratterizza la disciplina della trasmissione postale della comunicazione di avvenuto deposito di cui all’art. 140 c.p.c. (raccomandata a.r.), debba applicarsi il principio.., secondo cui l’attestazione di avvenuto invio di una raccomandata, con l’indicazione del solo numero (ossia senza che si precisi a chi, ed in quale indirizzo, essa sia stata spedita), copre con fede privilegiata soltanto la dichiarazione di avvenuto invio di una raccomandata con quel numero; con la conseguenza che, in tal caso, la prova del fatto che la stessa sia stata spedita al destinatario della notifica, presso il suo indirizzo, va fornita, da chi è interessato a dimostrare la ritualità della notifica, producendo la relativa ricevuta di spedizione o deducendo altro idoneo mezzo di prova” (Cass., Sez. 2, 12/7/2018, n. 18472).

Con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, questa Corte, a sezioni unite, ha da ultimo affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 4, e dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012), e non anche nel secondo.

La scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’Ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c., e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012, in motivazione).

Sul punto, è stata peraltro ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 7, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata cd. informativa, come invece previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli interventi additivi richiesti dalla Corte costituzionale (sentenza del 14/1/2010 n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui all’art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (Cass., Sez. 3, 7/6/2018, n. 14722).

Ciò comporta che, essendo stata, nella specie, la consegna del plico eseguita a mani di un incaricato, come risulta dallo sbarramento di tale voce, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto.

Deriva da quanto detto la fondatezza di entrambi i motivi.

4. In conclusione, accolti i motivi proposti e cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie le censure proposte, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 04/02/2021) 15/07/2021, n. 20275

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3384/2018 proposto da:

S.D.C.A., Sc.Di.Cl.Al., Sc.Di.Cl.An., S.D.C.C., S.D.C.E. e S.D.C.M., quali eredi di S.D.C.A.G., domiciliati in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Carmine De Dominicis;

– ricorrenti –

contro

S.R.M., S.R.L., Sc.Ro.Lu., domiciliati in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dagli avvocati Pasquale, Massimiliano e Marco Scognamiglio;

– controricorrenti –

e contro

S.D.C.M.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4701/2017 della CORTE d’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/11/2017.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/02/2021 dal Consigliere relatore Dott. Cristiano Valle, osserva quanto segue.

Svolgimento del processo
S.D.C.M., Sc.Di.Cl.Al., S.D.C.A., S.D.C.E., S.D.C.C. e Sc.Di.Cl.An., quali eredi di S.D.C.A.G., impugnano, con atto affidato a unico motivo, nei confronti di S.R.L., Sc.Ro.Lu. e Sc.Ro.Lu., la sentenza della Corte di Appello di Napoli, del 16/11/2017 n. 4701, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Napoli in punto di valida interruzione del termine prescrizionale decennale in forza di notifica del precetto in data 05/10/1999 (e il 12/12/2000), effettuata nei confronti del dante causa degli attuali ricorrenti ed ha confermato la pronuncia di rigetto dell’opposizione all’esecuzione.

Resistono con controricorso S.R.L., Lu. e M.. S.D.C.M.C. è rimasta intimata.

La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale partecipata.

Il P.G. non ha depositato conclusioni.

Non risulta il deposito di memorie.

Motivi della decisione
L’unico motivo di ricorso censura come segue la sentenza della Corte di Appello di Napoli: in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 148 c.p.c..

Il motivo è esposto da pag. 38 a pag. 51 del ricorso ed è preceduto da un’ampia esposizione dei fatti di causa e segnatamente delle fasi di merito.

Le vicende rilevanti in causa, nelle fasi di merito, sono le seguenti: gli odierni ricorrenti, quali eredi di S.C.A.G. hanno proposto opposizione all’esecuzione avverso precetto loro notificato, sulla base di titolo esecutivo giudiziale costituito da sentenza del Tribunale di Napoli del 26/0371997, da S.R.L., Lu. e M., quali eredi di Sc.Di.Cl.Al. e resa in causa di riduzione ereditaria.

Il motivo è incentrato sulla ritenuta, dai giudici di merito, validità della notifica dell’atto di precetto del 05/10/1999 effettuata presso la residenza del loro dante causa, S.D.C.A.G. e mediante consegna a S.D.C.M. senza che nella relata di notifica fosse esattamente indicato il luogo di effettiva consegna. I ricorrenti censurano, altresì, la mancata ammissione, da parte della Corte di Appello, della prova per testi volta a provare che S.D.C.M. non era convivente con il padre, neppure temporaneamente.

Il ricorso è infondato.

La sentenza della Corte territoriale ha esposto quanto segue.

“Poichè la relazione di notificazione si riferisce, di norma all’atto notificato così come strutturato in assenza tali indicazioni difformi deve presumersi che la notificazione sia stata effettuata nel luogo in esso indicato, sicchè l’omessa indicazione del detto luogo nella “relata”, ove emendabile col riferimento alle risultanze dell’atto, non comporta nullità della notificazione ma mera irregolarità formale, non essendo la nullità prevista dall’art. 160 c.p.c. (Sez, 3, Sentenza n. 5079 del 03/03/2010): Se l’ufficiale giudiziario non indica, nella relazione di notifica di un atto di impugnazione, il luogo ove essa è avvenuta, questo può essere desunto implicitamente dalla relativa indicazione contenuta nell’istanza di notifica, a cui questa fa riferimento (Sez. 3, Sentenza n. 4129 del 12/05/1997). In tema di notificazioni la consegna dell’atto da notificare “a persona di famiglia”, secondo il disposto dell’art. 139 c.p.c., non postula necessariamente nè il solo rapporto di parentela – cui è da ritenersi equiparato quello di affinità – nè l’ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell’atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando, all’uopo, sufficiente l’esistenza di un vincolo di parentela o di affinità che giustifichi la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario stesso resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria senza che a al fine rilevino le sole carnificazioni anagrafiche del familiare medesimo (Sez. 5, Sentenza n. 23368 del 30/10120061 Sez. 6-L, Ordinanza n. 21362 del 15/10/2010). Facendo applicazione delle norme e dei principi di diritto innanzi richiamati, è da reputarsi certamente valida la notifica del precetto eseguita in data 5.10.1999, mediante consegna dell’atto a mani del figlio M., perchè la circostanza che la notifica avvenne in (OMISSIS), vale a dire presso la residenza che il destinatario ebbe (almeno) fino al 31.7.2000, si desume implicitamente dalla indicazione di tale luogo contenuta nella richiesta di notifica fatta all’Ufficiale Giudiziario. Nè rileva che il figlio M. non fosse convivente, perchè l’art. 139 c.p.c., non richiede la presenza di tale presupposto per la validità della notifica. Per questa ragione, correttamente, il tribunale non ammise la prova sulla circostanza che “… S.d.C.M., figlio del de cuius, non era convivente con il padre neppure temporaneamente ” (capo a della memoria ex art. 183 c.p.c. del 10.6.2011), perchè gli opponenti, per vincere la presunzione di avvenuta consegna dell’atto al destinatario, avrebbero dovuto dimostrare il carattere del tutto occasionale della presenza del figlio M. in casa del padre (che è circostanza non coincidente, di per sè, con la non convivenza). Quindi, tenuto conto della sicura validità della notifica del precetto del 5.10.1999, la prescrizione decennale non risulta maturata posto che la sentenza che costituisce titolo esecutivo è del 1997 e che agli attuali appellanti il precetto successivo al 5.10.1999 fu notificato il 24 e 25 marzo 2009. E’ quindi superfluo statuire sulla validità della notifica del precetto del 12.12.2000″.

La sopra riportata motivazione della Corte di Appello di Napoli è coerente con la più recente giurisprudenza di legittimità e segnatamente con l’affermazione (Cass. n. 24681 del 08/10/2018 Rv. 650658 – 01): “La notificazione mediante consegna a una delle persone enumerate nell’art. 139 c.p.c., deve essere necessariamente eseguita nei luoghi nella norma stessa indicati, giacchè la certezza che la persona legata da rapporti di famiglia o di collaborazione con il destinatario provveda a trasmettergli l’atto ricevuto può ritenersi pienamente raggiunta soltanto se la consegna avvenga in un luogo comune al consegnatario e al destinatario e nel quale, quindi, si presuma che costoro abbiano degli incontri quotidiani. Ne consegue, quindi, la nullità della notificazione per mancanza di detta certezza, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario espressamente risulti che l’atto sia stato consegnato a una delle dette persone, ma in un luogo diverso da quelli previsti dalla norma; al contrario, la mancata precisazione nella relata del luogo della consegna stessa non determina la nullità della notificazione, dovendo presumersi, in assenza di annotazioni contenute nella relata, che la notificazione sia stata eseguita in uno dei luoghi prescritti, sicchè la omessa annotazione si risolve in una mera irregolarità formale non influente sulla validità della notifica, nè sulla efficacia (di atto pubblico) della relata con riguardo al luogo di consegna” che si allaccia a quella, meno di recente (Cass. n. 5079 del 03/03/2010 Rv. 611576 – 01), richiamata in motivazione dalla stessa sentenza d’appello.

Il motivo di ricorso, pertanto, oltre che inammissibile in quanto fa perno quasi esclusivamente su circostanze di fatto, non più deducibili in sede di legittimità e sulle quali i giudici di merito hanno, plausibilmente, escluso di dare ingresso all’istruttoria, in quanto irrilevanti, è, altresì, infondato, in quanto non censura adeguatamente la ragione del decidere della Corte di merito, che ha fatto corretto governo delle risultanze di causa e logica applicazione del richiamato orientamento in tema di validità della relata di notifica anche se risultante dalla sua integrazione con l’atto da notificare.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, sono distratte in favore dei difensori di parte controricorrente, che hanno reso la dichiarazione di antistatarietà.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 6.800,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA e IVA per legge, da distrarsi in favore degli avvocati Pasquale, Massimiliano e Marco Scognamiglio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, il 4 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-05-2021) 14-07-2021, n. 20017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorso iscritto al n. 14042/15 R.G. proposto da:

P.S., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. Giuseppe Martino, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Domenico Martino, in Roma, alla via Vittorio Veneto, n. 7;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

EQUITALIA CENTRO S.P.A., in persona del legale rappresentante;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria dell’Abruzzo n. 1342/07/14 depositata in data 4 dicembre 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 maggio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. P.S. propose appello avverso la sentenza n. 209/4/14, pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti che aveva rigettato il ricorso proposto dalla stessa contribuente avverso la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. n. (OMISSIS) del (OMISSIS) di avvio dell’attività di riscossione delle somme relative all’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate ai fini del recupero di maggiore IRPEF in relazione all’anno d’imposta 2007.

A sostegno dell’impugnazione la contribuente eccepì il vizio di motivazione della sentenza di primo grado con riguardo alla statuizione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e la erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto rituale la notifica dell’avviso di accertamento.

2. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo respinse il gravame.

Precisato, preliminarmente, che l’impugnazione aveva ad oggetto sia la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. sia l’avviso di accertamento, ritenne infondato il motivo di appello con cui la contribuente aveva dedotto l’irritualità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 dell’anno 2011 alla contrada (OMISSIS) di (OMISSIS), per presunta violazione delle formalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d).

In particolare, i giudici di appello osservarono che tale ultima disposizione, a seguito della modifica operata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, disponendo che doveva farsi con “apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate” l’elezione di domicilio “presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano”, costituiva ipotesi del tutto diversa dal caso in esame che concerneva l’elezione di domicilio fatta dalla contribuente in un Comune ((OMISSIS)) diverso da quello di residenza ((OMISSIS)). Al caso in esame, secondo i giudici di merito, doveva applicarsi al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, sicchè per gli uffici finanziari la dichiarazione contenuta nel Mod. 730 era vincolante ai fini dell’individuazione del domicilio fiscale del contribuente cui fare riferimento per la notifica degli atti impositivi, in conformità al principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1484 del 1998.

Disatteso, infine, il terzo motivo di appello, con il quale era stata denunciata la violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, confermarono la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che la notifica dell’avviso di accertamento fosse stata validamente effettuata presso il domicilio fiscale indicato dalla contribuente nella dichiarazione Mod. 730 dell’anno 2011, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione per tardività della stessa che si ripercuoteva anche sulla impugnazione della comunicazione di Equitalia Centro s.p.a..

3. Contro la suddetta decisione d’appello P.S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

La contribuente in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria ex art. 380-bis 1. c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo – rubricato: Violazione e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 60 e 58, dell’art. 24 Cost., nonchè dell’art. 47 c.c., anche in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 6, nonchè di ogni altra norma e principio in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti impositivi tributari la ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, accorda al contribuente la facoltà di eleggere un domicilio speciale limitatamente ad “atti, contratti, denunzie e dichiarazioni”, come reso palese dallo specifico riferimento alle “parti”, ossia a coloro che nella stipula di atti e contratti intendono, per quel determinato affare, analogamente alla previsione di cui all’art. 47 c.c., comma 1, che le comunicazioni e le notifiche vengano loro effettuate in quel luogo; tale facoltà, secondo la ricorrente, è prevista in deroga al domicilio generale, fiscale, coincidente con la residenza anagrafica, citato art. 58, ex comma 2.

Aggiunge che tale conclusione è suffragata dallo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che non richiama l’art. 58, e che detta una disciplina, del tutto autonoma, applicabile alle notificazioni degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi, riconoscendo, alla lett. d), al contribuente la facoltà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale e stabilendo, nel secondo periodo della medesima lett. d), la modalità di esercizio dell’anzidetta facoltà.

Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, ulteriori elementi esegetici che corroborano tale interpretazione si rinvengono nell’intervento legislativo operato con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con il quale, stralciando ogni riferimento alla dichiarazione annuale dei redditi, si è inteso sancire la prevalenza del criterio dell’effettiva residenza e privare di effetti – ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi – il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi; il termine “dichiarazioni” contenuto nel citato art. 58, comma 4, non può essere inteso nel senso di “dichiarazioni dei redditi”, ma piuttosto nel senso di dichiarazioni che rendono le parti in seno a determinati atti pubblici o privati – ovvero con specifici atti separati.

La norma cui occorre fare riferimento ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento, aggiunge la ricorrente, è costituita dal citato art. 60, che deve essere coordinato con la L. n. 212 del 2000, art. 6, secondo cui occorre sempre assicurare l’effettività della conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui notificati.

Contesta, quindi, alla C.T.R. di avere erroneamente ritenuto applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, senza tenere conto delle allegazioni fattuali svolte dalle quali emergeva che alla data di notifica dell’avviso di accertamento, avvenuta in data (OMISSIS) a mezzo posta per compiuta giacenza con immissione dell’avviso in cassetta in data (OMISSIS), risultava iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) ed era effettivamente residente in tale città, il che aveva comportato che l’atto impositivo non era entrato nella sua sfera di conoscibilità.

2. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o erronea applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Richiamata la sentenza n. 216 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale, che ha affermato che la L. n. 212 del 2000, art. 6, rappresenta una chiave di lettura della legislazione tributaria, la contribuente afferma che uno dei principi espressi da tale disposizione normativa è quello dell’effettività della conoscenza legale, da parte del contribuente, degli atti tributari destinati ad essere notificati, principio che porta a ritenere che la notifica eseguita a mezzo posta perfezionatasi con la compiuta giacenza nel domicilio indicato nella dichiarazione reddituale non possa considerarsi entrata nella sfera di conoscibilità del contribuente.

3. Con il terzo motivo, censurando la decisione impugnata per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamenta che i giudici di appello hanno del tutto trascurato che la presunta notificazione dell’avviso di accertamento è avvenuta con modalità tali che il medesimo atto, oltre a non essere pervenuto a conoscenza della contribuente, neppure è entrato nella sua sfera di conoscibilità, trattandosi di notificazione effettuata a mezzo posta per compiuta giacenza ed in luogo diverso da quello di residenza o di domicilio. Assume che se i giudici di appello avessero tenuto conto di tali fatti rilevanti e decisivi, l’esito del giudizio sarebbe stato diverso.

4. I primi tre motivi, strettamente connessi perchè vertenti sulla medesima questione, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

4.1. Occorre premettere che la notificazione, le cui modalità sono stabilite normativamente, ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario il contenuto di un determinato atto, effetto questo che riveste particolare rilievo in ambito tributario laddove la notificazione concerne un atto che contiene una pretesa impositiva.

La procedura di notifica, che è regolata da diverse disposizioni normative con riguardo a tutte le categorie di atti tributari, va necessariamente coordinata con il principio generale dettato dalla L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), a tenore del quale l’amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l’effettiva conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui destinati, e ciò nel rispetto dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente.

Questa Corte, al riguardo, ha già affermato che, prima che il contribuente abbia conoscenza degli atti che incidono sulla sua posizione debitoria o creditoria nei confronti del Fisco, gli atti stessi non possono produrre effetti (Cass., sez. 5, 30/03/2001, n. 4760; Cass., sez. U, 5/10/2004, n. 19854, con riguardo alla sanatoria dei possibili vizi della notificazione e dei suoi effetti). Si è, in particolare spiegato (Cass., sez. 5, 16/03/2011, n. 6113), che “è vero che, con la locuzione “effettiva conoscenza”, il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l’assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato ad essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”. E tuttavia resta inteso – come osservato in dottrina – che non coglierebbe il significato della previsione concludere che essa, facendo salve le disposizioni sulla notificazione, si riferisce esclusivamente agli atti per i quali il legislatore non prevede il procedimento notificatorio sebbene una mera comunicazione. In sostanza, la corretta esegesi dell’art. 6, comma 1, resta nel senso che esso intende assicurare l’effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorchè restino ferme le disposizioni in materia di notifica. Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell’amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile”.

In questo senso, d’altro canto, si è mossa anche la Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 360 del 2003, ha dichiarato illegittimo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, con la precisazione che “un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa”.

4.2. Fatta questa premessa, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), stabilisce che, “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” e lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 1, a sua volta, dopo avere stabilito che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, prevede, al comma 2, che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”, mentre quelle non residenti “hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato”.

Anche se, in linea generale, ai fini della notificazione si deve avere riguardo alle risultanze anagrafiche che riguardano il contribuente destinatario dell’atto, non può sottacersi che lo stesso art. 60, comma 3, alla cui stregua “le variazioni e le modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica”, non può condurre a ritenere che l’Ufficio finanziario sia onerato, prima di notificare un atto al contribuente, del controllo, mediante una verifica sui registri anagrafici, dell’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi, nè che detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti tributari.

Tale conclusione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680), renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4 (che recita: “negli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentate agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell’indirizzo solo ove espressamente richiesto”) e, soprattutto, non si porrebbe in linea con l’univoco indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza, o, comunque, di un domicilio diverso da quello di residenza, deve essere effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve conformare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 29/11/2013, n. 26715, nella quale ultima si legge che “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Le considerazioni esposte impongono dunque di tenere nettamente distinta l’ipotesi del cambio di residenza da quella di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi. Infatti, in quest’ultimo caso, questa Corte ha ripetutamente ribadito la validità della notifica effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche quando il perfezionamento della notifica sia avvenuto tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto, nonostante tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680; Cass., sez. 6-5, 10/04/2018, n. 8747; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12905; Cass., sez. 6-5, 10/10/2019, n. 25450).

Nelle pronunce da ultimo richiamate, si è evidenziato, da un lato, che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell’ufficio accertatore è determinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all’Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere, che spetta all’ufficio nella cui circoscrizione il contribuente ha indicato il nuovo domicilio” e, dall’altro, che “tale ius variandi dev’essere peraltro esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario: pertanto, il contribuente che abbia indicato nella propria denuncia dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello precedente, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell’incompetenza per territorio, l’invalidità dell’atto di accertamento compiuto dall’ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato” (Cass., sez. 5, 10/03/2006, n. 5358; Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. L, 21/12/2015, n. 25680).

In sostanza, proprio in coerenza con i principi a cui si ispira la L. n. 212 del 2000, che, all’art. 10, sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria “sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, deve ritenersi corretta una notificazione effettuata presso un recapito coincidente con quello palesato dal contribuente all’amministrazione, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.

4.3. Alla luce del quadro normativo sopra delineato e della lettura delle medesime disposizioni normative operata da questa Corte, non è utile invocare la modifica dell’art. 60, comma 1, lett. d), introdotta dal D.L. n. 78 del 2010, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, che ha eliminato la facoltà di far dipendere l’elezione di domicilio espressamente dalla dichiarazione dei redditi annuale, facendola dipendere da apposita comunicazione effettuata al Comune a mezzo di lettera raccomandata con avviso di accertamento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

Infatti, la disposizione invocata, come modificata, riguardante la facoltà riconosciuta al contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti che lo riguardano, ha solo diversamente disciplinato tale facoltà, escludendo che essa debba risultare espressamente dalla dichiarazione dei redditi e richiedendo apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

4.4. Come accertato dai giudici di merito e non contestato dalla ricorrente, nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 presentata per l’anno in contestazione, il domicilio indicato era quello di (OMISSIS) in (OMISSIS), presso il quale l’Agenzia delle entrate ha effettuato la notifica dell’avviso di accertamento che ha preceduto la comunicazione di avvio dell’attività di riscossione da parte di Equitalia Centro s.p.a.

Pertanto, nel caso in esame, il domicilio indicato in dichiarazione costituiva l’unico recapito conosciuto dall’Amministrazione per procedere alla notifica dell’atto impositivo, cosicchè tale indicazione, in difetto di diversa comunicazione, da parte della contribuente, effettuata con le modalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, richiamato art. 60, comma 1, lett. d), non può che equivalere ad elezione di domicilio all’indirizzo indicato in dichiarazione.

L’elezione di domicilio effettuata dalla contribuente nella dichiarazione per l’anno 2008 si è perfezionata in epoca anteriore alla entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 78 del 2010, e, pertanto, essa era pienamente efficace e produttiva di effetti al momento della notificazione dell’atto impositivo, avvenuta il 26 ottobre 2012, ed imponeva all’Amministrazione finanziaria di eseguire la notifica presso l’indirizzo indicato in dichiarazione, a nulla rilevando che a quella data la contribuente risultasse ancora iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS), alla via (OMISSIS).

5. Con il quarto motivo – rubricato: violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, e del L. n. 241 del 1990, art. 21-septies – rilevabilità d’ufficio della nullità assoluta ovvero dell’inesistenza giuridica dell’avviso di accertamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – la contribuente, dopo avere fatto riferimento alla sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015, della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, art. 1, comma 1, evidenzia che per effetto di tale declaratoria di incostituzionalità sono illegittimi i ripetuti conferimenti, da parte dell’Agenzia delle entrate, di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzie delle entrate senza il ricorso alla procedura del concorso pubblico.

Poiché, nel caso di specie, l’avviso di accertamento era stato sottoscritto, su delega del Direttore provinciale, C.R., dal Capo Ufficio F.A.B., il quale era intervenuto ad adiuvandum per sostenere le ragioni dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di appello proposto innanzi al Consiglio di Stato, nell’ambito del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ritenuta fondata con la suddetta sentenza n. 37/2015, doveva dichiararsi l’inesistenza giuridica ovvero la nullità assoluta dell’impugnato avviso di accertamento.

5.1. La censura è inammissibile.

5.2. Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22810 del 2015, “per le ipotesi di nullità dell’atto tributario, di qualsiasi natura esse siano, compresa, quindi, quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, opera il principio generale di conversione in mezzi di gravame. Le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, nè possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (Cass., sez. 5, 16/02/2015, n. 18448). La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza della struttura del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimita della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (cfr. per tutte Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25756)”.

Nella fattispecie la nullità, qui prospettata dalla parte ricorrente, per come emerge dalla stessa descrizione dello svolgimento del processo evincibile dal ricorso, non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso gli avvisi di accertamento, sicchè ogni indagine sulla stessa è preclusa in sede di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite con riguardo ad Equitalia Centro s.p.a., essendo questa rimasta intimata.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 10-03-2021) 14-07-2021, n. 20074

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20766/2016 proposto da:

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE TRASTEVERE 244, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FASSARI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FOLENGO TEOFILO, 49, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINACI, rappresentato e difeso dall’avvocato WALTER FALCONIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 555/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/03/2021 dal Consigliere Dott. ELISA PICARONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che chiede di respingere il proposto ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza n. 555 del 2016, pubblicata il 7 giugno 2016 e notificata il 16 giugno 2016, ha rigettato l’appello proposto da G.E. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Nardò n. 510 del 2010, e nei confronti di Z.D..

1.1. Il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’opposizione proposta dalla G., ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il decreto ingiuntivo che le intimava di pagare la somma di Euro 11.745,39 in favore dello Z..

2. La Corte d’appello ha confermato la decisione, sul rilievo che la notificazione del decreto ingiuntivo era stata eseguita correttamente in data 18 aprile 2008, presso la residenza anagrafica della G., con le forme di cui all’art. 140 c.p.c., con la compiuta giacenza in data 17 maggio 2007 (recte 2008); che eventuali contestazioni delle risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto formare oggetto di querela di falso; che non erano ravvisabili situazioni di impedimento oggettivo – riconducibili al caso fortuito o alla forza maggiore – della conoscenza dell’atto da parte della destinataria, che, pertanto, l’opposizione al decreto ingiuntivo notificata in data 29 luglio 2008 era tardiva.

3. G.E. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, ai quali resiste Z.D. con controricorso. Il Pubblico mistero ha concluso per il rigetto del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità della Camera di consiglio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art. 140 c.p.c., perché l’avviso di ricevimento non era completo, essendo stata omessa dall’agente postale l’indicazione relativa alla verifica in loco della solo temporanea assenza della destinataria dal luogo di residenza.

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione dell’art. 148 c.p.c. e art. 2700 c.c., per censurare l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui le risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto essere contestate con la querela di falso. In realtà, nella specie non v’erano attestazioni di cui contestare la veridicità, in quanto, come già evidenziato con il primo motivo, l’avviso di ricevimento non recava alcuna attestazione. L’agente postale si era limitato a dichiarare di avere applicato il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 c.p.c., senza altra indicazione.

3. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame del fatti decisivo rappresentato dalla mancata indicazione della spedizione della raccomandata di avviso dell’avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo, nonché del mancato svolgimento delle verifiche sulla irreperibilità della destinataria e della relativa attestazione.

4. Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia sulla esistenza del nesso tra la mancata tempestiva conoscenza dell’atto oggetto di notificazione e l’irregolarità della notificazione.

5. Il ricorso è fondato con riferimento ai motivi primo e terzo, con assorbimento dei rimanenti.

5.1. In premessa si rileva che, diversamente da quanto prospettato nelle conclusioni scritte del Pubblico ministero, la parte ricorrente non è incorsa nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per non avere trascritto l’avviso di ricevimento nel corpo del ricorso.

Come evidenziato nella memoria di parte ricorrente, il ricorso indica specificamente e localizza i documenti sui quali sono fondate le doglianze, e quindi assolve l’onere richiamato (ex plurimis, Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; più di recente, Cass. 11/01/2016, n. 195).

6. In materia di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., secondo l’orientamento consolidato di questa Corte – a partire da Sezioni Unite n. 458 del 2005 – ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.

In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale (Cass. 30/01/2019, n. 2683, che ha confermato la nullità della notifica di un ricorso introduttivo di primo grado in quanto l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa, pur allegato all’atto, non risultava compilato nella parte relativa alla mancata consegna del plico al domicilio).

Secondo altre pronunce, invece, non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né che l’avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 12/12/2018, n. 32201; Cass. 27/02/2012, n. 2959).

E’ stato ulteriormente affermato che, in tema di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18/12/2014, n. 26864, che ha escluso che la mancata specificazione, sull’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con il destinatario determinasse la nullità della notificazione).

7. Nella fattispecie in oggetto, dall’esame degli atti, consentito ed anzi dovuto a fronte della deduzione di error in procedendo (per tutte, Cass. 30/07/2016, n. 16164), risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento è stata spedita ma non anche “recapitata” alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.

E se, certamente, dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, diversamente è a dirsi con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata.

Il procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c., non può pertanto ritenersi completato – anche nella prospettiva meno formalista, che esige comunque che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o “altro fatto impeditivo” della conoscibilità dell’avviso stesso – e la notifica del decreto ingiuntivo è nulla, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..

8. Nei limiti precisati sussistono i vizi di violazione dell’art. 140 c.p.c. e di omesso esame dell’avviso di ricevimento denunciati con i motivi primo e terzo, il cui accoglimento assorbe i rimanenti motivi ed impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice designato in dispositivo, il quale procederà ad un nuovo esame della domanda, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, a seguito di riconvocazione, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 30/04/2021) 12/07/2021, n. 19831

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21330/2014 R.G. proposto da:

N.V. (C.F. (OMISSIS)), C.M. (C.F. (OMISSIS)), rappresentati e difesi dall’Avv. FABRIZIO LOFOCO, elettivamente domiciliati presso lo studio GREZ in Roma, Corso Vittorio Emanuele, 18;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonchè nei confronti di:

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL (C.F.), in persona del Curatore pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, Sezione staccata di Foggia, n. 103/27/14, depositata in data 20 gennaio 2014;

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 30 aprile 2021 dal Consigliere Relatore D’Aquino Filippo.

Svolgimento del processo
che:

I contribuenti N.V. e C.M., unitamente a (OMISSIS) SRL in liquidazione, già (OMISSIS), operante nel settore della commercializzazione di articoli sanitari e farmaceutici, hanno impugnato alcuni avvisi di accertamento relativi al periodo di imposta dell’esercizio 2004, con i quali venivano recuperate IRES, IRAP e IVA e rettificato il reddito da partecipazione dei soci, oltre sanzioni e interessi. Gli atti impositivi traevano origine da una attività istruttoria a seguito della quale, previo invio di un questionario alla società contribuente, si accertavano costi indeducibili, si rilevavano sopravvenienze attive non dichiarate e si procedeva al disconoscimento della conseguente detrazione IVA. I contribuenti hanno contestato, oltre all’inesistenza della notifica degli avvisi e alla decadenza dal potere di accertamento, l’infondatezza nel merito delle pretese impositive.

La CTP di Foggia ha rigettato i ricorsi e la CTR della Puglia, Sezione staccata di Foggia, con sentenza in data 20 gennaio 2014, ha parzialmente accolto l’appello dei contribuenti. Ha ritenuto il giudice di appello correttamente notificati gli atti impositivi presso il domicilio fiscale dei contribuenti a consegnataria qualificatasi quale persona autorizzata al ritiro (domestica), con dichiarazione facente fede sino a querela di falso, notificazione alla quale ha fatto seguito la successiva spedizione di raccomandata all’indirizzo dei contribuenti. Ha, poi, ritenuto la CTR – sul rilievo che la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 2, comma 9, ha previsto una specifica indeducibilità per i costi di promozione e rappresentanza per le aziende farmaceutiche – che non fossero inerenti alcune spese (alberghi e soggiorni, ristoranti, convegni e riunioni, spese di viaggio), nonchè ha ritenuto indeducibili le spese di trasferta degli agenti, non essendo stato provato per iscritto il contratto di agenzia. La CTR ha, invece, accolto l’appello dei contribuenti in relazione alla deduzione di alcune fatture di acquisto sia per ricerche di mercato, sia per erogazione di compensi a terzi, sia in relazione alla duplicazione di uno dei costi dichiarati indeducibili, ritenendo conseguentemente detraibile l’IVA in relazione ai costi riconosciuti come deducibili.

Propongono ricorso per cassazione i contribuenti affidato a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria; resiste con controricorso l’Ufficio, che propone a sua volta ricorso incidentale, affidato a un unico motivo.

Motivi della decisione
che:

1.1 – Con il primo motivo del ricorso principale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione degli artt. 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 145 e 148 c.p.c., inesistenza della notificazione degli atti impugnati e “violazione del giusto processo”. Deducono i ricorrenti che la consegnataria della copia notificata, asseritamente indicata dal messo notificatore come domestica, non fosse convivente dei ricorrenti, nè addetta al ritiro, ma una mera conoscente e vicina di casa, la quale abitava nella stessa via privata sulla quale si affacciavano le abitazioni dei ricorrenti, tutte associate al medesimo numero civico. Deducono i ricorrenti che le attestazioni del pubblico ufficiale, contrariamente a quanto statuito nella sentenza impugnata, non sarebbero assistite da pubblica fede quanto alla veridicità delle informazioni a questi riferite. Chiedono di riesaminare la documentazione in atti al fine di accertare le violazioni attinenti al procedimento notificatorio e, in particolare, si richiamano alla dichiarazione rilasciata dalla consegnataria, al fine di accertare sia la mancanza di relazione tra consegnatario e destinatari sia l’assenza della convivenza.

Deducono, ulteriormente, i ricorrenti che, ancorchè si venisse a configurare la nullità della notificazione e non anche la inesistenza tout court della stessa, l’Ufficio sarebbe comunque decaduto dalla facoltà di accertamento, in quanto ciò che rileva (come si ribadisce in memoria) è la data di ricezione del plico, la quale andrebbe identificata – secondo i ricorrenti – con la data di ricezione della raccomandata informativa (asseritamente ricevuta in data 8 gennaio 2010), tardivamente rispetto al periodo di imposta 2004, per cui sussisterebbe l’interesse dei contribuenti odierni ricorrenti a impugnare gli atti impositivi al solo fine di far valere la decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento.

1.2 – Con il secondo motivo del ricorso principale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 19, 25, 8, 39, 52 e 54, al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 39 e 40, al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), art. 88, alla L. n. 289 del 2002, art. 33, comma 3, alla L. n. 289 del 2002, art. 2, comma 9 e art. 6, al R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 (t.u. leggi sanitarie), artt. 170 e 171, al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 541, art. 12, in attuazione della Direttiva 92/98/CEE, “violazione del principio di inerenza”, violazione dell’art. 1742 c.c., perplessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa i fatti di causa, violazione degli artt. 137, 138, 139 e 140 c.p.c. Deducono i ricorrenti, quanto ai costi afferenti alle spese di pubblicità e rappresentanza, che la L. n. 289 del 2002, art. 2, comma 9, nel disporre una disciplina speciale per il regime farmaceutico, riguarderebbe il solo caso del “comparaggio” e che il D.Lgs. n. 541 del 1992, art. 12, comma 5, avrebbe limitato gli oneri deducibili a quelli relativi ai soli operatori qualificati. Deducono, in proposito, i ricorrenti che le spese sostenute per la ristorazione e per la partecipazione a meeting e congressi di medici, nonchè le spese di viaggio e per gli acquisti effettuati e portati in deduzione sarebbero deducibili, circostanza risultante dalla descrizione delle fatture. Deducono, ulteriormente, la deducibilità delle spese alberghiere, nonchè delle altre singole spese la cui deducibilità è stata esclusa dalla CTR nella sentenza impugnata.

1.3 – Con il terzo motivo del ricorso principale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, motivazione perplessa e contraddittoria. Deducono sinteticamente i ricorrenti che la sentenza impugnata avrebbe annullato gli atti impositivi solamente in relazione ad alcune poste e che questo è avvenuto in maniera contraddittoria, osservandosi che l’Ufficio non avrebbe confutato le ragioni dei contribuenti.

1.4 – Con il quarto motivo del ricorso principale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 66 e 67, per avere la notificazione degli atti impositivi, in quanto effettuata dal messo notificatore a mani di persona estranea al nucleo familiare (vicina), messo in pericolo la privacy dei ricorrenti.

1.5 – Con l’unico motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle Entrate deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio in relazione all’accertamento, compiuto dalla CTR, circa una sola delle riprese annullate in appello (la riconosciuta deducibilità del costo per ricerca di mercato dell’importo di Euro 78.000,00 e la conseguente detraibilità dell’IVA), nella parte in cui la sentenza ha riconosciuto il costo sul presupposto che la fattura di acquisto risulterebbe pagata e quietanzata in base alle risultanze di una perizia di parte. Deduce l’Ufficio che non sarebbe stata oggetto di esame la originaria fattura di acquisto, dalla cui descrizione non sarebbe evincibile la riconducibilità dell’operazione al periodo di imposta in oggetto (esercizio 2004).

2 – Il primo motivo del ricorso principale proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate è inammissibile sotto più profili.

2.1 – Si rileva preliminarmente come il profilo della diversità delle notificazioni degli atti in fase precontenziosa rispetto alla notifica degli atti processuali è stato tardivamente introdotto (peraltro, fugacemente) per la prima volta con memoria ed è quindi inammissibile.

2.2 – Sotto un primo profilo, l’art. 139 c.p.c. prevede ai commi secondo e terzo che, ove la notificazione non possa essere eseguita a mani proprie, la stessa debba essere eseguita a una delle persone che si trovino presso il luogo in cui deve dovrebbe eseguita la notificazione ovvero, in mancanza delle stesse, con consegua al portiere dello stabile “e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla”. La notificazione al vicino di casa (art. 139 c.p.c., comma 3), in luogo di persona addetta alla casa (art. 139 c.p.c., comma 2), è, pertanto, rituale, ove il pubblico ufficiale non abbia rivenuto in loco il destinatario e abbia attestato le vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2.

Si è osservato, in proposito, che il messo notificatore, sebbene non debba necessariamente adottare forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dalla norma, secondo la successione preferenziale ivi tassativamente stabilita, con conseguente nullità e non inesistenza, della notificazione (Cass., 10 febbraio 2017, n. 3595; Cass., Sez. V, 27 settembre 2013, n. 22151; Cass., Sez. U., 30 maggio 2005, n. 11332). Tuttavia, a fronte dell’accertamento compiuto in sentenza, secondo cui “la consegna è avvenuta presso il domicilio fiscale della ricorrente a persona identificatasi quale domestica autorizzata al ritiro dell’atto”, parte ricorrente non ha trascritto la relata di notifica, al fine di verificare l’assenza delle (asserite) omesse ricerche da parte dell’Ufficiale giudiziario, risultando decisiva la trascrizione delle relate di notificazione (come anche delle cartoline di ritorno) al fine di ripercorrere il giudizio di rituale notifica delle cartelle di pagamento (Cass., Sez. V, 30 novembre 2018, n. 31038; Cass., Sez. V, 28 febbraio 2017, n. 5185).

2.3 – Sotto un secondo profilo, la sentenza ha dato atto, con accertamento non oggetto di impugnazione (e, pertanto, passato in cosa giudicata) che la notifica è “avvenuta presso il domicilio fiscale”, accertando che – indipendentemente dalla qualifica assunta dal consegnatario dell’atto notificato – la persona che ha ricevuto la notificazione si trovava presso il domicilio fiscale dei contribuenti. La stessa ricostruzione dei ricorrenti (secondo cui le loro abitazioni e quella della consegnataria insistono sul medesimo numero civico: pag. 12 ricorso) induce a ritenere che la consegnataria fosse residente nel medesimo luogo indicato come indirizzo fiscale dei contribuenti ricorrenti.

Il fatto che la consegnataria si trovasse presso l’indirizzo di consegna del plico (domicilio fiscale) attiene, invero, propriamente alle attività compiute dal pubblico ufficiale che procede alla notificazione ed è, quindi, coperta da pubblica fede sino a querela di falso. Sotto questo profilo si osserva che per costante giurisprudenza di questa Corte, ove la notificazione sia avvenuta presso il domicilio del destinatario, è onere della parte che assume di non aver ricevuto l’atto notificato provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo (Cass., Sez. V, 18 giugno 2020, n. 11815; Cass., Sez. V, 20 dicembre 2018, n. 32981; Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2010, n. 21362). L’orientamento riposa sul principio secondo cui l’art. 139 c.p.c. fa discendere la presunzione iuris tantum di conoscenza, da parte del destinatario, dell’atto notificatogli, dalla consegna dell’atto stesso effettuata, presso la casa di abitazione dello stesso destinatario, a persona presente nel luogo, che a sua volta innesca la presunzione di conoscenza dell’atto da parte del destinatario (Cass., Sez. Lav., 5 aprile 2018, n. 8418; Cass., Sez. V, 29 novembre 2017, n. 28591; Cass., Sez. V, Sez. VI, 24 settembre 2015, n. 18989; Cass., Sez. II, 24 luglio 2000, n. 9658).

Si osserva, al riguardo, che i ricorrenti si sono limitati a dedurre che la consegnataria dell’atto non fosse convivente dei contribuenti (invocando a loro tutela un certificato di residenza e le dichiarazioni rese dalla consegnataria del plico notificato), senza addurre alcuna ulteriore specificazione in ordine alla occasionalità del collegamento tra la consegnataria dell’atto e la riscontrata presenza della stessa nell’abitazione dei ricorrenti.

2.4 – In terzo luogo, si osserva che la notifica presso il domicilio fiscale, ove effettuata in difformità del modello legale, non può considerarsi inesistente, essendo luogo che ha una relazione stabile con il contribuente e che prevale su diverse indicazioni di domicilio per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria (Cass., Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 9567; Cass., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 4675; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2019, n. 25450). Ne consegue che, ove possa (in tesi) predicarsi la nullità della notificazione, la stessa deve ritenersi sanata ex tunc per effetto della impugnazione dei contribuenti ex art. 156 c.p.c., istituto applicabile agli atti impositivi (Cass., Sez. VI, 5 marzo 2019, n. 6417), rispetto alla quale la tardiva conoscenza effettiva dell’atto impugnato in data 8 gennaio 2010 è priva di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

3 – Il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile quanto alla dedotta violazione di legge. Come colto dal controricorrente, i ricorrenti, pur deducendo una violazione di norme di legge, mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI, 4 luglio 2017, n. 8758). Nel qual caso, oggetto del giudizio non è l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito e a questi riservata (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315), il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2019, n. 31546; Cass., Sez. U., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054).

Il che è reso palese dalla parziale aspecificità del parametro normativo e, soprattutto, dalle conclusioni cui giungono i ricorrenti (come ribadito nella memoria), ove osservano che tutti i costi disconosciuti dall’accertamento impugnato e confermati dalla CTR sarebbero costi inerenti, così invocando la revisione del giudizio in fatto già compiuto dalla CTR e a questa demandato.

3.1 – Analogamente è inammissibile la doglianza sotto il profilo dell’omesso esame di fatto decisivo, posto che i ricorrenti non allegano specifici fatti storici (mancando, peraltro, anche l’indicazione sia del luogo processuale in cui gli stessi fatti sarebbero stati introdotti nel processo, sia della loro decisività), ma si limitano a ripercorrere il ragionamento decisorio sugli elementi di prova compiuto dal giudice del merito.

4 – Il terzo motivo del ricorso principale è infondato. Il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che possono essere esaminate e si convertono, all’evidenza, in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, con conseguente nullità della sentenza – di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, di motivazione apparente, di manifesta ed irriducibile contraddittorietà e di motivazione perplessa od incomprensibile (Cass., Sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940), ove la motivazione risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (Cass., VI, 25 settembre 2018, n. 22598).

Nella specie la sentenza impugnata ha diffusamente esposto le ragioni di indeducibilità – succintamente esposte in narrativa – delle spese di promozione e rappresentanza delle imprese farmaceutiche, indicando le ragioni di diritto – in particolare facendo proprie le indicazioni provenienti dalla Circolare n. 3/2006 dell’Ufficio e richiamandosi alla disciplina speciale di cui al D.Lgs. n. 541 del 1992, per scendere, poi, nel dettaglio, analizzando ogni singola spesa.

Parimenti, è demandato al giudice del merito valutare i profili che siano o meno oggetto di contestazione, ciò in relazione alla fugace deduzione dei ricorrenti, secondo cui l’Ufficio non avrebbe “confutato” tutte le ragioni in fatto e in diritto proposte dai contribuenti appellanti (Cass., Sez. II, 28 ottobre 2019, n. 27490; Cass., Sez. VI, 7 febbraio 2019, n. 3680).

5 – Il quarto motivo del ricorso principale è inammissibile, non essendovi traccia nella sentenza impugnata (come rilevato dal controricorrente) degli argomenti trattati dai ricorrenti. Deve riaffermarsi il principio secondo cui qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, allo scopo di consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass., Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 32804; Cass., Sez. II, 24 gennaio 2019, n. 2038).

6 – Il ricorso incidentale è inammissibile, ancorchè per ragioni diverse da quelle dedotte dai ricorrenti in memoria. L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente di dedurre sotto uno specifico motivo di ricorso l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), sicchè l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. VI, 27 novembre 2020, n. 27183; Cass., Sez. II, 29 ottobre 2018, n. 27415; Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), nè essendo il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito fonte di innesco del vizio denunciabile con il ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., Sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892).

Il ricorrente incidentale intende, di fatto, svalutare l’accertamento in fatto, compiuto dalla CTR sulla base dell’esame della perizia di parte, richiamandosi alla descrizione della fattura in luogo dell’esame dell’elemento istruttorio valorizzato dal giudice del merito, così procedendo a un riesame del materiale probatorio a quest’ultimo riservato.

7 – Il ricorso principale proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate va, pertanto, rigettato e il ricorso incidentale di quest’ultima dichiarato inammissibile. La reciproca soccombenza comporta la compensazione integrale delle spese processuali del giudizio di legittimità. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico dei ricorrenti principali, non anche per il ricorrente incidentale, non operando detto principio a carico dell’Agenzia ricorrente incidentale (Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 1778; Cass., Sez. III, 14 marzo 2014, n. 5955).

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale; dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico di parte ricorrente principale, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2021


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 10/02/2021) 23/06/2021, n. 17968

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10227/2019 proposto da:

GENERALI PREFABBRICATI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE MEDAGLIE D’ORO 113, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA MARIA CONSUELO SANGUEDOLCE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI RONDINI;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SABOTINO 46, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FERRONI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 277/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/01/2019.

Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 aprile 2015, UnipolSai chiedeva al Tribunale di Bologna di emettere ingiunzione di pagamento nei confronti di Generali Prefabbricati S.p.A. per essere stata escussa, ad opera di RFI S.p.A. sulla base di una polizza fideiussoria rilasciata nell’interesse di una associazione temporanea di imprese, con a capo la società mandataria (OMISSIS) (dichiarata fallita dal Tribunale di Milano con sentenza del 17 febbraio 2005) e della mandante, Generali Prefabbricati.

Il decreto ingiuntivo emesso il 29 aprile 2015 veniva notificato a Generali Prefabbricati S.p.A., dai difensori di UnipolSai Ass.ni, a mezzo PEC, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, in data 12 giugno 2015, mentre il 16 ottobre 2015, era data esecutorietà al decreto ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e, conseguentemente, in data 14 settembre 2016, UnipolSai notificava all’atto di precetto.

Con atto di citazione, portato per la notifica il 22 settembre 2016, Generali Prefabbricati proponeva opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c. deducendo, preliminarmente, di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, per caso fortuito o forza maggiore, legittimante l’impugnazione tardiva e ciò in quanto la mail PEC di notifica del ricorso del decreto monitorio era finita nella cartella della “posta indesiderata” della propria casella PEC (spam) ed era stata eliminata dall’impiegata preposta, senza apertura e lettura della busta, per timore di danni al sistema informatico aziendale. Nel merito contestava la esistenza del credito.

Si costituiva l’opposta UnipolSai chiedendo, preliminarmente, dichiararsi l’inammissibilità dell’opposizione tardiva per mancanza dei presupposti previsti all’art. 650 c.p.c. e, nel merito, il rigetto.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza dell’11 maggio 2018, emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., dichiarava inammissibile l’opposizione tardiva, compensando le spese tra le parti.

Secondo il Tribunale la notificazione effettuata dai difensori di UnipolSai possedeva i requisiti di validità previsti dal citato art. 3 bis, con la conseguenza che si doveva considerare perfezionata per il destinatario nel momento in cui era stata generata la ricevuta di avvenuta consegna. Non sussisterebbero i presupposti della mancata conoscenza incolpevole, per caso fortuito o forza maggiore, non ricorrendo l’ipotesi di circostanza “assolutamente ostativa e meramente oggettiva, avulsa dalla volontà umana”, atteso che l’elemento determinante era rappresentato dalla scelta volontaria della persona preposta, di cestinare la PEC per evitare un presunto rischio per il sistema informatico.

Avverso tale decisione proponeva appello la società Generali Prefabbricati S.p.A.. Si costituiva UnipolSai Ass.ni insistendo per il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 22 gennaio 2019, facendo propria la motivazione adottata dal Tribunale, rigettava l’impugnazione condannando parte appellante al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Generali Prefabbricati S.p.A. affidandosi a motivi. Resiste con controricorso UnipolSai Ass.ni S.p.A..

La trattazione del ricorso è stata fissata in udienza pubblica, ma il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale, con adozione della presente decisione in forma di sentenza in ragione della modalità di trattazione già fissata. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate ritualmente comunicate alle parti insistendo per il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione fra le parti, stante la mancata ammissione di mezzi di prova orali sull’esercizio della dovuta diligenza nel controllo della Posta Elettronica Certificata in ingresso e nell’installazione di sistemi di protezione antivirus sulla propria rete informatica. In particolare, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si deduce che la Corte non avrebbe considerato il fatto decisivo che aveva impedito la conoscenza effettiva del decreto ingiuntivo nei termini riferiti dalla dipendente, segretaria della azienda, T.M. la quale aveva precisato che nella giornata di venerdì 12 giugno 2015 era sola in ufficio ed era la prima volta che riceveva una notifica di un atto giudiziario a mezzo PEC, ricordando che in precedenza un virus informatico aveva messo in crisi il software aziendale. Tali circostanze rilevanti e non contestate sarebbero state oggetto di richiesta di prova testimoniale erroneamente disattesa.

Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni.

In primo luogo, la ricorrente omette di dedurre e documentare di avere formulato uno specifico motivo di appello al fine di sollecitare l’ammissione delle prove articolate in primo grado e che sarebbero state disattese dal Tribunale.

In secondo luogo, la censura è dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale omessa considerazione di un fatto storico, rappresentato dalle circostanze poste a sostegno della opposizione tardiva (nello specifico, profili istruttori). Tale doglianza è inammissibile in presenza di una doppia conforme atteso il divieto contenuto dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5 e non avendo parte ricorrente precisato che la decisione di secondo grado sarebbe fondata su elementi fattuali diversi rispetto a quella del Tribunale.

In terzo luogo, con il ricorso si lamenta sostanzialmente la mancata ammissione della prova, facendo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma tale ipotesi esula del tutto dalla fattispecie richiamata che, come si è detto, riguarda la mancata considerazione di un fatto storico.

Infine, la censura è dedotta in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, mancando di trascrivere il tenore delle prove orali che la ricorrente avrebbe voluto fossero ammesse, sì da impedire ogni valutazione circa la loro rilevanza e decisività.

Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Principio ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U., Sentenza n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

La ricorrente ha omesso di assecondare tutti gli oneri richiesti, non avendo trascritto il contenuto dei capitoli di prova, non avendo individuato la fase processuale della tempestiva richiesta e non avendo precisato di avere reiterato in appello tale istanza, omettendo di allegare e localizzare all’interno del fascicolo di legittimità gli atti richiamati.

Con il secondo motivo si deduce la violazione degli art. 647 e 650 c.p.c.. La Corte di appello di Bologna non avrebbe considerato che l’addetta alla ricezione della P.E.C., già a conoscenza di una precedente aggressione virale del sistema informatico della ricorrente, era stata costretta ad eliminare la notificazione via P.E.C. del decreto ingiuntivo non opposto, al solo fine di evitare il ripetersi di una simile dannosa situazione. Tale inevitabilità della scelta dell’addetta alla ricezione P.E.C. integrava gli estremi di quella forza maggiore che avrebbe consentito di giustificare l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c..

La censura è infondata atteso che l’argomentazione non consente di giustificare l’omesso controllo della posta qualificata da parte dell’addetta alla ricezione, in presenza di una determinata PEC, smistata dal sistema interno fra la posta elettronica indesiderata e contrassegnata come spam.

I programmi di posta elettronica non sono in grado di individuare, con esattezza, i messaggi da qualificarsi come spam, e – pertanto – rientra nella diligenza ordinaria dell’addetto alla ricezione della posta elettronica il controllo anche della cartella della posta indesiderata, atteso che in tale cartella ben possono essere automaticamente inseriti messaggi provenienti da mittenti sicuri e attendibili e non contenenti alcun allegato pregiudizievole per il destinatario.

Le suddette cautele di attenzione sono note a chi opera professionalmente quale recettore dei messaggi di posta elettronica, strumento di notificazione telematica che ormai appartiene al know how di ogni operatore commerciale – e per lui, dei suoi ausiliari – stante la sua diffusione e il suo valore di comunicazione idonea a produrre effetti giuridici.

In materia questa Corte si è già pronunciata, affermando che il titolare dell’account di posta elettronica certificata ha il dovere di controllare prudentemente tutta la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata” (Cass. n. 7752 del 2020 e Cass. Sez. L. 21-05-2018, n. 12451; Cass. civ. Sez. I, 03-01-2017, n. 31; Cass. civ. Sez. VI-1, 07-07-2016, n. 13917).

Come rilevato da questa Corte (Cass. n. 3965 del 2020) del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 20 (“regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. B2, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24”), disciplina i “requisiti della casella di P.E.C. del soggetto abilitato esterno”, imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di P.E.C. e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica; in particolare, il “soggetto abilitato esterno”, cioè, nel caso che ci occupa, il difensore della parte privata, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. 3 R.G. 25467/2018 m) del D.M. n. 44 del 2011: a) “è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati” (comma 2); b) “è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia” (comma 3); c) è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che “deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34” (comma 4); d) “è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione” (comma 5).

Nel caso di specie ciò avrebbe consentito di isolare la mali ritenuta sospetta e porla in cd quarantena ovvero di eseguire la scansione manuale del file in questione, azionando il prescritto “software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio”.

Come rilevato dai giudici di merito, tali considerazioni appaiono particolarmente pregnanti se riferite al caso concreto in cui il messaggio era espressamente riferito alla L. n. 53 del 1994, la cui rilevanza è nota a chi professionalmente può essere destinatario di comunicazione a mezzo P.E.C..

Le considerazioni oggetto della memoria non superano quanto detto, dovendosi escludersi – per quanto sopra argomentato – che l’addetta alla ricezione P.E.C. non potesse in alcun modo adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio P.E.C. nel cestino, una volta classificato dal computer come spam.

Rimangono assorbiti i restanti motivi che sono stati dedotti “subordinatamente alla ipotesi di accoglimento dei motivi” precedenti. La ricorrente, nella parte finale del ricorso (pagine da 25 a 35), riproduce i motivi di opposizione che, in ragione della pronunzia di inammissibilità dell’opposizione tardiva, non erano stati presi in esame in sede di merito e che vengono reiterati per l’ipotesi di favorevole decisione da parte della Corte di legittimità ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Tali considerazioni riguardano rispettivamente:

– il difetto di legittimazione passiva di Generali Prefabbricati S.p.A;

– l’infondatezza dell’azione di regresso e conseguente insussistenza del debito;

– la circostanza che la polizza sarebbe sottoscritta in nome proprio dalla sola S.p.A. (OMISSIS), che resterebbe l’unica obbligata con conseguente estraneità della S.p.A. Generali prefabbricati dalla solidarietà prospettata nel ricorso monitorio;

– il mandato con rappresentanza non si estenderebbe alla stipula della polizza fideiussoria prospettandosi, al più, ed in via subordinata, una responsabilità solidale pro quota;

– l’eccezione di prescrizione relativamente agli interessi legali con riferimento alla parte della pretesa più risalente rispetto al termine di cinque anni previsto all’art. 2948 c.c..

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-04-2021) 21-06-2021, n. 24280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente –

Dott. DE SANTIS Anna Maria – Consigliere –

Dott. BORSELLINO Maria D. – rel. Consigliere –

Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Consigliere –

Dott. SARACO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.K., nato in (OMISSIS);

avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di L’Aquila il 31 dicembre 2020;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARIA DANIELA BORSELLINO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

lette le conclusioni dell’avv. Pasquale Cardillo Cupo che ha insistito nel motivo di ricorso, osservando che la difesa ha documentato per tabulas l’impossibilità tecnica di partecipare all’udienza da remoto.

Svolgimento del processo
1.Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di L’Aquila sezione del riesame ha confermato l’ordinanza resa dal GIP del Tribunale di Avezzano il 6 novembre 2020 con cui è stata applicata nei confronti di I.K. la misura cautelare degli arresti domiciliari nella qualità di indagato in ordine ad una rapina impropria e del delitto previsto dall’art. 617 quater c.p..

Si addebita all’indagato di essersi impossessato di un’autovettura Lamborghini sottraendola dall’interno di un piazzale recintato e di avere usato violenza contro la persona offesa nel tentativo di darsi alla fuga, venendo arrestato nella flagranza del reato.

2.Avverso la detta sentenza ricorre l’indagato deducendo:

2.1 violazione del D.L. n. 137 del 2020, art. 23 comma 5 e dell’art. 309 c.p.p., comma 8 poichè l’ordinanza pronunciata dal GIP è nulla in quanto l’udienza è stata tenuta in assenza di contraddittorio, nonostante la difesa abbia più volte chiesto di parteciparvi in modalità videoconferenza, così come indicato nel decreto di fissazione.

In particolare il difensore deduce che il 24 dicembre 2020 è stato comunicato il decreto di fissazione udienza in cui era indicata la data del 31 dicembre 2020 e l’avviso al difensore che l’udienza sarebbe stata celebrata mediante collegamento audiovisivo. La difesa ha più volte inoltrato il proprio indirizzo al recapito PEC indicato, ma l’indirizzo non è risultato valido; il difensore ha contattato telefonicamente la cancelleria del tribunale per comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza, ma non ha ottenuto nessuna risposta e l’udienza è stata celebrata in sua assenza.

Nell’ordinanza impugnata si legge che il difensore, pur ritualmente avvisato, non è comparso, ma si tratta di un’affermazione inesatta poichè il difensore non è stato posto in condizioni di comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza e, pur ritualmente avvisato, non ha avuto la possibilità di prendervi parte e il provvedimento assunto deve ritenersi nullo.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.

Dall’esame degli atti allegati al ricorso e di quelli presenti nel fascicolo, il cui esame è consentito per la natura dell’eccezione dedotta, emerge che il difensore è stato ritualmente avvisato che per partecipare all’udienza avrebbe dovuto inviare almeno 48 ore prima dell’udienza il proprio recapito all’indirizzo caratterizzato nella parte iniziale dalla dicitura “sez.1…” per consentire alla cancelleria di contattarlo.

Il difensore ha invece inviato, peraltro solo 24 ore prima dell’udienza, la richiesta all’indirizzo sbagliato, caratterizzato dalla dicitura “sezione 1…” e non a quello indicato dalla cancelleria e riportato nell’avviso di fissazione. Tale divergenza tra i due indirizzi emerge ictu oculi dal confronto tra il decreto di fissazione dell’udienza e l’avviso di mancato recapito della comunicazione del difensore, allegato al ricorso, in cui viene attestato che la comunicazione era diretta ad indirizzo inesistente.

E’ evidente che la conseguente mancata partecipazione del difensore all’udienza di convalida a causa dell’erronea indicazione dell’indirizzo della cancelleria nella missiva con cui chiedeva di partecipare a distanza ricade esclusivamente sulla responsabilità del difensore che, ai sensi dell’art. 182 c.p.p. non può dolersi della nullità cagionata per l’omesso contraddittorio, avendola lui stesso provocata.

L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si reputa congruo fissare in Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 10/03/2021) 17/06/2021, n. 17289

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 7332 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:

B.M., rappresentato e difeso, in virtù di procura in calce al ricorso, dall’Avv. Domenico Siciliano, presso il cui studio in Roma, Via Gramsci, 14 è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore;

Riscossione Sicilia Spa;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2636/34/14 della Commissione tributaria regionale della Sicilia – sez. di Catania depositata in data 18.09.2014;

udita nella camera di consiglio del 10.3.2021 la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Galati.

Svolgimento del processo
Con la sentenza indicata la CTR della Sicilia ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, ha rigettato l’originario ricorso proposto dal contribuente avverso una cartella di pagamento relativa ad IRPEF, IRAP ed IVA e conseguenti addizionali per l’anno 2005.

Il ricorso è stato accolto in primo grado per l’assenza di prova della notifica della cartella da parte del concessionario della riscossione stante la mancata produzione della relata di notifica.

La CTR ha accolto l’appello dell’Agenzia affermando la validità della notifica della cartella avvenuta il (OMISSIS) mediante consegna a mani del destinatario sottolineando, altresì, che, comunque, l’atto aveva raggiunto lo scopo, per come confermato dall’avvenuta proposizione dell’opposizione.

In ogni caso, secondo la ricostruzione dei giudici di appello, anche la notifica dell’avviso di accertamento era stata regolare, trattandosi di plico ritirato il (OMISSIS) dalla moglie del destinatario dell’atto appositamente delegata.

L’irretrattabilità di tale atto, non oggetto di impugnazione, rendeva inammissibile qualsiasi ulteriore motivo di opposizione.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione B.M. affidandolo a cinque motivi.

L’Agenzia si è costituita al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

Riscossione Sicilia Spa è intimata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non essere stato dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia.

Nel corso del giudizio di primo grado il contribuente ha eccepito la mancata notifica dell’avviso di accertamento e, a fronte della produzione in giudizio della relata e del frontespizio dello stesso avviso, asseritamente notificato in data (OMISSIS), ha contestato la mancata produzione dell’atto notificato.

In tal modo è stato impossibile comprendere a quale atto fosse riferibile la relata prodotta.

Secondo alcuni stralci della sentenza di primo grado riportati in ricorso la Commissione tributaria provinciale ha accolto il rilievo.

Neppure in grado di appello è avvenuta detta integrale produzione documentale, sicchè la CTR ha errato nel non rilevare l’inammissibilità del gravame.

2. Il secondo motivo censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Ribadisce, a tale proposito, la mancata produzione integrale dell’avviso di accertamento notificato e la circostanza che, alla luce della produzione del solo frontespizio dell’atto, può ritenersi eseguita la sola notifica della prima pagina dello stesso.

3. Con il terzo motivo viene dedotta omessa motivazione su un punto decisivo della controversia a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In particolare, l’illustrazione del motivo si sofferma nuovamente sulla mancata analisi dell’omessa produzione in giudizio di copia integrale dell’avviso di accertamento, circostanza che, laddove esaminata, avrebbe comportato la constatazione che nessun procedimento notificatorio si è mai perfezionato.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, nonchè della L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Qualora la notifica dell’avviso fosse stata eseguita in data (OMISSIS) a mani di delegato del destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto dare notizia allo stesso dell’avvenuta notificazione a mezzo lettera raccomandata.

Adempimento che nel caso di specie non è stato eseguito.

5. Con il quinto motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo inesistente la notifica della cartella esattoriale per mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella medesima, atto ritenuto indispensabile allo scopo di verificare che l’adempimento compiuto da colui che ha posto in essere l’atto sia qualificabile, appunto, come attività che abbia legalmente portato l’atto nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Infondato il primo motivo di ricorso.

La mancata produzione in appello dell’avviso di accertamento, per come descritta dal ricorso del contribuente, non determina certamente l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto di interesse.

Semmai, laddove fosse requisito indispensabile quello omesso, la carenza del relativo adempimento potrebbe, ipoteticamente, determinare l’infondatezza nel merito del motivo.

Attraverso una lettura comprensiva dell’accoglimento del rilievo relativo alla mancata allegazione di copia integrale dell’atto notificato, il ricorrente non sostiene che tale statuizione non sia stata impugnata dall’Agenzia, ma che non sia stata fornita quella prova che egli ritiene indispensabile per neutralizzare l’eccezione difensiva.

Ciò non determina la formazione di alcun giudicato interno per inammissibilità del gravame, ma, si ripete, qualora fosse indispensabile la produzione non effettuata, la sua infondatezza nel merito.

Il motivo, per come formulato, pertanto, deve essere disatteso.

7. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono, anch’essi, infondati.

Entrambi prendono le mosse da un assunto errato in diritto, ossia che sia a carico della parte notificante che produce l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione di un determinato atto l’onere di produrre anche la copia dell’atto notificato in maniera tale che emerga la prova della certa riferibilità dell’avviso di ricevimento all’atto prodotto.

Questa Corte, con orientamento qui condiviso, ha affermato che “in tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova” (Cass. sez. 5, 22 giugno 2018, n. 16528).

La ragione di tale orientamento risiede nel fatto che, una volta effettuata la consegna del plico per la spedizione, esso fuoriesce dalla sfera di conoscibilità del mittente, e perviene in quella del destinatario, il quale può dunque dimostrare che al momento del ricevimento il plico era privo di contenuto (o ne aveva uno diverso).

Nello stesso senso Cass. sez. 3, 22 ottobre 2013, n. 23920, mentre è recessivo il diverso orientamento secondo cui “nel caso di notifica della cartella di pagamento mediante l’invio diretto di una busta chiusa raccomandata postale, è onere del mittente il plico raccomandato fornire la dimostrazione del suo esatto contenuto, allorchè risulti solo la cartolina di ricevimento ed il destinatario contesti il contenuto della busta medesima (nella specie, sull’assunto che essa contenesse il bollettino di versamento, ma non il corpo della cartella)” (Cass. sez. 5, 30 luglio 2013, n. 18252; Cass. sez. 5, 12 maggio 2015, n. 9533, non massimata).

Ulteriormente, di recente, è stato ribadito che “nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, la prova dell’arrivo di questa fa presumere, ex art. 1335 c.c., l’invio e la conoscenza dell’atto, spettando al destinatario, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, l’onere eventuale di dimostrare che il plico non conteneva l’avviso. Tale presunzione, però, opera per la sola ipotesi di una busta che contenga un unico atto, mentre ove il mittente affermi di averne inserito più di uno e il destinatario contesti tale circostanza, grava sul mittente l’onere di provare l’intervenuta notifica e, quindi, il fatto che tutti gli atti fossero contenuti nel plico, in quanto, secondo l’”id quod plerumque accidit”, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione” (Cass. sez. 5, 26 novembre 2019, n. 30787).

8. Infondato il quarto motivo.

Nel caso di specie, non si verte in tema di notifica dell’atto attraverso l’ausilio dell’ufficiale giudiziario e, dunque, non trovano applicazione le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982.

Sul punto si richiama la granitica giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, l’avviso di accertamento o liquidazione senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla legge citata attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c. Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione” (Cass. sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14501).

9. Il quinto motivo è, anch’esso, infondato per plurime ragioni.

La mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella recapitata alla contribuente non costituisce omissione che determina alcun vizio della notifica (Cass. sez. 5, 12 febbraio 2020, n. 17354 in motivazione; in senso conforme Cass. 23 maggio 2018, n. 12750 e Cass. sez. 6-5, 5 maggio 2017, n. 11134).

Nel caso di specie la relata di notifica è stata prodotta in giudizio e la CTR ne ha desunto che l’adempimento è stato effettuato in data 9.11.2009 a mani del destinatario.

In ogni caso, va assicurata continuità all’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo cui “la tempestiva e rituale opposizione ha l’effetto di sanare ogni irregolarità della notifica dell’atto, in quanto ne dimostra il raggiungimento dello scopo”.

Nel caso di specie la contribuente ha potuto proporre opposizione tempestiva.

A ciò si aggiunga che la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3, trova applicazione anche in relazione alla nullità della notifica di atti non processuali quali la cartella di pagamento con l’unico limite che non sia intervenuta la decadenza dal potere di accertamento (sul punto si veda Cass. sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 708 in fattispecie assolutamente identica e con ampi richiami alle pagg. 2 e 3 a precedenti conformi).

10. Da quanto esposto consegue il rigetto complessivo del ricorso. Nessuna statuizione deve essere assunta sulle spese, essendosi costituita l’Agenzia per la sola partecipazione alla eventuale udienza di discussione e Riscossione Sicilia Spa è rimasta intimata.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

nulla sulle spese;

Da atto dei presupposti processuali per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021