Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 03-02-2021) 14-06-2021, n. 16746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14585-2018 proposto da:

DON CARLO SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE TITO LABIENO N 118, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO GIAMPAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ATTILIO DE PASQUALE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato MARIA VITTORIA PIACENTE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO CRISTOFARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 414/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 27/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
Che:

1.La Don Carlo Srl ricorre, affidandosi ad un unico motivo, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta avverso la pronuncia del Tribunale di Cosenza con la quale:

a. era stata accolta la domanda spiegata da C.A. che, proprietaria di tre fondi siti in (OMISSIS), concessi in locazione ad uso commerciale alla società odierna ricorrente, aveva chiesto la sua condanna alla esecuzione dei lavori necessari per la riapertura della finestra sita nel vano bagno di un locale facente parte della complessiva proprietà locata ed il pagamento delle somme dovute per i canoni insoluti, oltre che le spese tributarie ed il risarcimento dei vari danni subiti;

b. era stata parzialmente accolta la domanda riconvenzionale spiegata dalla società odierna ricorrente, con la dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali che escludevano la produzione degli interessi sulle somme versate a titolo di deposito cauzionale, respingendola per il resto e condannando la società alla rifusione delle spese di lite.

1.1.Per ciò che interessa in questa sede, la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello ritenendolo tardivo, in quanto proposto oltre il termine “breve” di trenta giorni, decorrenti dalla notifica della sentenza a mezzo PEC, notifica della quale la società aveva eccepito la nullità, assumendo che sulla “relata”, nonostante la diversa notazione sulla copia stampata, non era stata apposta la firma digitale dell’avvocato notificante e che, in via residuale, doveva applicarsi il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c..

2. La parte intimata ha resistito con controricorso.

3. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
Che:

1. Con unico articolato motivo, la società ricorrente deduce, ex art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 bis e 11 della L. 53/1994 e degli artt. 125,148 e 156 c.p.c..

1.1. Assume, al riguardo:

a. che in data 31.5.2017 era stato trasmesso dal difensore della controparte un messaggio di posta elettronica certificata contenente la comunicazione P.E.C. per la notificazione della sentenza del Tribunale di Cosenza, a cui erano allegati i file della relata di notifica in formato nativo digitale e della copia informatica per immagine di essa, senza alcuna attestazione di conformità;

b. al file della relata di notifica ed a tutti gli altri file allegati al messaggio di PEC, nonostante la diversa notazione riportata sulla copia analogica per stampa prodotta dalla difesa della controparte, non veniva apposta la firma digitale dell’avvocato notificante;

c. il suddetto file della relata di notifica veniva allegato con estensione pdf semplice e non con estensione “p7m” o “pdf” oppure “pdf” ma con eventuale aggiunta del suffisso “signed” al nome del file tanto da presentarlo come “nomefile-signed-pdf”: assume che, pur condivisibile la recente pronuncia di questa Corte relativa alla validità delle firme digitali CAdES e PAdES ritenute equivalenti a quelle previste dalla normativa in vigore (richiama, al riguardo, Cass. SU 10266/2018), affinché il file di notifica potesse considerarsi validamente sottoscritto, doveva ritenersi però necessaria almeno una di tali firme digitali, del tutto assenti nel caso di specie.

1.2. Contesta, in buona sostanza, la statuizione della Corte territoriale che aveva ritenuto che la mancanza della firma digitale del difensore nella relata di notificazione non rilevasse ai fini della validità di essa; ed assume che tale orientamento si poneva in contrasto con quanto predicato dall’art. 125 c.p.c., secondo il quale tutti gli atti di parte dovevano essere sottoscritti dal difensore. 2. In via preliminare, il Collegio rileva la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto parte ricorrente non ha “localizzato”, nel presente giudizio di legittimità e con riferimento specifico agli atti prodotti, la relata di notificazione della sentenza di primo grado di cui si discute.

2.1. Nemmeno ha dedotto di voler fare riferimento alla presenza di tali atti nel fascicolo d’ufficio della corte territoriale oppure in quello del giudizio di appello della controparte (in questo secondo caso o presente nel fascicolo de quo o prodotto dalla resistente) (cfr, sulla specifica questione, Cass. Sez. Un. 22726/2011).

3. Ma tanto premesso, la censura se fosse esaminabile sarebbe infondata.

3.1. Lo stesso appellante, infatti, pur rilevando l’assenza della firma digitale del difensore notificante, ha affermato che la copia stampata della relata di notifica riportava “la diversa annotazione” senza alcuna specificazione in ordine alle caratteristiche di essa: al riguardo, si osserva che questa Corte ha avuto modo di chiarire che in tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata (PEC), “la mancanza, nella relata, della firma digitale dell’avvocato notificante non è causa d’inesistenza dell’atto, potendo la stessa essere riscontrata attraverso altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore menzionato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e, dunque, lo scopo legale della notifica (cfr. Cass. 6518/2017).

3.2. Ed è stato chiarito, in motivazione (cfr. pag. 3 della sentenza citata), che “la notificazione a mezzo PEC è un documento diretto inequivocabilmente dalla casella PEC dell’avvocato del ricorrente a quella del difensore avversario, senza che abbia limitato i diritti difensivi della parte ricevente. Infatti, questa Corte ha stabilito che il difetto della firma non è causa di inesistenza dell’atto, ed ha anzi affermato la surrogabilità di quella prescrizione attraverso altri elementi capaci di far individuare l’esecutore di esso (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10272 del 2015)”.

3.3. Orbene, nella specie, nella notificazione effettuata a mezzo PEC la mancata firma digitale della relata non lascia alcun dubbio sulla riconducibilità alla persona del difensore, attraverso la sua indicazione e l’accostamento di quel nominativo alla persona munita ritualmente della procura speciale.

3.4. Del resto, questa Corte ha affermato che “l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nella specie, in “estensione.doc”, anzichè “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale” (cfr. Cass. Sez. U 7665/2016 ed, in termini, Cass. 3805/2018).

3.5. Nè può ritenersi utile, per una diversa decisione, l’argomento, di tenore “letterale”, portato dal riferimento all’art. 125 c.p.c. e, dunque, alla inclusione della notifica fra gli atti processuali di parte che necessitano della sottoscrizione del difensore, in quanto, da una parte, il richiamo appare improprio non potendosi considerare tale (e cioè ” atto processuale”) il prodotto dell’esercizio della funzione notificatoria del difensore, e, dall’altra, il Collegio ritiene che comunque, l’elencazione della norma richiamata sia tassativa, e non possa essere estesa ai documenti che fanno parte di un procedimento, con più passaggi, come quello per via telematica per il quale è sufficiente che venga attestata la conformità all’originale dell’atto da notificare (cfr. Cass. 26102/2016).

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma Ibis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2300,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 10-03-2021) 09-06-2021, n. 16183

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35659-2019 proposto da:

AMA – AZIENDA MUNICIPALE AMBIENTE SPA ROMA, in persona dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CALDERON DE LA BARCA, 87, presso lo studio dell’avvocato FABIO LITTA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO SCICOLONE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO DOSSI, n. 45, presso lo studio dell’avvocato MARIA ELISABETTA TABOSSI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 2432/5/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO, depositata il 17/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 10/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 17 aprile 2019 la Commissione tributaria regionale del Lazio confermava la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da C.A. contro la cartella di pagamento relativa a Tari per l’anno 2011, emessa a seguito del mancato pagamento del presupposto avviso di accertamento. Rilevava la CTR, in conformità della statuizione del primo giudice, la nullità della notifica dell’atto presupposto, con conseguente invalidità derivata della successiva cartella. Ciò in quanto, non essendo stato l’atto consegnato personalmente al destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto effettuare l’adempimento previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, il quale dispone che se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario dell’avvenuta notifica a mezzo di lettera raccomandata.

Avverso la suddetta pronuncia AMA – Azienda Municipale Ambiente S.p.A. Roma – ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la contribuente.

L’Agenzia delle entrate – Riscossione è rimasta intimata. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio. La controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente, posto che l’atto di impugnazione contiene tutti gli elementi necessari a porre questa Corte in grado di avere piena cognizione della controversia.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, per non avere la CTR considerato che tale disposizione normativa attribuiva agli enti locali, per i tributi di propria competenza, la facoltà di notificare al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, gli atti impositivi. Pertanto, poiché, nella fattispecie, l’ente creditore si era avvalso di tale facoltà, trovavano applicazione le norme del servizio postale ordinario e non la L. n. 890 del 1982, art. 7, come erroneamente ritenuto dal giudice di appello.

La censura è fondata.

Secondo l’orientamento espresso da questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, “In tema di notifica diretta degli atti impositivi, eseguita a mezzo posta dall’Amministrazione senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario, la notificazione si intende eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza e di deposito presso l’Ufficio Postale (o dalla data di spedizione dell’avviso di giacenza, nel caso in cui l’agente postale, sebbene non tenuto, vi abbia provveduto), trovando applicazione in detto procedimento semplificato, posto a tutela delle preminenti ragioni del fisco, il regolamento sul servizio postale ordinario che non prevede la comunicazione di avvenuta notifica, avendo peraltro Corte Cost. n. 175 del 2018 ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1 (nel rilievo che il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque assicurato dalla facoltà per il contribuente di richiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove dimostri, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, di non aver avuto conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile) (Cass. n. 10131 del 2020).

La sentenza impugnata, ritenendo invalida la notifica dell’avviso di accertamento presupposto della cartella di pagamento impugnata, effettuata sulla base della normativa del servizio postale ordinario, poiché non era stata inviata la successiva raccomandata prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, non si è uniformata al principio di diritto sopra richiamato.

Resta assorbito il secondo motivo di ricorso, con il quale si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 1335 c.c..

Sulla base di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi svolti dalla controricorrente anche in memoria, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 18/01/2021) 09/06/2021, n. 16017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10891/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

C.L.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia n. 87/10/13, depositata il 13 novembre 2013.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 gennaio 2021 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Svolgimento del processo
che:

C.L., esercente attività di tinteggiatura e posa in opera di vetrate, impugnava gli avvisi di accertamento per Iva, Irpef e Irap per gli anni 2005-2007 emessi dall’Agenzia delle entrate per l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali di pertinenza.

La CTP di Udine accoglieva il ricorso con riguardo al mancato riconoscimento dell’Iva a credito, alla non debenza dell’Irap e alla applicazione della continuazione con riguardo all’analoga violazione irrogata per l’anno 2004, mentre lo rigettava per i costi disconosciuti perchè non documentati, per l’asserita duplicazione degli accrediti bancari e per la mancata considerazione di oneri deducibili e detraibili. La sentenza era parzialmente riformata dal giudice d’appello quanto ai costi disconosciuti.

L’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione con un motivo. Il contribuente è rimasto intimato.

Motivi della decisione
che:

1. L’unico motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 671 c.p.p., e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, per aver la CTR ritenuto “non ricevibili” le doglianze dell’Ufficio in merito alla non applicazione della continuazione quanto alla sanzione irrogata per l’omessa presentazione della dichiarazione per il 2004, invocando istituti e modalità proprie del giudizio penale ma estranee agli illeciti amministrativi tributari.

Rileva l’Ufficio, in particolare, che, pur trattandosi di violazione della stessa indole realizzata dal medesimo soggetto, il relativo atto di accertamento era stato notificato il (OMISSIS), senza che il contribuente proponesse alcuna impugnazione, sicchè la relativa sanzione era divenuta definitiva e non poteva concorrere con quella irrogata per gli anni successivi, dovendosi equiparare la mancata impugnazione alla rinuncia al ricorso D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 12, comma 8.

Evidenzia, infine, la diversità della continuazione in materia tributaria da quella di cui all’istituto ex art. 81 cpv. c.p., fondata sull’elemento psicologico dell’agente e per la quale rileva l’unicità del disegno criminoso, trattandosi di nozione, quest’ultima, estranea alla disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 472 del 1997, che assegna rilievo all’idoneità oggettiva delle violazioni tra loro concatenate a viziare la determinazione dell’imponibile ovvero la liquidazione dell’imponibile.

2. Il motivo è fondato nei termini e nei limiti che seguono.

2.1. Occorre premettere che nella vicenda in esame, trattandosi di più violazioni della stessa indole reiterate in diversi anni d’imposta (i.e. l’omessa dichiarazione della dichiarazione fiscale annuale), viene in rilievo l’istituto regolato dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5 (“Quando violazioni della stessa indole vengono commesse in periodi di imposta diversi…”) e ciò ancorchè la sentenza non individui la fonte normativa dell’istituto applicato e il ricorso citi la diversa previsione del citato D.Lgs. n. 472, art. 12, comma 2 (che, invece, riguarda l’ipotesi di chi “anche in tempi diversi, commette più violazioni che, nella loro progressione, pregiudicano o tendono a pregiudicare la determinazione dell’imponibile ovvero la liquidazione anche periodica del tributo”), relativo all’ipotesi della progressione negli illeciti, nonchè le condizioni di applicabilità, in tale ambito, dell’interruzione di cui al successivo comma 6.

2.2. La continuazione, in quanto tale (come, del resto, il cumulo giuridico previsto dai primi due commi per il concorso formale e materiale e per la progressione), integra un meccanismo di favor per il contribuente mirato ad evitare che la reiterazione dell’illecito porti ad una sanzione complessiva eccessivamente onerosa.

Il beneficio, peraltro, si arresta ove si verifichi la cd. interruzione che si realizza, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 6, per effetto della constatazione della violazione (“Il concorso e la continuazione sono interrotti dalla constatazione della violazione”).

Si tratta, invero, di disciplina propria dell’illecito tributario ed estranea all’ambito penale, per il quale, invece, non ha rilievo se l’illecito sia stato o meno contestato ovvero, anche, se la pregressa contestazione si sia già tradotta in una decisione sfavorevole per l’imputato.

Come già osservato da questa Corte (v. Cass. n. 11612 del 16/06/2020 in motivazione), del resto, “questa differenza si fonda sulla circostanza che, mentre in sede penale la continuazione è correlata alla sussistenza dell’elemento soggettivo del medesimo disegno criminoso, in ambito tributario detto elemento non emerge, essendo essa collegata, piuttosto, all’oggettivo perpetrarsi dell’illecito” sicchè, per determinare l’istante finale terminativo della continuazione, “occorre individuare un ulteriore momento, oggettivamente individuabile, rappresentato dalla constatazione dell’infrazione” da parte dell’Amministrazione finanziaria.

2.4. Ne deriva che la constatazione dell’illecito costituisce il punto di arresto per il riconoscimento della continuazione: tutto ciò che si pone a monte di tale atto (se della stessa indole) deve essere unito ai fini della determinazione della sanzione; ciò che, invece, è a valle resta escluso dal cumulo giuridico, salvo riconoscere, ove plurime siano le violazioni anche da questo lato, una autonoma e rinnovata applicazione del medesimo istituto (v. Cass. n. 11612/2020 cit.).

2.5. E’, invece, privo di rilievo – contrariamente a quanto sostiene l’Agenzia ricorrente – che la precedente constatazione (anche quando si sia tradotta direttamente in un avviso) sia divenuta definitiva e inoppugnabile o non sia stata oggetto di impugnazione.

Si tratta di un requisito non previsto dal citato art. 12, comma 6, nè può essere invocato quanto disposto dal successivo comma 8, secondo il quale “Nei casi di accertamento con adesione, di mediazione tributaria e di conciliazione giudiziale, in deroga ai commi 3 e 5, le disposizioni sulla determinazione di una sanzione unica in caso di progressione si applicano separatamente per ciascun tributo e per ciascun periodo d’imposta. La sanzione conseguente alla rinuncia, all’impugnazione dell’avviso di accertamento e alla definizione agevolata ai sensi del presente decreto, artt. 16 e 17, non può stabilirsi in progressione con violazioni non indicate nell’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni”.

Tale ultima disposizione, infatti, è intesa a coordinare l’istituto della continuazione con le previsioni di cui al D.Lgs. n. 218 del 1997 (accertamento con adesione e rinuncia all’impugnazione di cui al citato D.Lgs. n. 218, art. 15), con quelle di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 48 (conciliazione giudiziale) e con quelle dello stesso D.Lgs. n. 472, artt. 16 e 17, (definizione agevolata delle sanzioni) che delineano un distinto favorevole trattamento per il trasgressore, senza che, per l’estinzione del giudizio che ne deriva, egli sia soggetto ai rischi conseguenti alla soccombenza nel giudizio.

Si tratta, dunque, di indicazione non pertinente ai fini della individuazione di requisiti ostativi all’applicazione della continuazione nell’ordinaria sede processuale.

3. Nella vicenda in giudizio, la CTR ha ritenuto applicabile la continuazione anche con riguardo alla contestazione (nei confronti del medesimo soggetto e di medesima indole, trattandosi di omessa presentazione della dichiarazione) per l’anno 2004 e, dunque, per tutte e quattro le annualità (dal 2004 al 2007) argomentando in base a quanto avviene nel penale (“ove l’istituto della continuazione viene utilizzato per la determinazione di una pena unica anche con riguardo ad una pluralità di sentenze o decreti penali irrevocabili od esecutivi”), così erroneamente estendendo la disciplina prevista per la materia penale e senza applicare quanto specificamente previsto per le sanzioni tributarie, nè, quindi, considerare che, come era pacifico in giudizio, per la prima annualità era stato notificato avviso di accertamento in data (OMISSIS).

Ne deriva che, in applicazione dei principi sopra esposti, la sanzione irrogata per l’anno 2004 doveva essere cumulata, secondo il regime della continuazione, rispetto a quella irrogata per il 2005, ma non anche per quelle del 2006 e del 2007, rispetto alle quali si era verificato l’evento interruttivo.

Va infatti rilevato, sul punto, che nell’anno 2007 i termini per la presentazione delle dichiarazioni per il 2006 (relativa alle imposte dirette, all’Irap e all’Iva), già originariamente previsti tra il 30 giugno e il 31 luglio di ogni anno, erano stati definitivamente fissati per la data del 1 ottobre 2007 (v. D.P.C.M. 10 luglio 2007, pubblicato in G.U. n. 209 del 08/09/2007).

4. In accoglimento del ricorso, pertanto, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR competente in diversa composizione, che provvederà alla rideterminazione delle sanzioni con applicazione della continuazione con riguardo alle annualità 2004 e 2005, nonchè, con separata determinazione, per le annualità 2006 e 2007.

P.Q.M.
La Corte in accoglimento del ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza e rinvia, anche per le spese, alla CTR del Friuli Venezia Giulia in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 18 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 11-12-2020) 28-05-2021, n. 15002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22354/2016 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANDREA VESALIO 22, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO IRTI, rappresentato e difeso dagli avvocati SALVATORE LIUZZO, VALERIA LEONE;

– ricorrenti –

contro

C.C., S.R.A.C., S.V.M.A., C.R., C.L., C.N., S.M., elettivamente domiciliate in Catania, via Pantano n. 70, presso lo studio dell’avv.to ANGELA PATRIZIA GIUCA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1437/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 24/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/12/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Catania accoglieva la domanda proposta da G.R. e dichiarava risolto il contratto preliminare stipulato il 9 ottobre 2003 tra C.A. e R.G., quali promittenti venditori, e G.R., quale promissario acquirente, per inadempimento dei promittenti venditori; condannava gli eredi di C.A. e gli eredi di R.G., ciascuno in proporzione alla propria quota ereditaria, al pagamento in favore della controparte della somma di Euro 72.303,96 corrispondente al doppio della caparra confirmatoria versata dal G..

2. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G. – che nel costituirsi in giudizio avevano proposto domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto con conseguente richiesta di riconoscimento del diritto al trattenimento della caparra proponevano appello avverso la suddetta sentenza.

3. La Corte d’Appello di Catania, in accoglimento dell’impugnazione rigettava le domande formulate da G.R. e in accoglimento delle domande riconvenzionali formulate dai convenuti dichiarava la risoluzione del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 per il legittimo recesso della parte promittente venditrice determinato dall’inadempimento della parte promissaria acquirente, G.R. e il diritto della parte promittente venditrice alla ritenzione della caparra confirmatoria ricevuta.

2. La Corte d’Appello rigettava preliminarmente le eccezioni pregiudiziali circa l’avvenuta estinzione del giudizio per mancata riassunzione in quanto la notificazione dell’atto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza era stata effettuata sia agli eredi di C. che a quelli di R.. Anche l’eccezione di tardività della notifica dell’appello doveva ritenersi superata stante la tempestività di quello proposto dai litisconsorti necessari.

Nel merito la Corte d’Appello riteneva che il contratto preliminare stipulato tra le parti, alla stregua dei criteri interpretativi di cui agli artt. da 1362 a 1365 c.c., non aveva ad oggetto un terreno edificabile. Nel contratto preliminare, infatti, i promittenti venditori si impegnavano a vendere un lotto di terreno, senza ulteriore specificazione, anzi dal contratto risultava che le parti concordemente accettavano la soppressione delle parole “non agricolo”. Tale eliminazione, a prescindere dall’iniziativa dell’una o dell’altra parte, era stata accettata da entrambe ed evidenziava in maniera incontrovertibile che l’oggetto del contratto era rappresentato da un terreno, senza ulteriore specificazione di una determinata qualità.

Doveva, dunque, affermarsi che l’edificabilità del lotto non faceva parte della qualità del bene oggetto del contratto promesso dalla parte venditrice. Tale conclusione era confermata anche in applicazione del principio di interpretazione del contratto secondo buona fede come canone di reciproca lealtà di condotta tra le parti. La circostanza che l’edificabilità del terreno non costituisse una qualità promessa della parte venditrice emergeva dal fatto che il terreno in questione, pur eventualmente ricadente in zona c4 e non anche in zona vincolata, era comunque inedificabile per la sua conformazione planimetrica. Ciò era emerso dalla consulenza tecnica e, pertanto, il terreno per le sue dimensioni, a prescindere dal mutamento della destinazione urbanistica, era in concreto inedificabile e di conseguenza era contrario al principio di buona fede invocare l’inadempimento della parte promittente venditrice per non aver dichiarato l’esistenza di un vincolo di inedificabilità a seguito dell’approvazione di una variante al programma di fabbricazione vigente, nonostante l’espressa volontà di acquistare un terreno, di fatto inedificabile, a prescindere dal vincolo imposto.

Secondo la Corte d’Appello il disinteresse del promissario acquirente all’edificabilità o meno del lotto era dimostrato anche dal fatto di aver ritenuto sufficiente l’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica rilasciato circa 10 mesi prima della stipulazione del contratto. Peraltro, dal contenuto del contratto non poteva evincersi l’esistenza di un presupposto tenuto presente da entrambi i contraenti nella formazione del loro consenso e condizionante l’esistenza e il permanere del vincolo negoziale, anzi la cancellazione delle parole non agricolo rendeva evidente l’insussistenza di tale presupposto.

Il G. non aveva, peraltro, fornito la prova dell’esternazione alla controparte dello scopo di voler comprare il terreno per edificare. L’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica che non riproduceva la reale qualità del terreno non poteva da sola essere espressione di una garanzia del venditore relativa alle destinazione edificatoria del terreno oggetto del preliminare. Al contrario da quanto era emerso doveva dedursi che i promittenti venditori si erano impegnati a vendere un terreno senza ulteriore qualità e il G. si era impegnato ad acquistare il lotto in questione a prescindere dalla sua edificabilità, risultando dunque irrilevante ai fini della decisione la consapevolezza o meno dei venditori del mutamento della destinazione urbanistica del bene avvenuta già prima della stipulazione dell’atto.

In ogni caso il vincolo imposto all’immobile con deliberazione del consiglio comunale n. 33 del 10 aprile 2003 non poteva qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1479 c.c. e non era conseguentemente invocabile dal compratore come fonte di responsabilità della controparte che non l’aveva dichiarato nel contratto. Con la suddetta Delibera l’area in questione era stata classificata come parco naturalistico e dunque inedificabile in applicazione delle misure di salvaguardia. La deliberazione di adozione del piano regolatore e del programma di fabbricazione, atto collegiale esprimente la volontà definitiva dell’ente pubblico, conferiva agli strumenti edilizi un’efficacia immediata sia pur limitata.

In conseguenza dell’adozione degli stessi secondo la Corte d’appello divenivano operanti le cosiddette misure di salvaguardia le quali conferivano ai sindaci dei Comuni il potere-dovere di sospendere ogni decisione sulle domande di concessione o autorizzazione edilizia in contrasto con il programma adottato. L’affissione nell’albo pretorio delle deliberazioni comunali effettuata nei modi e termini di legge costituiva una forma di pubblicità legale di per sè esaustiva ai fini della presunzione assoluta di piena conoscenza erga omnes allorquando tali atti non fossero direttamente riferibili a soggetti determinati. Peraltro, la mancanza di una garanzia sulla destinazione edificatoria del suolo e l’allegazione di un certificato risalente nel tempo imponevano al compratore di indagare sulla qualità del suolo. Infine, era possibile rilevare di ufficio la non apparenza del vizio anche senza allegazione della parte risultando la stessa dagli atti.

3. G.R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

4. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G., si sono costituiti con controricorso.

5. Entrambe le parti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., in materia di interpretazione dei contratti e dei principi regolatori dei criteri di ermeneutica contrattuale. Violazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto diretti all’accertamento della comune volontà delle parti. Violazione del criterio di interpretazione secondo il tenore letterale del contratto.

La censura ha ad oggetto la violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale e, in particolare, di quello che richiede al giudice di compiere una valutazione complessiva di tutte il contenuto dell’accordo in ogni sua parte. Anche solo in base alla complessiva disamina letterale del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 emergerebbe che aveva ad oggetto un lotto di terreno dalle specifiche caratteristiche edificatorie. In tal senso secondo il ricorrente deporrebbe anche la circostanza fondamentale della allegazione al preliminare del certificato di destinazione urbanistica del terreno contenente l’espressa descrizione delle specifiche caratteristiche e qualità edificatorie del fondo oggetto di contestazione, documento che era stato sottoscritto da tutti i contraenti, così da costituire parte integrante e sostanziale del contratto preliminare.

Anche l’entità del prezzo convenuto in Euro 72.303,96 era in linea con il valore di mercato di un terreno edificabile anche tenuto conto dell’estensione del lotto di appena 2464 mq.

Pertanto, l’eliminazione delle parole “non agricolo” dal contratto, alla luce delle caratteristiche oggettive promesse dai venditori in ordine al bene oggetto del preliminare, dimostrerebbe che la suddetta indicazione era superflua.

Nel contratto preliminare,di cui faceva parte integrante anche il certificato di destinazione urbanistica del terreno, era fin dall’inizio esattamente specificata ed indicata in maniera chiara ed incontrovertibile la sua edificabilità. In forza di una corretta applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto condividere quanto ritenuto dal Tribunale a fondamento della propria decisione, rilevando l’inadempimento dei promittenti venditori ed il diritto del G. di ottenere il recesso del preliminare e il pagamento del doppio della caparra confirmatoria a causa del sopravvenuto accertamento dell’inesistenza della qualità edificatoria del fondo a causa del vincolo posto dagli organi competenti in data antecedente la stipula del contratto.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1366 c.c., in materia di interpretazione dei contratti – Violazione del criterio di interpretazione oggettiva del contratto secondo il principio di buona fede. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, consapevolezza dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo.

Anche il secondo motivo attiene alla violazione dei canoni di interpretazione del contratto, questa volta con riferimento al principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., evidenziato dalla Corte d’Appello ma di fatto erroneamente applicato. Tale canone di interpretazione permea anche la fase di formazione del contratto. Nel caso di specie i promittenti venditori avevano allegato e sottoscritto un certificato di destinazione urbanistica che apparentemente riportava le caratteristiche edificatoria del terreno oggetto di vendita. In atti vi era però specifica prova documentale del fatto che alla data di stipula del preliminare i promittenti venditori avevano piena consapevolezza che la potenzialità edificatoria riportata nel certificato di destinazione urbanistica era venuta meno per effetto del vincolo di inedificabilità assoluta apposto al terreno con provvedimento del 10 aprile 2003. Infatti, i promittenti venditori avevano proposto ricorso al Tar di Catania contro il diniego a realizzare dei manufatti sul citato terreno in conseguenza dell’intervenuto vincolo di inedificabilità. In atti vi erano, dunque, specifici riscontri documentali della malafede dei promittenti venditori che nel corso del giudizio avevano negato di essere a conoscenza dell’esistenza del vincolo e che anzi ne avevano addirittura negato l’esistenza.

Secondo il ricorrente la Corte d’Appello si sarebbe soffermata unicamente sulla condotta del promissario acquirente quando avrebbe dovuto valutare la condotta di entrambe le parti anche in relazione al principio contrattuale della buona fede, quale obbligo di lealtà, di solidarietà, correttezza e collaborazione previsto dalla legge per ogni parte contrattuale.

La malafede dei promittenti venditori avrebbe determinato il G. a fare affidamento su quanto certificato circa la sussistenza delle qualità edificatoria del terreno che si obbligava ad acquistare senza procedere ad ulteriori accertamenti al riguardo se non al momento della stipula del definitivo allorquando era emersa la situazione diversa del bene.

Neanche rileverebbe la sostanziale inedificabilità del terreno per la sua conformazione come risulterebbe provato proprio dalla condotta dei venditori che avevano tentato di attuare un’iniziativa edificatoria che il Comune aveva negato solo per l’apposizione del vincolo e non per l’obbligo di staccarsi dal confine. La questione della consapevolezza da parte dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo di inedificabilità rappresentava un fatto decisivo per il giudizio oggetto di specifica discussione tra le parti.

2.1 Il primo e il secondo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili, in parte infondati.

Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata l’interpretazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, infatti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra la volontà dei contraenti così come ritenuta dal ricorrente e quella invece accertata dalla sentenza impugnata, ma debbono essere proposte o sotto il profilo della mancata osservanza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, delle norme che fissano i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. ovvero, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, del vizio di motivazione consistito nell’omesso esame di un fatto decisivo, a condizione, però, che, in ossequio al principio dell’onere di specificità del motivo, tali censure siano accompagnate dalla trascrizione, nel corpo del ricorso, almeno nella stesura che ne consenta la piena comprensione, delle clausole asseritamente individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto. I ricorrenti, infatti, non hanno provveduto alla trascrizione del contenuto del contratto nella misura minima necessaria a consentirne la comprensione. L’interpretazione di un atto negoziale, del resto, è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, come accennato, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016). Pertanto, al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia, com’è accaduto nel caso di specie, un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo, invece, che specifichi, per un verso, i canoni in concreto inosservati e, per altro verso, il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 7472 del 2011; più di recente, Cass. n. 27136 del 2017). Ne consegue l’inammissibilità del motivo di ricorso che, come quelli in esame, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche o il vizio di motivazione, si risolva, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). In effetti, per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017).

Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che la promessa di vendita stipulata tra le parti non aveva ad oggetto un terreno edificabile, evidenziando che nell’ambito della trattativa per la stipula del contratto le parti si erano accordate per la cancellazione dal testo dell’espressione “non agricolo”. Tale circostanza, non contestata, evidenzia che, nell’ambito dell’accordo negoziale, l’aspetto dell’edificabilità del terreno era stato esplicitamente considerato, tanto da determinare l’esigenza di precisare che il terreno era promesso in vendita a prescindere dalla sua edificabilità.

D’altra parte, il contenuto del contratto non è riportato e il ricorrente non indica nessun’altro elemento, non valutato dalla Corte d’Appello, da cui ricavare che il bene promesso in vendita fosse un terreno con la specifica qualità della sua edificabilità. L’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, oltre ad essere anch’essa considerata nella motivazione della Corte d’Appello, rientra tra le attività ordinarie nell’ambito della stipula dei contratti preliminari di compravendita di beni immobili e il fatto che il suddetto certificato non fosse aggiornato non è sufficiente a supportare una diversa interpretazione della volontà negoziale di segno contrario a quella esplicitata nel testo dai contraenti.

In conclusione, deve ribadirsi che il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto. Nella specie nessun canone di interpretazione negoziale risulta violato, compreso quello della buona fede, posto che, come si è detto, la cancellazione della dicitura “non agricolo” è segno di un comportamento delle parti che hanno ritenuto di escludere l’edificabilità del terreno dal vincolo contrattuale.

Una volta ricostruita la volontà negoziale rispetto all’oggetto del contratto perdono di consistenza tutte le restanti censure attinenti alla edificabilità in concreto del suolo e alla consapevolezza dei promittenti venditori del cambio di destinazione del terreno.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1373, 1385, 1453, 1498, 1490 e 1497 c.c., in materia di recesso unilaterale e caparra confirmatoria, vizi della cosa. Violazione degli artt. 99, 112, 342 c.p.c., in merito alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e alla specifica proposizione dei motivi di appello e alla rilevabilità d’ufficio dell’eccezioni.

Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire che il promissario acquirente non può avvalersi della disciplina relativa alla garanzia dei vizi della cosa venduta o di quella di cui all’art. 1497 c.c., relativa alla garanzia per mancanza di qualità della cosa venduta le quali presuppongono la conclusione del contratto definitivo e sono estranee al contratto preliminare che ha ad oggetto un facere e non un dare.

Sarebbe dunque illogica l’affermazione secondo la quale il vincolo di inedificabilità era assistito da una presunzione legale di conoscenza erga omnes e, dunque, privo del requisito normativo della non apparenza.

Il ricorrente evidenzia che l’apposizione di un vincolo assoluto di inedificabilità sui singoli terreni ricompresi in una zona deve essere qualificato come un atto direttamente riferibile a soggetti determinati dunque esclusi dalla presunzione di conoscenza. Ma in ogni caso, anche a prescindere da tale considerazione, la questione dell’apparenza del vizio non era mai stata introdotta in giudizio in primo grado e neppure in appello tanto che la Corte aveva ritenuto necessario motivare sulla rilevabilità d’ufficio. Ne consegue che la Corte avrebbe erroneamente qualificato la domanda del G. come azione di garanzia ex art. 1489 c.c., subordinando l’azione all’apparenza del vizio mentre il G. aveva agito unicamente per dichiarare legittimo il recesso dall’impegno preliminare di vendita per inadempimento del venditore, non potendo questi trasferire un terreno con le caratteristiche edificatoria promesse. Secondo il ricorrente dunque vi sarebbe un duplice errore sia circa la rilevanza dell’apparenza del vizio sia sulla sua rilevabilità d’ufficio.

3.1 Il terzo motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha individuato l’oggetto del contratto per stabilire se vi fosse stato un inadempimento da parte dei promittenti venditori che potesse giustificare il recesso del G. e la restituzione del doppio della caparra o se l’inadempimento dovesse essere a lui attribuito con diritto di C.A. e R.G. a trattenere la caparra. Come si è detto con riferimento ai primi due motivi, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’edificabilità del terreno fosse stata volutamente esclusa dall’oggetto del contratto.

Peraltro, la Corte d’Appello ha correttamente richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale “i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicchè i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 c.c. e non sono, conseguentemente, invoca bili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto” (Sez. 2, Sent. n. 14289 del 2018; Sez. 2, Sent. n. 2737 del 2012).

Da un lato, quindi, il vincolo di inedificabilità costituiva un “onere apparente”, in quanto i limiti posti dall’amministrazione comunale non erano contenuti in singoli atti intercorsi fra il Comune e i proprietari dei terreni, ma erano ricavabili dai piani urbanistici e, pertanto, conoscibili a tutti e, dall’altro, alla luce dell’interpretazione dell’intero contratto condotta dalla Corte d’Appello secondo i criteri sopra indicati, doveva escludersi l’affidamento del promittente acquirente circa l’edificabilità del terreno dato che si era deciso di escludere la dicitura “non agricolo” dal contratto.

Deve ribadirsi pertanto che nella vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi, la conoscibilità del vincolo urbanistico gravante sulla cosa, idonea ad escludere la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c., deve essere valutata in concreto, alla luce della natura del vincolo medesimo e della possibilità per l’acquirente di avvertire la necessità di compiere una verifica e che deve escludersi la possibilità per il promissario acquirente di richiedere la risoluzione del contratto quale conseguenza automatica della presenza di un vincolo sul bene dovendo verificarsi i presupposti della risoluzione ai sensi dell’art. 1489 c.c..

4. Il ricorso è rigettato.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5200 di cui 200 per esborsi;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 23/02/2021) 27/05/2021, n. 14745

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19493/14 R.G. proposto da:

P.M., rappresentata e difesa, come da delega a margine del ricorso, dagli avv.ti Stefano Modenesi e Antonio Tomassini, con domicilio eletto presso il loro studio, DLA Piper Studio Legale Tributario Associato, in Roma, via dei Due Macelli, n. 66;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 510/38/14 depositata in data 29 gennaio 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 febbraio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. Con distinti ricorsi P.M. impugnò gli avvisi di accertamento, per gli anni d’imposta 2006 e 2007, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, il reddito dichiarato sulla base degli indici di cui al D.M. 10 settembre 1992, tabella allegata, ed in particolare, assumendo a riferimento l’acquisto (avvenuto nel 2007) di una autovettura Jaguar, del valore di Euro 80.000,00.

2. La Commissione tributaria provinciale di Varese, previa riunione dei ricorsi, li rigettò con sentenza che venne impugnata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale che, con la pronuncia in questa sede impugnata, rigettò il gravame.

Osservò, in particolare, che la notificazione degli atti impositivi era avvenuta a mezzo posta, nel rispetto delle disposizioni normative, e che la determinazione del reddito era avvenuta sulla base dell’applicazione del redditometro, procedura che dispensava l’Amministrazione finanziaria dal fornire ulteriori elementi indici di maggiore capacità contributiva oltre quelli individuati dallo stesso redditometro. Dando atto che la contribuente, nel corso dell’anno 2007, aveva acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, accertò che era rimasto non dimostrato l’assunto difensivo secondo cui le somme per far fronte a tale spesa provenivano da donazioni del marito, il quale, sottoposto ad autonomo accertamento, non aveva fatto alcun riferimento alle elargizioni addotte a giustificazione dalla moglie.

3. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidandosi a sette motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione agli artt. 23, 24 e 53 Cost., laddove tali disposizioni non prevedono alcun limite al potere regolamentare riconosciuto all’Amministrazione finanziaria.

Deduce a sostegno della questione che le norme in esame delegano l’Amministrazione finanziaria alla elaborazione di uno strumento accertativo che, poggiando su presunzioni, non può rappresentare il solo presupposto per procedere alla rettifica dei redditi del contribuente e che si pone un problema di compatibilità del menzionato art. 38 e del D.M. 10 settembre 1992, rispetto alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che risulterebbe violata dall’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di poteri normativi idonei ad incidere sulla base imponibile dei contribuenti.

Poichè, secondo lo stesso disposto del citato art. 38, gli unici mezzi di prova contraria di cui il contribuente può avvalersi rispetto all’accertamento sintetico sono a) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi esenti o b) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ad avviso della ricorrente, risulta evidente il contrasto sia con l’art. 24 Cost., sia con l’art. 53 Cost..

Aggiunge che l’introduzione dell’accertamento sintetico ha comportato una discrasia tra indici di spesa in esso non contemplati ed indici di spesa in esso contemplati, dal momento che ai primi corrisponde una presunzione semplice, mentre ai secondi soltanto una presunzione legale, a fronte della quale il contribuente non ha modo di tutelarsi con adeguati strumenti costituzionalmente tutelati.

1.1. La questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante ai fini del presente giudizio, è manifestamente infondata.

1.2. La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 297 del 13 luglio 2004, depositata il 28 luglio 2004, con riguardo alla dedotta violazione del principio di riserva di legge, si è già pronunciata per la infondatezza della questione, richiamando la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (v. sentenze n. 7 del 2001, n. 215 del 1998 e n. 111 del 1997); ha, in particolare, affermato che “è stata rispettata la riserva di legge relativa, in quanto l’art. 38 stabilisce che il regolamento deve prendere in considerazione elementi e circostanze di fatto certi e fissa delle linee direttive a cui si deve attenere l’accertamento compiuto tramite regolamento perchè lo stesso sia valido (deve scostarsi di almeno un quarto da quanto dichiarato per almeno due periodi di imposta), con salvezza della prova contraria del contribuente..”, precisando, altresì, che “nessuna norma costituzionale o di legge stabilisce che in materia tributaria i regolamenti debbano essere adottati con regolamento governativo ai sensi della L. n. 400 del 1988, art. 17, con la conseguenza che nessun vulnus costituzionale può ravvisarsi nella scelta di un regolamento del Ministro delle finanze, senza considerare che la norma da ultimo citata, nel fare un elenco delle materie che devono essere disciplinate con il regolamento, non fa menzione della materia tributaria”.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di precisare che i decreti ministeriali assolvono ad una funzione meramente accertativa e probatoria e non hanno natura sostanziale poichè non contengono norme per la determinazione del reddito (Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539). Il che esclude, alla radice, l’ipotizzata lesione dell’art. 23 Cost., che riserva alla legge la facoltà d’imporre (per quanto qui interessa) prestazioni patrimoniali (Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037).

La Corte Costituzionale, con la pronuncia sopra richiamata, ha parimenti escluso la violazione dell’art. 53 Cost., confermando quanto già statuito con la precedente ordinanza n. 283 del 23 luglio 1987, con la quale si è osservato che, sebbene l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, sia fondato su presunzioni, esso è ancorato ad elementi che debbono essere rigorosamente dimostrati e che sono idonei a costituire fonte sicura di rilevamento della capacità contributiva.

Anche la violazione dell’art. 24 è stata disattesa con la ordinanza n. 283 del 1987, poichè nessun limite è posto dalla normativa alla prova della insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento induttivo.

D’altro canto, l’insussistenza di limitazioni del diritto di difesa e dei poteri probatori in capo a chi è sottoposto a verifica fiscale trova evidente riscontro nel costante orientamento di questa Corte secondo cui l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., sez. 5, 19/10/2016, n. 21142; Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539; Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037; Cass., sez. 5, 18/04/2019, n. 10919).

2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello affermato che l’accertamento sintetico dispensa l’Ufficio dal fornire altri elementi indici di maggiore capacità contributiva, oltre quelli individuati dal redditometro stesso.

La ricorrente sostiene che la ricostruzione presuntiva realizzata dall’Ufficio non presenta i requisiti della gravità, precisione e concordanza e che, al di là del dato esibito con riguardo all’autovettura, nessuna circostanza sarebbe stata addotta dall’Amministrazione finanziaria che possa confermare le risultanze della verifica.

Sottolinea, pure, che in primo ed in secondo grado aveva prodotto documentazione – non vagliata dai giudici di appello – comprovante che l’acquisto dell’autovettura era avvenuto grazie all’intervento del marito, C.C., che aveva emesso un assegno circolare di Euro 15.000,00, nonchè grazie all’accensione di un finanziamento per un importo di Euro 41.177,38, che prevedeva rate di circa Euro 700,00 mensili, e che il marito le versava ogni mese circa Euro 1.000,00 con i quali sosteneva le spese personali, fra le quali la rata del finanziamento.

3. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., del D.M. 10 settembre 1992, e violazione del principio del contraddittorio, lamentando che l’accertamento nei suoi confronti non è stato preceduto da un contraddittorio, nonostante lo stesso legislatore abbia introdotto, con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, specifici correttivi allo strumento presuntivo dell’accertamento sintetico, imponendo all’Amministrazione finanziaria una analisi più approfondita della posizione fiscale del contribuente.

4. Con il quarto motivo – rubricato: “omessa pronuncia – Nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42” – lamenta che i giudici di secondo grado hanno omesso di esaminare l’eccezione con la quale era stato dedotto il vizio di motivazione dell’atto impositivo che non dava conto delle ragioni per le quali erano state disattese le contestazioni sollevate dalla contribuente.

5. Con il quinto motivo – rubricato: Omessa pronuncia – Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e degli artt. 100 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42 – ripropone la doglianza fatta valere con il quarto motivo per il caso in cui il vizio di omessa pronuncia venga ritenuto rientrante tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6. Con il sesto motivo denuncia omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e reitera la doglianza esposta con il quarto ed il quinto motivo per il caso che la si ritenga rientrante nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7. Con il settimo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e della L. n. 890 del 1982, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui i giudici regionali hanno respinto l’eccezione di inesistenza della notificazione, pacificamente avvenuta a mezzo posta, per mancanza di relata di notifica, deducendo che la proposizione dell’impugnazione non comporta sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, dal momento che lo scopo della notificazione non è quello di “provocare” l’impugnazione del provvedimento impositivo, bensì di perfezionarne la formazione.

8. Il terzo motivo, che deve essere esaminato con priorità, è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno invero affermato (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823) che: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica previsione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato, appunto, come, nella normativa tributaria nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati, non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori di precise disposizioni che tale contraddittorio prescrivono, peraltro a condizioni e con modalità ed effetti differenti, in rapporto a singole ben specifiche ipotesi, quale D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7 (come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, convertito in L. n. 122 del 2010), in tema di accertamento sintetico.

Nella specie, si verte in ipotesi di accertamento sintetico per gli anni d’imposta 2006 e 2007, in relazione ai quali non opera la modifica normativa di cui al D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010.

Infatti, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, ha disposto (con l’art. 22, comma 1), con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche operano in relazione agli “accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e quindi la norma ha effetto dal periodo d’imposta 2009 (cfr. Cass., sez. 6-5, 6/10/2014, n. 21041; Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22746; Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).

La sentenza della C.T.R. è pertanto conforme ai suddetti principi di diritto.

9. Il quarto motivo è infondato.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 6-1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 5, 2/04/2020, n. 7662).

La Commissione tributaria regionale, nel rigettare l’appello della contribuente e nel confermare l’accertamento, ha implicitamente disatteso l’eccezione di nullità dell’atto impositivo per carenza di motivazione, sollevata dalla contribuente.

10. Il quinto ed il sesto motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perchè connessi, sono parimenti infondati.

10.1. Sebbene i giudici regionali non si siano espressamente pronunciati sulla presunta nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731).

10.2. Va, al riguardo, ribadito (cfr. Cass., sez. 5, 31/03/2017, n. 8378; Cass., sez. 5, 1/12/2020, n. 27401) che “In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo”.

La C.T.R. ha correttamente ritenuto che l’avviso di accertamento era idoneamente motivato, dal momento che l’Ufficio deve solo indicare gli elementi indicatori di reddito e lo scostamento derivatone rispetto al reddito dichiarato, ben potendo la parte contribuente fornire la prova contraria anche nel corso del giudizio.

11. Anche il settimo motivo va rigettato.

A partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998, art. 20, (che ha modificato la L. n. 890 del 1982, art. 14), gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Pertanto, quando l’Ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 (in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c.).

Ne deriva che non va redatta alcuna relata di notifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass., sez. 5, 4/07/2014, n. 15315; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14501; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642), senza che si renda, peraltro, necessario l’invio della raccomandata al destinatario (Sez. 5, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018).

Nella sentenza qui impugnata si afferma che la notifica degli atti impositivi è avvenuta a mezzo posta e che “ha seguito tutto il dettato della normativa al riguardo”, cosicchè l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito non può essere sindacato in sede di legittimità.

Peraltro, l’eventuale invalidità della notifica dell’avviso di accertamento deve intendersi comunque sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il medesimo abbia tempestivamente impugnato l’atto contestandone il contenuto (Cass., sez. 5, 9/05/2018, n. 11043; Cass., sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17198).

12. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.

Per costante orientamento di questa Corte (cfr. tra le altre Cass., sez. 10/08/2016, n. 16912), in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dal D.M. 10 settembre e D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicchè è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.

Si è, in particolare, chiarito, con principio del tutto condivisibile, (Cass., sez. 6-5, 26/01/2016, n. 1332) che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, applicabile ratione temporis, la relativa prova deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento”; con la ulteriore precisazione (Cass., sez. 6-5, 10/07/2018, n. 18097) che “in tema di accertamento sintetico, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, comma 6, non è sufficiente la dimostrazione, da parte del contribuente, della disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che tali redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, deve essere fornita quella delle circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere” e che “in tema di accertamento sintetico del reddito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, ove il contribuente deduca che la spesa sia il frutto di liberalità o di altra provenienza, la relativa prova deve essere fornita con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento, pur non essendo lo stesso tenuto, altresì, a dimostrare l’impiego di detti redditi per l’effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica” (Cass., sez. 6-5, 28/03/2018, n. 7757).

La C.T.R., dopo avere rilevato che la contribuente ha acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, a fronte di un reddito dichiarato nello stesso periodo di Euro 7.700,00, ha escluso, con accertamento di fatto, che la contribuente, sulla quale gravava l’onere di dimostrare che i proventi utilizzati per far fronte a detta spesa derivavano da redditi esenti o da donazioni o da altre entrate non reddituali, avesse fornito idonea prova documentale che l’acquisto fosse stato effettuato con elargizioni provenienti dal coniuge.

L’apprezzamento svolto dai giudici di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità.

Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass., sez. 1, 6/03/2019, n. 6519; Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332), senza considerare le ragioni offerte dal giudice d’appello, poichè in tal modo la censura si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass., sez. 1, 24/09/2018, n. 22478; Cass., sez. 3, 31/08/2015, n. 17330).

13. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-02-2021) 26-05-2021, n. 14579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5408/2014 R.G. proposto da:

RI.BO. GOMMA DI /RIVELINI/ A. & C. SAS, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. ANDREA BODRITO, dall’Avv. Prof. GIANNI MARONGIU dell’Avv. Prof. FRANCESCO D’AYALA VALVA, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, al Viale Parioli, 43;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. DONATO PASCUCCI, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. ALESSANDRA ZAMBRINO, in Roma, Via delle Tre Madonne, 18;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, n. 206/29/13, depositata il 16 luglio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2021 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino.

Svolgimento del processo
CHE:

La società ricorrente RI.BO GOMMA DI /RIVELLINI/ A. & C. SAS ha impugnato una cartella di pagamento, relativa al periodo di imposta dell’esercizio 2005, la cui iscrizione a ruolo era avvenuta a titolo provvisorio a termini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui si accertava l’indebito utilizzo di crediti di imposta.

La CTP di Caserta ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto tardivo e la CTR della Campania, con sentenza in data 16 luglio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente. Ha ritenuto corretta la notificazione della cartella di pagamento presso la sede legale della contribuente sita in (OMISSIS) (CE), Via (OMISSIS), costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario alla data del 7 aprile 2009, il cui termine doveva ritenersi decorso alla data di proposizione del ricorso (19 ottobre 2009). Ha, inoltre, ritenuto il giudice di appello che a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’art. 145 c.p.c.. Ha, poi, ritenuto irrilevante la mancanza di invito al contribuente a fornire chiarimenti, trattandosi di procedura automatizzata. Ha, infine, ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo dell’intera somma anzichè per il solo 50% a termini del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, essendo – a seguito del rigetto in primo grado del ricorso avverso l’atto impositivo – il potere di riscossione fondato sull’atto di recupero ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 422.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il concessionario della riscossione; l’ente impositore si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 – Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, (senza ulteriore specificazione in relazione al suddetto comma), violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), e dell’art. 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla notificazione al legale rappresentante. Deduce la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolge l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla CTR. Deduce, sotto un secondo profilo, che il procedimento notificatorio di cui al D.P.R. cit., art. 60, comma 1, lett. e), non potrebbe ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiederebbe necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non potrebbe ritenersi perfezionato.

1.2 – Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto storico decisivo, per non avere esaminato la sentenza impugnata la legittimità della notificazione avvenuta al legale rappresentante presso la propria residenza anagrafica, deducendo ulteriormente il ricorrente violazione dell’art. 145 c.p.c..

1.3 – Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere il giudice di appello escluso la rilevanza del mancato invio della comunicazione di irregolarità, osservando che tale atto prodromico può essere omesso solo in caso di iscrizioni a ruolo derivanti da liquidazione di imposte, laddove nel caso di specie sussisterebbe il requisito dell’incertezza sull’oggetto dell’accertamento.

1.4 – Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittima l’iscrizione dell’intera somma in quanto derivante dall’indebito utilizzo di un credito di imposta. Deduce parte ricorrente come l’iscrizione sia avvenuta a titolo provvisorio per l’intera somma, laddove la norma in epigrafe, secondo la formulazione pro tempore, così come anche l’atto di recupero, non legittimerebbero l’iscrizione integrale delle somme.

2 – Deve preliminarmente rilevarsi che nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate Riscossione, quale successore ope legis di Equitalia, D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, ex art. 1, conv.. in L. 1 dicembre 2016, n. 225, non si è costituita in giudizio, per cui il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 c.p.c. (Cass., Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33639).

3.1 – Quanto al primo profilo, si evidenzia come la questione del diverso luogo (sede effettiva o principale dell’impresa) in cui si sarebbe dovuta eseguire la notificazione non risulta trattata nella sentenza impugnata; nè il ricorrente offre elementi per ritenere che la questione sia stata affrontata nel ricorso introduttivo, così non assolvendo all’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito e di indicare in quale atto del giudizio di merito lo abbia fatto (Cass., Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 32804), nè avendo – infine – illustrato gli elementi in fatto da cui si trarrebbe la prova di una diversa sede effettiva (o principale) dell’impresa. 3.2 – Il primo motivo è, in ogni caso, infondato, posto che non è stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cass., Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 9567; Cass., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 4675; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2019, n. 25450; Cass., Sez. VI 26 giugno 2019, n. 17198; Cass., Sez. V, 14 dicembre 2016, n. 25680; Cass., Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 15258). L’orientamento è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come in caso di fallimento prevede la L. Fall., art. 49, nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, a eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, lett. e), (Cass., Sez. V, 11 maggio 2018, n. 11504).

3.3 – Il motivo è, ulteriormente, infondato, quanto alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa in caso di notificazione effettuata a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), essendo costante la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il messo notificatore abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale (circostanza non oggetto di specifica censura) e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorchè vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3378; Cass., Sez. V, 28 febbraio 2019, n. 5902; Cass., Sez. V, 27 novembre 2006, n. 25095; Cass., Sez. V, 23 giugno 2003, n. 9922). Orientamento conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.

4 – Il rigetto del primo motivo comporta l’inammissibilità degli ulteriori motivi, aventi ad oggetto le autonome ragioni della decisione attinenti alle ulteriori questioni decise, risultando stabilizzata la decisione per effetto del passaggio in cosa giudicata della prima ratio decidendi.

Le spese sono regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo in relazione alla parte controricorrente – non anche per l’ente impositore, che non ha svolto difese scritte – oltre al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili gli ulteriori motivi; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.500,00, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/02/2021) 24/05/2021, n. 14199

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6037/2019 proposto da:

COMUNE DI PAGANI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO n. 4, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA FORTE, rappresentato e difeso dall’avvocato SILVIA MASTRANGELO;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

contro

N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA n. 222, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTURRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO ALFANO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

avverso la sentenza n. 707/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO R.G.N. 496/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato MARIO ALFANO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il reclamo proposto, L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva accolto il ricorso di N.M. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12 agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria quantificata in Euro 15.947,10.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), nonchè dalla disposizione di eguale contenuto dettata dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni locali, per avere “in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”. Ha aggiunto che in quelle occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.

3. In diritto ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perchè al contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria.

Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perchè: il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul versante sindacale.

4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del 2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce “della peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di causa”. Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha compensato anche le spese del giudizio di reclamo.

5. Per la cassazione della sentenza il Comune di Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato N.M., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 “omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a); violazione dei principi di cui al codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con D.P.R. n. 60 del 2013” e sostiene, in sintesi, che integra giusta causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non fondati sulle risultanze di causa.

2. La seconda censura denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c., e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ” in relazione al rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel dispositivo e non motivato.

3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del giudizio di merito in difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” richieste dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva n. 77/2018.

4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicchè anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre, interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 c.c., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi perchè ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal richiamato art. 55 quater, non si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre, per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perchè, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti esulano dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato dal giudice del merito.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale perchè il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito, mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di “gravi motivi”, è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente (Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione sicchè il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio di impugnazione, perchè quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

6. Merita, invece, accoglimento il ricorso incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. Nella motivazione della pronuncia la Corte ha precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che “hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale” (punto 16 della pronuncia).

Questa Corte ha già affermato che, poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c., deve tener conto della “situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi” (Cass. n. 4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale, nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta ad applicare l’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale, non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale (4 aprile 2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 9977/2019; Cass. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate “la peculiarità e la controvertibilità della questione”. Va aggiunto che “le pronunce chiarificatrici” rese da questa Corte sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26 gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste dalla norma di legge, sicchè già al momento dell’instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Comune di Pagani al pagamento, in favore di N.M., delle spese processuali di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che vanno distratte in favore dell’Avv. Mario Alfano, dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 c.p.c., debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sè solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali l’art. 385 c.p.c., comma 2, accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito, quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicchè sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale e dichiara inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di Pagani a rifondere a N.M. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano, liquidate quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-01-2021) 04-05-2021, n. 11605

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2340-2017 proposto da:

D.V.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO LUPO;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 91, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BEATRICE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO AMODIO;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5474/2016 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA, depositata il 13/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/01/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

Svolgimento del processo
1. D.V.M.R. impugnava la cartella di pagamento notificata dalla società Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. per somme dovute a titolo di registro relativo al provvedimento su lodo arbitrale emesso dal tribunale di Napoli nell’anno 2001, eccependo la prescrizione della pretesa tributaria. La CTP di Napoli respingeva il ricorso.

Proposto appello dalla contribuente, la CTR della Campania lo respingeva sul rilievo che intervenuta che il termine prescrizionale decennale era stato interrotto dalla notifica dell’avviso di liquidazione del 15 ottobre 2003, nel termine triennale prescritto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, con la conseguente reiezione dell’eccezione di decadenza pure sollevata dalla contribuente. In particolare, la CTR affermava che: – l’avviso di liquidazione non era stato impugnato rendendo così definitiva la pretesa tributaria; – che dalla data del 6 dicembre 2003, ovvero decorso il termine di sessanta giorni dalla notifica del predetto atto, iniziava a decorrere la prescrizione decennale citato D.P.R., ex art. 78; – che l’ufficio aveva effettuato l’iscrizione a ruolo in data 17 ottobre 2013 che aveva nuovamente interrotto il termine prescrizionale; – che divenuto definitivo l’avviso prodromico, la successiva cartella non costituisce nuovo atto impositivo per cui è sindacabile solo per vizi propri che, nella specie, non erano stati eccepiti, avendo la ricorrente opposto l’atto solo censurando l’esercizio della potestà accertativa.

D.V.M.R. chiede sulla base di tre motivi, illustrati nelle memorie difensive, la cassazione della sentenza n. 5474/2016/ depositata il 13 giugno 2016.

La società concessionaria e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
2. Con il primo motivo, la contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del T.U. Registro D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 76 e 78, nonchè dell’art. 2953 c.c., per avere la CTR ritenuto applicabile alla fattispecie il termine decennale di prescrizione di cui al citato art. 78, in rubrica, ancorchè questa Corte a sezioni unite – con la sentenza n. 23397/2016 – abbia statuito che la mancata contestazione del titolo determina la decadenza dalla possibilità di proporre l’impugnazione, producendo l’effetto della irretrattabilità del credito senza determinare anche l’effetto della c. conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario.

Assume al riguardo che il disposto di cui al citato art. 78, stabilisce che il termine prescrizionale decennale riguarda solo le imposte definitivamente accertate, il che implica che il termine lungo si applica solo per effetto del conseguente accertamento in via definitiva dell’imposta, attraverso l’adozione di un provvedimento giurisdizionale che ne abbia accertato in via definitiva la legittimità dell’atto impositivo.

2. Con la seconda e terza censura, si deduce la violazione dell’art. 2943 c.c., in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 79, laddove la CTR della Campania ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo della cartella produca l’effetto di interrompere i termini di prescrizione, individuando il dies a quo del primo termine prescrizionale in quello di scadenza del sessantesimo giorno per l’impugnazione dell’avviso di liquidazione e non in quello di notifica del primo atto ((OMISSIS)).

Sostenendo altresì che la CTR avrebbe dovuto considerare il giorno della notifica della cartella ((OMISSIS)) e non quello della sua iscrizione a ruolo, ai fini del calcolo del termine decennale, decorrente, ad avviso della contribuente, dalla data della notifica dell’avviso di liquidazione ((OMISSIS)) con la conseguenza che nemmeno l’iscrizione a ruolo della cartella avrebbe interrotto il termine prescrizionale ormai compiuto.

5. La prima censura è destituita di fondamento.

Come ribadito dalle S.U. n. 23397/2016 richiamate dalla medesima ricorrente, “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”; è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonchè di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonchè delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Nel caso in esame, il termine prescrizionale previsto per l’imposta di registro è quello decennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78.

In tema IRPEF, IVA, IRAP ed imposta di registro, il credito erariale per la loro riscossione si prescrive nell’ordinario termine decennale assumendo rilievo, quanto all’imposta di registro, l’espresso disposto di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, e, quanto alle altre imposte dirette, l’assenza di un’espressa previsione, con conseguente applicabilità dell’art. 2946 c.c., non potendosi applicarsi il termine quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, in quanto l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo ed unitario ed il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove ed autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi (Cass. n. 12740/2020; Cass. n. 33266 del 2019; Cass. n. 32308 del 2019).

In particolare, poi, questa Corte ha ribadito che in tema di imposta di registro, una volta divenuto definitivo l’avviso di rettifica e liquidazione per mancata impugnazione, ai fini della riscossione del credito opera unicamente il termine decennale di prescrizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non trovando applicazione nè il termine triennale di decadenza previsto dal detto decreto, art. 76, concernente l’esercizio del potere impositivo, nè il termine di decadenza contemplato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, in quanto l’imposta di registro non è ricompresa tra i tributi ai quali fa riferimento il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 23 (che ha esteso le disposizioni di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, comma 1, quanto all’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio, e art. 25, comma 1, quanto ai termini di decadenza, solo all’IVA; v. Cass. n. 27698/2020; Cass., 11 maggio 2018, n. 11555; Cass., 30 giugno 2016, n. 13418; Cass., 24 settembre 2014, n. 20153; Cass., 9 luglio 2014, n. 15619; Cass., 6 giugno 2014, n. 12748; Cass., 2 dicembre 2013, n. 27028) Accertata la definitività dell’avviso di liquidazione, alcuna rilevanza può assumere l’eventuale notifica del primo atto tributario oltre il termine triennale prescritto dal citato art. 76, doglianza che avrebbe dovuto essere proposta con l’impugnazione dell’atto medesimo.

6. Meritano accoglimento le ultime due censure.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte “In tema di imposta di registro, il decorso del termine prescrizionale decennale per la riscossione dell’imposta definitivamente accertata, previsto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria, atteso che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., u.c., la prescrizione dei diritti è interrotta solo da un atto che valga a costituire in mora il debitore e, quindi, avente carattere recettizio, mentre l’iscrizione a ruolo di un tributo resta un atto interno dell’amministrazione(Cass. n. 14301/2009; sulla natura della iscrizione a ruolo v. Cass. n. 315/2014; Cass. n. 23261/2020).

Anche Cass. sez. V, n. 17248 del 2017, non ha mancato di specificare che, in materia di riscossione delle imposte, la prova della notificazione della cartella esattoriale è atto idoneo ad interrompere la prescrizione del credito tributario.

L’art. 2943 c.c., comma 2, prevede che la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore: per effetto dell’interruzione, decorre un ulteriore periodo di prescrizione; dunque, la notifica della cartella di pagamento o dell’accertamento esecutivo o di altri atti emessi sia dall’ente creditore che dall’Agente della riscossione, ove si intima il pagamento degli importi, interrompono la prescrizione.

Pertanto, nella fattispecie, la prescrizione – già interrotta dalla notifica dell’avviso di liquidazione – decorre dalla data in cui l’avviso è stato notificato. Il nuovo atto interruttivo da considerare non è certamente l’iscrizione a ruolo, bensì la consegna della cartella all’ufficiale postale per la notifica, data che nè dal ricorso nè dalla sentenza impugnata è dato evincere All’accoglimento del secondo e del terzo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia (in particolare, per accertare l’eventuale estinzione del credito alla luce dell’eccepita prescrizione, considerando il dies a quo ed il dies a quem indicati in sentenza).

P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rimette gli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia nonchè per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della quinta sezione civile Corte di Cassazione in ROMA, tenuta da remoto, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 26/01/2021) 28/04/2021, n. 11228

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 29597/2017 r.g. proposto da:

M.V., (cod. fisc. (OMISSIS)), in proprio e nella qualità di ex socio della (OMISSIS) s.n.c. rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Valerio Di Gravio, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, Via Barnaba Oriani n. 85;

– ricorrente –

contro

DITTA INDIVIDUALE C.F., (cod. fisc. P. Iva (OMISSIS)), con sede in Cerignola, alla via Napoli n. 27, in persona del legale rappresentante pro tempore C.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avv. Paolo Pantano, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Foggia, alla Via Zezza n. 2;

– controricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) s.n. c (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. A.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Pasquale Caso, con il quale elettivamente domicilia in Roma, alla Via Pietralata n. 320, presso lo studio dell’Avvocato Gigliola Mazza Ricci;

– controricorrente –

contro

P.R.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte di appello di Bari, depositata in data 9.11.2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/1/2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Svolgimento del processo
CHE:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto, ai sensi della L.Fall., art. 18, da M.V. (in proprio e nella qualità di ex socio della (OMISSIS) s.n.c.) nei confronti del fallimento (OMISSIS) s.n. c e di C.F. e P.R. (rimasta contumace), avverso la sentenza dichiarativa di fallimento della predetta società emessa dal Tribunale di Foggia in data 17 febbraio 2017.

La corte del merito, per quanto qui ancora di interesse, ha ricordato che M.V. aveva proposto reclamo quale socio per l’intervenuta estensione del fallimento di una società di persone anche ai soci illimitatamente responsabili; ha inoltre osservato che le censure sollevate dal reclamante in ordine all’invalidità delle notificazioni degli atti introduttivi del giudizio prefallimentare al M. e alla impresa individuale di cui era titolare quest’ultimo erano infondate, evidenziando che: i) la notifica effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica dell'(OMISSIS) s.n.c., come risultante dal registro delle imprese, aveva avuto esito negativo; ii) la notifica si era dunque perfezionata, presso la sede della società fallita (che coincideva con il luogo di residenza dello stesso M.), tramite la consegna a P.R., qualificatasi all’Ufficiale giudiziario incaricato della notifica, quale “moglie incaricata della ricezione degli atti”, come emergeva dalla documentazione versata in atti; iii) l’unico atto notificato in (OMISSIS), residenza della P., era quello indirizzato a quest’ultima, come emergeva sempre dalla relata di notifica; iv) la notificazione di un atto, se effettuata presso l’abitazione del destinatario mediante consegna al familiare, è assistita dalla presunzione di ricezione, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2; v) anche la moglie separata con pronuncia giudiziale di addebito al marito è considerata come persona di famiglia, posto che il rapporto di coniugio cessa solo con la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; vi) le relazioni di notificazione, il cui contenuto fa fede sino a querela di falso circa le attestazioni riguardanti l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente, certificavano, dunque, che le notificazioni degli atti introduttivi del giudizio prefallimentare si erano perfezionate presso l’indirizzo della sede sociale e della residenza del socio (coincidenti), tramite la consegna alla P., persona di famiglia, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2 e dunque erano da considerarsi validamente effettuate; ha dunque osservato che nessuna violazione del diritto di difesa si era consumata ai danni della ditta individuale e del socio rispetto alla domanda di fallimento presentata dal creditore C.; ha infine evidenziato come il socio reclamante non avesse neanche contestato l’esistenza del vincolo che lo legava alla compagine sociale nè i presupposti per la dichiarazione di fallimento, così risultando inevitabile il rigetto del reclamo.

2. La sentenza, pubblicata il 9.11.2017, è stata impugnata da M.V. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui il Fallimento (OMISSIS) s.n. c e C.F. hanno resistito con controricorso.

Il ricorrente ed il Fallimento hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L.Fall., art. 18 per aver la corte di appello ritenuto definitiva la dichiarazione di fallimento della società. Si evidenzia che legittimato attivo a proporre reclamo L.Fall., ex art. 18 è qualsiasi interessato e dunque anche il socio della società di persone che vanta un legittimo interesse a contraddire sulla istanza di fallimento della società che comporterebbe anche il fallimento del socio illimitatamente responsabile.

2. Con il secondo mezzo si denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L.Fall., art. 15 e art. 145 c.p.c. per aver ritenuto la corte di appello valida la notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento indirizzata alla società. Si evidenzia la violazione della L.Fall., art. 15, in quanto la procedura speciale di notificazione prevista da quest’ultimo articolo esclude l’applicabilità del disposto normativo di cui all’art. 145 c.p.c., sicchè l’unico soggetto legittimato a ritirare l’atto presso la sede della società era il M., quale legale rappresentante della fallenda, e non già la P., qualificatasi quale moglie addetta alla ricezione degli atti.

3. Il terzo motivo articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c. per aver la corte di appello ritenuto valida la notificazione dell’istanza di fallimento al socio attuale ricorrente. Si evidenzia che l’art. 139 c.p.c., comma 2, introduce nel nostro ordinamento processuale una presunzione di conoscibilità dell’atto se quest’ultimo è consegnato a “persona di famiglia”, con la precisazione che tale presunzione è iuris tantum e dovendosi dunque ammettere la prova contraria a carico di chi assume di non aver ricevuto l’atto, prova consistente nel dimostrare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario nella propria residenza. Si osserva ancora che la P. è coniuge legalmente separato ed è pertanto residente in luogo diverso da quello di esso ricorrente, tanto ciò è vero che la P. ricevette la notifica della stessa istanza di fallimento presso il suo domicilio, (OMISSIS), e con ciò dimostrandosi la mera occasionalità della presenza della P. nella abitazione del socio che corrispondeva anche con la sede sociale della fallita.

4. Il quarto mezzo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L.Fall., art. 10 e art. 354 c.p.c. per non aver la Corte di appello di Bari revocato il fallimento della società e, in subordine, per non aver rimesso gli atti al Tribunale di Foggia.

5. Il ricorso è infondato.

5.1 Il primo motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non ha interesse ad impugnare la statuizione contenuta nella sentenza impugnata relativa alla carenza di legittimazione attiva del socio illimitatamente responsabile all’impugnazione della dichiarazione di fallimento della società. Ed invero, tale statuizione non ha carattere decisorio e deve essere considerata come un mero obiter dictum all’interno della motivazione impugnata, tanto ciò è vero che la sentenza – dopo la contestata affermazione (non corretta giuridicamente) – si è pronunciata espressamente anche sulle doglianze sollevate dal socio in ordine alla declaratoria di fallimento della società (e ciò con particolare riferimento alla questione del perfezionamento della notifica degli atti introduttivi del giudizio prefallimentare alla società), così riconoscendo, correttamente, la piena legittimazione del socio illimitatamente responsabile anche all’impugnativa della dichiarazione di fallimento della società.

5.2 Il secondo motivo è invece infondato.

La doglianza non coglie nel segno, posto che – per stessa ammissione del ricorrente – la notifica del ricorso per fallimento alla società è stata eseguita, nel caso di specie, proprio nella sede della società fallenda, nelle mani di persona qualificatasi come addetta alla ricezione degli atti, con ciò dovendosi comunque ritenere perfezionata la notificazione, ai sensi del sopra richiamato L.Fall., art. 15, comma 3, dopo il tentativo infruttuoso di notificazione attraverso la pec della società fallenda.

5.3 Il terzo motivo è anch’esso infondato.

5.3.1 Sul punto, è stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che “In tema di notificazioni, la consegna dell’atto da notificare “a persona di famiglia”, secondo il disposto dell’art. 139 c.p.c., non postula necessariamente nè il solo rapporto di parentela – cui è da ritenersi equiparato quello di affinità – nè l’ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell’atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando, all’uopo, sufficiente l’esistenza di un vincolo di parentela o di affinità che giustifichi la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario stesso; resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo” (così, verbatim, Sez. 6 – L, Ordinanza n. 21362 del 15/10/2010; v. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18085 del 25/07/2013). E’ stato altresì precisato nell’arresto da ultimo menzionato che “La notifica, quando effettuata a mezzo del servizio postale, va considerata rituale, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 2 ove l’agente postale abbia consegnato il plico a persona di famiglia (nella specie, al coniuge separato), qualora risulti la presenza consuetudinaria e non occasionale della stessa presso l’abitazione del destinatario, accertata dal giudice di merito” (v. anche: n. 24852 del 2006; n. 22607 del 2009). In realtà, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente il vincolo presuntivo di cui all’art. 139 c.p.c., comma 2 ritenendo che la notificazione mediante consegna a persona di famiglia richiede che l’atto da notificare sia consegnato a persona che, pur non avendo uno stabile rapporto di convivenza con il notificando, sia a lui legato da vincolo di parentela, che giustifichi la presunzione di sollecita consegna; presunzione superabile da parte del notificando, che assuma di non avere ricevuto l’atto, con la dimostrazione della presenza occasionale e temporanea del familiare consegnatario (così le pronunce n. 187/2000, 5671/1997, 7371997). Ma se tale è la formula adottata, è anche palese che il testo non impone alcuna indicazione, nella formula notificatoria, della convivenza, posto che, come più volte da questa Corte precisato, viene instaurata la presunzione della convivenza temporanea del familiare nella abitazione del destinatario per il solo fatto che detto familiare si sia trovato nella casa ed abbia preso in consegna l’atto (cfr.: Cass. 1843/98 – 7544/97 – 615/95 – 6100/94 2348/94), presunzione certamente superabile da prova contraria fornita dall’interessato (e ad oggetto la carenza di alcuna pur temporanea convivenza) e sulla quale il legislatore ha fondato l’ulteriore presunzione normativa, quella di consegna immediata dell’atto al suo destinatario da parte del ridetto familiare.

5.3.2 Ne consegue che occorre in primis affermare la qualità di “persona di famiglia” della P., quale coniuge del M., anche se separata con pronuncia giudiziale e residente altrove, posto che il rapporto di coniugio cessa solo con la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (cfr. Cass. 18085/2013).

5.3.2 Ciò posto, risulta evidente come la parte oggi ricorrente sia venuta meno all’onere di dimostrare il carattere solo occasionale della presenza del consegnatario (moglie separata) in casa propria, non rilevando a tal fine le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo che attestino una diversa residenza del coniuge non convivente del destinatario della notificazione. Invero, emerge dalla lettura della sentenza impugnata che la prova testimoniale articolata dal ricorrente vertesse solo sulla veridicità dell’attestazione contenuta nella relata in relazione al luogo della ricezione della notifica, profilo quest’ultimo da contestare solo attraverso la presentazione della querela di falso, non avendo il ricorrente articolato altra prova diretta invece a dimostrare, come era suo onere, il carattere occasionale della presenza del consegnatario in casa propria.

5.3.3 A ciò va aggiunto che – in senso contrario a quanto affermato (e non provato) dal ricorrente, e cioè nel senso della dimostrazione della non “occasionalità” della presenza della P. nella residenza del coniuge separato – depone l’ulteriore circostanza fattuale, neanche controversa tra le parti, secondo cui, nella relata di notificazione dell’ufficiale giudiziario la P. si era dichiarata come “incaricata della ricezione degli atti” presso la residenza dell’altro socio (v. anche folio 4 della sentenza impugnata), residenza che coincide – è il caso di sottolinearlo – con la sede della società fallenda, con ciò dimostrandosi uno stabile vincolo tra la presenza della P. (socia e “incaricata della ricezione degli atti”) e la residenza anagrafica dell’altro socio, coniuge ormai separato dalla P..

5.4 Il quarto motivo è assorbito.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per i compensi, in favore della Ditta individuale C.F. in Euro 5.600 e in favore del Fallimento (OMISSIS) s.n. c in Euro 7.200, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 18-11-2020) 23-04-2021, n. 10860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2975-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente-

contro

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 41, presso lo studio dell’avvocato PEZZALI PAOLA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 145/2012 della COMM. TRIB. REG. TOSCANA SEZ. DIST. di LIVORNO, depositata il 05/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. VENEGONI ANDREA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. SALZANO FRANCESCO che ha chiesto in rigetto del ricorso, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Che:

Il contribuente A.G. impugnava davanti alla CTP di Livorno l’avviso di accertamento relativo ad irpef, irap ed iva per l’anno 2004 deducendo che esso conteneva un vizio che ne minava la motivazione, in quanto nell’avviso relativo a tale anno vi erano alcune pagine che si riferivano, in realtà, all’anno 2002 e viceversa.

La CTP accoglieva il ricorso e la CTR rigettava l’appello dell’ufficio.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’ufficio sulla base di due motivi.

Si costituisce il contribuente con controricorso.

In vista dell’udienza odierna, il PG ha depositato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
Che:

Con il primo motivo l’ufficio deduce insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La CTR non ha motivato sufficientemente sul motivo per cui ha escluso che l’atto avesse raggiunto il suo scopo, e quindi sulla sanatoria del vizio materiale dell’atto.

Il contribuente ha eccepito l’inammissibilità del motivo sotto tre profili.

Con il secondo motivo deduce in subordine violazione dell’art. 137 c.p.c., comma 2 e art. 148 c.p.c., nonché del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e conseguente violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La CTR ha errato nel fare riferimento alla copia notificata al contribuente anziché all’originale esibito dall’ufficio in giudizio.

Anche in relazione a tale motivo, il contribuente in controricorso eccepisce l’inammissibilità.

Il ricorso, che può essere esaminato unitariamente attesa la stretta connessione tra i due motivi, è infondato, e ciò determina che le eccezioni di inammissibilità possano considerarsi superate.

Le questioni dedotte dall’ufficio in appello, infatti, devono essere considerate nel complesso della motivazione della sentenza impugnata.

Letta unitariamente, la motivazione significa in maniera chiara che il vizio da cui era pacificamente affetto l’avviso di accertamento in questione era talmente radicale da privare il contribuente della possibilità di predisporre un’adeguata difesa, e ciò ha integrato una situazione non sanabile dall’affermato raggiungimento dello scopo.

Ora, senza poter entrare in questa sede nei profili di merito e fattuali della vicenda, se il dedotto vizio della sentenza consiste – come in effetti consiste – nella motivazione su un aspetto molto specifico dell’argomentare, e cioè la negazione del fatto che l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo, non si può ritenere che tale motivazione sia mancata o sia stata insufficiente, pur tenendo conto del fatto che il vizio è valutabile nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anteriore alla riforma del 2012 (la sentenza è stata depositata nel giugno 2012).

La CTR ha, infatti, ritenuto che il vizio, che non è contestato, per le sue caratteristiche fattuali fosse tale da escludere la possibile sanatoria per raggiungimento dello scopo. La motivazione sulla mancata sanatoria va, quindi, ricollegata a quella parte che descrive le caratteristiche del vizio stesso, ed in tal senso non può ritenersi insufficiente.

Né può addossarsi al contribuente l’onere di procedere egli stesso alla ricostruzione dell’atto, anche se le circostanze concrete lo permettessero, essendo onere dell’amministrazione predisporre e portare a conoscenza del contribuente un atto completo.

Tra l’altro, in tema di carente motivazione dell’atto impositivo, cioè di vizi di contenuto dello stesso, questa Corte (sez. V n. 21997 del 2014) ha avuto modo di affermare:

In tema di accertamento tributario, l’insufficienza motivazionale dell’atto impositivo, che ne giustifica l’annullamento, non esclude che il contribuente possa difendersi nel merito, deducendo, mediante l’impugnazione, anche vizi di merito, poiché tale difetto non può essere sanato, ex art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo in quanto l’atto ha la funzione di garantire una difesa certa anche con riferimento alla delimitazione del “thema decidendum”.

In senso analogo, di recente, anche sez. V, n. 4070 del 2020, secondo cui:

non è consentito all’amministrazione di sopperire con integrazioni in sede processuale alle lacune dell’avviso di liquidazione per difetto di motivazione (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 31 gennaio 2018, n.. 2382; Cass., Sez. 6, 21 maggio 2018, n. 12400; Cass., Sez, 5, 12 ottobre 2018, n. 25450; Cass., Sez. 5, 24 maggio 2019, n. 14185). Dunque, la “sanatoria” giudiziale non solleva dal difetto di motivazione degli atti impugnati.

Ancora, sez. V n. 16772 del 2017 ha ritenuto che se l’avviso è incompleto perché manca la sola indicazione dell’aliquota, ma è noto l’imponibile e si discute di imposte ad aliquota proporzionale (ires), questa sola mancanza non rende l’avviso nullo perché si tratta di effettuare una mera operazione matematica, ma la conclusione è diversa se le mancanze sono plurime e più rilevanti, come nel caso di specie.

Da questo principio il collegio ritiene che tra le mancanze più rilevanti, che secondo anche quest’ultima sentenza, almeno implicitamente, possono dar luogo a nullità dell’atto, vi sia certamente la mancanza di alcune pagine, con dati essenziali dell’accertamento, specie in un’imposta progressiva, come l’irpef di cui si discute nel caso di specie.

Questo è affermato esplicitamente da sez. V, n. 9196 del 2011, da cui in particolare, si ricava che l’omessa indicazione dell’aliquota in un’imposta progressiva, anche se l’accertamento unitario riguarda pure imposte con aliquota proporzionale, è idonea a determinare il vizio dell’atto.

Il tutto, sul presupposto che la versione di riferimento dell’atto impositivo sia quella notificata al contribuente.

L’avviso di accertamento è, infatti, per sua natura, atto di natura sostanziale, con il quale l’amministrazione porta a conoscenza del contribuente la pretesa tributaria. In quanto tale, l’avviso di accertamento, allo stesso tempo, circoscrive anche la pretesa tributaria e determina, infine, il campo entro il quale il contribuente potrà e dovrà esercitare la propria difesa.

Sulla base di ciò, affermare che, nel contrasto tra copia notificata ed originale in possesso dell’ufficio, sia quest’ultimo a prevalere, significa adottare un’interpretazione che può tradursi in una lesione del diritto di difesa del contribuente stesso.

E’ vero che questa Corte a sezioni unite (Sez. un. 18121 del 2016) ha affermato, in tema di notifiche, la prevalenza dell’originale sulla copia, ma nella specie non si discute di un atto processuale, quanto del contenuto dell’atto sostanziale, il quale, come già ricordato dalla giurisprudenza sopra citata (sez. V, n. 21997 del 2014) ha anche la funzione di delimitare il thema decidendum della futura controversia.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente ufficio e, considerato il valore della causa, si liquidano in Euro 3.500 oltre accessori di legge.

Si dà, poi, atto della non debenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, essendo soccombente l’amministrazione pubblica, la quale prenota a debito, anzichè versare, il contributo suddetto (come confermato da sez. V, n. 23878 del 2020).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.500 oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 23-02-2021) 15-04-2021, n. 10012

La Suprema corte con sentenza sentenza n. 10012 del 15 aprile 2021 si è pronunciata in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale, secondo le previsioni della Legge n. 890/1982, qualora l’atto notificato non venga consegnato al destinatario:

  • per rifiuto a riceverlo;
  • per temporanea assenza del destinatario stesso;
  • per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6199/2014 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO BOTTI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD S.P.A., UFFICIO PROVINCIALE DI CASERTA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 334/46/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata il 08/10/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/02/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede alla Corte che venga rigettato il primo motivo del ricorso ed accolti il secondo ed il terzo.

Svolgimento del processo
1. F.A., destinataria della notifica di una cartella di pagamento per IRPEF 2006-2007, derivante da avvisi di accertamento, avversava l’atto esattivo con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di (OMISSIS), lamentando la mancata rituale notifica di detti atti impositivi prodromici e quindi l’inesistenza del titolo esecutivo (iscrizione a ruolo) legittimante la minacciata esecuzione esattoriale.

2. L’Agenzia delle entrate, ufficio locale, costituendosi eccepiva che la procedura notificatoria di detti avvisi di accertamento, in precaria assenza della contribuente dal proprio domicilio, doveva di contro considerarsi ritualmente perfezionata secondo le previsioni di legge. Si costituiva altresì l’agente della riscossione eccependo la propria carenza di legittimazione passiva.

3. La CTP rigettava il ricorso, rilevando che la F. non aveva assolto all’onere di impugnare anche nel merito gli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata.

4. Il gravame interposto dalla contribuente veniva rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Campania. Il giudice tributario di appello fondava la propria decisione sia sull’affermazione della ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento sia, come il primo giudice, sull’affermazione dell’onere di impugnazione degli stessi anche nei profili di merito.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la F. deducendo tre motivi.

6. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

7. La Quinta Sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 21714 dell’8 ottobre 2020, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto sulla questione, posta con il secondo motivo, di quale sia il modo per assolvere l’onere di provare il perfezionamento di una procedura notificatoria di un atto impositivo mediante l’impiego diretto del servizio postale nel caso della temporanea assenza del notificatario (c.d. “irreperibilità relativa”) ed in particolare se possa considerarsi sufficiente la prova della spedizione della raccomandata informativa (CAD) ovvero se sia invece necessario il deposito dell’avviso di ricevimento di tale raccomandata.

Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione
1. Il terzo motivo del ricorso va esaminato in via pregiudiziale.

Come del resto puntualmente rilevato nell’ordinanza interlocutoria, la sentenza impugnata esprime infatti due distinte ed autonome rationes decidendi, l’una, censurata per differenti profili con il primo ed il secondo motivo di ricorso, relativa alla ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata; l’altra, appunto censurata con il terzo motivo del ricorso, relativa all’onere di impugnare, contestualmente all’atto esattivo, tali atti impositivi -necessariamente – anche per ragioni attinenti il merito delle pretese creditorie fiscali in essi contenute.

Orbene, l’eventuale rigetto di quest’ultima censura implicherebbe l’inammissibilità delle prime due, secondo il consolidato principio di diritto che “Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass., n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882 – 01; conforme, da ultimo, Cass., n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 – 01).

Appare quindi evidente la necessità di trattazione pregiudiziale del terzo motivo del ricorso.

Ciò posto, tale censura è fondata.

Va infatti ribadito che “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (v. ex pluribus, da ultimo, Cass., 1144/2018, in consolidamento di Cass., Sez U., 5791/2008).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte è dunque senz’altro consentito al contribuente impugnare una cartella esattoriale al fine esclusivo di far valere la mancata/irrituale notificazione dell’atto impositivo prodromico alla medesima, senza contestualmente aggredire l’atto stesso sotto altri profili di invalidità formale ovvero per la sua infondatezza nel merito, non sussistendo dunque alcun onere processuale della parte ricorrente al riguardo.

Su tale punto decisionale, avendo affermato il contrario, la sentenza della CTR campana è da ritenersi pertanto illegittima e meritevole di cassazione.

Ne consegue che possono quindi essere affrontati i primi due motivi del ricorso che, come detto, riguardano le modalità di notificazione degli avvisi di accertamento costituenti il presupposto della cartella di pagamento impugnata.

2. Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, poichè la CTR ha ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta degli avvisi di accertamento in questione effettuata direttamente da parte dell’Agenzia delle entrate e quindi senza l’intervento dell’ufficiale giudiziario ovvero del messo speciale notificatore.

La censura è manifestamente infondata.

Sul punto de quo infatti la sentenza impugnata – pronunciandosi espressamente nei limiti dell’oggetto processuale delimitato dalle parti, con conseguente evidente inconsistenza dei dedotti profili processuali del mezzo – risulta aver fatto piana applicazione del chiaro ed inequivoco testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, il quale appunto prevede che “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonchè, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26, 45 e segg. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonchè le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta. Qualora i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria si avvalgano del sistema di notifica a mezzo posta, il compenso loro spettante ai sensi della L. 10 maggio 1976, n. 249, art. 4, comma 1, è ridotto della metà”.

Dunque la “notifica diretta” a mezzo posta da parte delle agenzie fiscali è, univocamente ed espressamente, consentita dalla legge, il che del resto è riscontrato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex pluribus, Cass., 34007/2019, 1207/2014, 15284/2008), essendo peraltro evidente che trattasi di una disposizione legislativa speciale rispetto a quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e del c.p.c. da esso richiamate, sicchè prevale su quest’ultime in base al canone interpretativo lex specialis derogat generali.

3. Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., nonchè la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 8 e la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., poichè la CTR ha sancito la ritualità della notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella di pagamento impugnata.

In particolare, per un verso, si duole dell’omessa pronuncia sulla sua eccezione di invalidità della procedura notificatoria di detti atti fondata sulla mancata prova della spedizione della “raccomandata informativa” di avvenuto deposito degli atti notificandi (CAD) -la ricezione dei quali ab origine nega e che ha posto quale, esclusivo, motivo di impugnazione della cartella esattoriale- non avendo l’agenzia fiscale prodotto in giudizio l’avviso di ricevimento prescritto, quale forma necessaria della raccomandata stessa, dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, che quindi, per altro verso, assume violato, unitamente al principio generale codicistico sull’attribuzione processuale dell’onere probatorio.

Il profilo processuale della censura deve ritenersi infondato, posto che, pur vero che la CTR campana non si è espressamente pronunciata sull’eccezione, devoluta in appello, in oggetto, risulta tuttavia chiaro che di un rigetto implicito si tratti.

Può pertanto al riguardo limitarsi a dare seguito al principio di diritto che “Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (v. in tal senso, tra le molte, Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 01).

La censura tuttavia può comunque essere esaminata sotto il dedotto profilo di violazione/falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, art. 2697 c.c., secondo il consolidato principio di diritto che “Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. Cass., 24953/2020, 14486/2004).

Ciò posto, come detto, la ricorrente afferma di non avere mai ricevuto la notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella esattoriale impugnata ed in particolare, trattandosi pacificamente di notifica “postale diretta” non perfezionatasi con la consegna del plico raccomandato a causa della sua temporanea assenza, di non aver mai ricevuto la “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito degli atti notificandi presso l’ufficio postale (CAD) così come prescritto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, seconda parte; afferma altresì che era onere processuale dell’agenzia fiscale provare il contrario (solo) mediante la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata contenente detto avviso, non essendo, pacificamente, ciò avvenuto, poichè l’Ente impositore si è limitato a produrre giudizialmente soltanto l’avviso di ricevimento della “prima raccomandata” (quella contenente l’avviso di accertamento notificando), con l’attestazione dell’agente postale della temporanea assenza della destinataria e dell’avvenuta spedizione della “seconda raccomandata” prescritta dalla specifica disposizione legislativa appena citata.

4. La Sezione Quinta civile con la citata ordinanza interlocutoria sottopone dunque alla valutazione delle Sezioni Unite la questione che afferma oggetto di contrasto giurisprudenziale interno alla giurisprudenza di legittimità – se sia sufficiente per il giudizio di rituale perfezionamento della procedura notificatoria in esame la prova offerta dall’Agenzia delle entrate (primo avviso di ricevimento con dette attestazioni) oppure necessario, anche ed essenzialmente, che il notificante depositi l’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (CAD).

In effetti, come puntualmente evidenziato dalla Sezione rimettente, si registra un’ evoluzione, piuttosto evidente, della giurisprudenza di questa Corte in ordine a tale questione giuridica.

5. Con un primo orientamento, più risalentemente consolidato, si è infatti costantemente affermato che, al fine della prova del perfezionamento della notifica postale “diretta” in caso di assenza temporanea del destinatario, è sufficiente che l’Ente impositore notificante produca in giudizio l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’atto notificando con l’attestazione di spedizione della CAD (in questo senso, Cass., 2638/2019, 13833/2018, 26945-6242-4043/2017).

Tale orientamento – essenzialmente – si fonda sul dato letterale della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4 (nella versione applicabile ratione temporis ossia dopo la modifica operata dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, ma prima delle modificazioni successivamente operate con la L. n. 205 del 2017, art. 1 e con la L. n. 145 del 2018, art. 1), secondo il quale “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”, peraltro strettamente collegata/coordinata con la previsione di cui al comma 2, u.p., della disposizione legislativa stessa, secondo il quale, tra i contenuti dell’avviso di ricevimento della CAD, deve esserci obbligatoriamente “l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito (dell’atto noticando presso l’ufficio postale, n.d.r).

In altri termini dalla (doppia) previsione in ordine all’”effetto perfezionativo” della procedura notificatoria de qua, tale giurisprudenza ha tratto il convincimento che a provarne il presupposto fattuale sia appunto sufficiente la, puntuale e specifica, attestazione di spedizione della CAD contenuta nel “primo” avviso di ricevimento riguardante non la CAD stessa, bensì l’atto notificando.

Così si è ritrovato il punto di equilibrio nel bilanciamento degli interessi del notificante e del notificatario, dunque, in ultima analisi, tra “conoscenza legale” (conoscibilità) e “conoscenza effettiva” dell’atto notificando.

6. Tuttavia, a partire dalla ordinanza della medesima Sezione. Quinta civile n. 5077 del 21 febbraio 2019, secondo un diverso orientamento, al verificarsi della fattispecie concreta in esame (notifica a mezzo posta/assenza temporanea del destinatario ovvero di persone idonee alla ricezione dell’atto notificando), per considerare perfezionata la procedura notificatoria è invece necessario verificare in concreto l’avvenuta ricezione della CAD ed a tal fine il notificante è processualmente onerato della produzione del relativo avviso di ricevimento (nello stesso senso, cfr. Cass., 16601/2019, 6363-21714-23921-25140-26078/2020; successive difformi, Cass., 3307033257/2019, che si richiamano all’altro indirizzo ermeneutico).

Tale divergente indirizzo, diffusamente argomentato nella citata pronuncia della Sezione tributaria che lo ha avviato, si confronta con la letteralità della disposizione legislativa applicabile, in particolare con la “previsione di effetto” di cui al comma 4, ma ne dà una diversa connotazione giuridica, qualificando tale effetto normativo come “provvisorio” e sospensivamente condizionato a detta verifica, da effettuare giudizialmente, sull’avviso di ricevimento della “seconda raccomandata”.

La necessarietà di tale verifica e dell’onere probatorio correlativo viene fondata sull’interpretazione costituzionalmente orientata e sistematica del dato normativo stesso, a sostegno della quale pone le pronuncie della Corte costituzionale n. 346 del 1998, proprio sulla L. n. 890 del 1982, art. 8 e L. n. 10 del 2010, sulla notificazione ex art. 140 c.p.c..

7. Ritiene il Collegio che debba darsi seguito a questo secondo – più recentemente consolidatosi – orientamento giurisprudenziale.

Non è infatti dubbio che nel sistema della notificazione postale, in caso di mancata consegna del plico contenente l’atto notificando, la comunicazione di avvenuto deposito abbia un ruolo essenziale al fine di garantire la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell’atto notificando stesso.

La mera prova della spedizione di tale comunicazione non può dunque considerarsi quale fattispecie giuridica conformativa del fondamento profondo del dictum imperativo del giudice delle leggi (la citata C. Cost. 346/1998), con il quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’originaria formulazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, nella parte in cui non prevedeva che, nella fattispecie concreta in esame ed in quelle assimilabili (rifiuto di ricezione di firma del registro di consegna; assenza di persone idonee al ritiro) non venisse appunto data la comunicazione stessa e che lo fosse con una “raccomandata con avviso di ricevimento”.

In particolare alla previsione di questa, particolare e rafforzata, forma di “postalizzazione” della notifica non può assegnarsi un significato pleonasticamente ridondante, ma piuttosto una pregnante direttiva anche ermeneutica – della Corte costituzionale, peraltro, pur a rilevante distanza di tempo, positivamente normativizzata con il D.L. n. 35 del 2005, citato art. 2.

D’altro canto, come giustamente sottolineato nella pronuncia “capofila” del nuovo indirizzo interpretativo, tale disciplina adeguatrice – su questo specifico segmento della procedura notificatoria – si differenzia nettamente da quella dell’art. 139 c.p.c., comma 4, ovvero della L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., disciplinanti i casi di consegna dell’atto notificando a persona diversa dal destinatario e che in tal caso prevedono che venga spedita a quest’ultimo una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto medesimo.

Tale, significativa, differenziazione normativa ha un senso evidente, posto che nei casi di consegna a “persona diversa” vi può essere una ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, trattandosi di persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) che hanno con lo stesso un rapporto che il legislatore riconosce come astrattamente idoneo a questo fine ed è per questo che ha prescelto una forma di comunicazione dell’avvenuta consegna garantita, ma semplificata.

Diversamente nel caso della L. n. 890 del 1982, art. 8 (e dell’art. 140 c.p.c.), non si realizza alcuna consegna, ma solo il deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (ovvero nella notifica codicistica presso la Casa comunale).

Ed è per tale, essenziale ragione, che la legge, con maggiore rigore, prevede che di tale adempimento venga data comunicazione dall’agente notificatore al destinatario, del tutto ignaro della notifica, secondo due distinte e concorrenti modalità: l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) ed appunto la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Peraltro, riprendendo il filo dell’interpretazione costituzionalmente orientata che si va illustrando, in detta sentenza della Corte costituzionale vi è tuttavia in nuce un ulteriore argomento che va valorizzato, consistente nella comparazione della procedura notificatoria in questione con quella, pur sempre basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), disciplinata all’art. 140 c.p.c., tra le modalità delle notifiche curate direttamente dall’ufficiale giudiziario. Ed in effetti il pendant logico-giuridico tra le due procedure notificatorie, a causa della loro evidente analogia, risulta piuttosto chiaro e porta senz’altro ad utilizzare la seconda (art. 140 c.p.c.) quale tertium comparationis, secondo una consolidata tecnica di valutazione delle questioni di costituzionalità, sotto il profilo della ragionevolezza.

Di conseguenza viene inevitabilmente in considerazione un’ altra successiva pronuncia di illegittimità costituzionale (C. Cost., sent. n. 3/2010) appunto dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede(va) il perfezionamento della notifica non effettuata a causa di “irreperibilità o rifiuto di ricevere” del destinatario (e delle persone addette alla casa) sul presupposto della sola spedizione della “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito dell’atto notificando (presso la Casa comunale), invece che con il ricevimento della stessa ovvero con il decorso di 10 giorni dalla sua spedizione.

Orbene, risulta consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nel caso di notifica, anche di atti impositivi tributari, da parte dell’ufficiale giudiziario ai sensi di detta disposizione del codice di rito, che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio deve essere data, appunto, mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (cfr. Cass., n. 25985 del 10/12/2014, Rv. 633554 – 01; n. 21132 del 02/10/2009, Rv. 609852 – 01; per la cartella di pagamento, anche a seguito di C. Cost. 258/2012, cfr. altresì Cass., n. 9782/2018; v. per argomenti nello stesso senso Cass., Sez. U., 627/2008).

Pur nella diversità delle due modalità notificatorie in parte qua ossia in relazione alla spedizione della CAD – quella codicistica attuata dall’ufficiale giudiziario con il concorso dell’agente postale, quella postale attuata esclusivamente da quest’ultimo – non può che ravvisarsi un’unica ratio legis che è quella – profondamente fondata sui principi costituzionali di azione e difesa (art. 24, Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111 Cost., comma 2) – di dare al notificatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo o comunque di quelli previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 1 (atti giudiziari civili, amministrativi e penali).

Solo in questi termini può dunque trovarsi quel punto di equilibrio tra le esigenze del notificante e quelle del notificatario, peraltro trattandosi di un onere probatorio processuale tutt’affatto vessatorio e problematico, consistendo nel deposito di un atto facilmente acquisibile da parte del soggetto attivo del sub-procedimento.

Va quindi affermato che solo dall’esame concreto di tale atto il giudice del merito e, qualora si tratti di atto processuale, (se del caso) anche il giudice di legittimità, può desumere la “sorte” della spedizione della “raccomandata informativa”, quindi, in ultima analisi, esprimere un ragionevole e fondato – giudizio sulla sua ricezione, effettiva o almeno “legale” (intesa come facoltà di conoscere l’avviso spedito e quindi tramite lo stesso l’atto non potuto notificare), della raccomandata medesima da parte del destinatario.

In termini generali bisogna dunque ritenere che la produzione dell’avviso di ricevimento della CAD costituisce l’indefettibile prova di un presupposto implicito dell’effetto di perfezionamento della procedura notificatoria secondo le citate previsioni della L. n. 890 del 1982, art. 8, commi 4 e 2, che, qualora ritenuta giudizialmente raggiunta, trasforma tale effetto da “provvisorio” a “definitivo”.

Il che corrisponde alla configurazione strutturale, perfettamente aderente al dettato normativo de quo, di una fattispecie sub-procedimentale a formazione progressiva, secondo un’interpretazione conforme a Costituzione nei richiamati principi.

8. In conclusione sul punto, va formulato il seguente principio di diritto:

“In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima”.

Essendo del tutto pacifico che nel caso in esame la notificante Agenzia delle entrate non ha assolto all’onere probatorio in questione in tali termini configurato, devono pertanto affermarsi fondate sia l’eccezione di invalidità della notificazione degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata sia la correlata eccezione di invalidità consequenziale di tale atto della riscossione; quindi in ultima analisi deve sancirsi la fondatezza del profilo della censura in oggetto che le ripropone in forma di critica alla difforme pronuncia, ancorchè implicita, del giudice tributario di appello.

9. In conclusione, vanno accolti il secondo ed il terzo motivo del ricorso, va rigettato il primo, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendo nel merito deve essere accolto il ricorso introduttivo della lite.

Tenuto conto della complessità delle questioni trattate in particolare in relazione al secondo motivo, le spese del processo possono essere compensate.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso, rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della lite; compensa integralmente le spese tra le parti.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente per impedimento dell’estensore per le disposizioni restrittive della circolazione nel territorio nazionale per l’emergenza epidemiologica Covid-19.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 09-02-2021) 07-04-2021, n. 9292

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37752-2019 proposto da:

A.P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO DE BONIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 220/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della BASILICATA, depositata il 30/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.

Svolgimento del processo
che:

1. A.P.A. ha proposto ricorso, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Potenza, avverso l’avviso d’accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei suoi confronti, relativamente all’anno d’imposta 2008, in materia di Irpef, ed avverso la relativa iscrizione a ruolo, assumendo di essere venuto a conoscenza dell’atto impositivo solo a seguito dell’acquisizione di copia dell’estratto di ruolo ed eccependo l’inesistenza e la nullità della notifica dello stesso accertamento.

L’adita CTP ha rigettato il ricorso.

2. Il contribuente ha allora proposto appello dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Basilicata, che lo ha respinto con la sentenza n. 220/01/2019, depositata il 30 aprile 2019, ritenendo che la notifica dell’avviso di accertamento al contribuente fosse ritualmente avvenuta il 20 ottobre 2012, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), tramite messo notificatore, il quale aveva provveduto al deposito dell’atto presso la casa comunale ed alla successiva affissione dell’avvenuto deposito all’albo comunale.

Il ricorso a tale procedura di notificazione dell’atto impositivo, secondo la CTR, era legittimo, in quanto sebbene dal certificato anagrafico acquisito agli atti il contribuente risultasse, al momento della notifica, residente nel medesimo indirizzo menzionato nella relata del messo, tuttavia il 21 luglio 2012 un precedente tentativo di notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario e presso la medesima residenza anagrafica, non si era perfezionato, in conseguenza dell’irreperibilità del destinatario, come risultava dalla compilazione del relativo avviso di ricevimento, nel quale era barrata la voce “per irreperibilità del destinatario”, nel riquadro “mancata consegna del plico a domicilio”.

Pertanto la CTR, ritenuta regolare la notifica dell’accertamento, ha considerato tardivo ed inammissibile il ricorso del contribuente nei confronti dell’accertamento presupposto ed ha rigettato l’appello.

3. Il contribuente ha quindi proposto ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza impugnata.

L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Per motivi di ordine logico, appare opportuno trattare anticipatamente il secondo motivo, per la sua potenziale capacità assorbente.

Con il secondo motivo, infatti, il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia l’omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello “inteso a rilevare la violazione e la falsa applicazione della L. n. 265 del 1999, art. 10, nonché della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 158”.

Secondo il ricorrente, la CTR non si sarebbe pronunciata in ordine alla sua eccezione di inesistenza giuridica della notificazione in considerazione della carenza di legittimazione dell’agente notificatore il quale, rivestendo la qualifica di messo notificatore, ma non quella di messo comunale, avrebbe potuto legittimamente notificare esclusivamente atti di accertamento dei tributi locali e comunque atti provenienti dal Comune di appartenenza.

Il motivo è infondato.

Invero, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, l’affermazione della legittimazione legale dell’agente notificatore, rispetto allo specifico atto da notificare, costituisce un necessario antecedente logico e giuridico di ogni verifica e pronuncia in ordine alla validità della specie di notifica concretamente effettuata dallo stesso operatore. Infatti, come questa Corte ha avuto occasione già di chiarire, “L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016).

Pertanto, l’ipotetico accoglimento dell’eccezione che l’attività di notificazione non fosse stata svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, avrebbe avuto come necessaria conseguenza l’inesistenza della notifica sub iudice, a prescindere dalle forme nelle quali la fase di consegna si è realizzata, che sarebbe stato superfluo valutare. Dunque, valutando esistente e valida la notifica in relazione alle modalità con le quali si è compiuta la fase di consegna dell’atto, la CTR ha implicitamente, ma necessariamente, affermato la legittimazione dell’agente notificatore e, quindi, implicitamente rigettato il motivo dell’appello del contribuente che la negava, in coerenza con l’adottato dispositivo di totale rigetto dell’impugnazione.

In questo senso si è infatti espressa più volte questa Corte, affermando che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20718 del 13/08/2018; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15255 del 04/06/2019); ovvero quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo una specifica argomentazione in proposito, per cui è sufficiente quella motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 7662 del 02/04/2020; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 2153 del 30/01/2020).

2. Con il primo motivo il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione e la falsa applicazione “del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), (…) Violazione della fattispecie astratta di accesso alla procedura di notificazione per irreperibilità assoluta”.

Va premesso che il ricorrente riproduce nel corpo del ricorso – dopo averne indicato l’avvenuta produzione nel merito, del resto confermata dalla stessa sentenza d’appello – la copia della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore del Comune di Potenza, e la copia della parte anteriore dell’avviso di ricevimento di precedente notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario ed al medesimo indirizzo, datata 26 luglio 2012 e recante l’attestazione della mancata consegna del plico per irreperibilità del destinatario.

Tanto premesso, il contribuente censura la decisione della CTR per aver ritenuto la notifica, eseguita dal messo sul presupposto dell’irreperibilità assoluta del destinatario e con le forme previste per tale fattispecie, valida pur in assenza della menzione, nella relata, di qualsiasi attività di ricerca del consegnatario effettuata presso la residenza anagrafica di quest’ultimo (la cui corrispondenza con quella indicata nella relata trova conferma nel certificato riprodotto nello stesso ricorso e prodotto nel giudizio di merito, come risulta dalla sentenza impugnata).

Non era sufficiente, aggiunge il ricorrente, ad escludere la necessità delle predette ricerche, la circostanza che, nel precedente tentativo di notifica a mezzo posta, il destinatario fosse irreperibile presso il medesimo luogo di residenza, trattandosi di altra fattispecie di notificazione, disciplinata diversamente e mai perfezionatasi.

Il motivo è fondato.

Recita il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e): “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e ss. c.p.c., con le seguenti modifiche: (…) e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione;”.

Come questa Corte ha già chiarito, “La notificazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune.” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 3378 del 12/02/2020).

Sempre riguardo alla necessità dell’accertamento dell’irreperibilità assoluta, presso la residenza anagrafica del contribuente destinatario, si è detto che “La notificazione di un avviso o altro atto impositivo viene svolta nelle forme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), nel caso in cui il contribuente, che ne è destinatario, risulti trasferito in luogo sconosciuto. In tale ipotesi, il messo notificatore, svolte le ricerche nel Comune in cui si trova il domicilio fiscale del contribuente per verificare l’eventuale mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune e accertata la sua irreperibilità presso la residenza anagrafica, procede alla notifica, effettuando il deposito nella casa comunale e inviando la raccomandata informativa, con avviso di ricevimento, ex art. 140 c.p.c., la cui produzione in giudizio costituisce prova dell’avvenuto perfezionamento della notificazione.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 4657 del 21/02/2020).

Era stato del resto già ribadito che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale.” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2877 del 07/02/2018, ex plurimis). Pertanto, “Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto.” (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 24107 del 28/11/2016).

Quanto poi alla specie delle ricerche che l’agente notificatore deve compiere, ed alla conseguente indicazione nella relata, è stato precisato che “In tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purché dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018). Tanto premesso, l’esame della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore, non contiene alcuna menzione di ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non avesse più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. In particolare, la relata non riferisce di alcuna ricerca relativa all’irreperibilità assoluta del destinatario presso la residenza anagrafica di quest’ultimo nel medesimo Comune, menzionata nello stesso atto e corrispondente a quella certificata. Non risulta, quindi, che il messo abbia constatato in loco ed in punto di fatto l’eventuale divergenza dai dati anagrafici che, attestavano formalmente la persistente residenza in loco del destinatario della notifica (cfr. (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018, cit., in motivazione).

Tale inerzia totale (per come rilevabile dalla relata) del notificatore, in ordine alle ricerche indispensabili ai fini della legittima configurazione dell’irreperibilità assoluta, presupposto della notifica D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), determina la nullità di quest’ultima.

Non può, invero, ritenersi altrimenti che le ricerche propedeutiche alla constatazione dell’irreperibilità assoluta, ai fini della validità della notifica eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), nel caso di specie non fossero necessarie perché allo stesso destinatario, al medesimo indirizzo, non era stato possibile effettuare, diversi mesi prima, la notifica a mezzo posta per irreperibilità.

Infatti, questa Corte ha già avuto occasione di rilevare che “ai fini della legittimità del ricorso alle forme previste dall’art. 143 c.p.c., non è sufficiente il vano tentativo di eseguire la notifica all’indirizzo indicato (…)” (Cass. 12/12/2017, n. 29671).

E, del resto, l’irreperibilità annotata, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 9, sul predetto avviso di ricevimento, quale indicazione del motivo del mancato recapito e della restituzione dell’invio al mittente in raccomandazione, non risulta a sua volta preceduta da alcuna ricerca. Nè, comunque, potrebbe ritenersi diligente, da parte del mittente, la limitazione aprioristica delle ricerche alla mera presa d’atto del mancato buon fine di un tentativo di notifica di parecchi mesi antecedente a quello poi effettuato nelle forme dirette agli irreperibili in senso assoluto.

Va quindi accolto il primo motivo e va pertanto cassata la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo per ogni necessario accertamento in fatto e per le questioni rimaste assorbite dalla decisione cassata.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2021


Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-02-2021) 02-04-2021, n. 12780

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Presidente –

Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere –

Dott. CAIRO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

R.A., nato a (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 14/10/2020 del TRIB. SORVEGLIANZA di CATANIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MONICA BONI;

lette/sue le conclusioni del PG Dr. Cocomello Assunta, che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo
1. Con ordinanza emessa in data 14 ottobre 2020 il Tribunale di sorveglianza di Catania rigettava la domanda, proposta da R.A., volta ad ottenere l’ammissione alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.

A fondamento della decisione il Tribunale ha osservato che il provvedimento emesso in data 1 luglio 2020 non costituisce una duplicazione della precedente ordinanza dello stesso Tribunale di sorveglianza in quanto, pur riguardando lo stesso titolo, esecutivo, nell’ordine di carcerazione sospeso per errore la pena era stata fatta decorrere dal 30 dicembre 2014, anziché dal 30 dicembre 2015, per cui l’anno di differenza deve ancora essere espiato.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato a mezzo del difensore avv.to Mario Luciano Brancato, il quale ha dedotto:

a) vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza respinto l’opposizione avverso la precedente ordinanza dell’1 luglio 2020 di ammissione del ricorrente all’affidamento in prova per espiare il residuo pena di un anno, relativo alla condanna inflittagli con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Messina del 16 marzo 2016, non espiata in precedenza a seguito dell’ordine di esecuzione del 5 aprile 2016 della Procura della Repubblica di Messina per un errore di calcolo, sebbene la pena fosse stata dichiarata estinta con provvedimento del 6 giugno 2018 che non era stata impugnata dalla Procura procedente, divenendo definitiva. La motivazione è del tutto insufficiente rispetto alle doglianze già esposte con l’opposizione e non tiene conto che il divieto di bis in idem è riferibile anche alle decisioni assunte in fase esecutiva.

b) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1 in quanto l’udienza camerale era stata celebrata senza la presenza obbligatoria del difensore di fiducia, avv.to Alfio Grasso, che non aveva ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza stessa, sebbene giek, designato in precedenza e destinatario della notificazione dei provvedimento dell’1 luglio 2020.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, Dott.ssa Assunta Cocomello, ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata per la fondatezza del secondo motivo di ricorso.

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e va dunque accolto.

1. Il secondo motivo di ricorso assume valore dirimente ed assorbente rispetto alla ulteriore doglianze di cui al primo motivo. Risulta dalla documentazione agli atti, resa accessibile a questo giudice di legittimità per la natura processuale della questione dedotta, che l’avv.to Alfio Grasso del foro di Catania con studio professionale in (OMISSIS), designato difensore di fiducia del R., non aveva ricevuto la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale del 14 ottobre 2020, in quanto l’atto era stato inoltrato a mezzo posta elettronica ad altro legale omonimo, avente però studio in (OMISSIS), con indirizzo pec (OMISSIS), diverso da quello del legale designato difensore di fiducia, che è “(OMISSIS)”. La notificazione dunque era stata compiuta nei confronti di un avvocato reperibile ad un diverso indirizzo, sia in senso fisico quale recapito professionale, sia in senso telematico ai fini dell’impiego della posta elettronica certificata senza che chi aveva ricevuto l’avviso avesse un qualsiasi collegamento professionale con il condannato che aveva rivolto la propria richiesta al Tribunale di sorveglianza. L’udienza si era poi celebrata alla presenza di un difensore d’ufficio prontamente reperito.

2. La trattazione del procedimento in assenza del difensore di fiducia ha pregiudicato l’effettività dell’esercizio del diritto di difesa da parte del legale prescelto dal condannato. Tanto è causa di nullità assoluta degli atti processuali e dell’ordinanza impugnata, secondo quanto già affermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, per le quali “L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97 c.p.p., comma 4, (In motivazione, la Suprema Corte ha, in particolare, evidenziato che ove, in presenza di una rituale e tempestiva nomina fiduciaria effettuata dall’interessato, il giudice proceda irritualmente alla designazione di un difensore d’ufficio, viene ad essere leso il diritto dell’imputato “ad avere un difensore di sua scelta”, riconosciuto dall’art. 6, comma 3 lett. c), della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo)” (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 263598).

Ne discende l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania che dovrà pronunciarsi previa instaurazione rituale del contraddittorio con la difesa del condannato.

P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-11-2020) 24-02-2021, n. 4987

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M. – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian A. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10610-2017 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. – AGENTE DELLA RISCOSSIONE PER LE PROVINCE SICILIANE, in persona del legale rappresentante p.t. (C.F. (OMISSIS)), rapp. e dif., in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’AVV. SABRINA LIPARI, unitamente alla quale è dom.ta ope legis presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

P.G., elett.te dom.to in SIRACUSA, alla Via MONS. S. GOZZO, n. 5/D, presso lo studio del Dott. ROBERTO ZAPPALA;

– intimato –

nonché:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore p.t., legale rappresentante, dom.to in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rapp. e dif.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3520/16/16 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della REGIONE SICILIANA, sez. st. di SIRACUSA, depositata l’11/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2020 dal Consigliere Dott. GIAN ANDREA CHIESI.

Svolgimento del processo
che P.G. impugnò, innanzi alla C.T.P. di Siracusa, 42 cartelle di pagamento;

che l’adita Commissione, con sentenza 379/04/13, dichiarato in via preliminare il difetto di giurisdizione rispetto alle cartelle di pagamento relative a carichi contributivi I.N.P.S. ed a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, rigettò, con rifermento alle residue cartelle – recanti carichi tributari – il ricorso del contribuente;

che tale decisione fu appellata da P.G. innanzi alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, la quale, con sentenza 3520/16/16, depositata l’11.10.2016, accolse il ricorso rilevando – per quanto in questa sede ancora interessa – come, relativamente alle cartelle di pagamento notificate a mani del portiere dello stabile di residenza del contribuente, l’Ufficio non avesse dato prova di avere provveduto all’invio, al P., dell’avviso di avvenuta consegna della notifica a mani del portiere a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, così violando l’art. 139 c.p.c., comma 4;

che avverso tale decisione la RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. ha quindi proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; si è costituita, con controricorso di tenore adesivo, l’AGENZIA DELLE ENTRATE, mentre è rimasto intimato il P..

Motivi della decisione
che con il primo motivo parte ricorrente lamenta (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e dell’art. 139 c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto nulla la notifica delle cartelle di pagamento concernenti i carichi tributari, per difettare la prova dell’avvenuto inoltro, al contribuente, della comunicazione di cui al dell’art. 139 cit., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento;

che il motivo è fondato;

che l’art. 139 c.p.c. prevede, ai suoi commi 3 e 4, che “in mancanza delle persone indicate nel comma precedente” e, cioè, del destinatario di persona, oppure di una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace) – “la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda…”: nel qual caso, “il portiere…deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”;

che la norma, dunque, non dissimilmente da quanto previsto dall’art. 660 c.p.c., u.c., prescrive – a pena di nullità della notifica (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01) – la mera spedizione dell’avviso in questione, senza che sia necessaria, altresì, la prova della sua ricezione da parte del destinatario: tant’è che il tempo di perfezionamento della notifica stessa si identifica con quello della consegna dell’atto alla persona comunque inserita nella sfera di conoscibilità del destinatario (e non con quello della ricezione dell’avviso da parte del destinatario), sia pure stavolta latamente intesa, siccome identificata in base ora ai rapporti giuridici nascenti dal portierato in un fabbricato per civili abitazioni ed agli obblighi in capo al portiere in favore dei singoli occupanti, ora a quei rapporti non più giuridici, ma comunque di solidarietà sociale, che si presume si intrattengano, se non con i vicini, almeno e se non altro col vicino che liberamente e spontaneamente accetti di ricevere la copia dell’atto per curarne poi la materiale consegna (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01, cit.);

che, nel ritenere al contrario necessario, ai fini della validità della notifica delle cartelle di pagamento in questione, l’avvenuto inoltro, al P., della comunicazione di cui all’art. 139 c.p.c., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, la C.T.R. ha dunque disatteso tali principi;

che con il secondo motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), della violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la C.T.R. esteso la propria cognizione alla validità (nella specie, negata) della notifica di sette cartelle di pagamento, diverse da quelle portanti carichi tributari, nonostante la questione fosse coperta dal giudicato interno formatosi sul difetto di giurisdizione dichiarato, rispetto ad esse, dalla C.T.P.;

che il motivo è inammissibile;

che dalla motivazione della sentenza impugnata non è dato comprendere a quali cartelle di pagamento faccia riferimento la C.T.R., allorchè afferma che “l’ufficio…non ha prodotto le (relative) recate di notifica”; nè, a ben vedere, parte ricorrente ha trascritto, ai fini della specificità del motivo di ricorso (cfr. l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), l’atto di appello del P., così precludendo al Collegio di valutare (a) se effettivamente sulla questione di giurisdizione si era formato il dedotto giudicato interno, nonchè (b) a quali cartelle era conseguentemente limitato l’effetto devolutivo dell’appello e, infine, (c) se quelle in questione erano cartelle rientranti o meno tra quelle ancora soggette alla giurisdizione della giudice tributario (arg. da Sez. 1, 2.2.2017, n. 2771, Rv. 643715-01); che l’accoglimento del primo motivo di ricorso determina la cassazione della impugnata decisione e rinvio alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. dist. di Siracusa, in diversa composizione, anche ai fini della liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, con conseguente assorbimento del terzo mezzo di gravame, con il quale parte ricorrente si è doluta della erronea ripartizione dell’onere delle spese di lite, in primo come in secondo grado, in quanto la relativa censura è diretta contro una statuizione che, per il suo carattere accessorio, è destinata ad essere travolta dall’annullamento che viene disposto della sentenza impugnata, a seguito del quale la liquidazione delle spese delle precorse fasi del giudizio va effettuata dal giudice di rinvio, tenendo conto dell’esito finale del giudizio (Cass., Sez. 6-2, 6.2.2017, n. 3069, Rv. 642575-01).

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo ed assorbito il terzo. Per l’effetto, cassa la gravata sentenza e rinvia alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, in diversa composizione, affinché si attenga ai principi che precedono e liquidi, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Civile Tributaria, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 10/11/2020) 23/02/2021, n. 4920

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25755/2018 proposto da:

Z.L., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’avvocato FATIMA CILLO, ed elettivamente domiciliati presso lo studio della medesima in Cervinara via Sirio n. 10, pec: nicola.valente.avvecatiavellinopec.it;

– ricorrenti –

contro

VODAFONE ITALIA SPA, (già VODAFONE OMNITEL BV), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLA LIMATOLA, e ALESSANDRO LIMATOLA, ed elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dei medesimi in VIA NOMENTANA 257, pec: notifiche.limatolaavvocati.it;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 259/2018 del TRIBUNALE di AVELLINO, depositata il 12/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/11/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Svolgimento del processo
che:

1. Il di Pace di Cervinara, con sentenza n. 338 del 2016, pronunciando su cause riunite proposte da vari soggetti titolari di utenze telefoniche Vodafone nei confronti del gestore per i disservizi verificatisi nel (OMISSIS) tra il (OMISSIS) in conseguenza di fortissime nevicate abbattutesi sulla zona, con sentenza n. 16 del 24/6/2016, accolse le domande ritenendo che le interruzioni ingiustificate e senza preavviso costituissero fonte di responsabilità, in assenza di prova, da parte dell’operatore telefonico, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, danno che, a fronte di un evento costituito da un disservizio dovuto a fatto atmosferico eccezionale, si era concretizzato nel non essersi il gestore attivato tempestivamente per ripristinare il servizio. Il giudice riconobbe agli attori delle somme che liquidò in via equitativa.

Vodafone propose appello rappresentando che il non esatto adempimento della prestazione era dipeso da impossibilità derivante da causa a sè non imputabile ed in particolare dalle reiterate e prolungate interruzioni dell’energia elettrica causate dalle eccezionali avverse condizioni atmosferiche dovute a nevicate abnormi.

2. Il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 259 del 12/2/2018, ha accolto la tesi dell’appellante ritenendo esistente una ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione, ai sensi dell’art. 1256 c.c., dovuta ad eventi di forza maggiore talmente gravi da trovare ampio risalto nelle testate giornalistiche e nei mezzi di informazione e da richiedere l’intervento della Protezione Civile. Tali eventi, connotati da imprevedibilità, eccezionalità e gravità, avevano interrotto il nesso eziologico tra l’evento ed il danno sofferto dalla clientela, anche alla luce della previsione contenuta nelle condizioni generali di contratto, di una clausola di esonero da responsabilità del gestore per i casi in cui il servizio non fosse erogabile per motivi di forza maggiore. Anche l’espressa accettazione da parte degli utenti di tale clausola corroborava la tesi dell’esonero del gestore da responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c..

3. Avverso la sentenza, che ha altresì posto a carico degli utenti le spese del doppio grado, Z.L. ed altri hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Ha resistito la Vodafone con controricorso.

4. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Il Collegio ritiene necessario esaminare prioritariamente una questione preliminare afferente alla validità della comunicazione di cancelleria -relativa alla presente adunanza – al legale difensore dei ricorrenti. Il difensore domiciliatario avvocato Fatima Cillo ha indicato nel ricorso il proprio codice fiscale ai sensi dell’art. 125 c.p.c., sicchè si era domiciliata automaticamente nel proprio indirizzo di PEC figurante obbligatoriamente nel Reginde. Sicchè, come era necessario a norma del combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., u.c. e art. 136 c.p.c., comma 2, la Cancelleria ha proceduto all’individuazione della PEC dello stesso difensore nel Reginde (fatima.cilio.avvocatiavellinopec.it) ed ha eseguito presso la relativa casella la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’adunanza. La comunicazione dell’avviso, tuttavia, è stata rifiutata dalla relativa casella di PEC dell’Avvocato Cillo (la Cancelleria ha attestato che la PEC è tornata sempre negativa) e la Cancelleria (peraltro dopo avere inutilmente tentato di telefonare allo studio dell’avvocato, con il risultato che il numero dava sempre occupato) ha proceduto ad eseguire la comunicazione a mezzo posta, ma essa è risultata tardiva, cioè si è perfezionata l’8 ottobre 2020 e, dunque, senza l’osservanza del termine a difesa rispetto all’odierna adunanza.

Ritiene il Collegio, peraltro, che detto ulteriore adempimento di cancelleria, di fronte al rifiuto della prima tempestiva comunicazione da parte della casella di PEC del detto difensore, non risultava necessario, in quanto la comunicazione inviata e non andata a buon fine nella PEC del Reginde dell’Avvocato Cillo si deve ritenere non perfezionata per fatto imputabile al legale, inerente allo stato di detta casella di PEC, e dunque equivalente ad un rifiuto della stessa.

A supporto di tale conclusione si pone la giurisprudenza di questa Corte relativa alla necessaria “non imputabilità” al difensore dell’esito negativo della comunicazione alla sua casella di PEC (si vedano: Cass., 6-3, n. 3164 dell’11/2/2020: “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di aver rinvenuto la casella Pec del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”; Cass., 6-5, n. 3965 del 18/2/2020: “la mancata consegna all’avvocato della comunicazione o notificazione inviatagli a mezzo posta elettronica certificata produce effetti diversi a seconda che gli sia o meno imputabile: nel primo caso le notificazioni/comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria; nel secondo attraverso l’utilizzo delle forme ordinarie previste dal codice di rito”).

La tardività della comunicazione a mezzo posta, dunque, non essendo dovuta tale ulteriore comunicazione è rimasta irrilevante.

Il Collegio rileva, inoltre, che nel ricorso l’Avvocato Pillo, che non aveva indicato la propria PEC, ma, come s’è detto, aveva indicato il proprio codice fiscale, così rendendola individuabile nel Reginde, si era domiciliata in (OMISSIS) ed aveva inoltre, senza però indicare di volervisi domiciliare, espressamente dichiarato “per le comunicazioni i seguenti recapiti”, facendo riferimento ad una PEC riferibile ad altro avvocato e ad un fax. Poichè detto avvocato, le cui generalità emergevano appunto solo dalla PEC, non risultava nè in procura nè come domiciliatario, il Collegio ritiene di doversi interrogare sul se l’unico difensore esercente in questa sede il ministero, cioè l’Avvocato Cillo, abbia inteso indicare come proprio domicilio la PEC di quell’altro difensore e, in caso di risposta positiva, sul se tale ipotetica domiciliazione si potesse ritenere idonea.

Il Collegio rileva che l’indicazione mancava e che, di fronte al chiaro tenore del già richiamato combinato disposto dell’art. 366, u.c. e soprattutto art. 136, comma 2, là dove si fa riferimento alla trasmissione del biglietto di cancelleria relativo alle comunicazione “a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”, se quell’indicazione vi fosse stata sarebbe stata inefficace.

Poichè l’ordinamento prevede che l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria avvenga automaticamente, cioè al di là della indicazione espressa della PEC, attraverso la ricerca nell’apposito registro, si deve ritenere che una domiciliazione presso PEC di un difensore diverso da quello che esercita il ministero difensivo possa avvenire solo se a tale difensore si attribuisca la qualifica di domiciliatario, mentre si deve escludere che il difensore esercente il patrocinio possa indicare per le comunicazioni la PEC di altro soggetto, pur esercente la professione di avvocato, senza qualificarlo come domiciliatario. Se non sia indicato, come nel caso di specie, il conferimento della qualità di domiciliatario, sebbene agli effetti digitali, la mera indicazione di una PEC riferibile ad un avvocato diverso da quello esercente il patrocinio con la mera dichiarazione di voler ricevere ad essa le comunicazioni, si risolve in una sorta di legittimazione dell’unico difensore ad indicare una PEC diversa da quella a lui riferibile secondo gli appositi registri e ciò senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa ad una dichiarazione di domiciliazione.

Il Collegio ritiene, dunque, che nulla osti alla trattazione.

2. Parte resistente ha pregiudizialmente sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per inesistenza o nullità della procura speciale per difetto dello ius postulandi assumendo che, pur risultando la procura speciale spillata all’originale del ricorso, non vi sarebbe traccia della suddetta procura nella copia notificata del ricorso, non essendo sufficiente l’attestazione dell’ufficiale giudiziario della conformità della copia all’originale.

L’eccezione è infondata in quanto è da preferire l’orientamento più recente della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale “La mancata trascrizione, sulla copia del ricorso per cassazione notificato, degli estremi della procura speciale conferita dal ricorrente al difensore, non determina l’inammissibilità del ricorso ove la procura sia stata rilasciata con dichiarazione a margine, o in calce al ricorso, in quanto in tal caso l’intimato, con il deposito del ricorso in cancelleria, è posto in grado di verificare l’anteriorità del rilascio della procura rispetto alla notificazione dell’atto di impugnazione (Cass., L, n. 16540 del 19/7/2006)”.

3. Parte resistente ha altresì sollevato un’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, assumendo la mescolanza di elementi di fatto e di diritto, l’assenza di indicazione degli atti processuali su cui il ricorso si fonda, etc. 3.1. L’eccezione è certamente fondata quanto meno con riguardo al primo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 74 disp. att. c.p.c., u.c., art. 87 disp. att., artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 5. Si assume che il Tribunale abbia basato la sentenza su una serie di documenti che non erano stati regolarmente depositati e che non avrebbero dovuto essere presi in considerazione, avendo la Vodafone solo tardivamente ottenuto di ricostruire il proprio fascicolo in spregio alle normative vigenti.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito della indicazione specifica degli atti fondanti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non pone questa Corte in condizioni di esaminare la censura, essendosi omesso di indicare gli atti processuali nei quali i ricorrenti abbiano trattato la questione nei gradi di merito, nonchè di indicare i verbali dai quali poter desumere la tardività della richiesta e perfino il fatto storico – negato da parte resistente – dell’avvenuta ricostruzione del fascicolo di parte.

4. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1256, 2697 c.c., assumendo che la sentenza impugnata abbia illegittimamente ritenuto esistente la causa di forza maggiore anzichè argomentare nel senso, dai ricorrenti auspicato, dell’inconfigurabilità di una causa sopravvenuta di impossibilità della prestazione non potendo una nevicata in zona montana costituire, in pieno inverno, un evento atmosferico eccezionale. Nel caso di specie l’impossibilità assoluta della prestazione non sarebbe stata dimostrata dalla Vodafone e l’effetto estintivo dell’obbligazione avrebbe dovuto coincidere con un fatto totalmente estraneo alla sfera di controllo dell’operatore. Il Tribunale non avrebbe neppure ottemperato al principio di riparto dell’onere probatorio perchè avrebbe automaticamente desunto l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dalla eccezionale nevicata verificatasi nella valle.

5. Con il terzo motivo di ricorso – omessa pronunzia e violazione degli artt. 1218, 1710, 1176 c.c. e art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – i ricorrenti censurano la sentenza per non aver motivato sulla diligenza o meno della condotta tenuta dall’operatore telefonico nel momento in cui venne a conoscenza dell’interruzione. Assumono che l’operatore, una volta venuto a conoscenza dell’evento interruttivo, avrebbe dovuto comunicare tempestivamente al cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione adottando provvedimenti atti a contenere i danni.

6. I due motivi possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione e sono entrambi inammissibili in quanto volti a sollecitare questa Corte ad un riesame dei fatti e delle prove e perchè non correlati alla ratio decidendi. L’impugnata sentenza ha, infatti, ragionato facendo riferimento all’impossibilità sopravvenuta della prestazione, alla diligenza tenuta dall’operatore e al factum principis che ha impedito il pieno ripristino di un servizio comunque erogato anche in situazione emergenziale, sia pur in modo non ottimale.

I ricorrenti, anzichè aggredire adeguatamente la ratio decidendi, si limitano a sostenere che il Tribunale abbia errato nel non presumere la colpa dell’operatore come argomentato da questa Corte con sentenza Cass., 3 n. 11914 del 10/6/2016, con la quale si è affermato che, in relazione ai rapporti contrattuali concernenti le utenze telefoniche, i doveri di diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto impongono all’impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni.

La sentenza impugnata, come si è illustrato, ha dato atto della presenza di una causa di forza maggiore e dell’assenza di colpa in capo all’operatore telefonico che, pur sorpreso da un evento eccezionale, fece in modo di garantire nei limiti del possibile il funzionamento del servizio. Questa specifica ratio decidendi non è espressamente impugnata sicchè da ciò si trae conferma della inammissibilità del motivo.

6. Con il quarto motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2059 c.c. e art. 112 c.p.c. – i ricorrenti censurano il capo di sentenza che ha ritenuto i danni neppure provati nell’an e nel quantum assumendo che la quantificazione avrebbe dovuto essere compiuta, come fatto dal giudice di prime cure, sulla base di presunzioni fondate su nozioni di comune esperienza.

5.1 Il motivo resta assorbito per la sorte dei precedenti e comunque sarebbe stato, se scrutinabile, infondato in quanto, sia per il danno patrimoniale sia per quello non patrimoniale, l’attore avrebbe dovuto fornire ed allegare la prova degli elementi costitutivi del medesimo e cioè sia del danno sia del nesso causale, non potendosi ovviare a tale onere nè nel caso di liquidazione equitativa (Cass., 26/2/2003 n. 2874) nè nel caso specifico del contratto di utenza telefonica rispetto al quale la giurisprudenza di questa Corte ha già richiesto in modo espresso la prova del danno, non potendo, dall’esistenza e dall’entità del disservizio, trarsi in via presuntiva la dimostrazione dell’effettivo verificarsi di un pregiudizio risarcibile (Cass., 3, n. 27609 del 29/10/2019).

6. Il Collegio rileva, inoltre, che il presente ricorso presenta la medesima struttura di altro ricorso proposto dallo stesso difensore e deciso con l’ordinanza n. 31921 del 2018, sostanzialmente con considerazioni non dissimili da quelle che qui si sono enunciate.

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato ed i ricorrenti condannati a pagare le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1800 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2021