Relata con data e quella del destinatario: no. La notifica dell’atto è regolare

La presenza nell’originale in possesso del notificante consente l’eventuale prova per l’esercizio dell’attività impositiva, anche in assenza dell’indicazione in quella consegnata al contribuente
L’accertamento correttamente notificato al contribuente, pervenendo nella sua sfera di conoscenza o conoscibilità legale, non può essere annullato per il solo fatto che la data di perfezionamento della notificazione sia indicata nella relata contenuta nell’originale dell’atto notificato e non in quella inserita nella copia consegnata al destinatario.
In tale ipotesi, infatti, l’Amministrazione finanziaria è in grado di provare l’esercizio dell’attività impositiva nei termini di legge e il contribuente, attraverso la conoscenza o conoscibilità dell’atto impositivo, può esercitare il proprio diritto di difesa, proponendo ricorso – ex articolo 19 del Dlgs n. 546/1992 (Cassazione, sentenza n. 21469 del 31 luglio 2024).
La Ctr del Veneto ha respinto l’appello, proposto dall’Agenzia delle entrate, contro la sentenza con la quale la Ctp di Padova aveva accolto il ricorso presentato da un contribuente avverso avvisi di accertamento per Irpef, Iva e Irap relativi all’anno 2007.
I giudici regionali hanno ritenuto corretta la decisione di primo grado, favorevole al contribuente, fondata sulla nullità della notificazione degli atti impositivi, in conseguenza dell’omessa indicazione della data sulla relata di notificazione consegnata al destinatario.
Contro la sentenza della Ctr, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso in cassazione affidato a un unico motivo di impugnazione, eccependo la violazione degli articoli 148 e 156 del codice di procedura civile.
In particolare, l’ufficio ha sottolineato che è pacifico che la copia consegnata al contribuente sia priva dell’indicazione della data che, tuttavia, risultava apposta nell’originale della notificazione sottoscritta dal destinatario e prodotta in giudizio. La Ctr ha, quindi, errato nel ritenere che la data potesse essere rilevata solamente dalla copia consegnata al contribuente. La relata della notificazione fa piena prova, quale atto pubblico, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti alla sua presenza o da lui compiuti.
Nel caso concreto il contribuente non ha proposto querela di falso contro la relata apposta sull’originale in possesso del notificante, che assume, pertanto, valore di piena prova.
I giudici di legittimità hanno ritenuto fondata la prospettazione dell’Agenzia così come formulata.
In linea generale, hanno richiamato l’insegnamento della propria costante giurisprudenza, in base al quale “in caso di discordanza fra la data di consegna emergente dalla relata di notifica apposta sull’atto restituito al notificante e quella riportata sulla copia consegnata al destinatario, si verifica un conflitto tra due atti pubblici, dotati di piena efficacia probatoria, risolvibile solo mediante proposizione di querela di falso ad opera della parte interessata a provare l’inesattezza di una delle due date; in mancanza, per stabilire se si sia verificata una decadenza, deve aversi riguardo all’originale restituito al notificante, ovvero alla copia in possesso del destinatario, a seconda che tale decadenza riguardi il primo o il secondo. (Nella specie, la Corte Suprema di Cassazione ha ritenuto che il controricorrente, che aveva contestato la tardività del deposito del ricorso sulla base della data risultante dalla relata di notifica apposta sulla copia notificatagli, fosse tenuto a proporre querela di falso per accertare la falsità, “in parte qua”, della relata unita all’originale dell’atto restituito al ricorrente)” (Cassazione, sentenza n. 14781/2017).
Dal principio contenuto nella massima appena richiamata, si evince la conferma che la divergenza sulle date apposte sulle relate di notifica di un medesimo atto non comporta alcuna nullità della notificazione, anche nell’ipotesi in cui la copia consegnata al destinatario sia priva dell’indicazione della data. Tanto più che nel caso all’attenzione della Corte Suprema di Cassazione si è realizzata non tanto una situazione di conoscibilità (legale) del destinatario, ma una vera e propria conoscenza effettiva dell’atto.
Nell’ipotesi in osservazione, con riferimento al destinatario, viene in rilievo il termine di decadenza per proporre impugnazione contro l’avviso di accertamento notificato (e la prova dell’eventuale eccezione sollevata dall’Amministrazione finanziaria su tale profilo), mentre la mancata indicazione della data nella relata di notifica non può comportare ex se l’annullamento dell’atto notificato.
L’indicazione della data nell’originale in possesso del notificante consentirà, invece, all’ufficio l’eventuale prova in ordine al rispetto dei termini di legge per l’esercizio dell’attività impositiva, senza che quest’ultima possa essere travolta per il solo fatto della mancata indicazione della data nella relata della copia consegnata al contribuente. Nessuna invalidità si verifica, quindi, nell’ipotesi in cui la relata di notificazione apposta sull’atto consegnato al destinatario non riporti la data di consegna che sia, invece, inserita sull’originale in possesso del notificante. La mancata indicazione di tale data potrebbe, semmai, porre una questione relativa o all’esercizio dei diritti e facoltà consequenziali alla conoscenza dell’atto notificato o al compimento di una determinata attività da svolgere entro un determinato termine decadenziale.


Differenza tra inesistenza o nullità nella notifica di un atto

La vicenda riguarda un’opposizione ad un decreto ingiuntivo che veniva dichiarata inammissibile dal Tribunale adito.
La Corte di Appello, chiamata a pronunciarsi sul gravame interposto dall’opponente, nel confermare la decisione di primo grado, riteneva inesistente la notifica dell’opposizione in quanto effettuata presso gli avvocati del creditore opposto senza alcun riferimento alla loro qualità di procuratori costituiti in favore di quest’ultimo.
Secondo i giudici della Corte territoriale, il Tribunale avrebbe dovuto pronunciarsi sull’improcedibilità dell’opposizione senza concedere, come aveva fatto, ulteriore termine per la rinotifica in quanto alla data fissata per l’udienza di prima comparizione era decorso il termine di quaranta giorni previsto dall’art. 641 c.p.c.
Pertanto, l’originario opponente, rimasto soccombente in entrambi i giudizi di merito, investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione deducendo la violazione degli artt. 99, 101, 112, 115, 116, 132, 137, 156, 164, 291 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 2697 c.c., insistendo sulla tempestività e sulla regolarità della notifica dell’opposizione, sia perché la costituzione del destinatario di una notifica nulla sana il vizio, sia perché il giudice di primo grado ne aveva disposto il rinnovo.
Il ricorso è stato accolto dai giudici della Corte Suprema di Cassazione, con rinvio della causa alla Corte di Appello di provenienza per un nuovo esame, i quali hanno evidenziato l’erroneità della decisione impugnata avendo quest’ultima ritenuto l’inesistenza e non la mera irregolarità della notifica dell’atto di opposizione al decreto ingiuntivo avvenuta presso i procuratori costituiti.
Con la sentenza 24329, pubblicata il 10 settembre 2024, la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla differenza tra l’inesistenza e la nullità della notifica di un atto giudiziario.
Nel decidere la controversia, la Corte Suprema di Cassazione ha osservato che:
1) come affermato dalla Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite, la notificazione è inesistente quando manchi del tutto, ovvero sia stata effettuata in un luogo o con riguardo a persona che non abbiano alcun riferimento con il destinatario della notificazione stessa, mentre laddove sia ravvisabile tale collegamento, essa è affetta da nullità, sanabile con effetto “ex tunc” attraverso la costituzione del convenuto ovvero attraverso la rinnovazione della notifica cui la parte istante provveda spontaneamente o in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice (Cass., Sez. Un., n. 14916/2016);
2) tutte le volte in cui si è in presenza di notifica eseguita mediante consegna a persona o in luogo diverso da quello stabilito dalla legge ma abbia un collegamento con il destinatario, così da rendere possibile che esso, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario, essa deve essere considerata nulla, e, dunque, sanata dalla costituzione del convenuto;
3) l’inesistenza della notifica è del tutto residuale nel nostro ordinamento ed è configurabile nelle ipotesi di mancanza materiale dell’atto ovvero quando l’attività notificatoria intrapresa sia priva delle caratteristiche essenziali individuabili, per l’un verso, nell’attività di trasmissione da parte di un soggetto normativamente dotato della possibilità giuridica di compierla e, per altro verso, nell’attività della consegna a soggetto estraneo al processo;
4) gli altri vizi della notifica ricadono nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione del destinatario, sia pure compiuta al solo fine di eccepire la nullità, o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c.


Società estinta: la notifica degli atti impositivi va fatta ai soci e non all’ex liquidatore

Nella sentenza 9 gennaio 2024 n. 753 (Pres. Bruschetta, Rel. Salemme) la quinta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione esamina il ricorso dell’ex liquidatore di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese da tempo al momento dell’accertamento.
La CTR, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate aveva motivato in merio alla regolarità della procedura di notifica dell’accertamento precisando che il liquidatore e socio del soggetto giuridico in discussione al momento dell’estinzione della società è diventato ex lege, in base alla vigente disciplina, responsabile dei debiti erariali a prescindere dal dolo o dalla colpa dello stesso.
Non può perciò ritenersi che l’accertamento sia stato notificato a un soggetto inesistente. Tutte le questioni relative alla notificazione dell’atto restano assorbite nell’argomentazione di merito su riferita, dal momento che è indubitabile che il ricorrente era socio della società e liquidatore della stessa. Nessun problema quindi sussisteva, per i Giudici di appello, in ordine alla forma della notificazione.
Di diverso avviso la Corte Suprema di Cassazione che, accogliendo una eccezione sulla notifica al ricorrente in qualità di “liquidatore” (eccezione pur fondata su un difetto motivazionale sul punto della sentenza di appello) chiarisce che la notifica va sempre indirizzata ai soci della disciolta società, sia che si parli di società di persone che di capitali.
A tal riguardo viene precisato che l’atto impositivo emesso nei confronti di una società di persone è validamente notificato, dopo l’estinzione della stessa ad uno dei soci; poiché, analogamente a quanto previsto dall’art. 65, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 per l’ipotesi di morte del debitore, ciò si correla al fenomeno successorio che si realizza rispetto alle situazioni debitorie gravanti sull’ente e realizza, peraltro, lo scopo della predetta disciplina di rendere edotto almeno uno dei successori della pretesa azionata nei confronti della società.

Ciò vale, per la Corte Suprema di Cassazione, anche in caso di società di capitali (segnatamente Srl nel caso specifico), poiché il ridetto fenomeno successorio, che trova autorevolissimo fondamento in già evocati arresti delle Sezioni unite, è predicabile identicamente delle società di persone e delle società di capitali (recita infatti “ex professo” la massima estratta da Cass., Sez. U, n. 6070 del 2013: “Dopo la riforma del diritto societario, attuata dai D.Lgs., n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio”), ponendosi in linea di continuità con l’insegnamento -parimenti impartito dalle Sezioni unite (Cass., Sez. U, n. 4060 del 22/02/2010) – secondo cui, a seguito della modifica dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., è venuta realizzandosi una tendenziale equiparazione tra società di capitali e società commerciali di persone (invero – alla stregua della sentenza da ultimo citata – determinando la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese l’immediata estinzione della stessa, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, soltanto se tale adempimento ha avuto luogo in data successiva all’entrata in vigore dell’art. 4 D.Lgs. n. 6 del 2003, che, modificando l’art. 2495, comma 2, cod. civ., ha attribuito efficacia costitutiva alla cancellazione, “una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2495, secondo comma, cod. civ. impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell’ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1° gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore”).
Secondo la Corte Suprema di Cassazione deve quindi ribadirsi il seguente principio di diritto:
“Sono valide ed efficaci le notificazioni di atti impositivi intestati a società, indifferentemente di capitali o di persone, estinta, se notificati, dopo l’estinzione, agli ex soci (anche collettivamente ed impersonalmente presso l’ultimo domicilio della società, analogamente a quanto previsto dall’art. 65, quarto comma, D.P.R. n. 600 del 1973 per il caso di morte del debitore), o anche solo a taluno degli ex soci, senza necessità dell’emissione di specifici atti intestati e diretti ai medesimi, giacché, a seguito dell’estinzione della società, si determina un fenomeno, pur peculiare, di tipo successorio, in virtù del quale i soci subentrano nelle medesime obbligazioni inadempiute della società e pertanto ne rispondono, ancorché nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione od illimitatamente” a seconda che fossero limitatamente od illimitatamente responsabili per i debiti sociali”.


Valida la notifica se la società non viene trovata all’indirizzo risultante dal Registro Imprese

La presenza di un regime pubblicitario come quello regolato attraverso l’istituzione e l’aggiornamento del registro delle imprese, comporta, infatti, una forma di autoresponsabilità delle singole imprese e società in ordine ai dati e alle informazioni inserite in tale registro anche nei confronti dei terzi. Con riferimento alla sede legale indicata nel registro delle imprese deve, quindi, ritenersi che la sua indicazione sia funzionale anche a consentirne la reperibilità nei confronti dei terzi. Di conseguenza, l’agente notificatore può ben fare affidamento sulle risultanze del registro delle imprese e ritenere la società irreperibile una volta che non sia stata trovata presso la sede legale risultante da tale registro. È quanto si legge nella sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 13 settembre 2024, n. 24666.
La Commissione Tributaria Regionale della Campania ha rigettato gli appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate e da Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a. avverso la sentenza con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli aveva accolto l’impugnazione della cartella di pagamento emessa da Equitalia per l’importo di Euro 108.143, a seguito di ricorso in riassunzione da parte del sig. S.D’A., in qualità di legale rappresentante del Consorzio Soc. Cooperativa a r.l., società dichiarata fallita.
La C.T.R., ritenuta la legittimazione del fallito all’impugnazione della cartella di pagamento al fine di impedire la formazione di un titolo che poteva essere speso nei suoi confronti una volta ritornato in bonis, ha ritenuto non corretta la sua notificazione, sia perché, in assenza delle ricerche imposte dalla normativa codicistica, non potevano ricorrere i requisiti per l’irreperibilità assoluta, sia perché non era stata inviata la seconda raccomandata. Ha, quindi, rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e da Equitalia.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in cassazione, affidandosi a quattro motivi.
La Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, cassa con rinvio la sentenza impugnata.
In particolare, in relazione all’art. 60, primo comma, lett. e), d.P.R. n. 600 del 1973, si è affermato che «In tema di notificazione degli atti impositivi, il Messo Comunale o l’ufficiale giudiziario, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste, per gli “irreperibili assoluti”, dall’art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973, in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., deve svolgere le ricerche volte a verificare che il contribuente non abbia più né l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune nel quale aveva il domicilio fiscale».
Dall’illustrazione del quarto motivo di ricorso l’irreperibilità della società è stata verificata dall’agente notificatore a seguito del mancato reperimento presso la sede risultante dal registro delle imprese. Tale constatazione deve ritenersi sufficiente ai fini dell’attivazione della notificazione ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), d.P.R. n. 600 del 1973.
La presenza di un regime pubblicitario come quello regolato attraverso l’istituzione e l’aggiornamento del registro delle imprese, comporta, infatti, una forma di autoresponsabilità delle singole imprese e società in ordine ai dati e alle informazioni inserite in tale registro anche nei confronti dei terzi.
Con riferimento alla sede legale indicata nel registro delle imprese deve, quindi, ritenersi che la sua indicazione sia funzionale anche a consentirne la reperibilità nei confronti dei terzi.
Di conseguenza, l’agente notificatore poteva ben fare affidamento sulle risultanze del registro delle imprese e ritenere la società irreperibile una volta che non era stata trovata presso la sede legale risultante da tale registro.
In ogni caso, si è precisato in giurisprudenza che «La natura sostanziale e non processuale della cartella di pagamento non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicché il rinvio disposto dall’art. 26, comma 5, del d.P.R. n. 602 del 1973 (in tema di notifica della cartella di pagamento) all’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di nullità della notificazione della cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c.».
Esito del giudizio:
Cassa, con rinvio, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 845/34/2017 depositata il 02/02/2017.


Contribuente irreperibile: «Condannato il Messo Comunale»

Il contribuente era irreperibile e nonostante gli sforzi del Messo Comunale, che ha suonato e ha bussato a tutte le porte del condominio per «scovare» il nuovo indirizzo del cittadino, il plico non è mai arrivato a destinazione. La busta è quindi tornata al mittente, l’Agenzia delle Entrate, che è rimasta a bocca asciutta.
Quando infatti è stato finalmente rintracciato il cittadino, titolare di un negozio, la notifica era tardiva. Cartella esattoriale annullata, quindi. La richiesta di 294.853 euro di presunti redditi non dichiarati nel 2005 è sfumata, un danno per le casse dello Stato che ha rischiato di dover pagare il Messo Comunale «colpevole» di non aver proceduto alla visura camerale. Peccato che non era abilitato ad accedere alla banca dati della Camera di commercio.
Il Messo Comunale nel mirino della Corte dei Conti, sentenza n. 25 del 19.08/2024
Nei guai è finito anche il suo coordinatore che aveva la facoltà di procedere alla visura camerale, ma non lo avrebbe fatto «tradito» da una consuetudine «illegittima», come la definisce la Corte dei Conti in sentenza, del Comune di Trento secondo la quale la visura non veniva mai richiesta (ed è corretto usare il passato perché oggi non è più così) nel caso di notifica a una persona fisica. È una storia surreale e a tratti kafkiana quella di un ex Messo Comunale di Trento, ora in pensione, finito nel mirino della Procura della Corte dei Conti insieme al responsabile dell’ufficio per non aver notificato in tempo una cartella di pagamento a un commerciante.
La Procura inizialmente aveva contestato il dolo addebitando al Messo Comunale la maggior responsabilità della mancata notifica, ma dopo le controdeduzioni della difesa, rappresentata dall’avvocata Maria Cristina Osele, la Procura ha rivisto l’atto d’accusa contestando la colpa grave e addebitando il 70% del danno (206.397 euro) al Messo Comunale e il resto al responsabile dell’ufficio, difeso dall’avvocata Beatrice Tomasoni.
Destinatario introvabile
Il 14 febbraio scorso è stato depositato l’atto di citazione, un fulmine a ciel sereno per i due ex dipendenti che avevano decisamente dimenticato la vicenda della mancata notifica. Da allora sono infatti trascorsi 15 anni. La delega dell’Agenzia delle Entrate al Comune risale al 17 dicembre 2009. Cinque giorni dopo il Messo Comunale prende la busta sigillata e tenta di consegnarla al destinatario. Nulla da fare, è introvabile.
A quel punto l’avviso di notifica viene affisso all’Albo pretorio e resta pubblicato fino al 30 dicembre. Ma nessuno si presenta. Il 4 gennaio il Comune restituisce il plico all’Agenzia delle Entrate che il 29 novembre 2010 notifica regolarmente la cartella.
Il commerciante però impugna l’atto davanti alla Commissione tributaria che gli dà ragione e dichiara «inesistente» la notifica, sentenza confermata anche in secondo grado e in Corte Suprema di Cassazione. È a questo punto che si muove la Corte dei Conti contestando il mancato pagamento della cartella al Messo Comunale e al collega. Ma non saranno loro a dover pagare l’intera somma. Il collegio, presieduto dalla giudice Chiara Bersani, pur riconoscendo una responsabilità dei due impiegati li ha condannati a pagare solo il 10% del danno (29.485 euro).
Colpa dell’Agenzia delle Entrate
La maggiore responsabile secondo la Corte sarebbe l’Agenzia delle Entrate che «non aveva indicato l’indirizzo, di cui era a conoscenza della ditta individuale di cui il contribuente era titolare», il fatto che era un esercizio commerciale e neppure il termine (il 31 dicembre 2009) entro il quale doveva essere effettuata la notifica. «Omissioni» che scagionano in parte i due dipendenti. I giudici hanno poi applicato una riduzione del danno per effetto della «prassi illegittima» del Comune sulle visure. Dovranno pagare 4.914 euro ciascuno.


Domicilio eletto presso la Casa Comunale

È nulla e conseguentemente inidonea a giustificare l’applicazione di uno specifico criterio di competenza territoriale, la clausola contrattuale che contiene l’elezione di domicilio, finalizzata alla notificazione di futuri atti giudiziari, presso la Casa Comunale, perché produttiva di una lesione del diritto costituzionale al contraddittorio, non potendo la P.A., senza una specifica previsione normativa abilitativa, ricevere atti per conto di privati né addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. Non trova applicazione nella fattispecie in esame la regola della validità ed efficacia dell’elezione di domicilio, anche in mancanza del consenso e dell’accettazione del domiciliatario. (Cass. civ., Sez. I, Sentenza, 13/07/2007, n. 15673)


Notifica ex art. 143 c.p.c.

La Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata sui presupposti affinché possa ritenersi valida la notifica di un atto eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., disposizione che disciplina la notifica a persone con residenza, dimora e domicilio sconosciuti. La norma prevede, in questi casi, che la notifica venga eseguita dall’ufficiale giudiziario mediante il deposito della copia dell’atto da notificare nella casa comunale dell’ultima residenza nota e se questa è sconosciuta nella casa comunale del luogo di nascita del destinatario. Sentenza n. 22461/2024, pubblicata l’8 agosto 2024,

La vicenda viene originata dal giudizio promosso da una società avente ad oggetto la richiesta di rilascio di alcuni immobili che a suo dire erano detenuti dal convenuto senza titolo.

L’atto introduttivo veniva notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c.. Il convenuto si costituiva oltre il termine di venti giorni prima dell’udienza, contestando la domanda attorea e spiegando domanda riconvenzionale tesa a far dichiarare l’usucapione in suo favore della proprietà dei beni oggetto della contesa. All’esito, il Tribunale rigettava nel merito la domanda riconvenzionale del convenuto e lo condannava al rilascio degli immobili contesi in favore della società attrice.

La Corte di Appello giungeva sostanzialmente alle stesse conclusioni della decisione di primo grado. I Giudici della Corte territoriale, diversamente dal Tribunale, dichiaravano inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto originario per la sua tardiva costituzione nel giudizio di primo grado.

Quest’ultimo, rimasto soccombente in entrambi i gradi di giudizio, investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione deducendo, tra i motivi del gravame, l’erroneità della decisione impugnata, per aver ritenuto regolarmente eseguita la notifica dell’atto di citazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ. e conseguentemente tardiva la sua costituzione nel giudizio di primo grado.

Il ricorrente evidenziava che:

  • la notifica “a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti” (art. 143 cod. proc. civ.) presuppone idonei accertamenti da parte dell’addetto alla notificazione, sulla base dei quali risulti il reale trasferimento del destinatario della notificazione in luogo sconosciuto;
  • il soggetto notificante per procedere ai sensi dell’art. 143 c.p.c. deve essere in una condizione d’ignoranza incolpevole sul piano soggettivo, corroborata, sul piano oggettivo, da serie e attendibili informazioni (anagrafiche, in loco da persone portatori di reale conoscenza);
  • nella relazione di notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado si leggeva “il domicilio chiuso ed apparentemente disabitato, da informazioni avute dai vicini di casa sembra che lo stesso di fatto non abita all’indirizzo in atto”;
  • nessuna apprezzabile informazione era stata assunta circa l’effettiva residenza.

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte Suprema di Cassazione la quale, nell’accoglierlo con rinvio alla Corte di Appello di provenienza in diversa composizione, relativamente alla questione sulla notifica ai sensi dell’art. 143 c.p.c. ha affermato il seguente principio di diritto: “per la validità della notificazione, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., è necessario, ma non sufficiente, l’accertamento anagrafico, presupponendo essa, sempre e comunque, che nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche, i cui esiti, riportati dal pubblico ufficiale notificatore, non debbono essere generici comunque privi dell’indicazione specifica della fonte di conoscenza, così che il giudice ne possa apprezzare l’effettiva attendibilità”.

La Corte Suprema di Cassazione ha osservato che:

  1. al fine del legittimo ricorso alle modalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c, l’ordinaria diligenza, alla quale il notificante è tenuto a conformare la propria condotta, per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando deve essere valutata in relazione a parametri di normalità e buona fede secondo la regola generale dell’art. 1147 c.c. e non può tradursi nel dovere di compiere ogni indagine che possa in astratto dimostrarsi idonea all’acquisizione delle notizie necessarie per eseguire la notifica a norma dell’art. 139 c.p.c., anche sopportando spese non lievi ed attese di non breve durata Ne consegue l’adeguatezza delle ricerche svolte in quelle direzioni (uffici anagrafici, ultima residenza conosciuta) in cui è ragionevole ritenere, secondo una presunzione fondata sulle ordinarie manifestazioni della cura che ciascuno ha dei propri affari ed interessi, siano reperibili informazioni lasciate dallo stesso soggetto interessato, per consentire ai terzi di conoscere l’attuale suo domicilio (residenza o dimora) (Cass. civ., sez. I, 31 luglio 2017, n. 19012; conf. nn. 12526/2014, 10983/2021);
  2. il principio immediatamente sopra riportato, tuttavia, non autorizza il pubblico ufficiale notificatore a ridurre a mera parvenza formale le informazioni che lo stesso è tenuto a raccogliere al fine di accedere al procedimento della notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti;
  3. come più volte precisato in altri arresti giurisprudenziali di legittimità, il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (nella specie, la S.C. ha ritenuto la invalidità di una notificazione ex art. 143 c.p.c. la cui relata recava la mera indicazione di “vane ricerche eseguite sul posto” dall’ufficiale giudiziario, senza la specificazione delle concrete attività a tal fine compiute) (Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 2021, n. 40467). Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. civ., sez. VI-L, 28 novembre 2016, n. 24107).

Vedi anche: Notifica a persone irreperibili ex art. 143 c.p.c.: presupposti


BUON FERRAGOSTO !!!

 

Il termine Ferragosto deriva dalla locuzione latina Feriae Augusti (riposo di Augusto) indicante una festività istituita dall’imperatore Augusto nel 18 a.C. da celebrarsi il 1º agosto e che si aggiungeva alle altre festività cadenti nello stesso mese, come i Vinalia rustica, i Nemoralia o i Consualia. Era un periodo di riposo e di festeggiamenti che traeva origine dalla tradizione dei Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, dio della terra e della fertilità. L’antico Ferragosto, oltre agli evidenti fini di auto-promozione politica, aveva lo scopo di collegare le principali festività agostane per fornire un adeguato periodo di riposo, anche detto Augustali, necessario dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti.

Nel corso dei festeggiamenti in tutto l’impero si organizzavano corse di cavalli; gli animali da tiro (buoi, asini e muli) venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori. Queste tradizioni rivivono oggi, pressoché immutate nella forma e nella partecipazione, nel “Palio dell’Assunta” che si svolge a Siena il 16 agosto. La denominazione “palio” deriva dal pallium, il drappo di stoffa pregiata che era il consueto premio per i vincitori delle corse di cavalli nell’Antica Roma.

In occasione del Ferragosto i lavoratori porgevano auguri ai padroni, ottenendo in cambio una mancia; l’usanza si radicò fortemente, tanto che in età rinascimentale fu resa obbligatoria nello Stato Pontificio.

La festa fu spostata dal 1º al 15 agosto dalla Chiesa cattolica, che volle far coincidere la ricorrenza laica con la festa religiosa dell’Assunzione di Maria.


L’invio del solo frontespizio della dichiarazione fiscale vale come presentata

La presentazione del solo frontespizio è equiparata a una dichiarazione in bianco e non può essere considerata omessa o nulla. Lo ha precisato la Corte Suprema di Cassazione
La presentazione in via telematica del solo frontespizio della dichiarazione fiscale, accettato dal sistema informatico con la comunicazione di un numero di protocollo, senza l’indicazione di errori bloccanti, può essere equiparata alla presentazione di una dichiarazione “in bianco”, che non può considerarsi, in sé e per sé, dichiarazione omessa o nulla.
Queste le conclusioni contenute nella sentenza n. 21472/2024 della Corte Suprema di Cassazione.
L’invio del solo frontespizio vale come dichiarazione presentata
La vicenda prende l’avvio dall’invio dell’avviso di accertamento con cui l’Ufficio impositore ha proceduto ad un accertamento d’ufficio ai sensi dell’articolo 41 del DPR n. 600 del 1973, motivato dalla circostanza che il contribuente aveva omesso la presentazione della dichiarazione per l’anno d’imposta di riferimento.
L’Agenzia delle Entrate riteneva, in particolare, che il contribuente non avesse mai fornito la prova della presentazione della dichiarazione, rappresentata unicamente dalla comunicazione di avvenuta ricezione della dichiarazione telematica, essendosi limitato a produrre soltanto il frontespizio del modello Unico 2004.
Si sarebbe trattato, dunque, di un caso di dichiarazione nulla che consentiva all’ufficio impositore di procedere ad accertamento d’ufficio.
Contro questo atto il contribuente proponeva ricorso innanzi alla CTP, deducendo, tra l’altro, che la dichiarazione non poteva essere considerata nulla ma soltanto incompleta, con la conseguenza che l’amministrazione finanziaria doveva essere dichiarata decaduta dall’esercizio del potere impositivo per decorso del termine previsto per l’azione di recupero a tassazione di imposte relative all’anno 2003, che doveva essere calcolato a partire dalla presentazione della dichiarazione, sia pure incompleta. Il ricorso è stato accolto sia dalla CTP che dalla CTR.
L’Amministrazione finanziaria ha quindi impugnato la decisione di secondo grado dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione, deducendo violazione dell’art. 1 del Dlgs n. 471/1997 e degli artt. 41 e 43 del DPR n. 600/1973.
A parere della ricorrente, l’adempimento compiuto dal contribuente sarebbe stato solo formale e come tale valutabile come omissione della dichiarazione, senza che rilevi il fatto che l’Amministrazione possa ricavare i dati necessari per la determinazione dell’imposta dovuta, dal momento che la norma punta a responsabilizzare il contribuente.
D’altra parte, una dichiarazione compilata nel solo frontespizio, e per il resto priva di ogni contenuto, quand’anche eventualmente sottoscritta, configurerebbe un’ipotesi di dichiarazione “inesistente”, in quanto inidonea a svolgere, anche solo parzialmente, la funzione ad essa demandata.
Dovendosi qualificare la dichiarazione presentata dal contribuente come omessa o, comunque, nulla, l’Amministrazione non poteva quindi essere considerata decaduta dal potere impositivo.
Ritenendo infondati i motivi di doglianza della Parte Pubblica, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
La dichiarazione dei redditi con il solo frontespizio non può essere considerata omessa
La Corte Suprema di Cassazione ha, quindi, affermato che non può considerarsi “omessa” la dichiarazione dei redditi che, riportando i soli dati necessari alla individuazione del contribuente, risulti priva di ogni indicazione circa gli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione dell’imponibile, poiché tale giudizio deve essere riservato solo alle ipotesi più radicali, quali l’assoluta inesistenza del documento o la mancata trasmissione all’Ufficio.
Lo stesso art. 1 del DPR n. 600/1973 consente di reputare esistente la dichiarazione, pur se priva dei dati necessari per la ricostruzione del reddito, laddove contempla che i redditi non indicati si considerano non dichiarati: tale evenienza ben può verificarsi non solo relativamente all’omessa indicazione solo di alcuni redditi, ma anche in relazione a tutti i redditi percepiti dal soggetto.
In altre parole, gli artt. 1 e 4 del DPR n. 600 del 1973 non autorizzano a sostenere che una dichiarazione dei redditi, comunque presentata ma contenente solo i dati necessari per l’individuazione del contribuente, senza alcuna indicazione riguardo agli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione dell’imponibile, debba essere considerata omessa, giacché l’omessa indicazione dei dati necessari per la determinazione dell’imponibile non preclude la giuridica esistenza della dichiarazione e quindi l’ammissibilità di una dichiarazione integrativa volta a correggere l’omissione.
La Corte Suprema di Cassazione ha quindi affermato che la presentazione in via telematica del solo frontespizio della dichiarazione fiscale, accettato dal sistema informatico con la comunicazione di un numero di protocollo, senza l’indicazione di errori bloccanti, può essere equiparata alla presentazione di una dichiarazione “in bianco”, che non può considerarsi, in sé e per sé, dichiarazione omessa o nulla.
Del resto, sarebbe spettato all’Amministrazione finanziaria fornire la prova che, invece, il servizio telematico aveva in realtà generato una comunicazione di errore bloccante, che avrebbe reso necessaria una seconda tempestiva trasmissione della dichiarazione, ovviamente emendata dal segnalato errore.
La Corte Suprema di Cassazione ha infine ricordato che la giurisprudenza di legittimità è nel senso di ritenere che perfino la dichiarazione dei redditi priva della sottoscrizione del contribuente non sia radicalmente inesistente, essendo possibile la sanatoria mediante sottoscrizione successiva ovvero in forza di valutazioni in fatto che consentano di attribuire l’atto al contribuente, senza richiedere un’ultronea postuma sottoscrizione, superflua a fronte della volontà di utilizzare l’atto manifestata in sede processuale.


Cartella di pagamento notificata con estensione .pdf anziché estensione .p7m

In caso di notifica a mezzo PEC, la copia su supporto informatico della cartella di pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta con firma digitale.

La società contribuente Delta S.r.l. impugnava sette cartelle di pagamento aventi ad oggetto tributi dei periodi di imposta 2006, 2009, 2010-2011, nonché due comunicazioni di iscrizione ipotecaria: la società contribuente contestava l’inesistenza della notificazione delle cartelle sottese alla comunicazione di iscrizione ipotecaria, sei delle quali avvenute a mezzo PEC, per mancanza di attestazione di conformità della copia informatica all’originale e per mancanza di firma digitale,

La CTP di Napoli accoglieva il ricorso; la CTR della Campania, rigettava parzialmente gli appelli riuniti dell’Ufficio e dell’Agente della riscossione riteneva che:

  • la notificazione delle cartelle avvenuta a mezzo PEC era da ritenersi nulla in quanto il file contenuto nella notificazione ha estensione .pdf anziché estensione .p7m, costituente copia digitale di originale senza attestazione di conformità, il che impedisce di rilevarne sia la conformità all’originale, sia «la paternità dell’atto», perché non riscontrabile l’identificazione del suo autore.

Il ricorso dell’Agente della Riscossione e dell’ente impositore viene accolto dalla Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 18387 del 5 luglio 2024, che così motiva:

  1. per orientamento consolidato, in caso di notifica a mezzo PEC, la copia su supporto informatico della cartella di pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta con firma digitale, in assenza di prescrizioni normative di segno diverso, in quanto la cartella di pagamento non deve essere necessariamente sottoscritta da parte del funzionario competente, posto che l’esistenza dell’atto non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo;
  2. inoltre, a norma dell’art. 12 del decreto dirigenziale del 16 aprile 2014, di cui all’art. 34 del Decreto del Ministero della Giustizia n. 44/2011, in conformità agli standard previsti dal Regolamento (UE) n. 910/2014 e alla relativa decisione di esecuzione (UE) della Commissione n. 1506/2015, le firme digitali di tipo “CAdES” e di tipo “PAdES” sono entrambe ammesse e equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “.p7m” e “.pdf”


Impresa familiare: equiparazione al coniugio o all’unione civile della convivenza di fatto

Con la sentenza 25 luglio 2024, n. 148 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., dell’art. 230-bis, comma 1, c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e in via consequenziale dell’art. 230-ter c.c., che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare, poiché il convivente di fatto dell’imprenditore va inserito nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis c.c. e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto», cui vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore.

Il caso

Con sentenza n. 36 del 18 gennaio 2024, la Corte Suprema di cassazione, Sezioni unite civili, sollevava questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché all’art. 9 CDFUE e all’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, dell’art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e in via derivata dell’art. 230-ter c.c., che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare.

Le Sezioni unite rimettenti premettevano che la decisione impugnata trovava il suo fondamento nell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter c.c. e nella impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis c.c., sicché la rilevanza delle questioni sarebbe discesa dal fatto che solo all’esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell’accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo nell’impresa familiare determinante ai fini dell’accrescimento della produttività dell’impresa; evidenziavano, altresì, che una lettura estensiva dell’art. 230-bis c.c., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, sia economico-partecipativi che gestionali, avrebbe determinato una distonia sistemica, accordando ex post al convivente, la cui attività nell’impresa familiare fino al 2016 era esclusa dall’alveo applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore con la L. n. 76/2016.

Non ritenendo percorribile la strada di una interpretazione conforme, data l’insuperabilità della lettera della disposizione e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, il giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include il convivente more uxorio nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare.

La disposizione censurata si sarebbe posta in contrasto con l’art. 2 Cost., considerando in modo differenziato e non unitario un contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, avrebbe trovato pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti nell’ambito di modelli familiari, quali il matrimonio e l’unione civile da un lato e la convivenza di fatto dall’altra, capaci di corrispondere allo stesso modo alle esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona e dai quali, anche a seguito della cessazione, scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale. Inoltre, in violazione dell’art. 3 Cost., avrebbe operato una vera e propria discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell’impresa familiare, così determinando una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) che, a fronte di un apporto equivalente nell’attività dell’impresa, avrebbe finito per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini.

In contrasto con l’art. 4 Cost., l’art. 230-bis c.c. avrebbe inciso sullo stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona, e, violando altresì gli artt. 35 e 36 Cost., avrebbe lasciato prive della tutela riconosciuta in presenza di un legame formale, prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sebbene, avendo l’istituto dell’impresa familiare carattere residuale, sussista il medesimo rischio che le stesse, non essendo possibile fornire la prova specifica di una prestazione a titolo oneroso, vengano ritenute presuntivamente prestate a titolo gratuito.

Il rimettente denunciava poi la violazione dell’art. 9 CDFUE che, riconoscendo tra le libertà fondamentali tutelate dal Capo secondo, il diritto di sposarsi in modo disgiunto rispetto al diritto di fondare una famiglia, avrebbe realizzato una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto tutelando, anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari, la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio, sostituendo il tradizionale favor per il matrimonio con la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.

Sarebbe stata altresì in contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, come evolutivamente interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU, nel senso di non limitare la nozione di “famiglia” alle relazioni basate sul matrimonio, ma di estenderla anche ad altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio, tanto da circoscrivere la possibilità di una ingerenza degli Stati nazionali nei diritti alla “vita familiare” sia delle coppie sposate che di fatto, con la necessaria osservanza dei principi di legalità, necessità e proporzionalità, elaborando in talune circostanze dei veri e propri obblighi positivi volti alla promozione dei suddetti diritti.

Infine, la Corte Suprema di cassazione, Sezioni unite, prospettava l’illegittimità costituzionale in via consequenziale dell’art. 230-ter c.c. che, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, avrebbe applicato allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall’art. 230-bis c.c., privandolo di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili.

La decisione della Corte Costituzionale

Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 1, c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». L’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis c.c. al convivente di fatto per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell’art. 230-ter c.c. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest’ultimo una garanzia prima non prevista, come nell’intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell’art. 3, comma 1, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa in via consequenziale all’art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 230-bis c.c.

La Corte Costituzionale ha premesso che il fulcro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale risiede nella portata della tutela del convivente more uxorio – ossia del convivente di fatto ex art. 1, comma 36, della L. n. 76/2016 – quale ritraibile dalla Costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Tale è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, comma 1, Cost. riserva alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Anche recentemente la Corte ha ribadito che il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all’art. 29 Cost.; invece, le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., all’interno delle quali l’individuo afferma e sviluppa la propria personalità.

La giurisprudenza civile di legittimità, premesso che la situazione di convivenza resta non pienamente assimilabile al matrimonio, sia sotto il profilo della stabilità che di quello delle tutele offerte al convivente, tanto nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, riconosce con orientamento condiviso che, in quanto espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il compagno o la compagna dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37, della L. n. 76/2016), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale (Cass. civ., Sez. Un., sent. 5 novembre 2021, n. 32198).

Dal suo canto la giurisprudenza penale di legittimità converge verso interpretazioni estensive al convivente di fatto di disposizioni che, tradizionalmente, facevano esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio. Particolarmente significativa è l’estensione al convivente more uxorio del perimetro applicativo della scusante soggettiva di cui all’art. 384, comma 1, c.p., operata in via interpretativa dalla Corte di cassazione (Cass. pen., sentenza n. 10381/2021).

Nell’ambito europeo, l’adeguamento dell’ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all’art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all’art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»); l’interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel senso del riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all’unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità.

In sintesi, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Il modello secondo la scelta del Costituente è la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Permangono, quindi, differenze di disciplina, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione o della protezione di soggetti disabili o dell’affettività di persone detenute. Parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione.

Secondo la Corte Costituzionale, la disciplina dell’impresa familiare – a differenza di quella dell’impresa coniugale (art. 177, comma 1, lett. d, c.c.), che concerne specificamente il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, quale fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso affectionis vel benevolentiae causa. La difficoltà per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione.

Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata dall’art. 230-bis c.c., secondo la scelta del legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975, con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado secondo l’elencazione contenuta nel terzo comma della disposizione; elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili.

Ma anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. Si smarrisce così l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità.

Ha evidenziato il Giudice delle leggi che, sebbene successivamente il legislatore abbia posto rimedio – solo parzialmente e in termini ingiustificatamente discriminatori – a questa carenza quando, nell’istituire le unioni civili, ha introdotto una fattispecie dimidiata di partecipazione all’impresa familiare del convivente di fatto (art. 230-ter c.c.), nondimeno, a differenza delle unioni civili, questa esigenza di garanzia del lavoro reso nell’impresa familiare sussisteva già prima in presenza di convivenze di fatto che richiedevano la stessa tutela di questo diritto fondamentale. La protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell’impresa familiare.

Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.).

La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata è stata operata inserendo il convivente di fatto dell’imprenditore nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis c.c., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto». Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della L. n. 76/2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore.

Esito del giudizio di costituzionalità:

  • dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»;
  • dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter c.c.


Domicilio fiscale 2024, ecco che cosa è cambiato e da quando valgono le nuove regole

Con la riforma in materia di fiscalità internazionale, introdotta dal D. Lgs. n. 209/2023, sono state modificate anche le disposizioni che individuano la residenza fiscale delle persone fisiche. Ciò al fine di ampliare il novero dei contribuenti Irpef.

In particolare, la disposizione ha interessato l’articolo 2, comma 2 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986.

Si ricorda che l’articolo 2 del TUIR individua i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche – Irpef, prevedendo (comma 1) che questi sono le persone fisiche residenti e non residenti nel territorio dello Stato.

Per i soggetti residenti nel territorio dello Stato, l’articolo 3, comma 1, del TUIR dispone che l’imposta sul reddito delle persone fisiche trovi applicazione sul reddito complessivo del soggetto, formato da tutti i redditi da questo posseduti. I redditi prodotti dai soggetti residenti, compresi i redditi prodotti all’estero, sono pertanto attratti nella sfera impositiva dell’ordinamento tributario italiano.

Con riferimento ai soggetti non residenti, l’imposta sul reddito delle persone fisiche trova applicazione sui redditi prodotti all’interno del territorio dello Stato. Dunque, la residenza fiscale consente – tra l’altro – di stabilire quali redditi debbano concorrere alla formazione della base imponibile.

Secondo le norme previgenti alla riforma fiscale, ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che, per la maggior parte del periodo di imposta, sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza, ai sensi del codice civile.

Per effetto delle modifiche proposte, si considerano residenti le persone che, per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato ovvero che sono ivi presenti.

La disposizione dell’art. 2 TUIR prevede ora: “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente”.

Rispetto alla disciplina previgente, di conseguenza:

  • viene introdotto il riferimento alla frazione di giorno;
  • sono residenti anche i soggetti presenti nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta, di fatto così ampliando la platea dei contribuenti residenti in Italia;
  • inoltre, in luogo del riferimento alle nozioni contenute nel codice civile, viene introdotto un nuovo concetto di “domicilio” che si basa sul luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona;
  • infine, viene introdotta una previsione per cui si presumono residenti, salvo prova contraria, anche le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.

La Relazione illustrativa al D. Lgs. n. 209/2023 chiarisce che la prova dell’assenza dei criteri che determinano la residenza nel territorio dello Stato può essere fornita dal contribuente dimostrando, rispettivamente, di non avere in Italia la residenza, il domicilio e di non essere stato fisicamente presente nel territorio dello Stato. La prova dell’insussistenza del requisito deve essere riferita a un numero di giorni complessivi superiore alla maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno nel caso della presenza fisica. Il criterio di iscrizione all’anagrafe della popolazione residente resta quale criterio di collegamento rilevante ai fini della residenza fiscale. Tuttavia, il Governo sottolinea che la modifica intende mitigare, ai fini della residenza, il puro dato formale dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente che non abbia un reale riscontro fattuale, modificando la presunzione assoluta in favore di una presunzione relativa che permetta al contribuente di fornire prova contraria rispetto a quanto stabilito dalla legge.

Occorre, tuttavia, precisare che le nuove regole sulla residenza fiscale introdotte valgono dal 1° gennaio 2024 e non possono essere applicate retroattivamente, in quanto non si tratta di norme interpretative. Lo ha chiarito la sentenza n.  19843/2024 della Corte Suprema di Cassazione, depositata il 18 luglio.

Quali i fatti?

Il caso alla lente della Corte Suprema di Cassazione riguarda un contribuente residente nel Principato di Monaco, contestato per residenza fiscale in Italia, avendo mantenuto il centro dei propri interessi vitali sul territorio nazionale. In primo grado, il ricorso fu accolto, ma in appello la sentenza fu riformata. Il contribuente ricorse in Cassazione lamentando errori nell’applicazione delle norme del TUIR sulla residenza. Il ricorso del contribuente è stato rigettato, poiché i giudici d’appello ritenevano che in Italia esistessero interessi patrimoniali riconoscibili, come cariche sociali in imprese e proprietà immobiliari gestite da terzi, oltre a interessi personali e familiari.

Quali le argomentazioni addotte dalla Corte Suprema di Cassazione?

Secondo la Corte Suprema di Cassazione i fatti concernono i periodi di imposta 2006-2010, con la conseguenza che agli stessi si applica la formulazione dell’art. 2 vigente fino al 2023, per cui la nozione di domicilio fiscale deve rifarsi a quella civilistica del luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi.

Ciò premesso, la sentenza n. 19843/2024 stabilisce che, secondo l’art. 2 comma 2 del TUIR, nella formulazione previgente, le relazioni affettive e familiari della persona non rivestono un ruolo prioritario, ma rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo con il quale il soggetto ha il più stretto collegamento.


Dipendenti pubblici, lo straordinario va sempre pagato anche senza consenso del datore di lavoro

La Corte Suprema di Cassazione riconosce il diritto dei dipendenti pubblici al pagamento per il lavoro straordinario, anche senza autorizzazione formale del datore di lavoro.
Il lavoro straordinario deve essere retribuito anche in assenza di autorizzazione. A stabilirlo è una recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione, n. 17912/2024.
La Corte Suprema di Cassazione ha affermato che, sebbene il lavoro aggiuntivo richieda specifiche autorizzazioni e condizioni, nel pubblico impiego lo straordinario deve essere pagato se svolto con il consenso del datore di lavoro, anche in assenza di autorizzazioni formali.
Secondo i giudici, il mancato rispetto delle regole previste in materia di spesa pubblica non deve penalizzare il lavoratore, ma deve ricadere sui funzionari responsabili delle autorizzazioni. La sentenza, pertanto, fornisce un principio fondamentale in materia di protezione dei diritti dei dipendenti pubblici, assicurando agli stessi una giusta e adeguata remunerazione per l’attività lavorativa in concreto svolta.
Il caso concreto riguardava un infermiere dell’ospedale di Reggio Calabria, il quale aveva svolto prestazioni aggiuntive nell’erogazione del servizio di dialisi per il periodo estivo del 2013. Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione ha dato ragione all’infermiere, nell’ambito della controversia sorta proprio in merito al pagamento delle ore straordinarie. Infatti, la Corte Suprema di Cassazione ha ribaltato la pronuncia della Corte d’Appello, che aveva negato il pagamento al lavoratore.
La controversia nasceva in quanto l’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) di Reggio Calabria, che solitamente pagava gli infermieri per il servizio di dialisi svolto nel periodo estivo (erogato, tra l’altro, anche nei confronti di turisti presenti nella Regione durante il periodo di ferie), non lo aveva fatto nell’estate del 2013. L’infermiere aveva, quindi, ottenuto un decreto ingiuntivo contro l’ente al fine di ottenere quanto di sua competenza, fondando il proprio ricorso sulle disposizioni contenute nel contratto collettivo nazionale di lavoro.
La Corte d’Appello aveva annullato il decreto ingiuntivo, sostenendo che il caso era regolato dalla legge 402/2001, recante “Disposizioni urgenti in materia di personale sanitario”, recepita nel contratto collettivo 2008/2009. Secondo i giudici territoriali, tale legge richiedeva un’autorizzazione regionale e specifiche condizioni affinché il pagamento degli straordinari fosse riconosciuto ai dipendenti pubblici. Di conseguenza, l’infermiere non aveva diritto al pagamento perché le condizioni previste dalla legge non erano state rispettate.
L’infermiere proponeva quindi ricorso innanzi alla Corte Suprema di Cassazione, asserendo che, in realtà, le prestazioni erano state svolte in forza di incarico conferito direttamente dall’ente pubblico, quindi dietro consenso dello stesso.
Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione ha accolto le richieste dell’infermiere, rilevando in primo luogo che il ricorso era stato tempestivamente presentato e correttamente notificato alla PEC dell’avvocato dell’Azienda Sanitaria Provinciale.
In punto di merito, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che, secondo un proprio orientamento consolidato, le remunerazioni delle prestazioni straordinarie nel pubblico impiego vengono riconosciute solo se conformi alle previsioni di spesa e l’accordo incompatibile con tali previsioni è invalido, rendendo quindi ripetibili eventuali pagamenti eseguiti in forza di tale accordo. Tuttavia, la Corte Suprema di Cassazione precisa che, una volta autorizzata e svolta la prestazione straordinaria, non è possibile far gravare sul lavoratore, in forza di quanto previsto dal combinato disposto degli artt. art. 36 Cost. e art. 2126 del c.c., le conseguenze di tali divergenze.
Al più la responsabilità graverebbe in capo alla Pubblica Amministrazione, la quale avrebbe dovuto impedire le attività straordinarie in mancanza dei relativi presupposti. Non è infatti concepibile, secondo la Corte Suprema di Cassazione, che tale circostanza vada a detrimento della posizione giuridica ed economica del lavoratore pubblico.
La Corte Suprema di Cassazione, quindi, ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.”.
In conclusione, la Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto che le ore lavorative extra configurano lavoro straordinario e devono essere pagate indipendentemente dalla regolarità delle autorizzazioni, purché ci sia il consenso, anche se implicito, del datore di lavoro.


20° Anniversario A.N.N.A.

La nostra associazione compie 20 anni di attività.

Un traguardo significativo raggiunto con l’impegno e la dedizione del gruppo dirigente e la fattiva collaborazione dei nostri associati.

Durante questo lungo periodo, abbiamo affrontato sfide di varia complessità, ma anche e soprattutto momenti di crescita e successo.

L’Associazione è riuscita a restare attiva e crescere maturando una solida reputazione, una base di associati fidelizzata e un team consolidato. Siamo stati in grado di adattarci ai cambiamenti e a innovare per restare competitivi nell’interesse generale degli associati.

20 anni di esperienza ci hanno dato modo di accrescere competenze, conoscenze e best practices che ci consentono di offrire servizi sempre più completi e di qualità.

In sintesi, una storia di 20 anni di attività è un segno di successo e di longevità che poche associazioni nel nostro settore possono vantare, e che rappresenta un patrimonio di esperienze e di impegno che va valorizzato e celebrato.

Siamo orgogliosi dei risultati ottenuti in questi vent’anni di impegno e dedizione e vogliamo ringraziare tutti coloro che ci hanno sostenuto e hanno creduto nel nostro lavoro. Auspichiamo che questa sia un’occasione per rafforzarci e continuare a lavorare insieme proficuamente.

Grazie a tutti per la fiducia, il sostegno e l’affetto dimostratici in questi anni. Forti di questa consapevolezza, ci sentiamo impegnati a proseguire il nostro impegno, nell’interesse dei nostri associati.

Pietro Tacchini
Presidente Nazionale


Decreto di esproprio: modalità di notifica

Quesito:

un comune della zona mi chiede di notificare un atto (determinazione) avente ad oggetto: (decreto di esproprio definitivo per le aree occorrenti i lavori denominati: Realizzazione pista ciclopedonale tratto località xxxxxx).

Rispondo che essendo un atto in riferimento all’art. 23 del DPR 327/2001 deve notificarlo un ufficiale giudiziario. Mi rispondono che sono tenuto a fare la notifica come Messo Comunale in base alla sentenza che allego Consiglio di Stato n. 05888/2021 .

Cosa si consiglia di fare?

Risposta al quesito:

Considerato che il Consiglio di Stato si è espresso favorevolmente in merito alla validità della notificazione a mezzo di Messo Comunale degli atti della procedura d’esproprio per i quali il legislatore ha indicato che la relativa notificazione deve essere eseguita “nelle forme degli atti processuali civili” e che hai restituito l’atto evidenziando che tale disposizione non consente la notificazione a mezzo di Messo Comunale, è evidente che l’ente richiedente ritiene di avvalersi con successo della giurisprudenza in questione e di conseguenza potrai procedere alla notificazione evidenziando che la stessa viene eseguita a mezzo di Messo Comunale su espressa  e reiterata richiesta  dell’ente espropriante.

Ciò non significa che la nostra Associazione concordi con le valutazioni del Consiglio di Stato, ma considerando la posizione assunta con la sentenza citata non si può escludere che la notificazione a mezzo di Messo Comunale possa concludersi con esito favorevole.

Si ritiene infatti che, se il legislatore avesse voluto intendere che con l’espressione “nelle forme degli atti processuali civili” debba essere intesa come applicazione delle norme del c.p.c., sarebbe bastato citare espressamente la procedura indicata in esso.

Il legislatore ha invece scelto una espressione che anche la cassazione ha ritenuto debba essere intesa come ricorso all’ufficiale giudiziario in quanto ad esso è affidata la competenza alla notificazione degli atti processuali civili; infatti, “le forme” includono non solo la procedura ma anche l’agente notificatore deputato alla notificazione di tali atti.

Tra l’altro l’intervento del legislatore del 2002 che ha modificato l’art. 21 del Dpr 327/2001 in tema di determinazione dell’indennità d’esproprio cita espressamente la notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario piuttosto che ricorrere alla analoga formula oggetto del quesito e come sappiamo per gli atti che determinano l’indennità provvisoria d’esproprio è prevista la notificazione nelle forme degli processuali civili.

Il fatto poi che l’art. 10 della legge 265/1999 preveda la competenza del Messo Comunale alla notificazione degli della P.A. è norma generale che soggiace alla regola che la norma speciale, come è il DPR 327/2001, prevale sulla norma generale.

Quindi se intendiamo essere l’ufficiale giudiziario il soggetto competente non è sufficiente invocare l’art. 10 della legge 265/1999 per ricorrere al Messo Comunale.

Si noti inoltre che l’art. 10 della legge 265/1999 consente di rivolgersi al Messo Comunale se la notificazione non è eseguibile per posta e nelle altre forme previste dalla legge, per cui volendo trovare in tale norma la legittimazione al ricorso al Messo Comunale per il decreto d’esproprio, bisognerebbe dimostrare che il richiedente la notificazione ha già tentato la notificazione con esito negativo a mezzo posta e a mezzo di ufficiale giudiziario.

Pertanto, l’Associazione A.N.N.A. non concorda con le valutazioni inserite nella sentenza del Consiglio di Stato, ma non potendo escludere che richiamando tale sentenza, in caso di ricorso per vizio di notifica, il giudice amministrativo risolva favorevolmente la questione a favore dell’ente espropriante e considerando la reiterata richiesta di procedere con la notificazione, rifiutarsi di procedere con la stessa a questo punto sarebbe rischioso.

Altre considerazioni

Estratto da: Gli articoli 22 e 22bis dpr 327/2001 Exeo Edizioni 2007

Il decreto di esproprio ed il decreto di occupazione, una volta emanati, dovranno essere notificati ed eseguiti. Il duplice contenuto dei suddetti provvedimenti consente, infatti, da una parte, di eseguire la disposta espropriazione od occupazione d’urgenza attraverso l’immissione nel possesso e dall’altra di addivenire, attraverso la determinazione dell’indennità e sua notifica, alla liquidazione/deposito dell’indennità stessa, all’eventuale espletamento della fase di determinazione dell’indennità definitiva (22) ed all’emanazione del decreto d’esproprio (22 bis).

Modalità di notifica e destinatari

Nulla è prescritto dall’art. 22 in ordine alle modalità di notifica.

Elementi possono essere tratti dalle disposizioni relative alla notifica del decreto d’esproprio (23) nonché dell’indennità provvisoria d’espropriazione (23.4), partecipando il provvedimento di cui all’art. 22 di entrambi i contenuti.

Con riferimento invece al decreto d’occupazione lo stesso «è notificato con le modalità di cui al comma 4 e seguenti dell’articolo 20» (22 bis.1), e pertanto nelle forme degli atti processuali civili.

A detta conclusione è possibile pervenire anche attraverso un’interpretazione sistematica.

Nel sistema ante testo unico occorreva distinguere il provvedimento di occupazione dal provvedimento di determinazione dell’indennità.

Per il primo l’art. 3.4 della L 1/1978 prevedeva unicamente la notifica dell’avviso d’occupazione (CDS 4763/2006), senza peraltro alcuna precisazione; doveva perciò ritenersi legittima la notifica tramite messo comunale o altra forma idonea (TAR BA 3781/2005).

Per il provvedimento determinativo dell’indennità viceversa, l’art. 11.4 della L 865/71 prevedeva la notifica nelle forme degli atti processuali civili.

Nel sistema introdotto dal DPR 327/2001 è previsto che il provvedimento di cui all’art. 22 bis sia notificato nelle forme dell’art. 20.4, ossia nelle forme degli atti processuali civili. Quest’ultima disposizione riguarda l’atto che determina in via provvisoria l’indennità d’espropriazione. Secondo i primi pronunciamenti giurisprudenziali (TAR FI 6049/2006), la notifica tramite ufficiale giudiziario deve intendersi riferita alla sola determinazione dell’indennità, con la conseguenza che l’eventuale difetto formale di notificazione non può comunque produrre conseguenza alcuna a carico del provvedimento d’occupazione.

Vero è che in nome della semplificazione amministrativa, oggetto di notifica non sarà solo il provvedimento bensì anche l’avviso d’occupazione; al riguardo potrà ritenersi applicabile l’art. 23.1.g, che prescrive la notifica nelle forme degli atti processuali civili.

Per effetto del combinato disposto della normativa richiamata, si può ritenere che la notifica di entrambi i provvedimenti debba effettuarsi nella forma degli atti processuali civili e quindi tramite Ufficiali giudiziari, con esclusione pertanto della possibilità di ricorrere ai messi comunali.

Deve altresì essere richiamato il disposto dell’art. 10.1 della L 265/99 «Notificazioni degli atti delle pubbliche amministrazioni» ai sensi del quale «le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 2 febbraio 193 n. 29, e successive modificazioni, possono avvalersi, per le notificazioni dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o altre forme di notificazione previste dalla legge».

La possibilità di ricorrere al messo comunale è pertanto consentita solo nel caso d’accertata impossibilità di procedere mediante ufficiali giudiziari.

Come più volte rimarcato dalla giurisprudenza, anche con riferimento al decreto d’esproprio, il vizio della notifica non determina la invalidità del provvedimento, posto che la stessa è una forma qualificata di comunicazione dell’atto, ma non ne rappresenta elemento costitutivo.

Il vizio della notifica può pertanto incidere soltanto sulla sua conoscenza legale, rilevante ai fini della decorrenza del termine decadenziale dell’impugnazione del provvedimento nonché della sua esecuzione (TAR PZ 75/2007, CZ 137/2007, NA 4989/2007, NA 40/2007, VE 821/2006, FI 5217/2005CZ 2434/2004).

Tuttavia, a questo proposito occorre una precisazione con riguardo al Testo unico.

L’art. 23.1.f stabilisce che il decreto di esproprio «dispone il passaggio del diritto di proprietà, o del diritto oggetto dell’espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito». In altri termini, letteralmente, le condizioni costitutive del decreto di esproprio sembrerebbero essere tre:

l’emanazione, la notifica e l’esecuzione (tramite immissione in possesso); pertanto – contro una secolare tradizione – il decreto di esproprio sarebbe diventato, in virtù di tale norma del Testo unico, un atto recettizio. Ad esempio, dopo l’immissione in possesso conseguente ad un decreto di occupazione ex art. 22 bis, non sarebbe sufficiente l’emanazione di un decreto di esproprio a trasferire la proprietà, ma occorrerebbe la notifica.

Al di là della indubbia suggestione del tenore letterale della norma, è tuttavia inaccettabile, nella sostanza, far dipendere il perfezionamento e l’efficacia della procedura ablatoria (ablazione che avviene, tra l’altro, a titolo originario e nei confronti del proprietario catastale, che potrebbe non coincidere con il proprietario reale) dalle contingenti vicende della notifica.

La giurisprudenza, del resto, ha già avuto modo di confrontarsi con l’art. 23 stabilendo (dunque senza alcuna innovazione rispetto al sistema previgente) che il vizio di notifica del decreto di esproprio perché non effettuata nella forma degli atti giudiziari previsti dall’art. 23.1.g non determina la nullità del provvedimento sottostante, in quanto non ne costituisce elemento costitutivo, ma può incidere soltanto ai fini della sua legale conoscenza ovvero della sua esecuzione, se a questa subordinata, ovvero ancora ai fini del decorso dei termini di legge riferiti alla medesima conoscenza legale dell’atto (TAR VE 821/2006).

Su un piano più squisitamente sostanziale è stata più volte affermata, nel caso d’irregolarità, la sanatoria nel caso in cui la notifica sia comunque giunta a buon fine, come nel caso d’irrituale notifica dell’avviso d’occupazione con conseguente prospettato vizio dell’immissione in possesso. Nella fattispecie la irritualità della notifica è stata ritenuta sanata dalla presenza in sede d’immissione nel possesso, del soggetto destinatario, venuto comunque a conoscenza dell’atto con comunicazione che si sia rivelata utile a tal fine (TAR CT 604/2006).

L’art. 22.1 individua quale destinatario della notifica il proprietario. Ciò è possibile argomentare dalla prescrizione di cui all’ultimo capoverso del comma 1 concernente l’invito al «proprietario» a comunicare l’eventuale condivisione dell’indennità.

Il successivo comma 3 individua nell’«espropriato» il soggetto da cui dovrà provenire la comunicazione contenente l’eventuale accettazione dell’indennità. Ciò trova la sua ragione d’essere nel fatto che l’atto oggetto di notifica è un decreto d’esproprio già emanato.

L’art. 23 dispone la notifica del decreto al «proprietario». Ferma restando la diversa terminologia utilizzata dal legislatore, i destinatari della notifica non potranno che coincidere che con i proprietari indicati nel provvedimento medesimo.

Il tutto ritrova, infatti, la sua unitarietà nella prescrizione generale per la quale tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il «decreto di esproprio», sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo l’ipotesi in cui l’autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell’eventuale diverso proprietario effettivo (3.2) (TAR CZ 137/2007, CT 706/2006, CA 249/2004).

Per effetto del contenuto complesso dell’atto, contenente anche la determinazione dell’indennità, lo stesso dovrà essere notificato anche al beneficiario dell’esproprio (20.4), cioè il soggetto pubblico o privato cui favore è emesso il decreto di esproprio (3.1.c, 3.2).

Per espressa previsione normativa il «proprietario» ed «beneficiario dell’esproprio», se diverso dalla autorità procedente, sono anche i destinatari del provvedimento di occupazione (22 bis.1, 20.4).

I destinatari della notifica coincideranno quindi con i proprietari indicati nel provvedimento medesimo che, come sopra precisato, dovrà contenere accanto alla indicazione dei beni da espropriare e da occupare, anche l’indicazione dei relativi proprietari.

Accettazione, maggiorazioni, pagamenti e depositi nell’art. 22 La notifica del decreto di esproprio (22) è funzionale a consentire la prosecuzione del procedimento attraverso due percorsi paralleli e distinti, l’uno diretto alla determinazione definitiva della indennità, l’altro alla esecuzione del decreto tramite immissione nel possesso.

Una volta emanato e notificato il provvedimento, si dovrà attendere la scadenza dei 30 giorni decorrenti dalla immissione in possesso per l’eventuale accettazione, da parte del proprietario, della indennità proposta, salvo, come si è detto, che il proprietario non proponga prima di tale data un’istanza di cessione volontaria ai sensi dell’articolo 45, diritto che gli è possibile esercitare fino, appunto, all’immissione in possesso.

Il collegamento tra le fasi in esame è costituito dall’invito rivolto al proprietario, contenuto nel provvedimento, a comunicare, entro i suddetti termini, l’eventuale condivisione della indennità (22.1).

Nel caso di accettazione, l’Autorità espropriante, ricevuta la comunicazione di accettazione e la documentazione comportante la piena e libera disponibilità del bene, disporrà il pagamento della indennità nel termine di 60 giorni. In difetto saranno dovuti gli interessi nella misura del tasso legale (22.3).

Al pagamento l’Autorità dovrà procedere a norma dell’art. 26 TU, contenente le disposizioni comuni alle operazioni di pagamento oltre che di deposito delle indennità.

Nel caso di mancata accettazione l’Autorità espropriante dovrà attivare il procedimento diretto alla determinazione della indennità definitiva, ricorrendo alla procedura di cui all’art. 21 (collegio dei tecnici), nel caso in cui vi sia stata scelta in tale direzione da parte dell’espropriato (22.4).

Qualora il soggetto espropriato abbia optato per la stima peritale, il procedimento proseguirà secondo le norme dell’art. 21. Per espressa disposizione (22.4) qualora non condivida la stima peritale l’espropriato può opporre opposizione in Corte d’Appello.

Qualora viceversa sia decorso il termine di trenta giorni decorrenti dalla immissione in possesso senza che l’espropriato si sia avvalso di tale facoltà, l’Autorità procede a richiedere la determinazione definitiva della indennità alla Commissione Provinciale di cui all’art. 41 (22.5).

Quando è stata intrapresa la procedura dell’articolo 22, i tempi di pronunciamento della Commissione Provinciale sono fissati in giorni 30 (22.5) anziché in giorni 90 (21.15) stabiliti in via ordinaria.

Per la verità le ragioni di tale accorciamento dei tempi della stima della Commissione non sono affatto chiare, dal momento che la ratio acceleratoria, e la conseguente deroga alla procedura ordinaria, non può che riguardare i tempi per l’immissione in possesso e l’avvio urgente dei lavori: diciamo che la disposizione può essere interpretata come una sorta di compensazione procedimentale a favore dell’espropriato che ha subito una procedura accelerata. Ma se è così, peraltro, non si capisce perché analoga previsione manchi nell’articolo 22 bis.

Con riguardo alla stima della Commissione, diversamente dal caso della stima collegiale, l’articolo 22 nulla prescrive in merito all’opposizione alla stima. Troverà comunque applicazione l’art. 54 che prevede, al comma 2, l’opposizione nel termine di trenta giorni decorrenti dalla sua notifica. Trattasi, infatti, di ipotesi in cui il decreto di esproprio è già stato emanato (54.2).

Anche se non espressamente prescritto, l’Autorità espropriante dovrà provvedere al deposito dell’indennità provvisoria non accettata seguendo le prescrizioni dettate dall’art. 26. Si verifica così una deroga alla regola che condiziona l’emanazione del decreto di esproprio all’avvenuto deposito della indennità, deroga dipendente dal fatto che la stessa possibilità di accettare l’indennità (da cui dipende la decisione di pagare o depositare) avviene non solo successivamente al decreto di esproprio stesso, ma addirittura dopo l’immissione in possesso.

Alla medesima conclusione è possibile addivenire sulla base del richiamo attuato dall’art. 22.1 alle disposizioni di cui all’art. 20, quali prescrizioni che le ragioni di urgenza, che sono alla base del procedimento accelerato, non consentono di applicare. Tra queste anche il deposito della indennità precedente al decreto, previsto dal comma 14.

Deve inoltre ritenersi che al deposito dell’indennità l’Amministrazione dovrà provvedere, pur in caso di accettazione, nelle ipotesi di mancata produzione della documentazione concernente la libera proprietà del bene, nel caso in cui il soggetto interessato non si presti a ricevere la somma, nel caso di sussistenza di diritti reali e/o di opposizione di terzi al pagamento della indennità in assenza di accordo tra le parti nonché di opposizione di terzi all’ammontare della indennità (combinato disposto 22, 20.12, 26).

Relativamente all’importo da liquidare a seguito di accettazione l’Autorità espropriante non farà luogo alla riduzione dell’articolo 37.1 (22.3). La previsione normativa è quanto mai opportuna anche se, come si è già avuto modo di osservare, incompleta.

Opportuna in quanto al momento del pagamento vi è già stata emanazione ed esecuzione del decreto di esproprio, e dunque non è applicabile l’art. 45.2, circoscritto alla determinazione del corrispettivo dell’atto di cessione volontaria (non più possibile dopo l’immissione in possesso ex art. 22), tanto che lo stesso articolo 20, al comma 13, ha precisato che qualora l’Autorità emetta un decreto di esproprio in luogo dell’atto di cessione volontaria, sono fatte salve le maggiorazioni previste in caso di accettazione dall’art. 45.2, allargando così in virtù di espresso richiamo l’applicazione della norma alle ipotesi di decreto di esproprio (nella procedura ordinaria).

Incompleta in quanto non si vede per quale motivo la previsione debba essere limitata alla mancata decurtazione di cui all’articolo 37.1 e non anche alle maggiorazioni di cui all’art. 45.2.c–d, nella ipotesi di area non edificabile.

Ragioni di equità e di ragionevolezza inducono in ogni caso a riconoscere le maggiorazioni previste dall’articolo 45.2 in tutti i casi di accettazione dell’indennità provvisoria, anche quando l’amministrazione abbia unilateralmente seguito la strada del decreto di esproprio; le distonie del tenore letterale delle norme sono purtroppo evidenti, ma ciò non può essere sufficiente a deviare l’interprete dai parametri della ragione e del buon senso: si ritiene possibile, sotto questo profilo, adottare il tredicesimo comma dell’articolo 20 come principio generale.

Per quanto riguarda l’importo da depositare non sono riscontrabili peculiarità rispetto al regime ordinario. Si tratterà dell’importo decurtato o senza maggiorazioni, rispettivamente per le ipotesi di area edificabile (37) e area non edificabile (40) o dell’importo pieno (senza, cioè, decurtazioni o con maggiorazioni) nei casi di aree edificate (38) e nell’ipotesi di deposito conseguente ad accettazione.

Accettazione, maggiorazioni, pagamenti e depositi nell’art. 22bis L’art. 22 bis.1 prescrive la notifica del decreto di occupazione richiamando a tal fine le disposizioni di cui all’art. 20.4 e segg.

Come in precedenza rilevato il procedimento accelerato in esame consente di determinare l’indennità omettendo gli adempimenti di cui primi due commi dell’art. 20, ossia senza avviare preliminarmente il contraddittorio con i proprietari ivi previsto.

Ad un primo approccio interpretativo l’omissione degli adempimenti di cui all’art. 20.1 e 20.2 potrebbe sembrare costituire l’unica deroga all’iter procedimentale ordinario (a parte naturalmente l’immissione nel possesso), suscettibile di riprendere quindi nella sua sequenza ai fini dell’emanazione del decreto espropriativo, una volta notificato il provvedimento emanato.

In realtà non sembra necessario pervenire a tale conclusione: la mancanza di tempo per espletare i primi due commi, in relazione all’incombenza dell’avvio dei lavori, è solo un parametro temporale che giustifica il ricorso alla procedura accelerata, ma che non legittima di per sé una mescolanza di commi e disposizioni tra articolo 20 e articolo 22 bis.

Inoltre, laddove l’articolo 22 bis ha inteso richiamare la disciplina dell’articolo 20, lo ha fatto espressamente: al comma 1 ultimo cpv per quanto riguarda le modalità di notifica, e al comma 3 per quanto riguarda l’acconto dell’80%. Questo esplicito richiamo sarebbe superfluo se l’applicazione di tali disposizioni discendesse già automaticamente dalla deroga ai primi due commi.

Ancora, se fosse vero che tutti i commi dell’articolo 20 successivi al secondo si applicano all’articolo 22 bis, ci si scontrerebbe fatalmente con l’inapplicabilità di buona parte di essi.

Ad esempio, il terzo comma dell’articolo 20 è inapplicabile in quanto incompatibile con l’articolo 22 bis, contemplando una differente modalità di determinazione dell’indennità provvisoria.

Il quarto comma dell’articolo 20 riguarda le modalità di notifica del decreto di occupazione, e si applica all’articolo 22 bis non certo per deduzione dal fatto che l’urgenza non deve consentire l’applicazione dei primi due commi, quanto invece a seguito di espresso richiamo contenuto nell’ultimo capoverso del primo comma dell’articolo 22 bis. Sennonché, tra l’altro, questo richiamo lascia perplessi per due ordini di motivi. Primo: non si capisce la sua utilità, dal momento che il quarto comma dell’articolo 20 è brevissimo disponendo la notifica con le forme degli atti processuali civili, e tanto sarebbe valso scriverlo direttamente, come il legislatore ha fatto molte altre volte nel corpo del testo unico. Secondo: il richiamo è limitato espressamente alla notifica, e dunque non si comprende cosa c’entrino i commi successivi al quarto dell’articolo 20 medesimo, che non riguardano la notifica.

Il quinto comma dell’articolo 20 è incompatibile con l’ultimo capoverso del primo comma dell’articolo 22 bis.

Il sesto comma dell’articolo 20 è incompatibile con il quarto comma dell’articolo 22 bis sotto il profilo delle modalità di immissione in possesso, e con il quinto comma dell’articolo 22 bis sotto il filo dell’indennità di occupazione, rimanendo applicabile solo limitatamente all’acconto dell’80% giusta il richiamo del terzo comma dell’articolo 22 bis.

L’applicabilità o meno del settimo comma dell’articolo 20 è irrilevante, giusta l’operatività anche nelle procedure accelerate dell’articolo 21.

Potrebbero essere applicabili i commi dell’articolo 20 relativi alla stipula, alla produzione documentale, all’emanazione del decreto di esproprio, ma non se ne vede la necessità, dal momento che le modalità di pagamento e deposito trovano dettagliata disciplina all’articolo 26, e le modalità di stipula non richiedono particolari regolamentazioni, come testimonia l’articolo 45, e per il contenuto, gli effetti e l’esecuzione del decreto di esproprio può farsi riferimento, pur con qualche adattamento, 23, 25, 25.

Ad ogni modo, non è – certamente – censurabile il comportamento dell’amministrazione che applichi l’articolo 22 bis entro i limiti strettamente indispensabili, tornando nell’alveo della procedura ordinaria non appena possibile.

L’art. 22 bis.1 dispone la notifica non solo del decreto ivi previsto, ma anche di un’ulteriore avvertenza. Recita, infatti, il comma in esame: «Il decreto è notificato con le modalità di cui al comma 4 e seguenti dell’articolo 20 con l’avvertenza che il proprietario, nei trenta giorni successivi all’immissione in possesso, può, nel caso non condivida l’indennità offerta, presentare osservazioni scritte e depositare documenti» (22 bis.1).

Nulla escluda che l’avvertenza in questione possa essere contenuta nel provvedimento o essere oggetto di nota separata, da notificarsi in ogni caso contestualmente al provvedimento medesimo. Principio di semplificazione rende preferibile la prima soluzione. Si realizza così, a posteriori, quel contraddittorio sull’indennità che nel procedimento ordinario precede la determinazione provvisoria della indennità, con l’espletamento delle fasi di cui all’art. 20.1 e 20.2, viceversa omesse nella procedura accelerata, anche se una fase partecipativa – ancorché privata dell’indicazione della somma da offrire – è stata comunque garantita ai sensi dell’articolo 17.2.

Come già precisato a proposito della rideterminazione dell’indennità, si deve supporre che, a seguito delle osservazioni presentate e dei documenti depositati l’Autorità espropriante possa anche modificare la propria determinazione. Una diversa interpretazione renderebbe del tutto inutile tale momento partecipativo.

Ecco quindi completata la deviazione rispetto all’iter procedimentale ordinario che comporterà anche la possibilità di una fase (eventuale) da collocarsi – volendo – in posizione intermedia tra il comma 4 e il comma 5 dell’art. 20. L’attivazione di tale fase è rimessa al proprietario che potrà non limitarsi semplicemente ad accettare o rifiutare l’indennità bensì, nel caso non condivida l’indennità offerta, presentare nel termine di 30 giorni dall’immissione nel possesso, osservazioni scritte e depositare documenti. L’Autorità procedente, nel caso il cui il proprietario abbia esercitato tale facoltà, potrà anche rivedere, come detto, la sua determinazione.

È ragionevole ritenere che le modalità di tale rideterminazione possano essere adottate dall’amministrazione, a seconda dei casi, in forma di rettifica, o di vera e propria revoca, con contrarius actus, ai sensi dell’articolo 21-quinquies della L. 241/1990, fermi restando –s’intende – gli effetti del provvedimento di occupazione.

Siamo infatti sempre nell’ambito della determinazione dell’indennità provvisoria, solo con riguardo alla cui accettazione – tra l’altro – sono possibili le maggiorazioni dell’indennità ai sensi dell’articolo 45.2, e qui si tratta di determinare nuovamente l’indennità provvisoria, non di introdurre un nuovo livello di determinazione dell’indennità in via amministrativa; pertanto, in caso di aree non edificabili, continuerà ad applicarsi il VAM di cui all’articolo 40.3, e non il valore agricolo effettivo di cui all’articolo 40.1.

Il provvedimento di rideterminazione dell’indennità dovrà essere assunto con specifico atto, ad opera del medesimo soggetto che ha determinato l’indennità provvisoria, che l’Autorità procedente procederà a notificare ai soggetti interessati similmente alle modalità di notifica utilizzate per la determinazione dell’indennità provvisoria (20.4). Nel termine di 30 giorni dalla notifica (e non più dall’immissione in possesso, già avvenuta) il proprietario potrà comunicare con dichiarazione irrevocabile la condivisione dell’indennità 20.5. Nel caso di accettazione dell’indennità in sede di prima o seconda notifica, l’Autorità procedente è tenuta a corrisponderne una quota pari all’80% (22 bis.3, 20.6). Tale corresponsione avrà effetti sulla quantificazione dell’indennità di occupazione non più dovuta sulla percentuale liquidata.

Il procedimento accelerato ha così esaurito le sue peculiarità rispetto a quello ordinario. Sono, infatti, esauriti gli adempimenti che hanno consentito alla amministrazione di accelerare i tempi: immissione in possesso e determinazione della indennità di espropriazione in via provvisoria senza particolari indagini e formalità.

A questo punto sarà attivata la ordinaria procedura di corresponsione o deposito della indennità, propedeutica alla emanazione del decreto di esproprio e l’eventuale procedura di determinazione della indennità definitiva nel caso di rifiuto della indennità provvisoria (21).

Si tratta di fasi che non risentono della loro origine speciale, ossia del fatto che le fasi immediatamente precedenti hanno presentato peculiarità rispetto all’iter ordinario, ad eccezione del contenuto e della esecuzione del decreto di esproprio.

In particolare, il contenuto si arricchisce della indicazione del decreto emanato ex art. 22 bis e del relativo stato di esecuzione (23.1. e bis) ed il decreto di esproprio dovrà disporre il passaggio della proprietà, non più sospensivamente condizionato all’immissione in possesso, essendo essa già intervenuta in sede di esecuzione della disposta occupazione.