Valida la notifica all’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza

È valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui all’art. 6-bis del d.lgs. n. 82 del 2005, atteso che, secondo la sentenza n. 27270/2021 della Corte Suprema di Cassazione civile, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi.
Orientamenti giurisprudenziali

Z. R., in qualità di erede di A. T., ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli che – riformando la pronuncia con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal sinistro stradale occorso nel 2003 ad Afragola e causato dalla collisione fra due motoveicoli, condotti rispettivamente dal T. e da A. C. (collisione dalla quale erano derivate lesioni personali ad entrambi), ritenendo insufficiente la prova raggiunta sulla dinamica del sinistro – aveva riconosciuto il concorso di colpa nella causazione dell’evento fra i conducenti di entrambi i motoveicoli coinvolti ed aveva liquidato la somma a ciascuno spettante, respingendo, tuttavia, la domanda nei confronti della Generali Ass.ni Spa ( già Alleanza Toro Spa) in qualità di impresa designata dal FGVS ( evocata in giudizio ex art. 19 lett.b L. 669/1969 ), per mancanza di prova della scopertura assicurativa di entrambi i veicoli.
La Corte Suprema di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha preliminarmente respinto l’eccezione sollevata dalla compagnia di assicurazione in relazione al difetto di notifica del ricorso principale e di quello incidentale: si assume, al riguardo, che la notifica a mezzo PEC di entrambi i ricorsi sarebbe priva dell’indicazione dell’elenco da cui era stato estratto l’indirizzo PEC del destinatario, come previsto dall’art. 16 ter D.L. 179/2012.
Da ciò deriverebbe, in thesi, la nullità della notifica ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.
Il rilievo è infondato.
È stata, infatti, affermata la prevalenza del principio del raggiungimento dello scopo degli atti processuali, in ragione del quale va esclusa l’efficacia invalidante della mancata indicazione, nella relata di notifica, dell’elenco pubblico – tra quelli previsti dall’art. 16 ter del d.l. n. 179 del 2012 – da cui è stato estratto l’indirizzo di posta elettronica del destinatario.
È stato specificamente affermato, al riguardo, che le Sezioni Unite di questa Corte, valorizzando l’introduzione del cd. “domicilio digitale”, hanno ritenuto valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui all’art. 6-bis del d.lgs. n. 82 del 2005, atteso che, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi.
Numerose pronunce hanno poi ribadito la piena legittimità di notifiche eseguite presso l’indirizzo PEC risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC) istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, espressamente incluso fra i pubblici elenchi ex art. 16-ter del d.l. n. 179 del 2012, ribadendo espressamente «il principio, enunciato dalle SS.UU. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del ‘domicilio digitale’, previsto dall’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla I. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, conv. con 5 modif. dalla I. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui all’art. 6 bis del d.lgs. n. 82 del 2005, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al DM. 21 febbraio 2011 n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia.


Irrituale ma valida la notifica della cartella tramite P.e.c.

L’eventuale irritualità della notificazione di un atto a mezzo PEC non ne comporta la nullità, se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza, ben potendosi applicare alla specie l’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c.; invero, la natura sostanziale e non processuale delle cartelle di pagamento non esclude l’applicabilità alla notifica delle stesse delle norme dettate in materia processuale, essendo tali ultime norme espressamente richiamate nella disciplina tributaria qualificabile come “amministrativa”; e l’art. 26, comma 5, del DPR n. 602 del 1973, concernente la notifica delle cartelle di pagamento, rinvia all’art. 60 del DPR n. 600 del 1973, in materia di notifica degli avvisi di accertamento; e quest’ultimo articolo rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, ivi compresa la norma di cui sopra citata, art. 156 c.p.c. (Cass. n. 6417 del 2019).
Sentenza n. 26099 del 27 settembre 2021 (udienza 28 aprile 2021) Cassazione civile, sezione VI – 5 – Pres. Mocci Mauro – Est. Capozzi Raffaele.


Legittimo che il concessionario del Comune riscuota le multe stradali con l’ingiunzione fiscale

Un automobilista era ricorso al Giudice di Pace per opporsi all’ingiunzione di pagamento di una multa stradale emesso da una società concessionaria del Comune, tramite l’ingiunzione di pagamento; il particolare il ricorrente lamentava, tra l’altro, l’inutilizzabilità dell’ingiunzione fiscale per la riscossione di sanzioni amministrative nonché la carenza di potere del concessionario per procedere con tali modalità. Il Giudice di Pace aveva rigettato la domanda; stessa sorte anche per l’impugnazione della sentenza, davanti al Tribunale.
Nel ricorso presso la Corte di Cassazione l’automobilista ha censurato l’affermazione del giudice del merito secondo cui anche i Comuni possono avvalersi della riscossione di cui all’ingiunzione fiscale anche per il tramite di agenti di riscossione. Ad avviso dell’automobilista ricorrente, invece, le società locali di accertamento e riscossione delle entrate, anche nel caso rispecchino il modello speciale previsto dall’articolo 52, comma 5, lettera b) , del Dlgs 446/1997, non sarebbero legittimate a procedere alla riscossione dei proventi derivanti da violazioni del Codice della strada mediante ingiunzione (Rd n. 639 del 1910).
Per la Corte Suprema di Cassazione il motivo di ricorso è infondato, sentenza n. 26308/2021. Osservano i giudici di legittimità che il ricorrente neppure si cura di mettere in discussione il pertinente precedente di legittimità richiamato dal Tribunale, con la sentenza impugnata. Secondo la Cassazione che comunque, l’affermazione del Tribunale che viene contestata e secondo cui ben può il concessionario per la riscossione emettere l’ingiunzione di cui al Rd n. 639 del 1910, è del tutto corretta al luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che la stessa Cassazione condivide e al quale vi è data continuità nella sentenza in commento.
Per i giudici di legittimità ai fini del recupero delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del codice della strada, i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite ingiunzione, anche affidando il relativo servizio ai concessionari iscritti all’albo (articolo 53 del Dlgs n. 446 del 1997) essendo tale affidamento consentito dall’articolo 4, comma 2-sexies, del decreto legge n. 209 del 2002, del quale non è intervenuta l’abrogazione, pure inizialmente disposta dall’articolo 7, comma 2, del decreto legge n. 70 del 2011 convertito in legge n. 106 del 2011, non essendo entrate in vigore le disposizioni cui essa era subordinata. La Corte di Cassazione, pertanto, respinge il ricorso dell’automobilista.


La comunicazione di avvenuta notifica senza avviso di ricevimento

L’atto si perfeziona nei confronti del diretto interessato nel giorno della consegna del piego alla persona abilitata alla ricezione e non in quello successivo al recapito della CAN

Nel caso di notificazione postale ai sensi della legge n. 890/1982, se la busta che contiene l’atto viene recapitata, presso l’indirizzo del destinatario temporaneamente assente, a mani di soggetto abilitato alla ricezione per suo conto, la CAN (Comunicazione di avvenuta notifica) con la quale l’agente postale informa il destinatario stesso dell’avvenuta notificazione è effettuata a mezzo di lettera raccomandata “semplice”, ovvero senza avviso di ricevimento.
Questo il principio confermato dalla Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 20736 del 20 luglio 2021, ove è stato altresì ricordato che in questa ipotesi la notifica si perfeziona nei confronti del diretto interessato nel giorno della consegna del piego alla persona abilitata alla ricezione e non in quello, successivo, di recapito della Can.
Un contribuente impugnava la cartella di pagamento emessa a suo carico sul presupposto della definitività per mancata impugnazione del prodromico atto di accertamento.
Il ricorso, con il quale l’interessato deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso “a monte”, veniva rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta, il cui verdetto veniva peraltro ribaltato dal giudice tributario di seconde cure con sentenza n. 6132/28/14, del 17 giugno 2014.
Per quanto di più specifico interesse in questa sede, il Collegio regionale campano riteneva nulla la notifica dell’accertamento, che risultava effettuata a mezzo del servizio postale mediante consegna a persona diversa dal destinatario, osservando che nella specie non risultava allegata la ricevuta di ricezione della comunicazione di avvenuta notifica (CAN), richiesta per i casi di recapito del piego nelle mani di soggetto abilitato dalla legge a ricevere l’atto per conto del diretto interessato.
Ricorrendo in sede di legittimità, l’Agenzia censurava il riferito decisum deducendo che, laddove il piego postale venga consegnato a persona diversa dal destinatario, la CAN è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che in ogni caso la notificazione avrebbe dovuto considerarsi perfezionata con la consegna dell’atto e non con il successivo recapito di detta “comunicazione”.
La Corte Suprema di Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando per l’eventuale prosieguo del contenzioso alla medesima Commissione regionale di Napoli.
In particolare nel caso di notificazione postale secondo la disciplina di cui alla legge n. 890 del 1982, quando la busta che contiene l’atto da notificare viene recapitata presso l’indirizzo del destinatario a mani di soggetto abilitato alla ricezione per suo conto, l’agente postale è tenuto a notiziare il destinatario stesso dell’avvenuta notificazione a mezzo di lettera raccomandata “che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Corte Suprema di Cassazione, sentenza n. 10554/2015)”.
Tale procedura “semplificata”, stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto e che prevede l’invio della prescritta comunicazione dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando, spiega la Corte, “è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine” (Corte Suprema di Cassazione, sentenza n. 10012/2021).
Inoltre, per il perfezionamento dell’iter di notifica non è richiesta la ricezione della raccomandata cosiddetta informativa essendo sufficiente che ne consti la sola spedizione.
Si osserva, pertanto, che in ambito tributario, la notificazione – strumento finalizzato ad assicurare la “conoscenza legale” di un atto in capo ad un determinato oggetto, al fine di consentirgli di prenderne contezza e di eventualmente esercitare il suo diritto alla difesa giurisdizionale – è prevista con riguardo a tutti gli atti emessi dall’amministrazione finanziaria.
Le fasi attraverso cui si snoda tale procedimento sono puntualmente disciplinate dalla legge nel rispetto del principio cardine secondo il quale la discrezionalità del legislatore incontra un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notifica “ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto…, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli” (Corte Costituzionale, sentenza n. 346/1998; in seguito, nn. 360/2003; 366/2007; 3/2010; 258/2012; 175/2018).
Per quanto riguarda la fattispecie in rassegna, l’articolo 7 della legge n. 890/1982, dopo aver previsto al comma 1 che l’operatore postale “consegna il piego nelle mani proprie del destinatario…”, precisa nel successivo comma che, laddove la consegna non possa essere fatta personalmente al destinatario, “il piego è consegnato, nel luogo indicato sulla busta che contiene l’atto da notificare, a persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con lui ovvero addetta alla casa ovvero al servizio del destinatario…” e che, in mancanza di detti soggetti, la consegna può essere eseguita “al portiere dello stabile ovvero a persona che, vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è comunque tenuta alla distribuzione della posta al destinatario”.
Per tutti i casi in cui il piego non venga recapitato personalmente al diretto interessato, il comma 3 dell’articolo 7 stabilisce poi che “l’operatore postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”.
In merito a questa particolare modalità di notificazione, a parte quanto riaffermato dall’ordinanza in rassegna circa la sufficienza della mera spedizione (e non anche della ricezione) della CAN, che può essere inviata anche senza avviso di ricevimento, si può altresì ricordare la giurisprudenza secondo la quale, rispetto agli elementi strutturalmente costitutivi della fattispecie notificatoria, l’invio della CAN ha soltanto un ruolo aggiuntivo di “notizia” dell’“avvenuta notificazione” con la conseguenza che la notifica si perfeziona con la consegna dell’atto e non alla data di spedizione della raccomandata informativa (Corte suprema di Cassazione nn. 4987/2021; 2229/2020; 11562/2019, 7892/2019, 3732/2019).


Linee Guida sull’Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche

DETERMINAZIONE N. 529/2021
OGGETTO: Linee Guida sull’Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese, di cui all’art. 6-quater del CAD.

Leggi: AGID DETERMINAZIONE N. 529-2021


La fusione per incorporazione estingue la società incorporata

La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può iniziare un nuovo giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo, invece, facoltà la società incorporante di spiegare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 105 c.p.c., intervento volontario in corso di un pendente giudizio del quale già è parte la società incorporata.

Successivamente all’entrata in vigore della riforma del diritto societario (attraverso il D.Lgs. n. 6/2003) si è affermato il principio secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504 bis c.c., la fusione tra società non comporta, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata ma realizza una sorta di unificazione attraverso l’integrazione reciproca delle società che partecipano alla medesima fusione. Questo fenomeno si traduce come una vicenda evolutiva-modificativa dello stesso soggetto giuridico il quale conserva la propria identità anche se assume un assetto organizzativo del tutto innovativo. Tradizionalmente, sulla scorta di questa tesi, la giurisprudenza ha escluso l’esigenza di far interrompere il giudizio, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., qualora intervenga una fusione per incorporazione.

Il percorso di avvicinamento al nuovo principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 21970 del 30-07-2021.
Col tempo le Corti hanno rivolto approfondite considerazioni sul tema delle conseguenze processuali scaturenti le fusioni per incorporazioni andando, spesso, a rivolgere decisioni sempre più distaccate dal tradizionale principio.

Ad esempio la Corte Suprema di Cassazione ha affermato (Sentenza n. 9137 del 19/05/2020) che la società incorporata in altra perde la legittimazione processuale a promuovere gravame il quale, al contrario, è riconosciuto alla società incorporante. Già un anno primo la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 14177 del 24/05/2019, ebbe modo di affermare che la necessaria destinataria dell’impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, è la società incorporante e non già la incorporata non essendo più quest’ultima un soggetto esistente a seguito della fusione.

D’altronde, la legittimazione attiva e passiva della società incorporata si estingue con la cancellazione dal registro delle imprese per incorporazione e con essa i poteri dei suoi organi rappresentativi che in alcun modo possono intendersi prorogati oltre la morte della stessa società.

Un graduale cambiamento di prospettiva da parte della Corte Suprema di Cassazione si è avuto attraverso una rilettura ed una rielaborazione sostanziale del novellato art. 2504 bis 1° comma c.c..

Tale articolo, nella sua versione introdotta dall’art. 13 del D.Lgs. n. 22/1991, disponeva sugli effetti della fusione che: “[…] le società che risultano dalla fusione o quelle incorporanti assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte.”.

L’art. 2504 bis 1° comma c.c.. nella sua attuale formulazione recita: “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Si ritiene probabile che tale differente formulazione abbia fatto ritenere fondata, a parte della dottrina e della giurisprudenza, la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione. Si è ritenuto, invero, che la società incorporante sia soggetto giuridico in continuità con quell’altro che in esso si è fuso (per incorporazione) in quanto appare esplicita la precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, restando, sottinteso, il riferimento ai diritti ed agli obblighi assunti.

Tuttavia, osservando più approfonditamente il suesposto ragionamento apparrebbe contrastante con il tenore letterale della disposizione in commento: se è vero, da un lato, che nel nuovo articolo si è eliminata la parola “estinte”, è altrettanto vero, di converso, che il nuovo art. 2504 bis 1° comma c.c.., in maniera chiarissima, stabilisce che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne è cambiato il titolare, sebbene l’oggettivo rapporto resti il medesimo.

L’espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non potrebbe autorizzare a sostenere che il soggetto incorporato non sia estinto; anzi, in forza del diritto positivo, in particolare quello processuale, avviene proprio il contrario laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto ogni rapporto della parte venuta meno, ossia a vantaggio del successore universale.

La nuova impostazione concettuale sulle conseguenze del fenomeno della fusione per incorporazione per come assunte dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione.
La Corte Suprema di Cassazione afferma che non vi è motivo di non credere che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell’atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di “concentrazione giuridica ed economica“ dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporante o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione. La fusione genera una profondissima ed estesa riorganizzazione aziendale: il capitale, i beni, le risorse umane vengono diversamente destinati secondo il programma economico di cui al progetto di fusione. Nessun elemento materiale, umano ed immateriale, resta uguale a sé stesso, salvo la qualità dei soci che mantengono la loro veste.

Ogni rapporto giuridico, attivo e passivo, è imputato ad un soggetto giuridico diverso da quello originario, ossia la società incorporante, mentre la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

Naturalmente nel momento in cui tutti i rapporti si trasferiscono ad altro soggetto (la società incorporante), quello primigenio non li conserva in quanto si estingue. Cessano, invero, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano. La primigenia organizzazione si dissolve e nessuna situazione soggettiva originaria residua. Pertanto, se alcuna posizione soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di una entità astratta.

Le società fuse o incorporate non restano, pertanto, soggetti del mercato, e, conseguentemente, non possono legittimamente proporre cause civili o esservi convenute. Con la stipula dell’atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese e seguìto dalla cancellazione dell’iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci provocano, attraverso la sua estinzione, la scomparsa dal panorama giuridico dell’originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive. L’unico soggetto giuridico che sopravvive all’evento fusione per incorporazione è l’incorporante.

La fusione per incorporazione, anche a fronte delle suesposte argomentazioni, pure espresse dalla Corte Suprema di Cassazione nella sentenza in commento, non può essere ritenuta come una vicenda meramente modificativa degli assetti anche giuridici della società incorporata e ciò in quanto l’evento genera una sua dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.

La fusione per incorporazione, infatti, crea una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati.

Se da un lato è certo che la fusione non è una operazione societaria tesa a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione) ovvero a trasferirli sic et simpliciter ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come, ad esempio, la cessione dei crediti o di azienda o ramo di azienda) in quanto si verifica una concreta prosecuzione dei rapporti se pur mediante un diverso assetto organizzativo, è altrettanto vero che la fusione per incorporazione non rappresenta un mero fenomeno modificativo senza successione universale in senso proprio in quei rapporti giuridici.

Dal nuovo percorso interpretativo dell’art. art. 2504 bis 1° comma c.c.. reso dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, è possibile sostenere che la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato, consolida la legittimazione attiva dell’incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; al contrario, la società incorporata, non possedendo più la propria soggettività a seguito della fusione e della cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonomo legittimazione processuale attiva e passiva.

Si deve ritenere, quindi, che non sussiste la facoltà di intraprendere un giudizio in capo al soggetto estinto per fusione. Una società ormai estinta non è soggetto autonomo di diritti e non possiede neanche la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati essi trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione.

Pertanto, qualora la società fusasi per incorporazione vada ad intraprendere un giudizio si deve presumere che tale determinazione sia opera dei precedenti organi, i quali non sono più tali, spettando una valutazione di tale portata all’esclusiva ed attuale titolare, la società incorporante, per mezzo del suo legale rappresentante. Se da un lato la trasmissione e la continuità di quei rapporti giuridici nel soggetto incorporante lo giustifica ad agire per tutelarli, dall’altro lato l’evento fusione non autorizza la società incorporata a farle valere in autonomia non essendo essa più esistente.

Inoltre, è irrilevante, sostiene la Corte Suprema di Cassazione, che per legittimare una azione processuale illegittimamente intrapresa dalla società incorporata, la società incorporante possa ricorrere all’istituto del falsus procurator sperando così di ratificare gli atti compiuti dal primo; nel caso esaminato, invero, il difetto non risiede nel rappresentante del diritto fatto valere nel giudizio ma nell’effettivo titolare e, quindi, l’istituto di cui all’art. 1399 c.c., non potrebbe ricorrere in ausilio.

Analogamente si deve ritenere che in occasione di una intervenuta fusione, conseguentemente alla estinzione della società incorporata attraverso la cancellazione dal registro delle imprese per incorporazione, il suo ex amministratore, ormai decaduto dalla carica, non può rilasciare al suo procuratore una valida procura per intraprendere un giudizio; la società incorporante, altresì, non può continuare ad essere autonomamente parte di un pendente giudizio, fatta salvo l’intervento volontario della società incorporante ai sensi dell’art. 105 c.p.c. che si può realizzare esclusivamente attraverso un conferimento di una nuova procura da parte del legale rappresentante della società incorporante ad un proprio procuratore.


I termini per la notifica vengono «riaperti» se l’indirizzo è inesistente

Se la prima tempestiva notifica di un avviso di accertamento non è andata a buon fine per causa indipendente dalle Entrate, come l’inesistenza dell’indirizzo, la seconda notifica validamente eseguita presso l’indirizzo corretto, seppur a termini decadenziali ormai spirati, ha effetto retroattivo alla data della prima notifica, quando il potere di accertamento era ancora validamente esercitabile. Con questa argomentazione, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio con sentenza n. 3436/8/2021 ha salvato un accertamento notificato tre mesi dopo la scadenza dei termini.
La C.t.r. ha mutuato per la notifica degli atti impositivi quello che la Corte Suprema di Cassazione aveva stabilito per la notifica degli atti processuali: qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere di richiedere all’ufficiale giudiziario/Messo Comunale la ripresa del procedimento notificatorio. Ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, considerati i tempi necessari per conoscerne l’esito negativo e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (Corte di Cassazione, Sezioni Unite 17352/2009, Corte Suprema di Cassazione 4609/2016).
Tuttavia – è stato aggiunto – se l’atto è stato consegnato all’ufficio postale per la notifica, ma risulta mancante la relativa cartolina di ritorno, non vi è prova che il mancato perfezionamento dell’intrapresa procedura non sia addebitabile a colpa del notificante; tale circostanza configura una interruzione nella continuità della procedura notificatoria, sicché non può ritenersi avvenuta una ripresa del procedimento notificatorio e gli effetti della seconda notifica non possono essere ricollegati ad atti della prima e, in particolare, alla consegna all’ufficio postale dell’atto da notificare (Corte Suprema di Cassazione 19060/2015).
Nel caso in oggetto, l’accertamento per il 2011 era stato notificato una prima volta l’11 dicembre 2016, ovvero a ridosso del termine decadenziale del 31 dicembre, secondo la formulazione previgente dell’articolo 43 del Dpr 600/1973. La notifica, però, non era andata a buon fine, atteso che l’indirizzo di destinazione (probabilmente desunto dalla dichiarazione del contribuente) era risultato inesistente. L’ufficio aveva esperito, quindi, una seconda notifica a marzo 2017 a un nuovo indirizzo, corretto, seppur a termini decadenziali ormai spirati.
Per i giudici, la procedura notificatoria era stata tempestivamente ripresa, per cui gli effetti retroagivano alla data della prima notifica esperita a dicembre 2016 e, quindi, ancora in tempo utile per l’accertamento del 2011.


Raccomandata spedita e non recapitata. Perfezionamento

Ai fini del perfezionamento del procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c. qualora la raccomandata con avviso di ricevimento sia stata spedita ma, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza, non risulti recapitata al destinatario, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna, il procedimento non può ritenersi perfezionato, anche nella prospettiva meno formalista che esige, comunque, che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità dell’avviso stesso.
È questo il principio ribadito dalla Corte Suprema di Cassazione, sez. 2 civ., con la sentenza n. 20074/2021 del 14 luglio 2021. Nel costante orientamento della Corte Suprema di Cassazione, essa ha sottolineato che «ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.
In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale». Nella sentenza la Corte Suprema di Cassazione non manca di rammentare le diverse pronunce che, in una prospettiva meno formalista, non prevedono che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa debba risultare (Corte costituzionale 3/2010) il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 32201/2018, 2959/2012).
Su queste premesse, nel caso di specie risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento sia stata spedita ma non anche recapitata alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.
Se dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso, recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, non altrettanto può dirsi per la Corte Suprema di Cassazione con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata. La Corte Suprema di Cassazione approda quindi alla nullità della notifica del decreto ingiuntivo, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..


Tecnologia 6G, il debutto nel 2030

Il 5G è in fase avanzata ma non ha raggiunto gran parte del pianeta; eppure, si pensa già al 6G. Sono stati ultimati con successo i test della LG Elettronics per la trasmissione e la ricezione di dati wireless 6G terahertz su 100 metri in un ambiente outdoor.
Ciò significa che alcune linee sono già state poste per un primo sviluppo nel 2028 e l’avvio della commercializzazione del 6G nel 2030. Già tre anni fa la Cina aveva annunciato che stava lavorando sul 6G per arrivare alle prime applicazioni a partire dal 2025.
Quando parliamo di 6G il riferimento è alla sesta generazione di comunicazioni wireless che succederà alla tecnologia wireless 5G. In particolare il 6G, come chiarisce www.key4biz.it, utilizza onde ad alta frequenza (THF), le cosiddette onde sub-millimetriche, per raggiungere velocità 100 volte superiori al 5G, che, in confronto, utilizza onde millimetriche (mmWave). Con l’abilitazione del 6G, la latenza risulterebbe inferiore a un microsecondo con una maggiore larghezza di banda per consentire una connettività avanzata. La tecnologia riuscirebbe a colmare il divario tra il mondo digitale e quello reale.
In una comunicazione la stessa LG chiarisce: «Poiché il 6G THz ha una portata ridotta e sperimenta la perdita di potenza durante la trasmissione e la ricezione tra le antenne una delle maggiori sfide nell’evoluzione del 6G wireless è stata la necessità di un’amplificazione di potenza in grado di generare un segnale stabile attraverso le frequenze a banda ultra larga». Da qui l’importanza per la riuscita del test dell’amplificatore di potenza sviluppato da LG, Fraunhofer HHI e Fraunhofer Institute for Applied Solid State Physics (Iaf), in grado di creare un segnale in uscita stabile fino a 15dBm nella gamma di frequenza tra 155 e 175 GHz. Usata anche la tecnologia di beamforming adattivo che trasforma la direzione del segnale in base ai cambiamenti del canale e della posizione del ricevitore, nonché la commutazione di antenna HGA (High-Gain Antenna) che combina i segnali di uscita di più amplificatori di potenza e li trasmette ad antenne specifiche.
Quindi, per una standardizzazione globale del 6G bisognerà attendere il 2025, mentre per la commercializzazione dovrebbe avvenire entro i quattro anni successivi.


Lavoratore non vaccinato, sospensione e niente stipendio: la decisione del Tribunale di Modena

L’azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19. Lo ha stabilito il Tribunale di Modena, con l’ordinanza n. 2467 dello 23 luglio 2021 che fa il punto sui diversi diritti contrapposti in tempo di pandemia.

«Il datore di lavoro – si legge nella pronuncia – si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori».

Il Tribunale di Modena ricorda come la direttiva Ue 2020/739 del 3 giugno 2020 abbia incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra quindi tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, dettati dal Dlgs 81/2008, quello di tutelare i lavoratori da agenti di rischio esterni. Non basta più l’uso delle mascherine, come invocato dalle due ricorrenti, per proteggersi adeguatamente. Così come il datore di lavoro non è tenuto a fornire al lavoratore ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione, trattandosi di informazioni ormai notorie.

A presentare il ricorso erano state due fisioterapiste di una Rsa assunte da una cooperativa di Modena che le aveva sospese senza retribuzione a seguito del loro rifiuto di vaccinarsi. La sospensione era avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legge 44/2021 che ha imposto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, che quindi non avendo efficacia retroattiva non poteva applicarsi in questo caso.

Il Tribunale ricostruisce allora la vicenda in via generale, delineando il quadro della normativa esistente. Anche se il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può comportare però conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell’idoneità alla mansione. Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiusi vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione.

Non trova pregio neppure l’asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l’inidoneità del lavoratore alla mansione.

Il diritto alla libertà di autodeterminazione – spiega l’ordinanza- deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’articolo 41 della Costituzione.

Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l’utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.

Tutti gli studi clinici condotti finora, conclude il provvedimento, hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19. La circostanza che le autorità regolatorie abbiano autorizzato la somministrazione del vaccino a partire da 12 anni serve ad escludere la natura sperimentale dello stesso, rafforzata dal fatto che allo stato non ci sono evidenze scientifiche che provino il rischio di danni irreversibili a lungo termine.


Invalida notifica utilizzando il servizio “seguimi” di Poste italiane

E’ invalida la notifica eseguita dall’Agenzia delle Entrate in un comune diverso rispetto a quello del domicilio fiscale del contribuente, identificato utilizzando il servizio “seguimi” di Poste italiane. Tale servizio di natura contrattuale, ha lo scopo di far pervenire la corrispondenza all’indirizzo indicato dal richiedente e non può essere assimilato all’elezione di domicilio di cui all’art. 60, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, mancando i requisiti formali prescritti dalla citata disposizione.

Così si è espressa la Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 31479/2019


Notifica cartella: il Messo Comunale/Notificatore non può farsi rappresentare

Per il Giudice di Pace di Roma è violata la L. 112/1999 se il messo notificatore che deposita la cartella esattoriale al Comune non coincide con quello che effettua il tentativo di notifica della stessa.
Irrituale la notifica della cartella di pagamento se, dalla relata di notifica, risulta che la stessa è stata materialmente depositata presso la Casa Comunale a cura del messo notificatore, per temporanea assenza della destinataria, ma trattasi di un soggetto diverso dal messo notificatore che ha tentato la notifica al contribuente occupandosi di spedire la “raccomandata informativa” (CAD).
Tra l’altro, è sempre necessaria la prova dell’effettiva ricezione della raccomandata informativa al contribuente, cosa che non avviene qualora risulti completamente in bianco il frontespizio della ricevuta nel riquadro relativo al mancato recapito. I vizi che conducono all’annullamento della cartella di pagamento travolgono, inoltre, il preavviso di fermo amministrativo collegato alla stessa.
Lo ha chiarito il Giudice di Pace di Roma nella sentenza 12374/2021 pronunciandosi sull’opposizione avanzata dalla proprietaria di un’autovettura contro il provvedimento di preavviso di iscrizione di fermo amministrativo relativo, tra l’altro, a una cartella di pagamento.
In prima battuta il magistrato sottolinea l’ammissibilità dell’opposizione proposta richiamando l’orientamento affermato dalla Corte di Cassazione Sezioni Unite (cfr. sent. n. 11087/2010) e ritenendo sussistente la competenza in materia del Giudice di Pace.
Nel merito, il ricorso viene ritenuto fondato. Dalla relata di notifica risulta che la suddetta cartella è stata depositata presso la Casa Comunale a cura del messo notificatore per temporanea assenza della destinataria.
Tuttavia, in atti vi sono due avvisi di deposito non solo riportanti date diverse, ma ognuno sottoscritto da un diverso messo notificatore. Pertanto, rileva il giudice onorario, non vi è coincidenza tra il messo notificatore che ha effettuato la notifica della cartella in esame e quello che ha depositato presso la Casa Comunale.
Ciò rappresenta un’anomalia stante la previsione di cui all’art. 45 della L. 112/1999: tale norma prevede testualmente che “il concessionario per la notifica delle cartelle di pagamento e degli avvisi contenenti l’intimazione ad adempiere può nominare uno o più messi notificatori”, soggiungendo inoltre che “il messo notificatore esercita le sue funzioni dei comuni compresi nell’ambito del concessionario che lo ha nominato e non può farsi rappresentare né sostituire”.
In aggiunta, il giudice capitolino ribadisce il principio della prova dell’effettiva ricezione della “raccomandata informativa”. Come evidenzia la sentenza, emerge che l’ultimo avviso della spedizione sia stato inviato alla ricorrente, ma non vi è prova della ricezione.
In giudizio, infatti, è stata prodotta una ricevuta il cui frontespizio, nel riquadro relativo al mancato recapito, risulta completamente in bianco, senza data e firma. Di conseguenza si ritiene che l’Agenzia delle Entrate – Riscossione non abbia provato la regolare notifica della cartella di pagamento sottesa all’atto impugnato.
Pertanto, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione non ha dimostrato il regolare espletamento dell’attività inerente al fermo amministrativo, con la conseguenza che, per effetto della mancata notifica della cartella di pagamento, la procedura risulta non valida sotto il profilo formale e sostanziale.
L’annullamento della cartella di pagamento relativa al preavviso di fermo impugnato, ha come conseguenza altresì l’integrale annullamento dello stesso preavviso di fermo, il quale costituisce un atto unico dell’esattore che lo esegue ai sensi della nota dell’Agenzia delle Entrate n. 57413 del 09.04.2003, la quale prevede, in caso di mancato pagamento, l’iscrizione del provvedimento di fermo dei beni iscritti nei pubblici registri del debitore.


La P.E.C. europea

Finalità della P.E.C. europea

L’idea della P.E.C. europea nasce quando il Consiglio Europeo, nelle conclusioni del 27 maggio 2011, invita la Commissione Europea a dare il suo contributo al mercato unico, creando le condizioni necessarie per il riconoscimento reciproco e transfrontaliero di funzioni essenziali come quelle che hanno a che fare con i servizi elettronici di recapito.

A specificarlo è il Regolamento UE 910/2014 “in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno” che nel considerando n. 66 precisa: “È essenziale prevedere un quadro giuridico per agevolare il riconoscimento transfrontaliero tra gli ordinamenti giuridici nazionali esistenti relativi ai servizi elettronici di recapito certificato. Tale quadro potrebbe aprire inoltre per i prestatori di servizi fiduciari dell’Unione nuove opportunità di mercato per l’offerta di nuovi servizi elettronici di recapito certificati paneuropei.”

Cos’è la P.E.C. europea

Dalla premessa appare chiaro che la P.E.C. europea è un servizio di recapito frontaliero certificato o molto più semplicemente è uno strumento elettronico che permette di recapitare messaggi certificati in tutta Europa. Il servizio P.E.C. disponibile in Italia, infatti, ad oggi consente di recapitare messaggi di posta elettronica certificata con lo stesso valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno, solo sul territorio italiano. Grazie alla nuova P.E.C. europea tutto questo può varcare i confini. Si potranno di conseguenza inviare e-mail certificate con valore legale di una raccomandata postale in tutta Europa.

Per fare questo però è necessario adottare schemi interoperabili di eDelivery, ossia di recapito elettronico che risultino conformi ai criteri fissati dall’European Telecommunications Standards Institute (ETSI).

I criteri elaborati dall’Agid

I criteri necessari per rendere le caselle P.E.C. italiane valide in tutta Europa, sono stati elaborati dall’Agid e resi noti il 14 giugno 2021 con il documento “REM SERVICES – Criteri di adozione degli standard ETSI – Policy IT“.

Documento che ha infatti lo scopo di “definire le nuove Regole tecniche conformi ai requisiti funzionali previsti per un servizio elettronico di recapito certificato qualificato dal Regolamento eIDAS, con il quale i gestori italiani si potranno presentare non solo sul mercato interno, ma anche nell’ambito territoriale di applicazione del Regolamento eIDAS beneficiando delle presunzioni legali ivi previste.”

Alla realizzazione del documento hanno preso parte i più importanti gestori di caselle elettroniche certificate presenti in Italia: Aruba, Actalis, Consiglio Nazionale del Notariato, Notartel, InfoCert, InnovaPuglia, Irideos, ITnet, Namirial, Poste Italiane, Register.it, Sogei, Telecom Italia Trust Technologies, Uninfo, AssoCertificatori.

Solo quando saranno terminati i test, che coinvolgono nel 40 soggetti in 15 Paesi UE sarà possibile un dialogo tra i fornitori dei servizi P.E.C. e un utilizzo effettivo della P.E.C. europea da parte di imprese, cittadini e istituzioni.

Requisiti dei servizi di recapito certificato

Tralasciando la parte tecnica del documento dell’Agid, che interesserà senza dubbio gli addetti ai lavori, è necessario ricordare che i criteri indicati nel documento dell’Agenzia per l’Italia Digitale sono stati elaborati nel rispetto di quanto sancito dal Regolamento UE 910-2014, che all’art. 44 si preoccupa di definire i requisiti necessari che devono possedere i servizi elettronici di recapito certificato qualificato.

La norma suddetta richiede in particolare la pluralità dei fornitori, la capacità di garantire un livello elevato di sicurezza per quanto riguarda l’identificazione del mittente, così come del destinatario, prima della trasmissione dei dati. L’invio e la ricezione devono essere inoltre garantiti da una firma elettronica avanzata o da un sigillo elettronico per escludere modifiche non rilevabili dei dati (qualsiasi modifica ai dati necessaria al fine d’inviarli o riceverli è chiaramente indicata al mittente e al destinatario dei dati stessi). Data e ora d’invio e ricezione e qualsiasi modifica dei dati devono essere infine indicate da una validazione temporale elettronica qualificata.

Effetti giuridici del recapito certificato

Il precedente art. 43 del Regolamento UE 910-2014 si occupa invece di definire quelli che sono gli effetti giuridici di un servizio elettronico di recapito certificato.

La norma a questo proposito dispone che i dati inviati e ricevuti tramite un servizio elettronico di recapito certificato sono ammissibili come prova nei procedimenti giudiziali anche se hanno forma elettronica e anche se non “soddisfano i requisiti del servizio elettronico di recapito certificato qualificato.”

I dati inviati e ricevuti tramite servizio elettronico di recapito certificato qualificato inoltre beneficiano della presunzione:

  • d’integrità;
  • dell’invio di tali dati da parte del mittente identificato;
  • della loro ricezione da parte del destinatario identificato;
  • di accuratezza della data e dell’ora dell’invio;
  • della ricezione indicata dal servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Conservazione dei documenti informatici: definiti i nuovi criteri per la fornitura del servizio

E’ stato adottato dall’AgID (Agenzia per l’Italia Digitale) il regolamento che definisce i nuovi criteri per la fornitura del servizio di conservazione dei documenti informatici, fissando in un apposito allegato i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione necessari per la fornitura del servizio.
Il regolamento integra quanto già definito nell’ambito delle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione del documento informatico, emanate a settembre 2020.

Il provvedimento, determinazione n. 455/2021, composto di due allegati tecnici, è stato emanato secondo quanto previsto dall’art. 34, comma 1-bis del D.Lgs. n. 82/2005, come integrato e modificato dal Decreto Semplificazione (D.L. 76/2020), convertito con L. n. 120/2020 ed entrerà in vigore il 1° gennaio 2022, data a partire dalla quale è abrogata la circolare n. 65/2014.

Il Decreto Semplificazione ha apportato numerose modifiche al Codice dell’amministrazione digitale (CAD), tra cui alcune relative al servizio di conservazione dei documenti informatici. In particolare l’art. 34, comma 1-bis, prevede che:

“Le pubbliche amministrazioni possono procedere alla conservazione dei documenti informatici:

a) all’interno della propria struttura organizzativa;

b) affidandola, in modo totale o parziale, nel rispetto della disciplina vigente, ad altri soggetti, pubblici o privati che possiedono i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione individuati, nel rispetto della disciplina europea, nelle Linee guida di cui all’art. 71 relative alla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici nonché in un regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici emanato da AgID, avuto riguardo all’esigenza di assicurare la conformità dei documenti conservati agli originali nonché la qualità e la sicurezza del sistema di conservazione.”.

La conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni da parte di soggetti esterni deve, quindi, uniformarsi – nel rispetto della disciplina europea – alle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici nonché ad un regolamento, adottati entrambi dall’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), che segnano il superamento del precedente meccanismo di accreditamento dei conservatori.

In quest’ottica, il regolamento determina i nuovi criteri per la fornitura del servizio di conservazione dei documenti informatici, fissando in un apposito allegato i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione necessari per la fornitura del servizio, ad integrazione di quanto già definito nell’ambito delle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione del documento informatico, emanate a settembre 2020.

Il regolamento prevede, altresì, l’istituzione di un marketplace per i servizi di conservazione quale sezione autonoma del Cloud Marketplace cui possono iscriversi i soggetti, pubblici e privati, che intendono erogare il servizio di conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni. L’iscrizione al marketplace non è obbligatoria ma i conservatori che intendono partecipare a procedure di affidamento da parte delle pubbliche amministrazioni devono ugualmente possedere i requisiti previsti nel presente regolamento e sono sottoposti all’attività di vigilanza di AgID.

Innanzitutto l’art. 2 del regolamento sancisce che i soggetti che intendono erogare il servizio di conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni devono possedere i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione specificati all’interno dell’allegato A denominato “Requisiti per l’erogazione del servizio di conservazione per conto delle pubbliche amministrazioni”. Gli stessi soggetti possono richiedere l’iscrizione al marketplace per i servizi di conservazione, che sarà istituito da AgID come sezione autonoma del Cloud Marketplace, disciplinato dalle Circolari AgID n. 2 e n. 3 del 9 aprile 2018 (art. 3).

Tale iscrizione non è obbligatoria ma le amministrazioni che affidano il servizio di conservazione dei documenti informatici a soggetti non iscritti nella sezione “servizi di conservazione” del Cloud Marketplace hanno l’obbligo di trasmettere ad AgID i relativi contratti entro trenta giorni dalla stipula affinché l’Agenzia possa svolgere le attività di verifica dei requisiti generali nonché dei requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione di cui all’allegato A al regolamento (art. 7).

Leggi: Regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici 2021


La notifica presso la sede legale dell’ente è sempre corretta

Secondo i supremi giudici, tale luogo prevale anche sulla sede effettiva o “di direzione”, per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria
La Corte Suprema di cassazione ha ribadito che è onere del contribuente indicare all’Amministrazione finanziaria il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, non potendosi addossare all’Agenzia delle entrate l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, ad eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui all’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973. Questi i contenuti della sentenza n. 14579, depositata il 25 maggio 2021.
Una sas impugnava una cartella di pagamento, consequenziale a un’iscrizione a ruolo effettuata a titolo provvisorio, ex articolo 15 del Dpr 602/1973, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui veniva accertato dall’erario l’indebito utilizzo di crediti di imposta.
La Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto tardivo. La sas proseguiva nella richiesta di annullamento avanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, che rigettava il gravame della parte privata.
In particolare, la C.T.R. riteneva corretta la notificazione della cartella di pagamento, presso la sede legale della contribuente, costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario ad una certa data. Inoltre, specificava il giudice d’appello che, per quanto ci occupa, ai sensi dell’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973 è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’articolo 145 c.p.c..
Il Contribuente proponeva ricorso per cassazione affidandolo a quattro motivi di diritto, di cui solo il primo viene considerato dalla suprema Corte.
In questo senso, la sas deduceva, in relazione all’articolo 360, primo comma, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 60, primo comma, lettera c) del Dpr 600/1973 e dell’articolo 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla, successiva, notificazione al legale rappresentante. Deduceva, infatti, la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolgeva l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla C.T.R. della Campania.
Lamentava, altresì, che il procedimento notificatorio di cui all’articolo 60, comma primo, lettera e) del Dpr citato non poteva ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiedeva necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non poteva ritenersi perfezionato.
La Corte Suprema di Cassazione, nel rigettare il ricorso della parte privata, rileva l’infondatezza del primo motivo dedotto, posto che non era stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio, per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cassazione nn. 9567/2020; 4675/2020; 25450/2019; 17198/2019; 25680/2016; 15258/2015).
L’orientamento, secondo i togati di legittimità, è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come, del resto, in caso di fallimento, prevede l’articolo 49 della legge fallimentare nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione finanziaria l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, ad eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui all’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973 (Cassazione n. 11504/2018).
La Corte di legittimità passa poi, a trattare la doglianza relativa alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa, in caso di notificazione effettuata a termini dell’articolo 60, comma 1, lettera e) del Dpr 600/1973.
In questo senso, osserva la Corte Suprema di Cassazione, l’insegnamento giurisprudenziale è concorde nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il Messo Comunale abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorché vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cassazione nn. 3378/2020; 5902/2019; 25095/2006; 9922/2003).
L’orientamento richiamato, in ultima analisi, è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.
In questo senso, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “la disciplina delle notificazioni degli atti tributari si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sull’onere preventivo del contribuente di indicare all’Ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e di tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, sicché il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’Ufficio procedente ad eseguire le notifiche comunque nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui alla lett. e) dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973″ (Cassazione n. 23509/2016)”.
Ciò proprio nell’ottica enunciata dall’articolo 10 dello Statuto del contribuente, secondo cui i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.