È truffa continuata per troppi coffee break, ma il reato non è punito se il danno alla P.A. è lieve

Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione, habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine. La Cassazione analizza la condotta prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro, calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza timbrare il cartellino. Per la Corte Suprema di Cassazione la sentenza della Corte d’Appello era contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non punibilità.
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio, la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis c.p.. Secondo la giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile. Il giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette. Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato. Anche nella sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei patiti del coffee break non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno uno stipendio più pesante.


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Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 13/10/2009) 10/12/2009, n. 7722

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 10911 del 2003, proposto da:

D.A., rappresentata e difesa dall’avv. Gaetano Sciannamea, con domicilio eletto presso Dario Piccioni in Roma, via Emilia, 81;

contro

Università degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del TAR PUGLIA – BARI:Sezione I n. 03931/2002, resa tra le parti, concernente INQUADRAMENTO NELLA QUALIFICA FUNZIONALE DI COLLABORATORE AMMINISTRATIVO.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 ottobre 2009 il Consigliere di Stato Maurizio Meschino e uditi per le parti l’avv.to Piccioni per delega dell’avv.to Sciannamea e l’avv.to dello Stato Nicoli;

Svolgimento del processo
1. La legge 21 febbraio 1989, n. 63, ha previsto per il personale non docente delle Università, assunto o inquadrato dopo il 1° luglio 1979 e che non aveva quindi beneficiato della legge n. 312 del 1980, la possibilità di essere inquadrato sulla base delle mansioni effettivamente svolte, disponendo allo scopo la valutazione da parte dell’Amministrazione della “Congruenza tra il profilo per il quale è presentata la domanda e l’organizzazione del lavoro propria della struttura presso la quale gli aventi titoli prestano servizio” (art. 1, comma 3).

2. In applicazione di questa normativa la ricorrente in epigrafe, dipendente dell’Università degli studi di Bari, inquadrata nella IV qualifica funzionale, profilo professionale di agente amministrativo (area amministrativocontabile), con istanza presentata al Consiglio di amministrazione dell’Università, ha chiesto di essere inquadrata nella settima qualifica funzionale, profilo collaboratore amministrativo.

3. L’istanza è stata rigettata venendo comunicato alla ricorrente, con nota n. 22016 del 29 luglio 1992, che “il Consiglio di Amministrazione di questa Università, nella seduta del 28.2.1992 ha deliberato che il profilo chiesto di Collaboratore Amministrativo per il quale la S.V. ha prodotto istanza, il giorno 18.11.1991, di inquadramento, non è congruente con l’organizzazione del lavoro propria della struttura presso la quale Ella presta o ha prestato servizio. Lo stesso Consiglio, inoltre, nella medesima seduta ha ritenuto congruo il profilo professionale di Assistente amministrativo per il quale la S.V. ha prodotto istanza in via subordinata.”

4. Con ricorso n. 3397 del 1992, presentato al TAR per la Puglia, la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego all’inquadramento adottato dal Consiglio di amministrazione dell’Università degli studi di Bari nella seduta del 28 febbraio 1992.

5. Il TAR, sentenza n. 3931 del 2002, ha respinto il ricorso nulla pronunciando sulle spese non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione resistente.

Nella sentenza, quanto alla considerazione delle mansioni svolte dalla ricorrente, richiamata l’attinenza al merito della valutazione di congruità dell’Amministrazione prevista dalla legge, e perciò la sua insindacabilità da parte del Giudice amministrativo se non per manifesti errori di fatto o per profili di eccesso di potere, si afferma che tali mansioni, come attestate dai superiori, non rivestono le caratteristiche di autonomia e di complessità proprie della VII qualifica funzionale e, quanto alla disparità di trattamento, asserita dalla ricorrente a causa dell’attribuzione della VII ed VIII qualifica funzionale a dipendenti appartenenti alla IV qualifica in servizio presso la medesima struttura e svolgenti le sue stesse mansioni, si afferma che il giudizio sfavorevole sulla richiesta della ricorrente non è stato adottato per il mancato riconoscimento all’interno della struttura di attribuzioni funzionali corrispondenti alla VII o VIII qualifica ma sulla base di valutazioni attinenti alle mansioni da ciascuno effettivamente svolte.

6. Con l’appello in epigrafe si censura la sentenza di primo grado, chiedendone l’annullamento, per non aver riconosciuto:

lo scorretto esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione a fronte delle mansioni effettivamente svolte dalla ricorrente, alla quale sono stati reiteratamente affidati incarichi richiedenti autonomia, qualificazione e complessità propri della VII qualifica funzionale, come ampiamente provato dalla documentazione prodotta in giudizio;

la intervenuta disparità di trattamento a causa dell’attribuzione della VII qualifica funzionale a colleghi della ricorrente, anche inizialmente appartenenti alla IV qualifica ed esercitanti mansioni del tutto identiche a quelle da lei svolte, come sarebbe definitivamente provato dalla documentazione al riguardo, incluse le “schede” redatte per ciascuno dall’Amministrazione sullo svolgimento delle mansioni superiori; documentazione richiesta in primo grado, non depositata dall’Amministrazione e di cui si reitera la richiesta con il ricorso in esame.

7. Il Collegio nell’udienza del 10 marzo 2009 ha ritenuto necessaria, ai fini del decidere, l’acquisizione di documentazione da parte dell’Università degli Studi di Bari e ha perciò disposto, con ordinanza istruttoria n. 2770 del 2009, il deposito da parte dell’Università presso la Segreteria della Sezione, nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della decisione, o dalla sua notifica se anteriore, di copia conforme:

della scheda di rilevazione delle mansioni svolte dall’appellante redatta al fine dell’inquadramento nelle qualifiche funzionali in applicazione del procedimento di cui all’articolo 1 e seguenti della legge n. 63 del 1989;

delle schede di rilevazione delle mansioni svolte da altri dipendenti, inizialmente inquadrati nella IV qualifica funzionale al pari dell’appellante, ed inquadrati, ad esito del procedimento suddetto, nella VII qualifica funzionale (come sarebbe, si asserisce nell’appello, per i signori Iozzia e Pizzi) o in qualifica superiore;

di ogni ulteriore documentazione, verbale, atto e provvedimento afferenti allo svolgimento e conclusione dei procedimenti attuati per l’inquadramento dell’appellante e dei dipendenti suddetti ai sensi della normativa di legge citata.

Con la medesima ordinanza l’udienza per la trattazione è stata fissata al 13 ottobre 2009.

8. In data 10 luglio 2009 è pervenuta documentazione da parte dell’Università degli Studi di Bari, accompagnata dalla precisazione che l’art. 1 della legge n. 63 del 1989 “non prevedeva né la redazione né tantomeno la valutazione di alcuna scheda di “rilevamento mansioni” utilizzabile ai fini dell’inquadramento del personale tecnicoamministrativo delle Università nella qualifica superiore” e che i sig.ri Iozzia Giovanni e Pizzi Ada “a far tempo dal 1.1.90, entrambi sono transitati al Politecnico di Bari”.

In date 3 settembre e 1° ottobre 2009 la ricorrente ha depositato ulteriore documentazione (in particolare, copia dei decreti rettorali, adottati a partire dal 4.7.2001, con i quali è stata delegata a rappresentare l’Università con il potere di conciliare in controversie in materia di lavoro) e memoria difensiva.

9. All’udienza del 13 ottobre 2009 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione
1. Le censure dedotte in appello non sono fondate.

Infatti:

a) nel contesto della normativa di cui alla legge n. 63 del 1989 per il raffronto fra le mansioni svolte e le qualifiche richieste si fa riferimento alla declaratoria di tali qualifiche data con il D.P.C.M. 24 settembre 1981, nel quale le mansioni proprie nell’area amministrativocontabile della VI qualifica (profilo di Assistente amministrativo) e della VII qualifica (profilo di Collaboratore amministrativo) sono caratterizzate, le prime, dall’espletamento “con autonomia operativa” di “procedure attinenti il curriculum degli studenti, le carriere del personale, l’istruzione di atti amministrativi per le quali sono richieste conoscenze teoricopratiche necessarie per la corretta applicazione di norme, nell’ambito di istruzioni ed elaborazioni da parte di appartenenti a qualifiche superiori”, e, le seconde, dalla esecuzione diretta di “procedure complesse in particolare quelle che sono soggette a frequente variabilità”, nonché dalla “esperienza per l’espletamento completo del lavoro affidato all’unità operativa”, con responsabilità di fronte ai superiori “degli atti istruttori assegnati” a tale unità.

b) le mansioni della VII qualifica attingono perciò un grado di complessità superiore a quelle proprie della VI per il contenuto delle procedure da svolgere, in particolare a ragione della loro variabilità e della competenza e responsabilità richieste, poiché relative non soltanto alla propria prestazione ma anche all’esperienza del lavoro dell’unità operativa nel suo complesso e comportanti responsabilità diretta di fronte ai superiori;

c) a fronte di ciò le mansioni indicate dalla ricorrente in primo grado e richiamate nel ricorso in esame, consistono nella istruttoria delle pratiche per il recupero crediti e per l’ammortamento titoli, con l’attivazione dei relativi contatti con gli uffici interessati, nella redazione di certificati per docenti medici convenzionati, nell’aver curato con autonomia il servizio di spedalità, nell’assunzione di informazioni e certificati in processi civili e penali, nella predisposizione di atti di ammissione al passivo fallimentare, nella rappresentanza in giudizio dell’Università in un procedimento per adeguamento canoni;

d) la ricorrente cita altresì gli incarichi di rappresentanza dell’Università in giudizi per controversie di lavoro e davanti al Collegio di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro di Bari, nonché di redazione, con altri, della bozza di regolamento sulle modalità e criteri per i controlli a campione sulle autocertificazioni, che, sulla base della loro elencazione nel ricorso di primo grado e della documentazione in atti, risultano attribuiti dopo l’adozione del provvedimento impugnato;

e) di conseguenza è corretta l’affermazione della sentenza di primo grado per cui le mansioni sopra indicate, allegate dalla ricorrente ai fini del procedimento di cui all’art. 1 della legge n. 63 del 1989, non sono coerenti con la descrizione di quelle proprie della VII qualifica, riguardando compiti di certo comportanti l’autonomia operativa e le conoscenze teoricopratiche proprie delle attività della VI qualifica ma non caratterizzati dall’ulteriore grado di autonomia proprio delle mansioni della VII, non potendo i compiti suddetti definirsi di esecuzione di procedure complesse, né in linea generale, né quanto all’adattamento delle conoscenze ed esperienze a fattispecie variabili ovvero all’assunzione di responsabilità dirette di fronte ai superiori rispetto all’operato dell’unità operativa di appartenenza;

f) sulla questione dell’asserita disparità di trattamento, al cui approfondimento è stata volta la richiesta istruttoria fatta con ordinanza all’Amministrazione, si rileva che nella documentazione pervenuta figura l’attestazione delle mansioni svolte dalla signora Ada Pizzi resa, il 4 gennaio 1991, dal Direttore della divisione presso cui la signora era impiegata al Presidente della Commissione istruttoria insediata ai sensi dell’art. 1 della legge n. 63 del 1989; attestazione che il Collegio ritiene di poter esaminare a raffronto con quelle, depositate in giudizio, dei responsabili degli uffici presso cui ha operato la ricorrente (in particolare a firma dei dott.ri Marabello, Squeo, De Santis e Terlizzi, di data 25 e 26 gennaio 1990, 23 maggio e 10 luglio 1991), in quanto anch’esse sottoposte alla Commissione dalla ricorrente con l’istanza di inquadramento e recanti la descrizione di compiti richiamata nel precedente punto c);

g) le mansioni attestate per la signora Pizzi risultano ascrivibili alla VII qualifica poiché svolte attraverso la redazione di pareri giuridici per gli organi decisionali dell’Università e per i superiori, la gestione di controversie di lavoro con l’elaborazione di proposte di soluzione, la composizione di controversie con ditte fornitrici, l’esame di questioni relative all’edilizia e problematiche connesse, la completa istruttoria delle pratiche con assunzione di diretta responsabilità al riguardo nei confronti dei superiori gerarchici in assenza del capo ufficio: procedure, perciò, tutte complesse caratterizzate dalla necessità di ricerca dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale e da variabilità del contesto di riferimento, come anche attestato;

h) dovendosi concludere, sulla base delle considerazioni svolte, per la legittimità del provvedimento impugnato e per la correttezza dell’affermazione, fatta nella sentenza di primo grado, per cui il giudizio sfavorevole sulla richiesta della ricorrente non è stato adottato per il mancato riconoscimento all’interno della struttura di attribuzioni funzionali corrispondenti alla VII o VIII qualifica ma sulla base di valutazioni attinenti alle mansioni da ciascuno effettivamente svolte.

3. Alla luce di quanto sopra il ricorso risulta infondato e deve perciò essere respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione sesta, respinge il ricorso in epigrafe.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 ottobre 2009 con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Consigliere

Domenico Cafini, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere, Estensore

Bruno Rosario Polito, Consigliere


Palermo, obbligo di firma in caserma per 18 “furbetti del cartellino”

PALERMO. Ennesimo caso di «furbetti del cartellino» a Palermo. I carabinieri del Nucleo Investigativo di Palermo e la Polizia Municipale hanno eseguito un’ordinanza di applicazione della misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per 18 dipendenti delle società «Reset» e «Coime», partecipate dal Comune: sono accusati di falsa attestazione di presenza in servizio e truffa ai danni dell’Amministrazione. L’indagine, coordinata dalla procura, è iniziata dopo alcune segnalazioni anonime. Gli inquirenti hanno accertato un fenomeno di assenteismo di massa – 2000 le timbrature sospette – di 18 dipendenti dell’ufficio comunale che si occupa di impianti cimiteriali. In particolare, l’attività d’indagine svolta dal carabinieri si è concentrata sulle assenze dei dipendenti, sia comunali sia delle società partecipate «Reset» e «Coime», che prestano servizio all’interno degli uffici dei Servizi Cimiteriali del Comune di Palermo, in via Lincoln. I militari hanno scoperto che gli impiegati finiti sotto inchiesta timbravano per altri colleghi per fingerne la presenza in servizio o consentire loro di assentarsi durante il lavoro. Nei 5 mesi d’indagine, i militari hanno documentato quasi 2.000 «timbrature sospette», di cui 240 sviluppate e contestate. Circostanze che testimoniano che si trattava di un fenomeno diffuso tra gran parte dei dipendenti dell’ufficio comunale. Gli agenti della polizia municipale hanno indagato invece su un gruppo di dipendenti comunali addetti ai servizi di assistenza ai funerali e impiegati, dunque, prevalentemente in mansioni esterne. Sovente, piuttosto che assolvere i loro compiti di assistenza, stavano in giro per la città per sbrigare commissioni personali o rientravano in ufficio in anticipo rispetto all’orario previsto.


La notifica via PEC non è sempre valida

La CTP di Roma ribadisce l’invalidità della notifica delle cartelle di pagamento effettuata da un indirizzo p.e.c. delle Entrate inidoneo a legittimarla

Molti contribuenti laziali che hanno ricevuto una cartella di pagamento dall’Agenzia delle entrate potranno tirare un respiro di sollievo grazie a una conferma di recente arrivata dalla Commissione tributaria provinciale di Roma con la sentenza n. 9274/2020.
Essa ha infatti ribadito che l’indirizzo p.e.c. “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it” non è idoneo a essere utilizzato come mezzo per fare una notifica valida.
Tale indirizzo, del resto, non risulta dai registri ufficiali Reginde o Indice PA e non può essere riferito all’agente della riscossione neanche facendo ricorso al sito web dell’Agenzia delle entrate.
Come già specificato in più occasioni dalla giurisprudenza, invece, la notificazione via p.e.c., per essere valida, deve essere fatta esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante che risulti da pubblici elenchi. In caso contrario, la cartella di pagamento deve considerarsi inesistente.


PERSEO – opzione passaggio da TFS a TFR

Si informano i Sigg. dipendenti in regime previdenziale di trattamento di fine servizio (TFS), assunti prima dell’1/1/2001, che il Fondo di previdenza complementare Perseo Sirio per i lavoratori della Pubblica Amministrazione ha reso nota la possibilità di iscriversi al Fondo entro il 31.12.2020 per non perdere alcune peculiarità descritte nella brochure informativa sotto riportata.

Se interessati, potete contattare direttamente il Fondo di Previdenza Complementare e visitarne il sito:
sito:              https://www.fondoperseosirio.it/ 
campagna TFR:        https://campagnatfr.fondoperseosirio.it/
numero telefono:         06 85304484
mail:               consulenza@perseosirio.it
orari:              Lun-Ven 9.30-13.00

Leggi: Comunicato PERSEO – opzione passaggio da TFS a TFR
Leggi: Brochure 2020


Multa annullata se notificata oltre 90 giorni dall’accertamento

Il Giudice di Pace di Ivrea annulla la sanzione: il verbale per violazione del C.d.S. è stato notificato oltre il termine di 90 giorni dall’accertamento in caso di mancata immediata contestazione
Va annullato il verbale per violazione del Codice della Strada notificato oltre il termine di 90 giorni dall’accertamento previsto dalla legge in caso di mancata immediata contestazione dell’infrazione. Lo ha deciso il Giudice di Pace di Ivrea in una sentenza depositata il 4 novembre 2020, accogliendo l’opposizione a sanzione amministrativa di una conducente, multata per violazione dell’articolo 146 del Codice della Strada, infrazione rilevata tramite strumentazione “Redvolution”.
Nel dettaglio, l’opponente ha chiesto l’annullamento del verbale eccependo, tra l’altro, l’avvenuta prescrizione del termine di notifica dello stesso. Doglianza che il magistrato onorario ritiene meritevole di accoglimento.
Come si legge nella sentenza, il verbale inerente la violazione di norme del Codice della Strada, qualora la contestazione non avvenga nell’immediatezza del fatto, dovrà essere notificato entro 90 giorni dalla data della sua commessa infrazione.
Si tratta di una regola imposta dall’art. 201 del Codice della Strada in quale prescrive, qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, che il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, debba, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore o ad altro soggetto (cfr. art. 196 C.d.S.) quando questi non sia stato identificato.
Una conclusione ribadita anche dalla Suprema Corte che, nella sentenza n. 7066/2018, ha ribadito che, “qualora sia impossibile procedere alla contestazione immediata, il verbale deve essere notificato al trasgressore entro il termine fissato dall’art. 201 C.d.S. (novanta giorni, a seguito della modifica apportata con l’art. 36 della legge n. 120/2010), salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’ultima parte del citato art. 201, e cioè che non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile”.
Nel caso in esame, la notifica, riferita a un verbale del 21 novembre 2019, è stata eseguita in data 27 febbraio 2020. È di tutta evidenza, secondo il giudice onorario, che la notifica del provvedimento è stata fatta oltre il termine di 90 giorni previsto dalla legge in caso di mancata immediata contestazione dell’infrazione.
Ancora, nella specie, la mancata tempestiva notifica del verbale non risulta imputabile all’amministrazione convenuta, avendo questa provveduto all’invio dello stesso al corretto indirizzo anagrafico della ricorrente, nei tempi previsti. Tuttavia, le Poste hanno restituito il plico al Comune che lo ha rinotificato, purtroppo oltre il termine di 90 giorni dall’infrazione.
Ciononostante, ha concluso il magistrato, la non tempestiva notifica dell’infrazione non può essere neppure imputabile alla ricorrente e dunque le relative conseguenze non potranno incidere negativamente sulla stessa. Da qui l’annullamento del provvedimento e la decisione di compensare le spese.


Se si rinuncia alla pausa pranzo i buoni pasto non sono dovuti

Per la Corte di Cassazione non ha diritto ai buoni pasto il/la dipendente che, rinunciando alla pausa pranzo, fa venir meno il presupposto necessario al loro riconoscimento.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22985/2020 ha chiarito un concetto semplice e logico: nel momento in cui il lavoratore rinuncia alla pausa pranzo, non può pretendere il controvalore dei buoni pasto. Gli stessi hanno natura assistenziale e non retributiva, per cui se il dipendente sceglie di non fruire della pausa, che costituisce il presupposto per la concessione dei buoni, non può poi pretendere dal datore il controvalore in denaro. 
Un’addetta alla cancelleria del ministero della Giustizia presta servizio dal 2001 al 2005 dalle ore 8.00 alle ore 15.12, per cinque giorni la settimana, rinunciando alla pausa pranzo, con il consenso della Amministrazione di appartenenza. In questo periodo la lavoratrice non ha percepito i buoni pasto, per cui agisce in giudizio per ottenerne il valore in denaro e il conseguente risarcimento del danno. Il Tribunale però rigetta la domanda e la Corte d’Appello conferma la decisione di primo grado in quanto l’art. 4 del CCNL prevede che per usufruire dei buoni pasto è necessario effettuare la pausa pranzo.
La Corte d’Appello giustifica la propria decisione, richiamando anche la circolare del Ministero della Giustizia del 10 febbraio 1998, che all’art. 3, comma 3 prevede che i buoni pasti spettino anche: “al dipendente che articola il proprio orario di lavoro su cinque giorni settimanali (secondo la disciplina prevista dall’art. 22, l. n. 724/1994, come modificata dall’art. 6, comma 5, d.l. n. 79/1997, convertito in l. n. 140/1997), per ogni giorno di prolungamento dell’orario ordinario oltre le sei ore con la pausa per il pranzo. Tale condizione è ovviamente correlata alle concrete modalità di distribuzione dell’orario di lavoro nell’arco di cinque giorni”.


Condannato l’ente che diffonde dati personali di un dipendente

La Corte di Cassazione ha ribadito che un ente pubblico deve pagare i danni morali per la diffusione delle note professionali negative di una dipendente
Una dipendente ha impugnato dinanzi al Tribunale il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012 con cui era stato respinto il reclamo da essa proposto per lamentare l’illecito trattamento di propri dati personali e sensibili commesso ai suoi danni dalla Dirigente della sede INPDAP, ora INPS, nel 2011.
Secondo la ricorrente, la predetta Dirigente aveva trattato dati personali riservati in modo illecito, disponendo che la comunicazione degli addebiti professionali mossi nei suoi confronti e contenuti in alcune note dirigenziali, preliminari alla revoca della sua posizione di “capo area pensioni”, avvenisse brevi manu e a vista, a mezzo di addetto alla segreteria non preposto al trattamento di dati personali, senza alcuna precauzione o cautela, come “l’inserimento in un plico o in una busta, in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 del punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 e delle norme INPDAP, Protocollo relazioni sindacali, punto B.3″.
Inoltre, la ricorrente aveva lamentato il fatto che la Dirigente, in occasione di un incontro sindacale per la discussione della bozza di un ordine di servizio per la riorganizzazione della sede, aveva dichiarato a verbale che l’ordine di servizio era stato preparato consultando alcuni soggetti coinvolti nella stesura del provvedimento, che erano quindi venuti a conoscenza di suoi dati personali e sensibili e di pesanti addebiti relativi alla sua professionalità.
Tanto premesso, la ricorrente ha dedotto la nullità e l’ingiustizia del provvedimento del Garante, chiedendone l’annullamento, l’accertamento dell’illegittimità del trattamento dei propri dati personali e la condanna dell’INPS e dello stesso Garante per la protezione dei dati personali al risarcimento dei danni.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale ha annullato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012, ha accolto parzialmente la domanda risarcitoria, condannando l’INPS a pagare alla ricorrente la somma di euro 10.000,00 e ha respinto la domanda risarcitoria nei confronti del Garante; ha condannato l’INPS a rifondere le spese di lite alla ricorrente, compensando le spese fra di essa e il Garante.
Con riferimento in particolare alla parte del ricorso, l’INPS denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’art. 2050 c.c. nonché dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7, in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge.
L’INPS sostiene che per potersi apprezzare una lesione ingiustificabile in tema di dati personali, suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, ex D.Lgs. n. 196 del 2003, non è sufficiente la mera violazione ma occorre una violazione sensibilmente offensiva, in difetto di dimostrazione di un pregiudizio significativo sofferto in conseguenza.
Nella fattispecie mancava in concreto la prova della gravità della lesione e della serietà del danno.
L’orientamento giurisprudenziale più recente, condiviso anche dal Tribunale e conforme agli indirizzi della Corte di Cassazione (n. 207 del 8 gennaio 2019), riconduce l’illecito trattamento di dati personali ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, anche alla luce dell’esplicito rinvio compiuto dalla legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 applicabile pro tempore) all’art. 2050 c.c..
Pertanto, il danneggiato che lamenti la lesione dell’interesse non patrimoniale può limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno e del nesso di causalità rispetto al trattamento illecito, mentre spetta al danneggiante titolare del trattamento, eventualmente in solido col responsabile, dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Questo schema è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (articolo 82.3 GDPR) che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountability) addossa al titolare del trattamento dei dati – eventualmente in solido con il responsabile il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.).
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di onere della prova, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dal regime più favorevole dell’onere della prova, descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano [Detta anche aquiliana (dalla lex Aquilia del 287 a.C., che per prima disciplinò, nel diritto romano, la responsabilità ex delicto), è la responsabilità civile che sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 del c.c.)]., nonché dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità.
Per altro verso, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato) alla stregua dei parametri generali scolpiti dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 2697226975 dell’11 novembre 2008; infatti anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost., di cui la regola di tolleranza della lesione minima costituisce intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del Codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.
Il relativo accertamento di fatto è tuttavia rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale.
Il titolare del trattamento, per non incorrere in responsabilità deve dimostrare che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile e non può limitarsi alla prova negativa di non aver violato le norme (e quindi di essersi conformato ai precetti), ma occorre la prova positiva di aver valutato autonomamente il rischio di impresa, purché tipico, cioè prevedibile, e attuato le misure organizzative e di sicurezza tali da eliminare o ridurre il rischio connesso alla sua attività. In ogni caso, come lo stesso Istituto ricorrente riconosce, l’accertamento del danno non patrimoniale è un accertamento di fatto, “rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (cfr. sent. 16133/2014).
La Corte di Cassazione osserva che la pronuncia impugnata non si è sottratta alla corretta applicazione dei principi illustrati, richiedendo l’allegazione e la prova da parte della parte danneggiata del danno-conseguenza, e ribadendo che il danno risarcibile non si identificava con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le sue conseguenze causali.
Ciò ha condotto il Tribunale ad escludere un danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica ma a ravvisare un danno non patrimoniale da sofferenza morale, pure dedotto da parte attrice e ritenuto dimostrato sulla base di un ragionamento presuntivo fondato su regole di esperienza.
Nel respingere la parte del ricorso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19328, del 17 settembre 2020, evidenzia che nel risarcimento i giudici hanno comunque tenuto conto dell’ambiente circoscritto all’ufficio in cui era circolare la notizia.


Stop a cartelle e pignoramenti per il 2020

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale”
Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 260 del 20 ottobre del decreto legge n. 129  sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale” diventa ufficiale lo stop dell’attività degli Agenti di riscossione fino al termine del 2020. Il provvedimento entra in vigore dal giorno successivo alla sua ufficialità. Il decreto sospende i termini di notifica e di pagamento relativi ai principali atti della riscossione relativi alle entrate tributarie e non tributarie.

A fornire dettagliate spiegazioni sui casi delle nuove notifiche di atti di pagamento che il decreto Agosto aveva lasciato irrisolto ci pensano i chiarimenti nuove faq che l’Agenzia delle entrate-Riscossione: il concessionario della riscossione spiega che fino al 31 dicembre non vi saranno notifiche, nemmeno via Pec, di cartelle di pagamento, avvisi di addebito e di ogni altro atto della riscossione.

Restano sospesi fino alle fine dell’anno anche gli obblighi derivanti dai pignoramenti presso terzi effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto Rilancio (19/5/2020), su stipendi, salari, altre indennità relative al rapporto di lavoro o impiego, nonché a titolo di pensioni e trattamenti assimilati. Per quanto riguarda i pagamenti sospesi tutti i versamenti oggetto di sospensione dovranno essere effettuati entro il 31 gennaio 2021.

La proroga, però, non abbraccia tutte le cartelle esattoriali. Ad esempio per le rate in scadenza nel 2020 della rottamazione-ter e del saldo e stralcio, il termine di pagamento rimane fissato al 10 dicembre 2020, come previsto dal dl n. 34/2020 decreto rilancio. Lo slittamento delle notifiche riguarda solo i carichi trasmessi all’Agenzia delle Entrate Riscossione dall’8 marzo fino al 31 dicembre 2020, sempre che non rientrino tra quelli interessati dalla proroga introdotta dal decreto Rilancio. Restano valide le proroghe già definite, mentre alcune cartelle in via di scadenza o di prescrizione non sono comprese: ad esempio l’Imu e la Tari, il bollo auto o altre entrate patrimoniali, come i contributi previdenziali.

Per questi tributi e tasse subentra ora la proroga di 12 mesi, limitatamente ai termini di prescrizione e decadenza a fine 2021 e ai carichi affidati all’Ader in tutto il periodo di sospensione.
Ancora c’è una proroga specifica che riguarda i carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all’agente della riscossione durante il periodo di sospensione. Vengono prorogati di 12 mesi il termine per la perdita del diritto al discarico ovvero la procedura che consente all’agente della riscossione di “liberarsi” del carico ricevuto, comunicando all’ente creditore l’inesigibilità della pretesa; i termini di decadenza e prescrizione in scadenza nell’anno 2021 per la notifica delle cartelle di pagamento.

Nel primo caso è stabilito che l’agente della riscossione non può chiedere il discarico, e pertanto resta responsabile verso l’ente affidante, se non ha notificato la cartella di pagamento prima del nono mese successivo a quello di ricezione del ruolo. Il decreto legge interviene su tale disposizione, prevedendo un differimento di 12 mesi riferito a tale scadenza; la proroga opera però sempre e unicamente per gli affidamenti eseguiti all’agente della riscossione nel periodo dall’8 marzo al 31 dicembre 2020.


Furbetti del cartellino, denunciati 8 dipendenti Asl Roma5

ROMA, 27 OTT – Alcuni non facevano neppure ingresso nella sede ma figuravano al lavoro, altri si allontanavano dopo aver “strisciato” regolarmente il proprio badge nel dispositivo di registrazione delle presenze installato all’ingresso della “Casa della Salute” di Zagarolo. Sono otto i dipendenti dell’Asl Roma 5 ai quali i finanzieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini, emesso dalla Procura della Repubblica di Tivoli. In seguito ad alcune segnalazioni, le Fiamme Gialle della compagnia di Frascati hanno monitorato i loro movimenti, posizionando delle telecamere nei pressi dell’apparecchiatura “marcatempo” e pedinandoli per diversi giorni. Le immagini registrate hanno confermato i sospetti, riprendendo i dipendenti che appena timbrato il cartellino si allontanavano per alcune ore dal posto di lavoro per sbrigare faccende personali. Le indagini – ha reso noto la Guardia di Finanza – hanno permesso di appurare l’esistenza di un sistema consolidato incentrato su uno scambio di favori che in alcuni casi avrebbe fatto simulare la presenza per l’intero turno, grazie ai colleghi compiacenti che “strisciavano” il badge a inizio e fine giornata. Gli 8 denunciati dovranno rispondere di truffa ai danni dell’Ente di appartenenza e falsa attestazione di presenza in servizio.(ANSA).


Schede DPCM 24.10.2020

Leggi: SCHEDE-NUOVO-DPCM-24-OTTOBRE

Leggi: DPCM 24-10-2020

Leggi: Gazzetta Ufficiale n° 265 del 25-10-2020


La Corte di Cassazione conferma che la notifica dopo le 21 si perfeziona il giorno stesso

Per la Suprema Corte alla notifica via PEC si applica la scissione soggettiva degli effetti a seguito dell’intervento della Consulta. Tempestiva la notifica dell’opposizione a D.I. oltre le ore 21
Deve ritenersi tempestiva la notifica dell’opposizione all’ingiunzione avvenuta oltre le ore 21 con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto. Ciò in quanto la Corte Costituzionale, con la sentenza 75/2019, ha bocciato l’art. 16 septies del D.L. 179/12 nella parte in cui prevede che la notifica telematica effettuata fra le 21 e le 24 si perfezioni anche per il notificante alle ore 7 dell’indomani.
Se, da un lato, il differimento al giorno seguente appare giustificato nei confronti del destinatario, mirando alla tutela del suo diritto al riposo in una fascia oraria in cui sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica, dall’altro appare irragionevole penalizzare il mittente impedendogli di utilizzare appieno il termine utile per impugnare e approntare la propria difesa.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22136/2020 accogliendo il ricorso dell’opponente sconfitto in entrambi i giudizi di merito.
Nel dettaglio, la Corte territoriale, condividendo il giudizio del giudice a quo, riteneva tardiva l’opposizione in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto, ma oltre le ore 21.
Di conseguenza, la notifica si sarebbe perfezionata alle ore 7 del giorno successivo, vale a dire il quarantunesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, da qui la tardività e la conseguente inammissibilità.
La Suprema Corte ribalta il risultato e riassume l’orientamento prevalente in materia, prendendo le mosse dalla previsione di cui all’art. 16-quater, comma 3, del D.L. n. 179/2012, convertito dalla Legge n. 221 del 2012.
Tale norma dispone che la notifica eseguita con modalità telematica a mezzo di posta elettronica certificata “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione” prevista dall’art. 6, comma 1, del d.P.R. 68/2005, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista al comma 2 della medesima norma.
Ancora, l’art. 16-septies del D.L. n. 179 cit. aggiunge che la notificazione eseguita con modalità telematica è assoggettata alla norma prevista dall’art. 147 c.p.c. (secondo il quale, nella vigente formulazione, le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21) e che tale notifica, quando è eseguita dopo le ore 21, si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.
Tuttavia, sempre in materia di notifiche eseguite con modalità telematiche, gli Ermellini ritengono indispensabile rammentare come il quadro sia cambiato a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale.
La Consulta, con la sentenza n. 75/2019, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo (per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.) proprio l’art. 16-septies del D.L. n. 179/2012 nella parte in cui prevede che “la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta”.
La “fictio iuris” che conduce al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, infatti, appare giustificata nei confronti del destinatario, poiché il divieto di notifica telematica dopo le ore 21, previsto dalla prima parte dell’art. 16 septies, tramite il rinvio all’art. 147 c.p.c., mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica.
Al contrario, non può dirsi altrettanto giustificata nei confronti del mittente. Infatti, si legge nella sentenza, il medesimo differimento comporta un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poiché gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno, senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta.
In aggiunta, secondo il Collegio, la restrizione delle potenzialità (accettazione e consegna sino alla mezzanotte) che caratterizzano e diversificano il sistema tecnologico telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione legato “all’apertura degli uffici” sia intrinsecamente irrazionale, venendo a recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.


Demansionamento escluso per impiego in mansioni inferiori

Secondo la Corte di cassazione, al dipendente possono essere assegnati, per motivate esigenze aziendali, anche compiti inferiori al proprio livello qualora questi risultino comunque marginali rispetto alle sue mansioni.
La Suprema corte ha respinto il ricorso promosso dal dipendente di una Srl contro la decisione con cui, nel merito, era stata ritenuta infondata la domanda volta alla declaratoria dell’obbligo, da parte della datrice, di adibire il deducente esclusivamente alle mansioni di sua competenza.
Il lavoratore, in particolare, aveva chiesto che fosse dichiarato illegittimo l’ordine di servizio col quale gli erano state assegnate mansioni inferiori e dequalificanti e che gli fosse corrisposta la retribuzione prevista contrattualmente per la qualifica di appartenenza, comprese le somme arretrate.
Inoltre, la sua domanda era tesa all’accertamento dell’illegittimità nonché del carattere persecutorio e vessatorio del comportamento tenuto nei suoi confronti dalla società datrice, concretizzatosi – a suo dire – in un demansionamento e, successivamente, a fronte del rifiuto da lui opposto all’impiego prescrittogli, in una condotta di mobbing, realizzata attraverso la reiterata irrogazione di sanzioni disciplinari a suo carico.
Sia nel primo che nel secondo grado del giudizio, tuttavia, questa tesi era stata smentita: i giudici di merito avevano ritenuto che, nella specie, fosse legittimo l’impiego dell’interessato in mansioni inferiori alla propria qualifica di appartenenza.
Era stata, infatti, ritenuta ammissibile una flessibilità nell’utilizzo del medesimo lavoratore, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione alle menzionate mansioni inferiori nell’arco della singola giornata lavorativa.
Ciò posto, era stata considerata formalmente legittima l’irrogazione di sanzioni disciplinari a carico del deducente in conseguenza del rifiuto di questi rispetto ai compiti assegnatigli.
Da qui in ricorso in sede di legittimità del lavoratore, volto a contestare la conformità a diritto della pronuncia della Corte d’appello: secondo la sua difesa, l’impiego promiscuo in compiti propri della qualifica inferiore, in precedenza rivestita, doveva essere escluso sul piano legislativo e contrattuale, con conseguente illegittimità anche del rigetto della sua domanda di risarcimento da demansionamento.
Con ordinanza n. 22668 del 19 ottobre 2020, la Corte di cassazione ha giudicato infondata la doglianza del ricorrente e ciò alla luce dell’orientamento di legittimità sopra richiamato: il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli del suo livello.
La Sezione lavoro della Suprema corte ha sottolineato come, nella specie, la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si era rivelata, di per sé, legittima, non trovando ostacolo nella disciplina contrattuale di settore ai sensi dell’art. 2 del CCNL del 27.11.2000 (Trasporto Pubblico Locale).
Senza contare che l’interpretazione di quest’ultima disposizione, in termini di legittimazione della flessibilità in uso in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi per dichiarati superati – per come fatta propria dalla Corte territoriale – non risultava adeguatamente confutata dal ricorrente.
Ne conseguiva la non configurabilità di condotte illegittime del datore di lavoro idonee a fondare pretese risarcitorie.


Poste Italiane: ripristino termini di giacenza

… considerata l’evoluzione della pandemia in atto e il ponderato allentamento delle misure restrittive disposte dalle Autorità competenti, con decorrenza 15 ottobre sono ripristinati gli ordinari termini di giacenza contrattualmente previsti. …

Leggi: PP.TT. Coronavirus ripristino termini giacenza