E’ inesistente la ricevuta non firmata dall’Agente Postale

In tema di notifica a mezzo posta, la ricevuta di ritorno è l’unico documento idoneo a provare la consegna; se in questo documento manca la sottoscrizione dell’agente postale la notifica è inesistente. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17373/2020.

La vertenza riguarda il ricorso avverso un avviso di intimazione relativo a lrpef , Irap ed Iva dell’anno 2001. Impugnando l’atto, in realtà, il contribuente contestava una cartella di pagamento di cui sosteneva la mancata notificazione. Il ricorso, rigettato in primo grado, veniva accolto dalla Ctr della Puglia. Impugnando la decisione, il concessionario della riscossione palesava che la mancata sottoscrizione dell’agente postale non rendeva la notifica inesistente bensì nulla; eccepiva, pure, che la produzione di motivi nuovi in appello violava le disposizioni dell’articolo 57 del dlgs n. 546/92. I giudici della Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso erariale e confermato la decisione del collegio regionale. «Dalla lettura degli atti processuali», osserva la Corte, «risulta che il concessionario della riscossione depositò la memoria di costituzione in giudizio di primo grado, con i relativi documenti, compresa la ricevuta di ritorno, addirittura successiva mente all’udienza di discussione».

Quindi il contribuente non venne posto in condizione di formulare motivi aggiunti entro i venti giorni prima dell’udienza di trattazione. Il primo atto utile per proporre motivi aggiunti rimane, quindi, l’appello presentato dal contribuente alla Commissione regionale. Relativamente alla mancanza di sottoscrizione da parte dell’ufficiale postale, la Cassazione ha detto che la notifica è «inesistente» e come non sia nemmeno utile richiamare l’orientamento delle sezioni unite della Corte che ha limitato i casi di inesistenza della notifica. Infatti, nel caso trattato, la mancanza di sottoscrizione della ricevuta di ritorno da parte dell’ufficiale postale non consente di attribuire la paternità dell’atto ad un «soggetto qualificato» impedendo di ricondurre il vizio nell’alveo della mera nullità.Respingendo il ricorso la cassazione ha condannato il concessionario alla riscossione al pagamento delle spese di lite quantificate in 4 mila euro oltre a spese generali del 15% e accessori di legge.


L’attività svolta in malattia ritarda la guarigione? Sì al licenziamento

Spesso accade che a seguito di un’indagine investigativa il datore di lavoro scopra che il dipendente durante il periodo di assenza per malattia o infortunio svolge altre attività (lavorative e non) o che nei giorni di permesso per assistere un familiare disabile si dedichi a svariate attività, ma non a quella di assistenza. In tali casi, come può intervenire l’azienda?
Vediamo nel dettaglio le regole che bisogna seguire per non incorrere in un licenziamento illegittimo.
Svolgimento di altre attività durante le assenze per malattia: quando è legittimo il licenziamento?
È piuttosto frequente che durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia o infortunio il dipendente si dedichi ad altre attività.
Lo stato di malattia o di infortunio di per sé non comporta l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma occorre verificare in concreto l’effettiva condizione psico-fisica del lavoratore in rapporto alla mansione, nonché la compatibilità della condotta dallo stesso tenuta durante il periodo di malattia con il regolare percorso di guarigione che non deve risultare pregiudicato.
In altre parole, è legittimo procedere al licenziamento per giusta causa per violazione degli obblighi di diligenza e correttezza solo qualora l’attività svolta in costanza di malattia o di infortunio sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e idonea a pregiudicare la guarigione e il rientro in servizio del medesimo.
In casi del genere, infatti, il datore non solo è costretto a privarsi della presenza del dipendente malato o infortunato, ma rischia anche che il periodo di assenza venga prolungato dal comportamento sconsiderato e negligente del lavoratore che svolga attività incompatibili con lo stato di malattia.
Tale circostanza da sola è sufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa e non è necessario eventualmente dimostrare la simulazione della malattia da parte del lavoratore e, dunque, la falsità ideologica del certificato medico.
Si segnalano a tal riguardo alcuni casi in cui la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa:
• Il caso del dipendente affetto da “dermatite acuta alle mani” che nei giorni di assenza svolgeva altra attività presso il bar “…” nei giorni di assenza (Cass. 18245/2020);
• il caso del dipendente a cui erano stati prescritti cure e riposo a seguito di un infortunio e che nei giorni di assenza dal lavoro guidava automezzi e svolgeva attività di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture (Cass. 7641/2019);
• il caso dell’autista di pullman, a cui era imposto l’uso del collare cervicale a seguito di un infortunio in itinere, che faceva il parcheggiatore in uno stabilimento balneare (Cass. 17514/2018);
• il caso del lavoratore operato al menisco che continuava a lavorare nei campi di sua proprietà (Cass. 17636/2017);
• il caso del dipendente con distorsione alla caviglia che aveva partecipato a due partite di calcetto in un torneo amatoriale (Cass. 10647/2017);
• il caso del dipendente affetto da lombalgia che nei giorni di assenza per malattia faceva il cameriere e cassiere in un ristorante (Cass. 3067/2016);
• il caso del dipendente che durante la convalescenza per una discopatia, che aveva reso necessari due interventi chirurgici, si era recato in azienda e aveva caricato sulla sua auto alcune bombole di gas molto pesanti (Cass. 13676/2016).
Panoramica su alcuni casi di illegittimità del licenziamento
Alla luce dei principi sopra esposti sono, invece, considerati dalla giurisprudenza tendenzialmente compatibili con lo stato di malattia o di infortunio spostamenti per acquisti e commissioni, purché riferibili ad esigenze ordinarie della vita quotidiana, e prestazioni di lavoro occasionali e limitate nel tempo.
In particolare, si segnala il caso di una dipendente di un supermercato licenziata perché durante il congedo per malattia riconosciuto a causa di una tendinopatia lavorava per qualche ora al giorno come cassiera nella pasticceria del marito. La Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento in considerazione del carattere sporadico delle prestazioni lavorative, come tali inidonee a peggiorare lo stato di salute della lavoratrice (Cass. 13270/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento di un autista di camion che durante il periodo di malattia per sindrome ansioso-depressiva lavorava nella tabaccheria della moglie. Una tale attività discontinua, occasionale, completamente diversa e meno pericolosa di quella per la quale il dipendente era stato messo a riposo non era tale da determinare un rischio per la ripresa del lavoro (Cass. 30417/2017).
Si segnala, infine, la pronuncia di illegittimità del licenziamento del dipendente che durante l’assenza per malattia dovuta a contusione della spalla e del polso aveva guidato la propria autovettura e svolto in un esercizio commerciale attività di moderata intensità. Le descritte attività non erano incompatibili con la malattia considerato che la sua mansione, che consisteva nel guidare un camion con obbligo di scarico delle merci, era di gran lunga più gravosa della semplice guida di un’auto o dell’attività di vendita all’interno di un negozio (Cass. 21667/2017).
Dunque, svolgere altre attività durante le assenze dal lavoro per malattia o infortunio non è di per sé vietato, ma è necessario verificare caso per caso se tali diverse attività siano di intensità e frequenza tali da pregiudicare la guarigione e il rapido rientro in servizio. Chiaramente, se il dipendente svolge attività tali da ritardare la guarigione e il rientro a lavoro, tiene una condotta negligente che è tale da ledere la fiducia del datore. Diversamente, se le condotte tenute durante le assenze non denotano negligenza e imprudenza del dipendente, non può ritenersi leso il vincolo fiduciario.
Indebito utilizzo dei permessi per l’assistenza dei familiari disabili: un caso emblematico di abuso del diritto
Accanto ai casi in cui il dipendente durante le assenze per malattia o infortunio svolge attività incompatibili con tali status, altrettanto frequenti sono i casi in cui il lavoratore si assenta dal lavoro per fruire dei permessi ex L. 104/92 senza svolgere però attività di assistenza del familiare disabile.
L’art. 33, comma 3, L. 104/1992 attribuisce al “lavoratore dipendente che assiste persona con handicap in situazione di gravità” il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa.
La funzione del permesso è, dunque, quella di garantire l’assistenza al familiare disabile che può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito.
Non è assolutamente consentito utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio, infatti, comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, sacrificio giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore e dalla coscienza sociale come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto. Tale abuso non solo comporta una violazione dei doveri di fedeltà, diligenza, correttezza e buona fede che incombono sul dipendente, ma integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale.
Infatti, è innegabile il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali. Egli, infatti, in tal modo scarica il costo di tali esigenze sulla intera collettività, in quanto i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi. Non solo. Il dipendente disonesto “costringe il datore ad organizzare diversamente il lavoro in azienda ad ogni permesso e i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa” (Cass. 23891/2018).
La nozione “ampia” di assistenza al disabile
Per poter meglio individuare i casi in cui l’uso dei permessi ex L. 104/92 sfoci nell’abuso del diritto, occorre chiarire anche cosa debba intendersi per assistenza al disabile.
La giurisprudenza ha elaborato una nozione ampia di assistenza che non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ovvero semplice e materiale attività di accudimento dello stesso. L’assistenza comprende necessariamente anche lo svolgimento di incombenze pratiche di vario contenuto che il portatore di handicap non sia in condizione di compiere autonomamente.
In tale ottica, è stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che durante un giorno di fruizione di un permesso ex L. 104 era stato visto dagli investigatori incaricati dall’azienda mentre faceva dei prelievi al bancomat, andava a fare la spesa e incontrava un geometra per un problema di infiltrazioni nell’appartamento della madre disabile. Tutte le attività sopra descritte, pur non rientrando tra quelle di assistenza in senso stretto, erano finalizzate ad aiutare il familiare che, nelle condizioni in cui versava, non era assolutamente in grado di occuparsi di sé stesso e della casa (Cass. 23891/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice che nelle giornate di permesso per assistere la madre disabile era stata vista uscire dall’abitazione della medesima per svolgere attività che erano comunque riconducibili in senso lato al concetto di assistenza: anche le commissioni svolte presso uffici e negozi, purché nell’interesse del familiare da accudire, costituiscono forme di assistenza a chi non è in grado di compierle autonomamente (Cass. 30676/2018).
Conclusioni
Come già ribadito non esistono “zone franche” se le condotte del dipendente ledono la fiducia dell’azienda e Furto di merce di modico valore: è legittimo il licenziamento per giusta causa, sono molteplici le condotte che possono ledere la fiducia del datore. Un dipendente che nei periodi in cui dovrebbe restare a riposo si dedica ad attività tali da danneggiare la propria salute e ritardare il rientro in servizio, è inaffidabile anche se non ha falsificato i certificati medici e anche se le altre attività svolte non sono in concorrenza con il datore. Analogamente, è inaffidabile il dipendente che abusa dei permessi ex L. 104/92 stante il disvalore sociale della condotta e il peso che tale comportamento fa ricadere sulla collettività e sull’organizzazione aziendale.


Indennità sostitutiva del pasto, importi esentasse

Le indennità corrisposte dal datore di lavoro nei casi in cui è impossibile la somministrazione di alimenti e bevande attraverso le card elettroniche, a causa della chiusura degli esercizi in lockdown da pandemia COVID-19 è esentasse. Tali importi, infatti, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.
A chiarirlo è l’AGENZIA DELLE ENTRATE – RISPOSTA N. 301 DEL 2 SETTEMBRE 2020.
Indennità sostitutiva del pasto, cosa dice la normativa fiscale?
L’Agenzia delle Entrate è stata interpellata da una società che, in sostituzione del servizio di mensa, erogava ai propri dipendenti 6 euro al giorno, utilizzabili per mezzo di un badge elettronico presso gli esercizi pubblici convenzionati.
Durante il periodo di blocco delle attività imposto dalle misure anti-epidemiche, per i dipendenti dell’ente non è stato possibile utilizzare il proprio badge elettronico a causa della chiusura dei locali convenzionati. A questo punto, il datore di lavoro intende erogare un’indennità sostitutiva, nella misura di 5,29 euro al giorno.
Qual è il trattamento fiscale applicabile a tale indennità sostitutiva?
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ricorda che l’art. 51 del TUIR, alla lettera c) del co. 2, prevede che non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente:
• le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, anche se avvengono per mezzo di mense gestite da terzi;
• le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui siano rese in forma elettronica;
• le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte ai lavoratori dei cantieri edili o di altre strutture temporanee o ubicate in zone dove mancano strutture o servizi di ristorazione, fino all’importo di 5,29 euro.
Indennità sostitutiva del pasto, quando è esentasse?
Affinché l’indennità sostitutiva del pasto possa essere considerata esentasse, è necessario che concorrono contemporaneamente le seguenti condizioni:
• l’orario di lavoro comporti la pausa per il pasto;
• i lavoratori siano addetti stabilmente a una unità produttiva, intesa come sede di lavoro;
• l’ubicazione della sede non consente, nel periodo previsto per la pausa, di recarsi senza l’uso di mezzi di trasporto al più vicino luogo di ristorazione per l’utilizzo di buoni pasto.
Indennità sostitutiva del pasto, parere dell’Agenzia delle Entrate
Infine, specifica l’INPS, l’indennità sostitutiva erogata dall’ente ai dipendenti impossibilitati all’uso del badge a seguito dell’emergenza epidemiologica, è riconducibile alle indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti di unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione.
Le somme erogate, quindi, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.

Leggi anche: PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA – DECRETO N. 917 DEL 22 DICEMBRE 1986 (Tuir aggiornato al 05-02-2020)


Concorsi pubblici: illegittima la richiesta di titoli eccessivi

Il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la scelta dell’amministrazione di richiedere titoli di ammissione eccessivi rispetto alla professione per cui il concorso era previsto.
In materia di concorsi pubblici, l’amministrazione ha un ampio potere discrezionale di scelta dei requisiti di ammissione e dei titoli di partecipazione.
Tale discrezionalità, tuttavia, non può tradursi in arbitrio, atteso che le scelte della P.A. devono sempre rispettare i principi che reggono l’azione amministrativa.
In tal senso, il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza n. 6972 del 14 ottobre 2019, ha ritenuto illegittimo un bando di concorso che prevedeva dei titoli eccessivi rispetto al posto da assegnare.
Nelle procedure concorsuali sussiste il principio generale, più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa, che riconosce in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.” (cfr., Cons. St., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 5351; Cons. St., Sez. VI, 3 maggio 2010, n. 2494).
In altre parole, quella che l’amministrazione esercita, nel prevedere determinati requisiti di ammissione, è una tipologia di scelta che rientra tra quelle di ampia discrezionalità spettanti alle amministrazioni.
Pertanto, la giurisprudenza ha chiarito che in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà (Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 28 febbraio 2012, n. 2098).
Nelle procedure concorsuali, pertanto, occorre verificare se i criteri del bando di concorso risultino proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi altrimenti in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito.


Valida la notifica P.E.C. di un’ordinanza priva di firma digitale

In applicazione dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, non è necessaria la presenza della firma digitale del cancelliere sulla copia del provvedimento comunicato via P.E.C. alle parti.
Questo il principio ripreso dalla Corte di Cassazione, I sez. civ., con sentenza n. 93 del 07.01.2020.
La vicenda nasce dalla sentenza con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda proposta da un cittadino straniero tesa ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. L’ordinanza di rigetto veniva comunicata dalla cancelleria a mezzo P.E.C..
Avverso la suddetta ordinanza veniva proposto appello da parte dell’originario ricorrente, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello per tardività, in quanto proposto oltre i trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza.
Pertanto, aveva proposto ricorso in Cassazione, deducendo la nullità della sentenza in quanto la stessa era priva della firma digitale del cancelliere e di conseguenza l’appello era proponibile entro il termine di sei mesi ai sensi dell’art. 327 c.p.c. non essendo applicabile il termine breve di trenta giorni.
La Corte di Cassazione ha ritenuto valida la sentenza comunicata a mezzo P.E.C. dalla Cancelleria priva della firma digitale del cancelliere, ai fini della decorrenza del termine breve per proporre appello. In tal senso, è stato richiamato il principio affermato con la sentenza n. 26479/2017 secondo la quale “ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, le copie informatiche del fascicolo digitale equivalgono all’originale, anche se prive della firma del cancelliere, ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, disposizione applicabile a tutti gli atti digitalizzati, come si desume dal tenore letterale della norma, riferito all’intero contenuto del fascicolo informatico”.
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso.


Notifiche atti giudiziari: dal 23 settembre solo con nuovi moduli

Poste Italiane informa di aver predisposto i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari. Dal 23 settembre la vecchia modulistica non sarà più accettata
Dal 23 settembre al via i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari a mezzo posta. Lo rendono noto Poste Italiane e il ministero della giustizia (con le comunicazioni sotto allegate).
I vecchi modelli potranno essere utilizzati fino al 22 settembre 2020, termine del periodo transitorio di adeguamento fissato dall’AGCOM (con delibera 155/19/CONS del 8 maggio 2019).
Niente rimborsi per moduli non utilizzati
Poste rammenta, inoltre, che i quantitativi di moduli non utilizzati non saranno rimborsati o sostituiti con i nuovi modelli e invita pertanto i clienti in possesso di autorizzazione alla stampa in proprio/omologazione di Atti Giudiziari, a provvedere all’allineamento della loro produzione alle nuove Specifiche tecniche. Ovvero, in alternativa ad acquistare i moduli, compilando apposito format, attraverso il servizio “vendita stampati” disponibile sul sito delle Poste Italiane. 
No a modulistica non conforme dal 23 settembre
Per cui, a partire dal 23 settembre 2020, conclude la società “i clienti che presenteranno all’accettazione modulistica non conforme alle specifiche tecniche di cui sopra e quindi alla citata Delibera, a norma dell’art. 3 della l. 890/1982, saranno invitati a riconfezionare la spedizione utilizzando la modulistica conforme”.
In caso di diniego, le spedizioni saranno accettate sotto la responsabilità del cliente e senza pregiudizio per la Società.


Notifica nulla se non si prova di aver cercato il destinatario irreperibile

Il Giudice di Pace di Terracina rammenta come, per la notifica ex art. 143 c.p.c., sia necessario dimostrare una ricerca fattiva del domicilio, attività che andrà attestata o documentata
È nulla la notifica della multa ex art. 143 c.p.c. qualora sia mancata una ricerca fattiva del domicilio del destinatario, secondo canoni di normale diligenza e buona fede, e neppure tale attività sia stata attestata o documentata. Ciò impedisce di cristallizzare il verbale in titolo esecutivo. Il notificante, infatti, è tenuto a conformare la propria condotta all’ordinaria diligenza per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando.
Lo ha rammentato il Giudice di Pace di Terracina nella sentenza n. 80/2020 (sotto riportata) pronunciandosi sull’opposizione contro una cartella esattoriale di pagamento. L’opponente riteneva non si fosse legittimamente cristallizzato in titolo esecutivo il verbale elevato dalla Polizia locale in quanto la notifica ex art. 143 c.p.c. sarebbe stata nulla.
Una doglianza condivisa dal magistrato onorario il quale precisa che, per notificare un atto ai sensi dell’art. 143 c.p.c. è necessario che sia dimostrata una ricerca fattiva del domicilio e che tale attività di ricerca sia attestata o documentata.
Nel caso di specie, evidenzia il giudice, sarebbe stata sufficiente una semplice e rapida consultazione dei dati dell’ufficio anagrafe del comune di residenza risultante per venire a conoscenza dell’indirizzo di trasferimento dell’opponente.
In pratica, il Comune opposto non ha conformato la propria condotta all’ordinaria diligenza (Cass. ord. n. 19012/2017) e da ciò consegue un abuso della procedura di notificazione che risulta illegittima e affetta dal vizio della nullità. Questo rappresenta un ostacolo insormontabile al mutamento in titolo esecutivo del verbale oggetto della notifica viziata.
Si tratta di una decisione che si conforma a quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità in diverse occasioni. Per i giudici del Palazzaccio, in tema di notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca e indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass., ord. n. 9793/2019).
Alla stregua di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto nulla la notificazione ex art. 143 c.p.c. che l’ufficiale giudiziario abbia completato limitandosi al riscontro dell’assenza del destinatario nel luogo risultante dal certificato anagrafico senza fornire indicazione di alcuna ulteriore ricerca svolta (Cass. n. 8638/2017). Indagini e ricerche che possono sostanziarsi in verifiche presso l’ufficio anagrafe o, addirittura, semplicemente nella raccolta, da parte di altri residenti o vicini di casa di informazioni negative circa la reperibilità in quel luogo del destinatario dell’atto.
Tra l’altro, la Suprema Corte ha chiarito che “la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione”.

Leggi: Giudice di Pace di Terracina 2020


Accertamento, la notifica dell’atto guarda alla data della proroga

Secondo la circolare 25/E/2020 dell’Agenzia delle Entrate non è prevista alcuna proroga della decadenza di un anno per il contraddittorio preventivo, se il termine è già posticipato oltre il 31 dicembre 2020.
Decreto Rilancio, la circolare multiquesito n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, pubblicata il 20 agosto 2020, fornisce ulteriori chiarimenti sulle novità introdotte. Dal bonus per le partite IVA fino alla sospensione delle scadenze fiscali, ecco le risposte principali ai dubbi di imprese ed intermediari.
Alcune delle novità contenute nella circolare n. 25/E arrivano ormai fuori tempo massimo; è il caso, ad esempio, dei chiarimenti sui contributi a fondo perduto, considerando che la scadenza per fare domanda era fissata al 13 agosto 2020.
Tra i punti contenuti nella circolare n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, ampio spazio è dedicato alla sospensione delle scadenze relative alla riscossione, così come ai crediti d’imposta introdotti dal decreto Rilancio, dal bonus sanificazione fino a cessione e sconto in fattura previsti per i bonus casa 2020.
Il documento di prassi risponde ai quesiti presentati dalle associazioni di categoria, da operatori e altri contribuenti sulle norme contenute nel Decreto Rilancio, approvato il 19 maggio scorso e convertito in legge lo scorso 17 luglio 2020.
Dal taglio dell’IRAP, al contributo a fondo perduto, fino ad arrivare alla sospensione dei termini processuali e le spese di sanificazione degli ambienti di lavoro.
Tra le novità da evidenziare, per quel che riguarda il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro, in scadenza il 7 settembre 2020, viene chiarito che restano fuori dal credito d’imposta le spese sostenute per l’ordinaria pulizia dei condizionatori.
Concorre, invece, al calcolo del credito d’imposta riconosciuto la pulizia effettuata per aumentare la capacità filtrante del ricircolo, ad esempio sostituendo i filtri esistenti con altri di classe superiore.
Per la corretta individuazione delle spese rientranti nel credito d’imposta, saranno gli operatori della sanificazione a dover predisporre una certificazione che attesti che le attività effettuate siano in linea con le indicazioni contenute nei Protocolli di regolamentazione, e che quindi siano finalizzate ad eliminare o ridurre la presenza del virus che ha determinato l’emergenza Covid-19.
Il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro è soltanto uno dei temi trattati nella circolare n. 25 dell’Agenzia delle Entrate.
Tra gli ulteriori chiarimenti forniti, viene specificato che il bonus sugli affitti commerciali spetta anche a chi esercita attività di B&B con partita IVA, in relazione al canone di locazione corrisposto al proprietario, ed anche se l’immobile sia ad uso residenziale e non commerciale.
Per l’individuazione degli affitti ammissibili al credito d’imposta rileva che l’immobile sia strumentale all’attività svolta in via imprenditoriale.

Leggi: Circolare_n._25_20_08_2020


È il destinatario a dover dimostrare che il plico notificato era vuoto

Se l’atto è stato regolarmente consegnato, l’agente della riscossione non deve né fornire prove sul contenuto della raccomandata né depositare l’originale o la copia integrale della cartella recapitata
In caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova.
Questo il principio affermato dalle due ordinanze della Corte di Cassazione n. 14935 e n. 14941 del 14 luglio scorso, ove la Corte ha altresì confermato che, in caso di contestazioni, neppure grava sull’agente della riscossione l’onere di depositare l’originale o la copia integrale della cartella.
Le vicende processuali
Nel caso di cui all’ordinanza n. 14935, la Commissione tributaria regionale della Campania (sentenza n. 6120/22/2018) aveva confermato la pronuncia di prime cure che aveva accolto il ricorso proposto da un contribuente avverso una cartella di pagamento inviata a mezzo del servizio postale con plico raccomandato.
Nello specifico, la Ctr osservava che, nonostante la contestazione mossa dal contribuente, l’agente della riscossione non aveva assolto all’onere, asseritamente gravante sul mittente, di provare il contenuto del plico raccomandato.
Questa statuizione veniva censurata dall’agente in sede di legittimità.
Analogamente, nella seconda fattispecie, il giudice di appello (Ctr Piemonte, sentenza n. 1526/7/2018) aveva concluso per l’irregolarità della notifica della cartella impugnata, rilevando che “non vi è alcun documento che provi il collegamento tra la fotocopia della spedizione e ricevuta della raccomandata e le cartelle apparentemente notificate… Non vi è poi regolare attestazione di notifica da parte dell’ufficiale postale notificante perché non vi è indicazione della qualifica del firmatario della ricevuta o dell’ufficiale postale notificante”.
Nel ricorso dinanzi al Collegio di legittimità, la sentenza impugnata veniva censurata laddove aveva ritenuto necessaria, per la validità della notifica, la produzione delle cartelle di pagamento nella loro integralità, nonché l’indicazione sull’avviso di ricevimento della qualifica del firmatario.
Le pronunce della Corte
Entrambi i ricorsi dell’agente della riscossione sono stati accolti.
Sul punto controverso, l’ordinanza n. 14935 precisa che, dopo talune oscillazioni, si è ormai consolidato l’orientamento per il quale, in caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento “fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova”.
Identica statuizione si rinviene nell’ordinanza n. 14941, ove in aggiunta viene altresì ricordato che l’eccezione sulla regolarità della notifica di una cartella di pagamento può essere superata da parte dell’agente della riscossione producendo copia della stessa, “senza che abbia l’onere di depositarne né l’originale …, né la copia integrale, non essendovi alcuna norma che lo imponga o che ne sanzioni l’omissione con la nullità della stessa o della sua notifica”.
Osservazioni
La disciplina della notificazione della cartella di pagamento, ma in generale anche quella degli atti tributari, prevede che la fase finalizzata a portare legalmente a conoscenza del destinatario l’atto che lo riguarda possa essere realizzata, oltre che tramite agente notificatore il quale si reca personalmente presso il recapito dell’interessato per effettuare la consegna, anche attraverso la spedizione del documento in busta chiusa a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento.
Questa possibilità, relativamente alla cartella, è prevista dall’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 che, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, consente all’agente della riscossione di procedervi anche in via diretta, ovvero senza intermediazione di un agente notificatore qualificato, fattispecie in cui dunque si applica la disciplina delle raccomandate “ordinarie”, anziché quella delle raccomandate “per atti giudiziari” di cui alla legge n. 890/1982 (da ultimo, Cassazione, pronunce nn. 11311, 10954, 10585, 9429, tutte del 2020).
Laddove, in sede giurisdizionale, l’interessato, pur riconoscendo di essere stato destinatario di una notificazione postale, adduca, ad esempio, che la busta ricevuta era vuota oppure che la stessa conteneva dei fogli bianchi o, comunque, un atto diverso da quello che il mittente afferma spedito, si pone il problema di stabilire su quale dei soggetti del rapporto controverso debba gravare la relativa prova.
Al riguardo, appare in via di progressivo consolidamento l’orientamento secondo il quale incombe sul destinatario dell’atto notificato in via diretta a mezzo del servizio postale, che non contesti l’avvenuta ricezione, ma deduca che la busta recapitata era priva di contenuto, l’onere di dimostrare le proprie asserzioni.
Questa regola, confermata dalle ordinanze in commento, è stata già espressa tra le altre dalle pronunce della Corte di Cassazione nn. 28528/2019, 33563/2018 e 16528/2018.
In particolare, nell’ultima pronuncia richiamata, si legge che la riferita conclusione si giustifica in ragione del principio generale “di vicinanza della prova”, considerato che “la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato)… che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto” (questa affermazione si rinviene in seguito, tra le altre, in Cassazione, nn. 6562/2020, 30787/2019 e 23706/2019).


Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia

Le vessazioni tra persone che hanno un rapporto consolidato equivalgono a quelle tra sposati
Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia (Cassazione 40727/2009)
Le vessazioni e le violenze sul partner sono sempre da considerarsi maltrattamenti in famiglia tutelati dalla legge penale purché si tratti di coppie stabili anche se non sposate o conviventi.
Lo ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una sentenza della Corte di Appello di Cagliari che aveva condannato un signore per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della compagna.

La Suprema Corte, respingendo il ricorso dell’imputato contro la sentenza di appello, ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 del codice penale. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”.

La sentenza costituisce un ulteriore passo in avanti in materia di tutela della c.d. “famiglia di fatto”, cioè delle unioni tra soggetti non uniti dal vincolo del matrimonio. È utile ripercorrerne brevemente le tappe.

A differenza che in campo civile, nel quale le coppie di fatto non sono pienamente equiparate a quelle unite in matrimonio, con la sola eccezione per quanto riguarda i figli naturali, nel diritto penale la nozione di famiglia deve considerarsi più estesa, giungendo a ricomprendere anche le coppie stabili conviventi, come del reato espressamente previsto dalla norma incriminatrice prevista dall’art. 572 del codice penale, che punisce “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. A tale evoluzione ha contribuito la Corte di Cassazione, estendendo la tutela penale a tutti i soggetti conviventi, anche se non “more uxorio”, compresi quindi i conviventi per ragioni di lavoro o di cortesia (ad es. i domestici). Pertanto risponde del reato di maltrattamenti in famiglia chiunque tenga comportamenti molesti o vessatori nei confronti di un soggetto convivente, sia esso partner, figlio o ospite convivente.

La sentenza odierna compie un passo ulteriore, richiamando l’orientamento giurisprudenziale più recente, che arriva a comprendere anche i soggetti non conviventi, purché tra di essi, per strette relazioni e consuetudini di vita, “siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”. La Corte di Cassazione introduce, quindi, nella tutela penale dai maltrattamenti un ulteriore elemento, quello della stabilità del rapporto. Famiglia è pertanto l’unione coniugale, l’unione civile o di fatto ma anche l’unione caratterizzata dalla stabilità.
Coppie sempre da tutelare penalmente, dunque, purché siano stabili.


Cartella esattoriale, notifica nulla se effettuata con PEC non presente in pubblici elenchi

La Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, con sentenza n. 379/19 (testo in calce), depositata in data 26 agosto 2019, ha sancito che è “nulla la notifica della cartella esattoriale” dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, laddove provenga “da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
I fatti del processo
Il contenzioso tributario in commento nasceva dall’impugnazione, da parte del contribuente, di un atto di pignoramento presso terzi (art. 72-ter, D.P.R. n. 602/1973[1]), nonché di un atto di intervento all’interno della stessa procedura esecutiva, a mente dei quali veniva sottoposto ad esecuzione forzata la somma di €. 240.000,00, a titolo di debiti tributari, relativa alla presunta notifica di cartelle esattoriali imputate alla società debitrice.
Sul punto, il ricorrente, nel proprio atto introduttivo, lamentava – tra i vari spunti difensivi volti ad annullare la pretesa erariale – anche l’omessa notificazione delle cartelle esattoriali richiamate negli atti esecutivi ricevuti e chiedeva al Collegio l’annullamento del debito erariale[2].
Il punto centrale della difesa del contribuente
Il ricorrente, dunque, al fine di annullare integralmente il debito erariale – nelle more del giudizio – rilevava che la notifica delle cartelle esattoriali era insanabilmente viziata (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione, presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni[3]), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo[4].
Sul punto, in tema di notifica a mezzo PEC, l’art. 26, D.P.R. n. 602/73, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, convertito in Legge n. 221/2012 recita testualmente: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Orbene: la verifica, effettuata dal ricorrente, in relazione all’indirizzo di Posta Certificata dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, evidenziava che all’esattore notificante era stato assegnato un indirizzo PEC differente, rispetto a quello utilizzato nelle notifiche in contestazione.
Sulla scorta di tali notizie, emergeva la considerazione che l’indirizzo PEC in commento, ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it era l’unico valido e pertanto utilizzabile legittimamente dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione per scopi notificatori con validità legale delle cartelle esattoriali tributarie.
Per cui, dall’analisi dei documenti versati in atti dall’esattore nel corso del giudizio, di contro, si evinceva che le cartelle di pagamento (impugnate contestualmente agli atti di pignoramento) erano state trasmesse da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nel mentovato pubblico registro, il tutto in palese violazione della richiamata normativa[5].
Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorrente insisteva affinché la Commissione Tributaria Provinciale di Perugia accertasse l’illegittimità del procedimento di notifica delle cartelle di pagamento impugnate.
L’indirizzo PEC del notificante non proviene dagli Elenchi Pubblici: la notifica è viziata ed insanabile (Cass., ord. n. 17346/2019)
In materia di notifica di atti civili, la Suprema Corte, con la recente ordinanza n. 17346/2019, aveva osservato che la notifica effettuata con modalità telematiche è da considerarsi viziata, se il notificante utilizza il proprio “indirizzo di posta elettronica certificata” non risultante da pubblichi elenchi, a mente dell’art. 3-bis, Legge n. 53/1994.
Nel contenzioso in parola la parte processuale (ricorrente) “aveva fatto la notificazione utilizzando un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
Sul punto il contribuente, richiamando “una serie di pronunce e orientamenti […] finalizzati a chiarire la questione”, insisteva affinché venisse accertata la validità della notifica; in breve, secondo la tesi difensiva della parte privata, l’elemento dirimente era che la notifica pec “giunga a compimento”, giacché “il meccanismo telematico” possa garantire la “certezza della procedura di recapito”.
I giudici della S.C. (Consigliere Relatore, Dott. Francesco Terrusi), dichiarando inammissibile il ricorso, hanno censurato la condotta notificatoria del ricorrente, il quale non ha “specificato come sia stata in concreto eseguita la notificazione […] in ordine all’effettuazione ad un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
A ben vedere, secondo la difesa del contribuente, tale principio “civilistico” meritava legittimo ingresso anche all’interno delle notifiche tributarie, poiché la casella PEC di destinazione di un atto (civile o tributario) è fondamentale al pari di quella del mittente, il quale è onerato da utilizzare un proprio indirizzo PEC presente nei pubblici registri, pena la nullità della stessa notifica[6].
La decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Perugia
Ritornando alla disamina della sentenza tributaria in commento, i giudici perugini hanno dunque accolto il ricorso del contribuente, accertando l’illegittimità del debito erariale imputato al cittadino, giacché la casella PEC, adoperata dall’Ente della Riscossione in sede di notifica delle cartelle esattoriali, è collegata ad “un soggetto che non si conosce, e cioè da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
In effetti, proseguono i giudici di prime cure, “l’art. 26, D.P.R. n. 602/1973, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, recita testualmente: ‘a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti […] si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Nel caso in esame, l’Ente della Riscossione non aveva utilizzato l’indirizzo ufficiale presente in IPA (Indice delle Pubbliche Amministrazioni), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it.
In conclusione, dai documenti versati in atti dall’esattore è pertanto emerso il fatto storico inconfutabile che le cartelle di pagamento erano state trasmesse da un indirizzo PEC differente da quello contenuto nel pubblico registro (IPA) per la notifica dei provvedimenti esattivi di natura tributaria; tale scenario risultava in contrasto con la richiamata normativa, pertanto le contestate notifiche erano da ritenersi prive di effetti giuridici, di conseguenza gli atti impugnati erano da ritenersi nulli.

Più di recente, tale orientamento è stato confermato anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 2799/2020, che si è espressa con i seguenti termini: “L’eccezione sollevata dalla ricorrente, contrariamente all’assunto dell’Ufficio è fondata perché, come risulta dalla copia della notifica prodotta dalla parte, essa notifica è stata spedita da un indirizzo Pec non riconducibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni”), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo ((…)).
La notifica della cartella esattoriale è insanabilmente nulla (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

[1] A maggior chiarezza della sentenza in commento, è opportuno precisare che i richiamati atti impugnati dalla società contribuente (l’atto di pignoramento e l’atto di intervento, unitamente ai prodromici provvedimenti), si fondano sulla mancata ed invalida previa notificazione dei titoli esecutivi.
La Suprema Corte a Sezioni Unite, come noto, ha risolto la questione concernente il riparto di giurisdizione in merito all’opposizione agli atti esecutivi, ove questi abbiano ad oggetto l’irregolarità formale della notificazione del presupposto titolo esecutivo, pronunciando il seguente principio di diritto:” in materia di esecuzione forzata tributaria, sussiste la giurisdizione del giudice tributario nel caso di opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli atti presupposti dal pignoramento) , ove venga impugnata anche la prodromica cartella di pagamento per vizio di notifica” (Cass. SS. UU. n. 13913/17);
[2] In materia della conoscenza effettiva di un atto amministrativo “inoltrato” al contribuente, la sentenza n. 19704/15 della Corte di Cassazione, SS. UU. ha affermato il principio del cittadino ad esercitare il proprio diritto di accesso alla tutela giurisdizionale avverso tutti quegli atti che siano stati invalidamente ed irritualmente notificati, posta la natura recettizia degli atti amministrativi, essendo del tutto irrilevante l’eventuale istanza di rateazione presentata dal contribuente e/o successivo pagamento parziale del debito a ruolo, come da insegnamento giurisprudenziale di legittimità sul punto (Cass. n. 3347/17, Cass. n. 7820/17, Cass. n. 18/18);
[3] https://www.indicepa.gov.it/documentale/index.php;
[4] Nel caso giudiziario in commento, il contribuente constatava, alla luce della produzione documentale versata in atti da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, che quest’ultima (in sede di notifica via PEC delle citate cartelle esattoriali) aveva utilizzato l’indirizzo telematico notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it (non presente nell’elenco ufficiale “IPA”); da tale circostanza di fatto, il ricorrente aveva eccepito il vizio di notifica delle cartelle esattoriali impugnate contestualmente agli atti del pignoramento;
[5] Peraltro, sulla questione affrontata dai giudici perugini, il ricorrente – all’interno delle memorie illustrative – segnalava la sentenza n. 401/19 pronunciata dalla C.T.P. di Taranto, a mezzo della quale i Giudici tarantini avevano affermato che: “[…] è doveroso segnalare che la Legge in tema di notifica a mezzo PEC, dispone:
[…] b) l’indirizzo PEC del mittente e del destinatario della notifica tramite PEC dovranno essere presenti nei pubblici elenchi, come richiesto dall’art. 16 ter cit. […]
E cioè: INDICE PA, REGINDE, INI PEC.
La verifica, effettuata direttamente da questa Commissione, dell’indirizzo PEC certificato della Soget evidenzia che […] ad esso sono assegnati i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata:
– da REGINDE: cancellerie.sogetspa@pec.it
– da INI PEC: amministrazione.sogetspa@pec.it
– da INDICE IPA: direzione.sogetspa@pec.it
l suindicati indirizzi sono pertanto gli unici validi per la Soget per scopi notificatori con validità legale.
Dai documenti versati in atti si evince che la ingiunzione è stata inviata in semplice file.pdf e da indirizzo PEC (info@sogetspa.it) diverso da quelli contenuti negli anzidetti pubblici registi, il tutto in palese violazione della innanzi richiamata normativa; in conseguenza il procedimento di notifica è inesistente o irrimediabilmente nullo e con esso anche l’ingiunzione che si assume così notificata”;
[6] Su tale questione, il contribuente – all’interno dei propri atti difensivi – eccepiva che laddove il soggetto notificante adoperi un indirizzo PEC “ignoto”, la contestata attività di notifica debba essere qualificata – in primo luogo – come giuridicamente inesistente, dunque non sanabile con l’impugnazione “diretta” della cartella esattoriale; in realtà i giudici perugini hanno inserito l’invocato vizio nella categoria delle nullità. Tale considerazione impone al difensore del contribuente un’attenta scelta circa lo strumento processuale da coltivare per la tutela dei diritti dell’interessato. In effetti, sulla scorta dell’art. 156, comma 3, c.p.c., il quale prevede che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”, laddove venga impugnata direttamente la cartella esattoriale, la cui notifica è caratterizzata dal vizio in oggetto, l’impugnazione del citato provvedimento neutralizzerà irrimediabilmente l’eccezione sollevata. Per tale ragione, è indubbiamente più valido attendere l’atto successivo (intimazione di pagamento, preventiva iscrizione ipotecaria, pignoramento, etc.), al fine di contestare la notifica PEC proveniente da un indirizzo diverso da quello inserito nei pubblici registri.

Leggi: CTP PERUGIA, SENTENZA N. 379-2019


Concorso in scadenza del Ministero dello sviluppo economico

Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica – 4ª serie speciale, concorsi ed esami n. 59 del 31 luglio 2020, è stato pubblicato un concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di complessive settanta unità di personale non dirigenziale, a tempo pieno ed indeterminato, di cui sessanta di Area III, posizione retributiva F1, da inquadrare nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico e dieci, di cui una riservata ai sensi dell’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, di categoria A, parametro retributivo F1, da inserire nei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri, per diversi profili professionali.

Ente che ha bandito il concorso: Commissione per l’attuazione del progetto Ripam
Scadenza di presentazione della domanda: 17 agosto 2020
Ambito: informatico/tecnico
Link al bando: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/concorsi/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-07-31&atto.codiceRedazionale=20E08640

I posti a disposizione si suddividono secondo le seguenti modalità:
45 destinati al profilo di funzionario informatico/specialista di settore scientifico tecnologico (Codice CU/INFO) di cui trentacinque da inquadrare come funzionario informatico nell’Area III – F1 al Ministero dello sviluppo economico e dieci come specialista di settore scientifico tecnologico nella categoria A – parametro retributivo F1 nei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri;
15 nel profilo di funzionario tecnico (Codice CU/ELET) con competenze in ambito elettronico, da inquadrare nell’Area III – F1 nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico;
10 nel profilo di funzionario tecnico (Codice CU/TELE) con competenze in ambito di telecomunicazioni, da inquadrare nell’Area III – F1 nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico.
Per poter validamente accedere alla procedura concorsuale, è obbligatorio essere in possesso di un diploma di laurea, di una laurea, di una laurea specialistica o di una laurea magistrale.
Coloro che intendono accedere al concorso devono presentare domanda in modalità telematica, utilizzando il modulo disponibile all’indirizzo «https//ripam.cloud», previa registrazione sullo stesso sistema.
Ai fini della partecipazione al concorso, è richiesto che il candidato sia in possesso di un indirizzo personale di posta elettronica certificata (PEC) a lui intestato.
Il candidato, inoltre, dovrà effettuare, a pena di esclusione dalla procedura, il versamento della quota di partecipazione di euro 10,00 (dieci/00 euro) secondo le modalità esattamente precisate nella procedura d’iscrizione.
I concorrenti dovranno sostenere una prova preselettiva, una prova scritta e una prova orale; la prova preselettiva sarà svolta solo nel caso in cui il numero dei candidati che abbiano presentato la domanda di partecipazione sia pari o superiore a due volte il numero dei posti messi a concorso.
Tutte le prove si svolgeranno presso sedi distaccate e solo tramite il supporto di strumentazione informatica.


Risarcimento a seguito di dequalificazione professionale

La Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui, nel merito, era stata accolta la domanda avanzata da una lavoratrice per accertare l’intervenuta dequalificazione professionale subita a seguito di illegittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.

La dipendente, inquadrata nell’area funzionale operativa livello C del CCNL di settore e in possesso di conoscenze specifiche qualificate per lo svolgimento di attività amministrative, di coordinamento e di incarichi di responsabilità, aveva asserito di essere stata assegnata, nel periodo considerato, a posizione comportante mansioni manuali, di sistemazione e riordino di materiale, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2103 c.c.

La Corte di appello le aveva dato ragione, riconoscendole il diritto al risarcimento per il demansionamento subito.

Cassazione: tolleranza contingente non è acquiescenza al demansionamento 

La società datrice aveva adito i giudici di legittimità, lamentando che in sede di gravame era stato disatteso un punto decisivo della controversia, riguardante l’intervenuta acquiescenza della prestatrice nei confronti del provvedimento datoriale di nuova assegnazione. La ricorrente, in particolare, aveva sottolineato come fosse trascorso un lungo lasso di tempo – precisamente un anno e mezzo – prima che la lavoratrice avesse impugnato il provvedimento di riferimento.

Quando si configura l’acquiescenza tacita?

Doglianza, questa, ritenuta infondata dalla Sezione lavoro della Corte di cassazione che, con ordinanza n. 16594 del 3 agosto 2020, ha ribadito l’indirizzo interpretativo già affermato in materia di acquiescenza tacita nei confronti di un provvedimento, valevole sia in ambito amministrativo che in quello processuale civilistico.

L’acquiescenza tacita – si legge nella decisione – è configurabile solo in presenza di un comportamento che appaia inequivocabilmente incompatibile con la volontà del soggetto d’impugnare il provvedimento.

Non è sufficiente, a tal fine, un atteggiamento di mera tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell’immediato, dall’esistenza del detto provvedimento.

Tali ultime condotte, infatti, non escludono l’eventuale coesistente intenzione dell’interessato di agire successivamente per eliminare gli effetti del provvedimento del datore.


Nessuna attenuante per chi fa timbrare il badge dai colleghi

Per la Cassazione, se la motivazione non è affetta da manifesta illogicità è corretto il mancato riconoscimento delle attenuanti ai furbetti del cartellino

La Suprema Corte di Cassazione sancisce che non si possono concedere le attenuanti generiche per il reato di truffa del cartellino se la motivazione della sentenza che le ha negate contiene al riguardo una motivazione logica e coerente, non affetta da manifesta illogicità.

Conclusioni a cui la Cassazione è giunta alla fine di una causa penale nel corso della quale la Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado, che ha condannato i due imputati per i reati di cui agli articoli 110, 640 commi 1 e 2 c.p. e 55 quinquies del Dlgs n. 165/2001 per essersi procurati un ingiusto profitto, consistente nella retribuzione e accessori, in danno della P.A. in quanto:

  1. il primo soggetto coadiutore della Asl ha consegnato il proprio tesserino d’identificazione ad altri soggetti, per far risultare la propria presenza sul posto di lavoro quando invece lo stesso era altrove;
  2. il secondo, assistente amministrativo Asl per le stesse condotte.

I difensori dei due imputati ricorrono in Cassazione lamentando l’inutilizzabilità delle videoriprese e la mancata concessione ai due soggetti delle attenuanti generiche, con conseguente riduzione della pena al minimo edittale.

La Cassazione con la sentenza n. 22500/2020 dichiara i ricorsi inammissibili, chiarendo, per quanto riguarda il primo motivo di doglianza relativo all’inutilizzabilità delle videoriprese, che l’art 234. c.p.p., oltre agli scritti “permette l’acquisizione anche di ogni altra cosa idonea a rappresentare fatti, persone o cose attraverso la cinematografia, la fotografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo, senza la necessità di alcun decreto autorizzativo da parte del giudice per le indagini preliminari.” Come precisato poi in un caso precedente “le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza sono prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p., sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati ed inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale della inutilizzabilità.”

Generico per la Cassazione il motivo del ricorso sollevato dall’altro imputato, con cui ha contestato l’inutilizzabilità delle captazioni eseguite in procedimenti diversi da quelle in cui sono state disposte perché non ne ha indicato l’oggetto e non sono quindi chiari i rapporti esistenti tra gli stessi. Per quanto riguarda invece il secondo motivo di doglianza la Corte rileva che, poiché “la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto è insindacabile in cassazione, manifesta illogicità non sussiste nel caso in esame, alla luce della motivazione della Corte d’Appello.”


Non esiste un termine perentorio per iniziare l’esecuzione forzata dopo il fermo amministrativo dei veicoli

Disposto il fermo amministrativo del veicolo, l’amministrazione finanziaria non è obbligata a procedere al pignoramento entro termini perentori. E questo perché non esistono disposizioni di legge né regolamenti che lo prevedono. Non rileva, in senso contrario, il principio di buona fede: il fermo dei veicoli, del resto, rappresenta proprio una misura afflittiva per indurre il debitore ad adempiere.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza 15349 del 17 luglio 2020 con cui ha accolto il ricorso di Riscossione Sicilia, rigettando definitivamente l’opposizione a fermo amministrativo esperita da un contribuente.

Secondo il Tribunale di Termini Imerese dalla normativa vigente (dm 503/1998 e art. 24 Cost.), dopo la notifica del fermo amministrativo l’autorità avrebbe l’obbligo di dar corso al pignoramento nei termini di legge.

L’articolo 3 del dl 203/05 non prevede in generale termini entro cui l’amministrazione deve procedere ad avviare l’esecuzione tramite il pignoramento.

D’altro canto, l’obiettivo del fermo amministrativo è proprio sottrarre la disponibilità del bene al debitore per indurlo all’adempimento nei confronti dell’erario (cfr. Cass. 15354/2015).

Inoltre non è compromesso neppure il diritto di difesa: il contribuente, dal canto, suo può sempre esperire i rimedi apprestati dall’ordinamento: infatti l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo, sia se volta a contestare il diritto a procedere all’iscrizione del fermo, sia che riguardi la regolarità formale dell’atto, è un’azione di accertamento negativo a cui si applicano le regole del processo di cognizione ordinario, e come tale non assoggettata al termine decadenziale di cui all’art. 617 c.p.c. (cfr. Cass. 18041/2019).