Infortuni sul lavoro

Il datore di lavoro (nella PA è il dirigente)  e lavoratore sono corresponsabili in caso di infortunio sul lavoro di quest’ultimo, se è accertato che i dispositivi di protezione vengono regolarmente disattivati e il datore non ha predisposto alcun meccanismo di vigilanza atto ad impedire tale prassi.

Nel caso esaminato, dopo che la sua domanda era stata rigettata nei gradi di merito, un lavoratore ha proposto ricorso atteso che la propria mano destra – durante i consueti lavori di pulizia dei macchinari – era rimasta schiacciata sotto un rullo di stampa, mentre tentava di recuperare uno straccio rimasto incastrato.

La Corte Suprema di Cassazione ha confermato le rispettive responsabilità dei due soggetti in maniera concorrente, precisando riguardo all’onere della prova che “compete al lavoratore l’allegazione dell’omissione commessa dal datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza (…) necessarie ad evitare il danno, non essendo sufficiente la generica deduzione della violazione di ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di fare scadere una responsabilità per colpa di una responsabilità oggettiva”.

A prescindere dalla circostanza che il datore di lavoro, non avrebbe, ad esempio, adibito specifico personale alla sorveglianza dei locali, è tuttavia innegabile che, agendo sui meccanismi  di  sicurezza  –  disattivandoli  –  il  lavoratore  si  è  posto  egli  stesso  nella condizione di pericolo conseguenza poi dell’infortunio.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-05-2015, n. 10465

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20151/2013 proposto da:

N.M. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati SALE Giuseppe, LUIGI MARCIALIS, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GRAFICHE GHIANI S.R.L. P.I. (OMISSIS);

– intimata –

nonché da:

GRAFICHE GHIANI S.R.L. P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA UGO BARTOLOMEI 23, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA SARACENI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARCO MARCHESE, ELIGIO PINNA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

N.M. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati GIUSEPPE SALE, LUIGI MARCIALIS, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 59/2013 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI SEZ. DIST. DI SASSARI, depositata il 06/03/2013 R.G.N. 259/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/02/2015 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato MARCIALIS LUIGI;

udito l’Avvocato SARACENI STEFANIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 9199 del 7 giugno 2012 questa Corte riformava la pronuncia emessa dalla Corte d’appello di Cagliari con cui erano state respinte le domande proposte da N.M. nei confronti della s.r.l. Grafiche Ghiani, intese a conseguire il risarcimento del danno derivato dall’infortunio sul lavoro occorsogli in data (OMISSIS), all’esito del quale aveva riportato gravi danni alla mano destra, rimasta schiacciata nei rulli dei cilindri di stampa, alla cui pulizia era intento.

Sul rilievo della carenza motivazionale della decisione laddove aveva escluso ogni responsabilità della parte datoriale in relazione all’obbligo di sorveglianza sulla stessa gravante, ed aveva affermato il carattere di abnormità ed imprevedibilità del comportamento posto in essere dal N., rinviava alla Corte d’appello di Cagliari sezione distaccata di Sassari in diversa composizione affinché procedesse ad una rinnovata valutazione dei fatti sulla scorta dei rilievi formulati.

Con sentenza in data 6 marzo 2013 la Corte di merito dichiarava il concorso di colpa del lavoratore nella determinazione dell’infortunio nella misura del 40%, e condannava la società al risarcimento del danno biologico e da invalidità temporanea, con esclusione del danno morale in quanto non richiesto tempestivamente con il ricorso introduttivo.

La Corte territoriale, per quanto in questa sede rileva, perveniva a tali conclusioni sulla scorta delle seguenti considerazioni: a) l’incidente si era verificato mentre il N. era impegnato nella pulizia dei rulli, compiuta a macchina accesa, con una delle grate aperta; b) l’impianto di sicurezza era efficiente, ed era stato disattivato dal N. il quale, nel tentativo di recuperare uno straccio rimasto impigliato nel macchinario, disattendendo le comuni regole di prudenza, le direttive datoriali e le norme di sicurezza relative al macchinario, si era dedicato allo svolgimento delle mansioni di pulizia dei rulli mentre erano in funzione; c) non era configurabile una abnormità del comportamento assunto dal lavoratore idoneo ad interrompere il nesso eziologico con l’evento dannoso, giacché al momento del sinistro, era presente l’addetto alla vigilanza ed alla osservanza delle misure di prevenzione infortuni, il quale non aveva interrotto il lavoro né avvisato la direzione aziendale, neanche risultando predisposti sistemi di sicurezza tali da determinare lo spegnimento della macchina in connessione con il movimento della grata di protezione.

Avverso tale decisione interpone tempestivo ricorso per Cassazione N.M. affidato a quattro motivi cui resiste con contro ricorso la s.r.l. Grafiche Ghiani che spiega a propria volta ricorso incidentale sostenuto da due motivi ai quali replica il N..

Motivi della decisione

1.1 ricorsi devono, preliminarmente, essere riuniti ex art. 335 c.p.c., giacché spiegati avverso la medesima decisione.

1.1 Con il primo motivo il ricorrente in via principale denunzia violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il giudice di rinvio proceduto ad una rinnovata considerazione dei fatti di causa, disattendendo le indicazioni “fattuali” rese dalla pronuncia rescindente in ordine alle premesse logico-giuridiche che avrebbero dovuto sorreggere la decisione, in violazione dei dettami sanciti dall’art. 384 c.p.c..

1.2 Il motivo è privo di pregio.

La Corte di merito ha infatti proceduto ad una esauriente ed analitica ricostruzione delle vicende fattuali prodromiche al verificarsi dell’evento dannoso, sorretta da motivazione ampia ed assolutamente congrua sotto il profilo logico oltre che corretta sul versante giuridico, ricostruendo le modalità dell’evento infortunistico occorso al ricorrente, nel rispetto dei rilievi formulati da questa Corte in sede rescindente, con riferimento specifico alla accertata esistenza di una prassi anomala seguita dai dipendenti, di intervenire sui meccanismi di sicurezza delle macchine allo scopo di rendere più celeri le operazioni di pulizia, ed alla omessa adozione da parte della direzione aziendale, delle opportune misure di vigilanza atte a prevenire il compimento di tali operazioni pericolose.

Per tal motivo, non può ritenersi integrata nella materia scrutinata, una violazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità da parte del giudice del rinvio, che ben può esercitare, nel riesame della controversia demandatagli per vizio della motivazione, i suoi poteri discrezionali rivalutando globalmente tutti gli elementi di prova anche attraverso un nuovo esame dei fatti di causa.

1.3 In tale contesto il giudice di rinvio può dunque liberamente prendere in esame anche le emergenze istruttorie trascurate in sede rescindente potendo queste assumere un rilievo, seppure meramente orientativo nella nuova ricostruzione delle risultanze istruttorie, rimanendo in tal modo egli libero nella valutazione delle suddette risultanze in forza dei medesimi poteri del giudice di merito che ha pronunciato la sentenza cassata, con l’unica limitazione consistente nell’evitare di fondare la nuova decisione sugli elementi del provvedimento annullato ritenuti illogici e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati nella precedente decisione.

Diversamente opinando, si finirebbe con l’ammettere un apprezzamento dei fatti precluso al giudice di legittimità, ed il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 5, si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (vedi in tali sensi, Cass. n. 5316 del 5 marzo 2009).

1.4 La Corte distrettuale, per quel che in questa sede interessa, si è quindi mossa nell’alveo dei principi che regolano il giudizio di rinvio, invalsi in dottrina e nella costante giurisprudenza di legittimità in base ai quali diversamente dall’ipotesi sancita dall’art. 360, n. 3, che impone al giudice di rinvio l’applicazione della norma come interpretata dalla Corte di Cassazione in una sorta di “legge del caso concreto” – nei casi disciplinati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, il vincolo imposto al giudice di merito si sostanzia nel divieto di ripercorrere l’errore logico della sentenza cassata, che può aprire la strada ad un riesame dei fatti ai fini di una valutazione complessiva, nel quale il giudice del rinvio non è vincolato da ipotesi interpretative eventualmente prospettate in sede di giudizio rescindente (cfr. Cass. 1 dicembre 2009 n. 25267 1 dicembre 2009).

  1. Con il secondo mezzo di impugnazione, si denuncia violazione e/o falsa applicazione di legge (D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 4, 48 e 82 ed art. 2087 c.c.), nonché assenza o contraddittorietà della motivazione. Si lamenta che la Corte distrettuale abbia trascurato i precetti sanciti dalle disposizioni in tema di sicurezza per le operazioni di pulizia dei macchinari, o comunque non abbia adeguatamente motivato sul punto, laddove ha escluso la piena responsabilità della parte datoriale in ordine all’evento infortunistico occorso al dipendente, in violazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità che configurano nell’ipotesi considerata, una fattispecie di responsabilità oggettiva.
  2. Con il terzo motivo si lamenta violazione e/o falsa applicazione di norme di legge (D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 4 e 82 ed art. 2697 c.c.), nonché assenza o contraddittorietà della motivazione. Ci si duole del governo dei principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio, sul rilievo che, pur ove non sia ravvisabile un’ipotesi di responsabilità oggettiva della parte datoriale per mancata osservanza di norme di cautela, in caso di incertezza in ordine all’esatto verificarsi della dinamica dell’incidente, il relativo onus probandi ricade comunque a carico della stessa.
  3. I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, stante la connessione che li connota, sono privi di fondamento.

4.1 Al di là di ogni considerazione in ordine ai profili di inammissibilità del ricorso che appare violare le regole di chiarezza poste dall’art. 366 bis c.p.c. (nel senso che ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso sostanziale e processuale e dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano) non essendo consentito confondere i profili del vizio logico della motivazione e dell’errore di diritto (vedi fra le tante, Cass. 26 marzo 2010 n. 7394 cui adde Cass. 8 giugno 2012 9341, Cass. 20 settembre 2013 n. 21611), non può prescindersi dal rilievo che nella specie, rinviene applicazione, ratione temporis, la novella di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è ammesso il ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

4.2 Nella interpretazione resa dalle sezioni unite di questa Corte alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi (vedi Cass. S.U. 7 aprile 2014 n. 8053), la disposizione va letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione, di guisa che è stato ritenuto denunciabile in cassazione, solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente alla esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, esaurendosi nelle ipotesi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile fra motivazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” esclusa qualsiasi rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

4.3 Nello specifico il tessuto motivazionale dell’impugnata sentenza, come riportato nello storico di lite, si presenta assolutamente esaustivo, privo di carenze che possano validamente essere ascritte ad alcuna delle categorie di vizio della motivazione enucleate dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al novellato testo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, e non resta, pertanto, scalfito dalle censure formulate sul punto.

Lo scrutinio delle questioni di diritto dibattute in relazione all”onus probandi relativo alla ricostruzione della dinamica dell’evento infortunistico ed alla ripartizione delle responsabilità in ordine al determinismo dell’evento medesimo, sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, non consente, poi, di prescindere dal richiamo al principio più volte enunciato da questa Corte in tema di onere di allegazione, e che va qui ribadito, in base al quale la parte che subisce l’inadempimento, pur non dovendo dimostrare la colpa dell’altra – atteso che ai sensi dell’art. 1218 c.c., è il datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte, derivano da causa a lui non imputabile – è tuttavia soggetta all’onere, da esercitare ritualmente ex art. 414 c.p.c., di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (vedi in tali sensi, fra le altre, Cass. 11 aprile 2013 n. 8855).

4.4 Compete, infatti, al lavoratore l’allegazione dell’omissione commessa dal datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno, non essendo sufficiente la generica deduzione della violazione di ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di fare scadere una responsabilità per colpa in una responsabilità oggettiva. Ciò in quanto l’art. 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, atteso che la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (v. ex plurimis, Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038).

4.5 Nel solco degli enunciati principi, la Corte distrettuale ha proceduto ad una ricostruzione dell’evento condotta sulla scorta degli articolati dati istruttori acquisiti, dai quali era dato desumere che i meccanismi di sicurezza del macchinario erano perfettamente efficienti; che ciò nonostante, il lavoratore li aveva disattivati preferendo lavorare con la grata aperta; che la mano era stata attinta dai rulli in movimento, nel tentativo del lavoratore di recuperare uno straccio caduto nel macchinario in funzione e non di spegnere la macchina – come riferito – dato che il pulsante di arresto si trovava da tutt’altra parte.

Peraltro, con apprezzamento del tutto congruo e coerente con i principi affermati da questa Corte, i giudici del gravame sono pervenuti alla configurazione di una quota di responsabilità a carico della parte datoriale nella misura del 40%, sul duplice rilievo: a) dell’omissione di controllo da parte della società, mediante personale addetto alla vigilanza (peraltro presente al momento del verificarsi dell’evento infortunistico), in ordine al funzionamento del meccanismo di blocco delle grate, che per prassi, veniva disattivato dai lavoratori; b) della mancata predisposizione di dispositivi di spegnimento della macchina ad ogni movimento della grata.

  1. In tal senso, si impone l’evidenza della infondatezza delle censure formulate dalla società Grafiche Ghiani in sede di ricorso incidentale con cui si denuncia violazione e/o falsa applicazione di legge (D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 4, 48 e 82, artt. 2087, 2697 e 1227 c.c.), nonché omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti.

5.1 L’incedere argomentativo che connota il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale, in equilibrio fra i complessi dati emersi dalla espletata istruttoria, è rispettoso dei principi innanzi enunciati, non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva a carico della parte datoriale, esclusa dal fermo orientamento di questo giudice di legittimità con riferimento alla esegesi dell’art. 2087 c.c. e risulta sorretto da un impianto che, per essere congruo e completo, si sottrae alle doglianze formulate con riferimento al novellato dettato di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

  1. Privo di pregio è infine, il quarto motivo del ricorso principale con il quale si stigmatizza la pronuncia impugnata sotto il profilo di violazione di plurime disposizioni di legge, nonché di difetto di motivazione, per diniego di riconoscimento del danno morale, assumendo di avere ritualmente proposto la domanda con l’atto introduttivo del giudizio.

6.1 Premesso che il danno non patrimoniale, secondo i principi invalsi nella giurisprudenza di questa Corte, non può mai ritenersi “in re ipsa”, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca (vedi ex plurimis, Cass. 10 febbraio 2014 n. 2886, Cass. 24 settembre 2013 n. 21865, Cass. 14 maggio 2012 n. 7471), deve ritenersi che il ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza che governa il ricorso per cassazione, sia venuto meno all’onere di riportare analiticamente il tenore del ricorso introduttivo onde consentire a questa Corte di verificare, ex actis, la formulazione del petitum e della causa petendi.

Peraltro, la pronuncia impugnata si sottrae ad ogni doglianza formulata sul versante motivazionale, avendo la Corte distrettuale specificamente argomentato in ordine alla carenza di ogni domanda risarcitoria per il titolo descritto in sede di ricorso introduttivo del giudizio.

  1. In definitiva, entrambi i ricorsi, in quanto infondati, devono essere respinti.

La situazione di reciproca soccombenza giustifica, infine, l’integrale compensazione fra le parti delle spese inerenti al presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta.

Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2015


I principali motivi di nullità delle cartelle esattoriali

Le cartelle di pagamento
Le cartelle di pagamento, meglio note come cartelle esattoriali, sono quello strumento del quale si avvale la Pubblica Amministrazione per recuperare i crediti vantati a vario titolo nei confronti dei contribuenti.
Più precisamente, si tratta dell’atto inviato da Equitalia (ovverosia la società per azioni a partecipazione pubblica incaricata della riscossione dei tributi) per comunicare l’iscrizione a ruolo del debito da parte dei diversi enti impositori, quali possono essere, ad esempio, Inps, Comuni, Agenzia delle entrate, etc..
Trascorsi sessanta giorni dalla notifica senza che avverso essa sia stato proposto ricorso, la cartella esattoriale diventa titolo esecutivo ai fini della riscossione coatta (RD 639/1910) del credito.
Le ipotesi di nullità
La cartella di pagamento può essere impugnata non solo, ovviamente, nel caso in cui essa sia viziata nella sostanza, ovverosia nel caso in cui il debito non sussista o sussista solo in parte, ma anche nel caso in cui essa sia viziata nella forma.
In quanto atto di diritto tributario, infatti, la cartella esattoriale è sottoposta a vincoli formali che devono essere rispettati a pena di nullità.
Della questione si è interessata, sempre più frequentemente, la giurisprudenza, la quale ha tentato di fare chiarezza circa le ipotesi concrete nelle quali la cartella di pagamento debba ritenersi nulla.
Assenza o inesattezza della relata di notifica
La cartella esattoriale è nulla nel caso in cui sia sprovvista della relata di notifica oppure nel caso in cui questa non sia apposta correttamente o manchi di alcuni requisiti essenziali.
Ad esempio, con la Sentenza n. 398/2012, la suprema Corte ha stabilito la nullità della cartella esattoriale laddove, nella copia consegnata al contribuente, la relata non indichi la data della notifica.
È inoltre nulla, secondo le sentenze della Corte di cassazione n. 6749/2007 e n. 6750/2007, la cartella esattoriale in cui la relata di notifica non sia apposta in calce all’atto, ma, ad esempio, nel frontespizio.
Mancato computo analitico degli interessi
Un’ulteriore ipotesi di nullità della cartella esattoriale deriva dal mancato computo analitico degli interessi maturati.
Secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4516 del 2012, infatti, laddove, dopo giugno 2008, venga omessa l’indicazione delle modalità con cui calcolare gli interessi e l’operato dell’ufficio incaricato della riscossione possa essere ricostruito solo attraverso indagini complesse e di certo non spettanti al contribuente, la cartella esattoriale è nulla per violazione del diritto di difesa.
In tal senso si è fermamente espressa anche la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, con la sentenza n. 92/36/2012, per la quale l’atto di riscossione deve essere redatto in modo da consentire al debitore la verifica dei calcoli effettuati dal concessionario.
In sostanza, restano valide esclusivamente le cartelle che permettono al debitore di valutare agevolmente la loro esattezza.
Cartelle firmate dai “falsi dirigenti”
A seguito della sentenza n. 37/2015 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato la nullità delle nomine che hanno elevato a ruolo di dirigenti i funzionari dell’Agenzia delle Entrate senza lo svolgimento di un concorso pubblico, sono da reputarsi nulle anche tutte le cartelle esattoriali sottoscritte da tali “falsi dirigenti”.
Con la pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso n. 784/15, infatti, si sono iniziate ad avvertire le prime conseguenze della sentenza di incostituzionalità e si è dichiarata la nullità di una cartella di pagamento ai fini Irap e Iva firmata, appunto, da un funzionario incaricato del ruolo di dirigente ma sprovvisto dell’effettiva qualifica.
Notifica da parte di soggetti non legittimati
Vera e propria inesistenza giuridica della notificazione della cartella di pagamento, infine, sarebbe generata, secondo la giurisprudenza, dall’inoltro dell’atto da parte di Equitalia senza il tramite dei soggetti a ciò legittimati, espressamente individuati dall’art. 26 del D.P.R. n. 602/1973.
Si tratta, nel dettaglio, degli ufficiali della riscossione, degli agenti di polizia municipale, dei messi comunali previa convenzione tra Comune e concessionario e degli altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge.
In tal senso si sono espresse recentemente, tra le altre, la Commissione Tributaria Provinciale di Parma con la pronuncia n. 18/2013 e la Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso con la pronuncia n. 36/2013.
Tutte le ipotesi prese in considerazione costituiscono soltanto una minima parte delle numerose pronunce emesse in materia, che rappresentano una prova evidente che la giurisprudenza relativa alla nullità delle cartelle esattoriali è in fermento e sta iniziando a recepire sempre più frequentemente le numerose istanze provenienti dai contribuenti.


Domenica, ai lavoratori pubblici non spetta alcun compenso se coincide con le festività

La Corte Costituzionale era stata investita della delicata questione relativa alla retribuzione delle festività civili ricadenti di domenica.

La Corte Costituzionale – con sentenza 150/2015 – ha nuovamente deluso le aspettative dei pubblici dipendenti … che speravano di veder arrivare qualche soldino in busta paga almeno dal pagamento delle festività coincidenti con la domenica (con effetto retroattivo).

Con la sentenza n. 150/2015 la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità della “legge finanziaria 2006”, sollevata dalla Corte di Cassazione, sez. lavoro, là dove prevede che tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 65/2001, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, sia ricompreso l’art. 5, terzo comma, della L. n. 260/1949 e s.m.i., in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. Tale previsione fa salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge. In pratica,

Secondo la Cassazione, la norma sarebbe intervenuta nel corso di un giudizio, al fine di determinare la modifica del suo in favore dello Stato (parte del medesimo giudizio), in assenza di motivi imperativi di interesse generale, non potendosi configurare come tali né le finalità di “omogeneizzare” e “razionalizzare” il trattamento nel pubblico impiego, né le generiche esigenze finanziarie richiamate. Come detto, i giudici costituzionali hanno dichiarato quale non fondata la questione.

La Consulta, in via preliminare, ha riconosciuto la fondatezza dell’assunto della Cassazione secondo cui non è possibile una interpretazione della norma censurata che ne escluda la portata retroattiva e dunque l’applicabilità ai giudizi in corso, ivi compreso il giudizio principale. Orbene, tale previsione è retroattiva e il tenore letterale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266/2005, nel delimitare la propria sfera di applicazione, espressamente fa salva solo “l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge” (secondo periodo), impedisce di assegnare a detta norma un significato diverso: essa ha effetti sia per il futuro, sia per il passato e ha inciso sul giudizio in corso.

Non vi è – secondo la Consulta – il contrasto prospettato dalla Cassazione con la norma convenzionale (CEDU) e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost.

L’art. 1, comma 224, della “legge finanziaria 2006”, nella parte in cui dispone che l’art. 5, terzo comma, della Legge n. 260/1949 (come successivamente modificato), è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, interviene sul contenuto di tale norma. Quest’ultima, nel dettare norme transitorie volte ad assicurare la graduale attuazione della riforma del lavoro pubblico (D.Lgs. n. 29/1993), era ispirata alle finalità di:

– “accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea”,

– “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica”,

– “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” (Cost., sentenza n. 359/1993).

In tale contesto, proseguendo, la Consulta ha spiegato che l’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001, nell’individuare le fonti di disciplina del lavoro pubblico, ha assegnato alla legge il compito di regolare, quanto meno nei principi, l’organizzazione degli uffici, demandando viceversa alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti.

Già in passato la Corte ha avuto modo di desumere dalle indicate disposizioni che il legislatore “ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem” (sentenza n. 146/2008) al fine di realizzare, ad un tempo, l’obiettivo della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica.

Dunque, l’art. 1, comma 224, della “legge finanziaria 2006”, nell’annoverare tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 165/2001 (a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997), l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260/1949 – che riconosce il diritto a una ulteriore retribuzione nel caso in cui le festività ricorrano di domenica – si pone in armonia con l’obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem.

Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima non si rivela irragionevole, né si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009).

Nel caso di specie, l’art. 1, comma 224, della “legge finanziaria 2006”, nell’escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, all’indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell’intero D.Lgs. n. 165/2001.

In definitiva, la norma in questione ha chiarito – risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo: esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le “norme generali […] del pubblico impiego”, di cui l’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l’inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146/2008).


Comunicazione Aruba. Accesso al sito web di A.N.N.A.: possibili disagi

LavoriInCorsoLa Società Aruba comunica:

Gentile cliente,

per garantirLe sempre migliori prestazioni e una maggior efficienza di gestione, La informiamo che a partire dalle ore 23.00 di mercoledì 08/07/2015 e per una settimana circa, svolgeremo un intervento di manutenzione programmata che prevede la migrazione di tutti i siti con Hosting Windows 2003 verso la nuova piattaforma Windows 2012 R2 e che interesserà anche il suo sito annamessi.it.

La migrazione si rende necessaria anche perché Microsoft non supporterà più Windows 2003, a partire da Luglio 2015, oltre che non rilasciare nuovi aggiornamenti sulla sicurezza.

Inoltre il nuovo sistema operativo Microsoft ha definitivamente abbandonato anche il supporto a Microsoft FrontPage 2003 e versioni precedenti: in alternativa suggeriamo i nuovi editor che consentono la creazione di siti più performanti, compatibili e accessibili con molte funzioni automatizzate, quali per esempio “Webmatrix” e “Microsoft Expression Web 4” (versione free).

L’intervento di migrazione sarà gestito e costantemente monitorato dal nostro personale tecnico specializzato e avverrà per gruppi: nel momento in cui coinvolgerà il suo sito, si potranno riscontrare solo dei temporanei momenti di irraggiungibilità di durata variabile.

Come può notare, siamo sempre al lavoro per offrire un servizio migliore e facciamo sempre del nostro meglio perché questi interventi non abbiamo nessun impatto sui nostri clienti: in alcuni casi, come questo, l’intervento porterà molti benefici ma presupporrà quanto le abbiamo descritto, pertanto ci scusiamo in anticipo per i disagi che l’intervento dovesse arrecarle e siamo a sua disposizione per ogni necessità di chiarimento e assistenza.

Cordiali saluti

Customer Care Aruba S.p.A.


Novità sul congedo parentale

Il Governo ha approvato il decreto legislativo n. 80/2015 sulla conciliazione vita-lavoro, che contiene alcuni interventi per recepire le ultime sentenze della Corte costituzionale, individua soluzioni su questioni interpretative e garantisce una maggiore flessibilità nella fruizione del congedo parentale.

  • Il decreto, adeguandosi a quanto stabilito dalla Corte costituzionale (sentenza 116/2011), introduce espressamente nel d.lgs 151/2001 una disciplina per i casi di ricovero del neonato in una struttura sanitaria. In questo caso la lavoratrice ha diritto – anche in caso di adozioni – di chiedere la sospensione del congedo di maternità fino alla data di dimissione del bambino.
  • Viene esteso da 8 a 12 anni di vita del bambino il periodo entro cui è possibile fruire il congedo parentale e viene aumentato da 3 a 6 anni il periodo nel quale viene riconosciuta l’indennità economica (30% dello stipendio).
  • Dopo la scarsa applicazione da parte della contrattazione collettiva, il decreto introduce la possibilità di fruire il congedo parentale anche su base oraria. Un diritto ora riconosciuto per legge in assenza di una disciplina contrattuale.
  • La fruizione su base oraria potrà avvenire in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale. Scende, a favore dei lavoratori, il periodo di preavviso nei confronti del datore per fruire del congedo: 5 giorni (in caso di assenze per giornata intera) e 2 giorni (assenza su base oraria).
  • Le lavoratrici inserite nei percorsi di protezione per episodi di violenza di genere (debitamente certificati dai servizi sociali) potranno astenersi dal lavoro per un periodo di 3 mesi e con un preavviso al datore di almeno 7 giorni, con il diritto di percepire un’indennità e alla contribuzione figurativa per tale periodo.


Corte di Cassazione: Anche la raccomandata senza ricevuta di ritorno può interrompere la prescrizione

Anche una semplice raccomandata senza ricevuta di ritorno può essere sufficiente per interrompere la prescrizione presuntiva del diritto di un avvocato ad esigere i propri onorari al cliente.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, si può presumere che la lettera sia giunta a destinazione dato che è onere delle poste curarne la consegna.

È quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza 13401/2015, pubblicata oggi, secondo cui solo in caso di contestazione del destinatario può sorgere l’onere del mittente di dimostrare che la propria missiva è giunta correttamente a destinazione.

Nel caso di specie, però, l’avvocato aveva si spedito le raccomandate ma lo aveva fatto indicando la persona sbagliata e quindi non può avvalersi della presunzione di avvenuta consegna.

Se la raccomandata fosse stata spedita correttamente il termine di prescrizione si sarebbe invece interrotto.

La Corte di Cassazione chiarisce anche che l’eccezione di prescrizione presuntiva non può essere equiparata al riconoscimento del debito. In sostanza se da un lato l’ammissione della mancata estinzione dell’obbligazione comporta il rigetto dell’eccezione di prescrizione, non è vero il contrario: il fatto di aver sollevato l’eccezione di prescrizione non  comporta ammissione della mancata estinzione del debito.

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 giugno 2015, n. 13401

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 24 maggio 2006 l’Avv. M.T. evocava, dinanzi al Tribunale di Trento, A.B. e l’Avv. A.E. chiedendo la condanna, in via solidale, dei medesimi al pagamento della somma di €. 14.404,48, oltre accessori, per attività di procuratore svolta per conto della convenuta in una serie di controversie trattate avanti allo stesso ufficio, conferitogli l’incarico nel 1990 dall’Avv. M. e dopo il luglio 1994, dal figlio della predetta, il convenuto E.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dell’E. che eccepiva il difetto di legittimazione passiva, nonché della B. che eccepiva l’avvenuta prescrizione presuntiva dei crediti vantati ex art. 2959 c.c., il Tribunale adito, accoglieva entrambe le eccezioni sollevate dai conventi, con conseguente rigetto della domanda attorea.

In virtù di rituale appello interposto dall’Avv. T. sotto molteplici profili, la Corte di appello di Trento, nella resistenza degli appellati, che proponevano anche rispettivi appelli incidentali sulla unitaria liquidazione delle spese processuali pur essendo due le parti convenute, respingeva l’appello principale ed accoglieva quelli incidentali, rideterminando le spese di lite facendo applicazione dell’art. 5 punto 5 della tariffa forense.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale – premesso che l’esame del gravame avrebbe valutato separatamente la domanda svolta nei confronti della B. rispetto a quella proposta nei confronti dell’E.- evidenziava che, quanto alla prima, era stata la sola parte assistita dall’Avv. T. nei giudizi intentati dinanzi al Tribunale di Trento e poi alla Corte di appello di Trento; rilevava, relativamente alla eccezione di prescrizione presuntiva sollevata dalla stessa appellata (da esaminarsi per avere la debitrice eccepito formalmente il pagamento del credito), che il mandato era cessato con la fine della causa o al più in data 15.10.2001, con la conseguenza che il triennio di prescrizione era maturato, al massimo, il 15.10.2004, mentre la causa de qua era iniziata nell’anno 2006, né vi era prova di atti interruttivi, per essere le lettere allegate inviate ma prive di dimostrazione della ricezione da parte della debitrice. Né il giuramento decisorio deferito, pur ammissibile, assolveva a detto onere non essendo state articolate circostanze decisive per la definizione della controversia.

Per quanto concerneva l’E., osservava preliminarmente che al tempo del conferimento dell’incarico al T. lo stesso non aveva ancora superato gli esami di abilitazione forense, divenuto co-difensore della madre, unitamente all’avv. M. e all’avv. T., in data 17.6.1996, a seguito di mandato conferitogli dalla stessa B.. Tanto chiarito, in atti non vi era prova di un mandato (con o senza rappresentanza) a lui rilasciato da parte della madre per incaricare un difensore; né rispetto alla domanda ex art. 26 codice deontologico, specificata con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., appariva dimostrato un ulteriore autonomo incarico conferito al T. dall’E., pacifico che inizialmente era stato investito della tutela delle posizioni della B. all’avv. M.

Di converso dovevano trovare accoglimento gli appelli incidentali, giacché l’unica liquidazione delle spese effettuata nella sentenza impugnata, pari ad € 3.800,00, divisa per le due parti difese, aventi posizioni non identiche, comportava che i diritti liquidati violavano i minimi previsti in tariffa, per cui provvedeva ad una riliquidazione ai sensi dell’art. 5 della T.P. per essere identiche alcune delle questioni portate all’esame del giudice.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Trento ha proposto ricorso per cassazione il T., sulla base di sei motivi, cui hanno replicato con separati controricorsi gli intimati, contenenti anche ricorso incidentale condizionato, affidato ciascuno – rispettivamente – a quattro e a due motivi; anche parte ricorrente ha resistito ai ricorsi incidentali con controricorso.

I resistenti in prossimità della pubblica udienza hanno depositato memoria illustrativa unica.

Motivi della decisione

II ricorrente principale con il primo motivo lamenta un vizio di motivazione laddove la corte di merito ha rigettato la sua doglianza volta a sottolineare come le difese della B. avessero ad oggetto anche il quantum del credito preteso, circostanza che di per sé sarebbe incompatibile con la eccezione di prescrizione presuntiva. In altri termini, ad avviso del ricorrente, nell’affermazione della B. che il credito da lui vantato era comprensivo di emolumenti spettanti al co-difensore andrebbe ravvisata una contestazione sul quantum, non convincente la ratio secondo cui detta difesa sarebbe riferibile esclusivamente all’E.

Il motivo è privo di pregio.

Come statuito da un risalente orientamento, condiviso da questo Collegio, l’eccezione di prescrizione non equivale al riconoscimento del debito, in quanto il disposto dell’art. 2957 c.c, s’intende nel senso che l’ammissione del fatto comporta il rigetto dell’eccezione, ma non, al contrario, che l’aver sollevato l’eccezione di prescrizione determini l’ammissione del fatto costitutivo del debito (così Cass. 21 gennaio 2000 n. 634).

D’altra parte, la valutazione delle prove compiuta dalla sentenza impugnata si sottrae alle censure, siccome motivata in modo logicamente corretto e sufficiente, posto che il ricorrente si limita a proporre una diversa lettura della memoria difensiva del 21.11.2006 e delle dichiarazioni del procuratore rese all’udienza del 2.5.2007, contestando le conclusioni cui è giunto il giudice distrettuale, senza neanche indicare il canone di interpretazione degli atti e degli scritti processuali asseritamente violato.

Con il secondo motivo il ricorrente principale nel lamentare sempre un vizio di motivazione, censura l’accertamento effettuato dalla corte di merito al fine della decorrenza del termine di prescrizione del diritto di credito de quo individuato nella data dell’ultima decisione resa nelle cause seguite per la B. dall’avv. T., ossia luglio 2000, ai sensi dell’art. 2957 c.c.

Anche detta censura non può trovare ingresso.

Ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto dell’avvocato al compenso ai sensi dell’art. 2957 secondo comma c.c., l’ultima prestazione” dalla quale va calcolato il termine triennale stabilito dall’art. 2956 c.c., va individuata con riferimento all’espletamento dell’incarico conferito dal cliente. Poiché il detto incarico si fonda sul contratto di patrocinio, che è regolato dalle norme del mandato di diritto sostanziale, e non sul rilascio della procura ad litem, il cui fine è soltanto quello di consentire la rappresentanza processuale della parte (ex plurimis; Cass. n. 8388 del 1997), il termine di prescrizione inizia a decorrere dall’esaurimento dell’affare per il cui svolgimento fu conferito l’incarico, che, nel caso di prestazioni rese in due gradi di giudizio, coincide con la pubblicazione della sentenza d’appello (v. ex plurimis. Cass. n. 12326 del 2001). Bene ha fatto, quindi, la Corte territoriale a individuare nella pubblicazione della sentenza definitiva non impugnabile che aveva posto fine alla lite, in data 15.10.2001 – nel caso di specie, passata in giudicato la sentenza della Corte d’appello di Trento – il dies a quo per l’inizio del termine di prescrizione.

Del resto il ricorrente ha richiesto il pagamento delle prestazioni di cui ai giudizi instaurati e sulla base di detto assunto i giudici hanno determinato il termine di decorrenza della prescrizione presuntiva. Non viene in rilievo “la mancata revoca del mandato”, giacché ai sensi dell’art. 2957, comma 2, c.c. e prima ancora dell’art. 83, ult. comma, c.p.c. il rapporto di mandato si conclude con la decisione della controversia per la quale era stato conferito.

Né vi è prova che la B. avesse conferito un ulteriore mandato per seguire il fallimento della società R., che comunque avrebbe riguardato un rapporto diverso, né che alla predetta fosse stata inviata la nota del 28.2.2003, giacché anche a volere ritenere l’inoltro a mezzo posta ordinaria, con conseguente presunzione della ricezione dell’atto ai sensi dell’art. 1335 c.c., sta di fatto che destinatario della nota predetta risulta essere non giù la B , ma l’Avv.to E. esclusa argomentatamente la sussistenza della solidarietà passiva fra i predetti.

Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 236 c.p.c., nonché per vizio di motivazione, per non avere la corte di merito disposto il giuramento decisorio deferito alla B., pur ritenendolo ammissibile. Prosegue il ricorrente riportando il tenore della formula articolata nel deferire il giuramento alla controparte. A conclusione del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: “il giuramento decisorio deferito dal creditore ai sensi dell’art 2960 c.c. è ammissibile in presenza della formulazione di un articolo con cui venga richiesto al debitore di giurare e giurando affermare di avere pagato gli importi di credito azionato, con l’aggiunta di aspetti puramente formali, eventualmente non dedotti dal debitore, quali le modalità dell’asserito pagamento, a fronte della facoltà di cui all’’art. 236 c.p.c. che attribuisce al giudice il potere di modificare la formula al fine di rendere più chiaro il contenuto del giuramento. L’attività di circoscrizione del quesito formulato, con l’eliminazione di elementi aggiuntivi e specificazioni non necessarie ai fini della decisorietà del quesito stesso, costituisce attività di modifica consentita ai sensi dell’art. 236 c.p.c.”.

Il motivo è infondato in relazione ad entrambi i profili in cui è articolato. Accertato, con statuizione non soggetta a censura, che il giuramento decisorio deferito alla B. verteva su fatti quali la specificazione degli importi pagati, il modo di pagamento, l’indicazione delle date, non propri del soggetto che doveva prestarlo, né caduti sotto l’esperienza diretta dei suoi sensi o della sua intelligenza, non avendone fatto menzione nelle difese, correttamente la Corte distrettuale ha escluso l’ammissibilità del giuramento deferito nella forma “de veritate”.

Sotto tal profilo la decisione dei Giudici di merito deve ritenersi sostanzialmente corretta, anche se non adeguatamente spiegata, considerato che dall’articolazione del mezzo istruttorio, testualmente riportata nel motivo di ricorso, oltre che nella stessa decisione, risulta agevole rilevare come il giuramento, che si sarebbe voluto deferire alla controparte, così come formulato, difetti del requisito della decisorietà, non potendosi considerare de veritate, in quanto non riguardante fatti di cui il soggetto chiamato a prestarlo sia stato autore o partecipe, né de scientia, non contenendo la specificazione che il fatto altrui sia stato, in qualche modo, inequivocamente appreso o constatato dal prestatore (al riguardo, v., tra le altre, Cass. n. 5789 del 1998; Cass. n. 4365 del 1995; Cass. n. 11491 del 1992), di talché la solenne affermazione o negazione finirebbe con l’esprimere una mera valutazione personale.

Riguardo al secondo profilo della censura, la statuizione del giudice del gravame di non poter procedere di ufficio alta modifica del giuramento deferito nella forma “de veritate”, è conforme all’orientamento elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha precisato che potendo soltanto la parte disporre di questo mezzo di prova, le modificazioni sostanziali della formula del giuramento decisorio, quale appunto quella in questione, possono essere apportate soltanto dalla parte personalmente o da un suo procuratore munito di mandato speciale (Cass, 13 febbraio 1980 n. 1033; Cass. 14 gennaio 1980 n. 339; Cass. 17 gennaio 1979 n. 344), E non vi sono ragioni valide per discostarsi da tale orientamento, né il ricorrente ne prospetta, limitandosi ad insistere sulla facoltà del giudice di merito di modificare la formula.

Con il quarto motivo il ricorrente principale lamenta che – una volta accertato lo stato di salute della B. – ha deferito giuramento decisorio de scentia o de relato ai sensi dell’art. 2736 e ss c.c., in particolare dell’art. 2739, ultimo comma, c.c., all’E. nella duplice veste di difensore e figlio della B., in merito alla conoscenza da parte sua dell’avvenuto pagamento del credito azionato nei confronti della madre, giuramento sempre ammissibile anche in appello, richiesta sulla quale la corte di merito aveva omesso ogni pronuncia.

Il motivo è inammissibile, risultando la questione posta superata dalla pronuncia di inammissibilità della formula adoperata già nei confronti della B , di cui si è detto al terzo mezzo.

Con il quinto motivo il ricorrente principale deduce vizio di motivazione circa l’accertata mancanza di prova dell’esistenza di un incarico conferito al T. dall’E. nell’interesse della B. pur essendovi in atti numerose procure rilasciato dalla B. in favore dell’E. e del T.

Anche detta censura va disattesa.

Infatti la corte di merito ha chiarito che la prova testimoniale Indicata in citazione era stata ritenuta generica per il mancato riferimento al periodo di conferimento dell’incarico, stante l’iniziale affidamento all’Avv.to T., da parte dell’Avv.to M., e comunque in contrasto con il contenuto della richiesta del 28.2.2003, nella quale non si faceva riferimento alle attività procuratorie, riconducibili all’art. 30 del Codice deontologico. Di converso la prova testimoniale di cui alla seconda memoria ex art. 183 c.p.c. rifletteva un rapporto obbligatorio, per mandato o per accollo, non dedotto in citazione.

La nota distinzione tra rapporto endoprocessuale nascente dalla procura ad litem e rapporto di patrocinio, in virtù della quale si è ritenuto possibile nella giurisprudenza di questa Corte individuare come cliente, e cioè obbligato al pagamento del compenso nei confronti dell’avvocato, un soggetto diverso da colui che ha rilasciato la procura, non esclude infatti la necessità di provare il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente è colui che ha rilasciato la procura.

A tali principi si è attenuta la sentenza impugnata, correttamente affermando che il B., indipendentemente dai profili deontologici attinenti al rapporto con il collega E. che non rilevavano ai fini di causa, poteva far valere la sua pretesa creditoria direttamente verso la B.

La critica mossa dal ricorrente, risolvendosi in una contestazione apodittica della decisione di cui non coglie la ratio su cui si fonda, è, quindi inammissibile.

Con il sesto ed ultimo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 1335 c.c., nonché vizio di motivazione, per non avere la corte di merito ritenuta provata l’avvenuta interruzione della prescrizione nonostante i numerosi atti interruttivi inviati (da ultimo le raccomandate del 17.3 e 14.4.2006), quanto meno nei confronti del coobligato in via solidale, avv. E. A corollario del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “l’atto stragiudiziale di costituzione in mora del debitore, anche al fine dell’interruzione della prestazione, inviato al debitore con raccomandata a mezzo del servizio postale si presume giunto a destinazione sulla base dell’attestazione della spedizione da parte dell’ufficio postale, pur in mancanza dell’avviso di ricevimento, in considerazione dei doveri che la raccomandata impone al servizio postale in ordine al suo inoltro e alla sua consegna, con la conseguenza che non è sufficiente per il destinatario negare di avere ricevuto detta raccomandata per superare la suddetta presunzione”.

Pure infondato è l’ultimo motivo.

È jus receptum che costituisce atto idoneo ad interrompere la prescrizione, ai sensi dell’art. 2943 c.c., u.c., l’inoltro della richiesta di adempimento per lettera raccomandata, la cui spedizione è provata dalla relativa ricevuta e i cui particolari doveri di consegna a carico del servizio postale ne fanno presumere l’arrivo al debitore, pur in assenza della ricevuta di ritorno, sicché solo a seguito di contestazione del destinatario sorge l’onere per il mittente di provare il ricevimento (ex plurimis Cass. 6 agosto 1996 n. 7181, Cass. 5 ottobre 1998 n, 9861, Cass. 3 luglio 2003 n. 10536).

Orbene la decisione del Giudice d’appello di esclusione della presunzione, di cui all’art 1335 c.c., di ricezione della lettera da parte della B., per quanto sopra già esposto, discende dalla considerazione del non essere la stessa la destinataria della missiva, mentre per I E l’esclusione si incentra sul difetto di legittimazione passiva.

Trattandosi di circostanze oggettive, innegabilmente contrastanti con l’assunto del ricorrente, la soluzione adottata non può che essere ritenuta corretta.

Venendo all’esame dei ricorsi incidentali – che sono parzialmente sovrapponibili nelle difese e nelle censure, con i quali entrambi i ricorrenti incidentali lamentano: la violazione degli artt. 74 e 87 delle disp. att. c.p.c. in relazione agli artt. 169 e 183 c.p.c., nonché dell’art. 24 e 111 Cost., denunciando gravi irregolarità del ricorrente principale nel deposito dei documenti (primo motivo); violazione degli artt. 112,183, 345 c.p.c., 2956 e 2959 c.c. assumendo la assoluta novità introdotta in gradi di appello dal T relativamente alla mancata contestazione del credito da parte della B. nel giudizio di primo grado, per cui il giudice del gravame avrebbe dovuto ritenere l’inammissibilità del motivo e non già esaminarlo nel merito (secondo motivo); violazione dell’art 342 c.p.c. per assoluta genericità dei motivi di appello della presunta contestazione del credito da parte della debitrice (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 183, 184 e 187 c.p.c. perché nonostante il T avesse rinunciato in primo grado alla richiesta di deferimento di giuramento decisorio, avrebbe dovuto ritenersi inammissibile la richiesta poi avanzata in grado di appello, per cui la corte di merito non avrebbe dovuto esaminare nel merito l’istanza (quarto motivo); nonché violazione degli artt. 112, 163, 164 e 183 c.p.c. per tardiva introduzione della richiesta da parte del T. dei compensi ai sensi dell’art 30 codice deontologico forense non rilevata di ufficio (secondo motivo del ricorso incidentale proposto dall’’E.) – risultando proposti in via condizionata, rimangono assorbiti dal rigetto del ricorso principale. In merito alla regolamentazione delle spese del presente giudizio, si ritiene che vada comunque seguito il criterio della soccombenza e vengono liquidati come in dispositivo, con valutazione unitaria per entrambi i resistenti, stante la sostanziale coincidenza delle difese, computata tenendo conto dell’aumento di cui all’art. 5 della legge professionale.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale, assorbiti i ricorsi incidentali condizionati; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida – per entrambi i controricorrenti – in complessivi € 2.000,00, di cui € 200.00 per esborsi, oltre a spese forfettarie ed accessori, come per legge.


Riscossione delle entrate dei Comuni: proroga ad Equitalia

Nella Gazzetta ufficiale 20 giugno 2015, è stato pubblicato il D.L. 19 giugno 2015, n. 78 (decreto Enti locali). Tra le disposizioni dettate dal D.L. Enti locali n. 78/2015, l’art 7 prevede l’estensione anche alla TARES della facoltà di affidamento dei controlli al soggetto gestore del servizio rifiuti e la proroga al 31 dicembre 2015 del termine sulla riscossione, in attesa del riordino del sistema della riscossione locale, previsto dalla legge delega fiscale n. 23/2014. In particolare viene differito al 31 dicembre 2015 il termine entro cui Equitalia, le società dalla stessa partecipate e Riscossione Sicilia S.p.a. cessano di effettuare le attività di accertamento, liquidazione e riscossione, spontanea e coattiva, delle entrate, tributarie o patrimoniali, dei Comuni e delle società da essi partecipate.

DL 19/06/2015, n. 78

Art. 7. Ulteriori disposizioni concernenti gli Enti locali

7. Al comma 2-ter dell’articolo 10 del decreto legge 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2013, n. 64, e successive modificazioni, le parole: “30 giugno 2015” sono sostituite dalle seguenti: “31 dicembre 2015”.

DL 08/04/2013, n. 35

Capo III

Ulteriori misure in materia di equilibrio finanziario degli enti territoriali

Art. 10 Modifiche al decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e disposizioni in materia di versamento di tributi locali

….

2-ter. Al fine di favorire il compiuto, ordinato ed efficace riordino della disciplina delle attività di gestione e riscossione delle entrate dei Comuni, anche mediante istituzione di un Consorzio, che si avvale delle società del Gruppo Equitalia per le attività di supporto all’esercizio delle funzioni relative alla riscossione, i termini di cui all’articolo 7, comma 2, lettera gg-ter), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, e all’articolo 3, commi 24, 25 e 25-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, sono stabiliti inderogabilmente al 31 dicembre 2015.


P.A.: CONCORSI ADDIO prima occorre ricollocare tutti i dipendenti di tutte le province

La legge di stabilità ha imposto ai comuni di destinare tutte le risorse per le assunzioni agli esuberi delle province, oltre che ai vincitori dei propri concorsi, ma la Corte dei Conti chiarisce che il vincolo va letto in chiave nazionale e non territoriale.

In altre parole, prima che un comune possa bandire nuovi concorsi o di “pescare” dalle graduatorie di un ente vicino, occorre che tutti gli esuberi delle province italiane siano stati ricollocati, e non basta esaurire il bacino della provincia in cui il comune si trova.

La Corte dei Conti (sezione autonomie, deliberazione 19/2015), insomma, sceglie la via più rigorosa nell’applicazione della corsia preferenziale per gli ex provinciali aperta dal comma 424 legge 190/2014; una scelta coerente con l’obiettivo della norma – nata per evitare che il personale “di troppo” negli enti di area vasta resti senza posto mentre gli enti locali bandiscono nuovi concorsi – ma che determina più di un problema applicativo.

Per due ragioni. La prima è legata al fatto che l’elenco degli “esuberi” provinciali è ancora di là da venire, dal momento che molte regioni continuano a essere in ritardo nella redistribuzione delle funzioni, e quindi degli organici. In secondo luogo, per un comune ad esempio piemontese o lombardo è molto più semplice indirizzare la lettera di assunzione al vincitore del concorso di un ente confinante, piuttosto che a un «soprannumerario» di una provincia lontana.

Di conseguenza, il principio fissato dalla legge di stabilità rischia di tradursi per molti enti in un blocco sostanziale delle assunzioni.

L’unica deroga è prevista per i profili «infungibili», cioè per quelle professionalità che sono necessarie al comune ma che in provincia non si trovano perché estranee alle funzioni dell’ente di area vasta. Anche in questo caso, l’eccezione prevista dalla stessa legge di stabilità è interpretata in modo rigido dalla magistratura contabile: la deroga scatta solo per le professionalità «specifiche e legalmente qualificate», attestate da titoli di studio quando lo prevede la legge.

In questi casi, l’ente può effettuare assunzioni “libere” dopo aver constatato l’inesistenza di una professionalità analoga fra il personale


Incostituzionalità della sanzione per i compensi ai pubblici dipendenti

La Corte Costituzionale con la recente Sentenza n. 98 del 5 giugno 2015, nel risolvere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale Ordinario di Ancona, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 53, comma 15, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che “I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”.

Nello specifico, è stata dichiarata incostituzionale la sanzione comminata agli enti pubblici ed ai soggetti privati che, avendo conferito un incarico professionale ad un dipendente pubblico, non comunicano, nei termini di legge (ovvero entro il 30 aprile di ciascun anno), i compensi erogati nell’anno precedente.

Riguardo a tale sanzione ponendo l’accento su di un’attività di verifica che era stata intrapresa dalla Guardia di Finanza, volta a sanzionare coloro che, avendo affidato un incarico professionale retribuito ad un professionista che ricopriva il ruolo di docente universitario a tempo pieno, avevano aggiudicato il suddetto incarico senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente, contrariamente a quanto previsto dalla normativa vigente, nonché omettevano la comunicazione dei compensi.

A seguito di tale attività ispettiva, gli “sfortunati” clienti del professionista-docente universitario si erano così visti notificare un verbale di contestazione con l’irrogazione di una sanzione pari al doppio del compenso corrisposto al professionista, con la possibilità di presentare entro 30 giorni scritti difensivi e documenti o di pagare entro 60 giorni un terzo della sanzione prevista per la violazione.

Si era, pertanto, avuto modo di sottolineare come, proprio in considerazione dell’effettiva violazione commessa e, in particolare, in considerazione dell’esimente dell’incolpevole errore sul fatto, nel caso in cui il soggetto non era al corrente della qualifica di dipendente pubblico della persona al quale era stato aggiudicato l’incarico ed erogato il compenso, si trattava di una sanzione quanto mai ingiusta e del tutto esorbitante.

Ora la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma che prevedeva l’applicazione della sanzione per la mancata comunicazione dei compensi, sulla base di una serie di motivazioni.

Innanzitutto, la Corte Costituzionale ha posto in evidenza come la legge delega, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie in caso di omissione della comunicazione dei compensi.

Ciò nonostante, l’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’articolo 58 del Decreto Legislativo n. 29 del 1983, accanto alla previsione della sanzione per mancata richiesta di autorizzazione da parte del dipendente a svolgere l’opera professionale, ha previsto, altresì, la sanzione per omessa comunicazione dei compensi all’amministrazione di appartenenza, entro il 30 aprile di ciascun anno.

Al riguardo, la Corte Costituzionale ha così correttamente osservato come “Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il compito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza”.

Ed ancora, è stato rilevato come la sanzione per omessa comunicazione dei compensi finisce per risultare particolarmente vessatoria, in considerazione che la stessa sarebbe un inutile doppione di quella già prevista per la mancata previa autorizzazione dell’incarico, riguardando entrambe inadempimenti di carattere puramente formale.

Allo stesso modo, tale sanzione si pone in contrasto con i principi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.

La norma è stata, pertanto, dichiarata incostituzionale perché in contrasto con gli articoli 3 e 76 della Costituzione.

Corte costituzionale

Sentenza 5 giugno 2015, n. 98

Presidente: Criscuolo – Redattore: Grossi

[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale ordinario di Ancona nel procedimento vertente tra R.G. ed altre e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Ancona, con ordinanza del 20 febbraio 2014, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di R.G. ed altre, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato Giovanni Paolo Businello per R.G. ed altre e l’avvocato dello Stato Barbara Tidore per il Presidente del Consiglio dei ministri.

RITENUTO IN FATTO

1.- Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva – in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui dispone che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».

Premette il Tribunale di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta da alcuni soggetti privati avverso una serie di ordinanze-ingiunzione emesse dall’Agenzia delle entrate per sanzioni amministrative pecuniarie irrogate, a norma dell’art. 6 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, per avere conferito a due dipendenti della Marina militare incarico di attività professionale senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, negli anni 2008 e 2009, e per non aver comunicato alla stessa amministrazione i compensi erogati nei medesimi anni.

Risulta pacifico – sottolinea il giudice a quo – che i ricorrenti non abbiano adempiuto agli obblighi di comunicazione prescritti per chi conferisca incarichi a pubblici dipendenti, a norma dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001; così come risulta pacifico che essa medesima fosse a conoscenza del fatto che i propri collaboratori erano dipendenti pubblici militari.

Dopo aver riprodotto il testo di diversi commi dell’art. 53 in discorso e in contrasto alla tesi degli opponenti (secondo cui «non dovrebbe ricevere sanzione, per i militari, l’omessa comunicazione all’amministrazione di appartenenza dei compensi erogati imposta dal comma 11 del citato art. 53, in quanto il comma 6, che regola l’ambito di applicazione della norma, fa riferimento ai commi da 7 a 13, escludendo, dunque, il comma 15, contenente l’apparato sanzionatorio, differentemente da quanto disposto nella versione precedente del predetto comma 6 che richiamava, al contrario, anche i commi fino al 16»), il Tribunale reputa che l’eliminazione, dal comma 6 dell’articolo impugnato, del riferimento al comma 15 si giustifichi per il fatto che la sanzione per l’omessa comunicazione «non viene irrogata ai dipendenti pubblici, ma soltanto ai soggetti che si avvalgono della loro opera»; con la conseguente piena applicabilità nei confronti di questi ultimi delle sanzioni previste – in caso di omessa comunicazione, da parte dell’ente conferente, dei compensi erogati ogni anno – dall’art. 6 del d.l. n. 79 del 1997 in relazione ai dipendenti destinatari di incarichi retribuiti. Troverebbe, quindi, applicazione, nel caso di specie, la normativa di cui al comma 15 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Ripercorsa la disciplina delle leggi-delega n. 59 del 1997 e n. 421 del 1992, dalla prima richiamata, il giudice rimettente osserva come l’art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre importanti modifiche all’art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), abbia, da un lato, sostituito «l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con l’obbligo di ottenere la previa autorizzazione» dell’amministrazione, prevedendo, correlativamente, che la sanzione amministrativa si applichi «all’inadempimento all’obbligo di autorizzazione»; dall’altro lato, introdotto «un’altra identica [sanzione] anche in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione dei compensi erogati».

Dalla riportata normativa emergerebbe come «la legge delega non contenesse alcun riferimento alla possibilità di introduzione di sanzioni amministrative in caso di inottemperanza agli obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti», malgrado anche le sanzioni amministrative rispondano al principio di legalità e richiedano, perciò, se disposte in base a una legge di delega, l’enunciazione di precisi criteri direttivi. D’altra parte, pur ricorrendo «ad un apprezzamento in precedenza espresso dallo stesso legislatore», si ricaverebbe che l’ipotesi di un illecito amministrativo, già introdotta dal legislatore nella precipua materia, era stata limitata «espressamente alla condotta relativa alla mancata comunicazione dell’incarico, con esclusione, invece, della diversa ma conseguente condotta della mancata comunicazione di compensi».

D’altra parte, dovendo le disposizioni della delega essere interpretate secondo il criterio della ragionevolezza, questo non sarebbe stato, nella specie, rispettato: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».

La doppia sanzione, d’altra parte, porrebbe «il soggetto che, per ignoranza o negligenza, non abbia chiesto la previa autorizzazione all’incarico nell’alternativa di perseguire nell’illecito, con rischio di comminazione della doppia sanzione, laddove scoperto, o di autodenunciarsi, provvedendo alla comunicazione del compenso», «con conseguente violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.».

2.- Si sono costituiti in giudizio i soggetti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata.

Dopo la rievocazione dei fatti di causa e delle difese ivi dispiegate, viene dedotto il vizio di difetto di delega, sottolineando come la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di puntualizzare che, anche per le sanzioni amministrative, i criteri della delega «devono essere precisi e vanno rigorosamente interpretati», dovendosi, nella specie, escludere che la valutazione della necessità di una sanzione possa trarsi da un apprezzamento in precedenza espresso dal legislatore, in ragione del principio della successione delle leggi nel tempo.

Richiamato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, si chiede l’accoglimento della questione anche in riferimento al dedotto profilo di violazione del criterio di ragionevolezza.

3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.

Osserva l’Avvocatura generale che l’introduzione di una fattispecie di illecito è un ordinario strumento di normazione per rafforzare la tutela dei beni protetti, sicché tali fattispecie rappresenterebbero un coerente sviluppo delle indicazioni fornite dal legislatore delegante.

Quanto alla pretesa violazione del principio di ragionevolezza, il giudice rimettente avrebbe trascurato di considerare la distinta offensività delle due condotte sanzionate: mentre, infatti, l’acquisizione del preventivo consenso mirerebbe ad evitare possibili conflitti di interesse, l’obbligo della comunicazione dei compensi risponderebbe alla finalità «di aggiornamento costante della banca dati presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, utilizzata per il monitoraggio degli incarichi extraistituzionali».

Gli aspetti relativi all’esercizio del diritto di difesa, infine, sarebbero irrilevanti – la società opponente era a conoscenza della qualità di dipendenti pubblici delle persone occupate – e comunque infondati, posto che, se l’ignoranza inescusabile della norma regolativa dell’illecito non è esimente, a maggior ragione non potrebbe parlarsi di una violazione del diritto di difesa.

4.- In prossimità dell’udienza, le parti private costituite hanno depositato una “memoria illustrativa” per contrastare gli argomenti svolti dall’Avvocatura generale, ribadendo richieste e conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Secondo il giudice rimettente, la legge di delegazione, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie per l’inosservanza dei previsti obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti e di comunicazione dei relativi compensi.

Le disposizioni della delega, d’altra parte, non sarebbero state interpretate secondo il criterio della ragionevolezza: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».

Costituendosi in giudizio, i soggetti ricorrenti nel giudizio principale hanno chiesto una declaratoria di illegittimità costituzionale.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto, invece, di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.

2.- La questione è fondata.

2.1.- Come si è accennato in parte narrativa, il Tribunale rimettente censura la previsione di cui all’art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui è stabilito che i soggetti di cui al comma 9 – vale a dire gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione della amministrazione di appartenenza, e che omettano le comunicazioni di cui al comma 11 (a norma del quale «entro quindici giorni dalla erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici») – sono assoggettati alle sanzioni di cui allo stesso comma 9; il quale, a sua volta, prevede l’applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni ed integrazioni, che stabilisce una «sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici».

Nella prospettazione del giudice rimettente, le censure fanno essenzialmente leva sulla circostanza che, nei confronti degli enti o dei privati che conferiscano incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione, si applicherebbe una doppia sanzione, di eguale ammontare: una prima sanzione per il conferimento dell’incarico senza autorizzazione ed una seconda sanzione per l’omessa tempestiva comunicazione dell’ammontare dei compensi, per la quale ultima si profilerebbe, fra l’altro, una sorta di obbligo di “autodenuncia” da parte del terzo datore di lavoro, non sintonica con il diritto di difesa.

Il nucleo della doglianza ruota intorno al dedotto vizio di carenza di “copertura” della disposizione impugnata rispetto alle direttive della legge di delega, la quale non conterrebbe indicazioni tali da legittimare la previsione del contestato meccanismo sanzionatorio – in sé, particolarmente afflittivo – specie se interpretate alla luce del principio di ragionevolezza, alla stregua del quale deve essere apprezzata la coerenza della normativa delegata rispetto ai corrispondenti criteri direttivi.

2.2.- Lo specifico quadro normativo di riferimento appare, peraltro, particolarmente complesso, data la significativa stratificazione delle varie disposizioni succedutesi nel tempo e l’innesto di discipline di varia fonte, definitivamente confluite in quella di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, destinato a svolgere una funzione, in parte, meramente ricognitiva e riepilogativa: a norma, infatti, dell’art. 1, comma 8, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), richiamato nel preambolo del predetto decreto legislativo, il Governo era stato delegato «ad emanare un testo unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni».

Il medesimo preambolo fa poi riferimento all’art. 2 della legge n. 421 del 1992, con il quale il Governo aveva ottenuto (comma 1) la delega ad emanare, entro la data ivi fissata, «uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione», sulla base di una serie di criteri direttivi, fra i quali viene in questa sede in particolare evidenza quello sancito alla lettera p): che il Governo potesse «prevedere che qualunque tipo di incarico a dipendenti della pubblica amministrazione possa essere conferito in casi rigorosamente predeterminati» e che, tuttavia, «l’amministrazione, ente, società o persona fisica che hanno conferito al personale dipendente da una pubblica amministrazione incarichi previsti dall’articolo 24 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, entro sei mesi dall’emanazione dei decreti legislativi di cui al presente articolo, siano tenuti a comunicare alle amministrazioni di appartenenza del personale medesimo gli emolumenti corrisposti in relazione ai predetti incarichi, allo scopo di favorire la completa attuazione dell’anagrafe delle prestazioni prevista dallo stesso articolo 24».

In attuazione della richiamata delega legislativa era stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), il quale sotto l’art. 58 – divenuto, poi, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 – prevedeva (comma 6) l’obbligo di comunicazione degli incarichi conferiti da privati o enti pubblici a dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in attuazione dell’anagrafe delle prestazioni, di cui al già richiamato art. 24 della legge n. 412 del 1991; nonché (comma 7) l’obbligo di comunicazione dei relativi compensi, senza, tuttavia, la previsione di alcun genere di sanzioni.

Veniva successivamente emanata la legge-delega n. 59 del 1997, anch’essa espressamente richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 165 del 2001, la quale, peraltro, non conteneva alcun principio o criterio direttivo avente attinenza o interferenza specifica con il tema qui in discorso.

Subito dopo la promulgazione di quest’ultima legge di delega, veniva emanato il d.l. n. 79 del 1997, come convertito dalla legge n. 140 del 1997, il cui art. 6 introduceva nel sistema, per la prima volta, la previsione di una sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti pubblici o privati che non avessero ottemperato all’obbligo di cui all’art. 58, comma 6, del già citato d.lgs. n. 29 del 1993: vale a dire l’obbligo di comunicazione alle amministrazioni di appartenenza degli incarichi conferiti, da privati o enti pubblici, ad appartenenti alle pubbliche amministrazioni.

Dunque, come esattamente messo in luce dal Tribunale rimettente, al momento della approvazione del decreto legislativo n. 80 del 1998, adottato in esercizio della delega di cui alla predetta legge n. 59 del 1997, il quadro normativo vigente prevedeva l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di coloro che avessero omesso di comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli incarichi conferiti a pubblici dipendenti, ma non sanzionava in alcun modo la mancata comunicazione dei compensi erogati.

L’art. 26 del predetto d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, sostituiva l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con quello della previa autorizzazione da parte della amministrazione di appartenenza e, correlativamente, stabiliva l’applicazione della sanzione amministrativa per l’inadempimento di tale obbligo (comma 9).

Ma – ed è questo il dato qui di maggior interesse – con il medesimo art. 26 il legislatore delegato ha ritenuto di introdurre, per la prima volta, una identica sanzione anche per l’ipotesi in cui i soggetti conferenti incarichi non autorizzati avessero omesso di comunicare alle amministrazioni stesse, «entro il 30 aprile di ciascun anno», l’ammontare dei «compensi erogati nell’anno precedente» (commi 11 e 15).

Tale ultima disciplina – recepita, al pari dell’altra, nel nuovo decreto delegato e oggetto della attuale denuncia – risulta, dunque, non riconducibile a princìpi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo: ciò in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra disciplina delegante, di competenza del Parlamento, e disciplina delegata, affidata alle scelte – a discrezionalità “circoscritta” – del Governo.

2.3.- Può, infatti, rammentarsi come si sia, in più occasioni, puntualizzato che i vincoli derivanti dall’art. 76 Cost., per l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo, non inibiscano a quest’ultimo l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo o un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal primo (tra le tante pronunce, più di recente, la sentenza n. 229 del 2014). Ove così non fosse, del resto, al legislatore delegato verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere, pur sempre primario, del provvedimento legislativo delegato.

La delega legislativa, in altri termini, non esclude qualsiasi discrezionalità del legislatore delegato, destinata a risultare più o meno ampia in relazione al grado di specificità dei criteri fissati dalla legge di delega: sicché la valutazione dell’eccesso, o del difetto, nell’esercizio della delega, va compiuta in rapporto proprio alla ratio della delega medesima, onde stabilire se la norma delegata sia coerente (sentenza n. 119 del 2013) o compatibile con quella delegante.

È, tuttavia, del pari evidente che, ove – come nella situazione di specie – si discuta della predisposizione, da parte del legislatore delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di espressa indicazione nell’ambito della delega, lo scrutinio di “conformità” tra le discipline appare particolarmente delicato. Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il còmpito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza.

Né potranno risultare trascurabili, nella vicenda normativa in esame, alcuni ulteriori rilievi. La previsione della sanzione per l’omessa comunicazione dei compensi corrisposti a dipendenti delle pubbliche amministrazioni per incarichi non previamente autorizzati finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione si duplica rispetto a quella già prevista – nella stessa, grave misura – per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale.

La sanzione, in altri termini, per la violazione di un obbligo che appare del tutto “servente” rispetto a quello relativo alla comunicazione del conferimento di un incarico – previsto in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, connesse, come si è più volte sottolineato, al funzionamento della anagrafe delle prestazioni, tenuto anche conto delle modifiche apportate all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ad opera dell’art. 1, comma 42, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – viene a sovrapporsi irragionevolmente – perequando fra loro situazioni del tutto differenziate, per gravità e natura – a quella prevista per la violazione di un obbligo di carattere sostanziale.

Il che, fra l’altro, conferisce alla sanzione “accessoria” di cui qui si discute – posta a carico, per di più, di un soggetto comunque terzo rispetto al rapporto di servizio tra pubblica amministrazione e dipendente – un carattere di automatismo e di non graduabilità non poco contrastante con i princìpi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.

In quanto adottata in contrasto con gli artt. 3 e 76 Cost., la disposizione censurata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, restando assorbiti i profili di censura relativi agli altri parametri evocati.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».


La notifica a mezzo p.e.c. deve ritenersi esca fuori dal modello legale delle notificazioni

La notifica a mezzo p.e.c., se non espressamente prevista da una norma, deve ritenersi esca fuori dal modello legale delle notificazioni e nessuna norma autorizza possa avvenire la notifica di un accertamento e/o di una rettifica a mezzo p.e.c. Trattandosi di inesistenza della notifica e non di nullità non può trovare applicazione la sanatoria per avvenuta presentazione del ricorso.

Commiss. Trib. Prov. Lombardia Milano Sez. XXI, 24/06/2014, n. 6087


Garante Privacy: attenzione ad inviare le email senza eliminare i dati sensibili

Il Garante per la protezione dei dati personali, in un provvedimento del 23 aprile, ha stabilito che è illecito inoltrare una mail con informazioni sulla salute e il numero di cellulare della persona che l’ha inviata senza averla prima informata e avere avuto il suo consenso.

Nel caso in esame, una donna, collaboratrice di una società di consulenza e assistenza informatica, si è rivolta al Garante Privacy lamentando l’illecito trattamento dei dati personali contenuti in una email inviata ad un conoscente di una agenzia immobiliare, per promuovere la sua attività di consulenza.

La email, contenente sia informazioni di natura promozionale oltre che il numero di cellulare della reclamante e informazioni relative ad una operazione che avrebbe dovuto affrontare, dopo esser stata parzialmente modificata dai collaboratori di due società, era stata inoltrata ad oltre 200 affiliati commerciali, senza cancellare le informazioni personali che la donna aveva inserito.

Tale condotta, avvenuta in assenza di informativa e di adeguati presupposti giustificativi, avrebbe integrato, a detta dell’interessata, un’indebita divulgazione dei propri dati personali e sensibili, aggravata dal disagio provocatole dalle numerose telefonate ricevute nei giorni successivi all’intervento ad opera di alcuni franchisee, ormai al corrente delle sue condizioni di salute, oltre che del relativo numero di cellulare, anch’esso riportato nell’email allegata.

Inoltre, sottolinea l’Autorità, la documentazione acquisita ha confermato, per espressa ammissione delle società, che la trasmissione della email è avvenuta senza informare l’interessata e, quindi, senza acquisire il relativo consenso.

In considerazione della ritenuta violazione degli articoli 13, 23 e 26 del Codice della Privacy, la reclamante ha chiesto al Garante di inibire alle due società l’ulteriore trattamento dei suoi dati personali e sensibili, disponendo altresì la relativa cancellazione.

Pertanto, l’Autorità ha dichiarato illecito il trattamento effettuato dalle due società relativamente ai dati personali e sensibili dell’interessata ed ha stabilito che la responsabilità fosse addebitabile alle società, in capo alle quali rimane il compito ed il potere di vigilare sui propri collaboratori.

Nel disporre il divieto, il Garante ha dunque prescritto alle società di adottare idonee misure atte a garantire una scrupolosa vigilanza sull’operato del personale, sensibilizzandolo al rispetto delle istruzioni ricevute sulla protezione dei dati personali.

(Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento 23 aprile 2015, n. 242)


Nuovo attacco informatico al nostro sito

attacchi-informatici-hackerNella giornata del 22 maggio 2015 abbiamo subito un nuovo attacco informatico che, nonostante le misure di sicurezza adottate, hanno oscurato il nostro sito web.

Tale oscuramento è durato poche ore avendo ripristinato in tempo record l’agibilità del sito. Purtroppo, però, sono stati cancellati alcuni file ed immagini che saranno ripristinate entro pochi giorni.

Si sente parlare molto di crimine informatico, o anche cybercrime, ma in cosa consiste esattamente? In realtà si tratta di un argomento complesso.

Analogamente al crimine tradizionale, quello informatico può assumere varie forme e essere perpetrato praticamente sempre e ovunque. I criminali che commettono questo tipo di crimini utilizzano una serie di metodi a seconda delle proprie capacità e scopi. Ciò non dovrebbe sorprendere: il crimine informatico è, dopotutto, semplice ‘crimine’ con l’aggiunta di qualche sorta di componente ‘informatico’.

Nel trattato del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica viene utilizzato il termine “cybercrime” per definire reati che vanno dai crimini contro i dati riservati, alla violazione di contenuti e del diritto d’autore [Krone, 2005]. Tuttavia, altri [Zeviar-Geese, 1997-98] suggeriscono una definizione più ampia che comprende attività criminose come la frode, l’accesso non autorizzato, la pedopornografia e il “cyberstalking” o pedinamento informatico. Il manuale delle Nazioni Unite sulla prevenzione e il controllo del crimine informatico (The United Nations Manual on the Prevention and Control of Computer Related Crime) nella definizione di crimine informatico include frode, contraffazione e accesso non autorizzato [Nazioni Unite, 1995].

Come si può vedere da queste definizioni, il crimine informatico può coprire una gamma molto ampia di attacchi. È importante comprendere le differenze tra i vari tipi di crimine informatico, in quanto ciascuno richiede un approccio diverso per migliorare la sicurezza del computer.

Prendendo spunto dalle varie definizioni, Symantec descrive concisamente il crimine informatico come un crimine commesso utilizzando un computer, una rete o un dispositivo hardware. Il computer o il dispositivo può essere l’agente, il mezzo o l’obiettivo del crimine.Un crimine può avere luogo sul solo computer o in combinazione con altre posizioni e luoghi.Per meglio comprendere l’ampia gamma di crimine informatico esistente è possibile dividerlo in due categorie definendolo, per lo scopo di questa ricerca, come crimine informatico di Tipo 1 e di Tipo 2.

Il crimine informatico di Tipo 1 presenta le seguenti caratteristiche:

  • Si tratta generalmente di un singolo evento se visto dalla prospettiva della vittima. Ad esempio, la vittima scarica inconsapevolmente un Trojan Horse che installa sul suo computer un keystroke logger, ovvero un programma che registra quanto viene digitato sulla tastiera. In alternativa, la vittima può ricevere un’e-mail contenente quello che sembra un collegamento a un sito noto, ma che è in realtà un sito ostile.
  • Il crimine informatico viene facilitato da programmi crimeware quali keystroke logger, virus, rootkit o Trojan Horse.
  • I difetti e le vulnerabilità dei software offrono spesso un punto di appoggio all’aggressore per perpetrare l’attacco. Ad esempio, i criminali che controllano un sito Web possono sfruttare una vulnerabilità del browser Web per introdurre un Trojan Horse nel computer della vittima.

Esempi di questo tipo di crimine informatico includono, tra gli altri, il phishing, il furto e la manipolazione di dati o servizi tramite azioni di hacking o virus, il furto di identità e le frodi bancarie o legate all’e-commerce.

Il crimine informatico di Tipo 2 comprende attività quali il cyberstalking e le molestie, le molestie ai minori, l’estorsione, il ricatto, la manipolazione dei mercati finanziari, lo spionaggio e le attività terroristiche, ma non si limitano solo a queste.Le caratteristiche del crimine informatico di Tipo 2 sono le seguenti:

  • È caratterizzato solitamente da una serie continua di eventi che prevedono ripetute interazioni con l’obiettivo.Ad esempio, la vittima viene contattata in una chat da qualcuno che, nel corso di un certo periodo di tempo, tenta di stabilire qualche tipo di relazione.Alla fine, il criminale sfrutta il legame che si è stabilito con la vittima per commettere un crimine.Un altro caso si verifica quando i membri di una cellula terroristica o di un’organizzazione criminale utilizzano messaggi in codice per comunicare in un forum pubblico e, ad esempio, pianificare attività criminose o concordare luoghi di riciclaggio di denaro sporco.
  • Tali attività vengono facilitate generalmente da programmi che non rientrano nella definizione di crimeware. Ad esempio, le conversazioni possono avvenire tramite client di messaggistica istantanea e i file possono essere trasferiti mediante FTP.
Si ringraziano i “naviganti” per il disagio che si è arrecato.


POSTA ELETTRONICA è documento amm.vo soggetto al diritto di accesso

E’ soggetto a diritto di accesso, come gli altri atti amministrativi, il messaggio di posta elettronica in casella email.

Con recente sentenza il Consiglio di Stato ha dimostrato che la rapida evoluzione dei sistemi di comunicazione informatica nell’odierno contesto sociale può diventare una fonte di pesante incertezza sotto il profilo del diritto amministrativo.

Prendendo spunto dal ricorso di un dipendente dell’Istituto Nazionale Astrofisica – il quale inoltrava un’istanza di accesso al presidente dell’ente per conoscere il contenuto di una email a lui indirizzata e ritenuta lesiva della propria reputazione professionale – i giudici rilevano che “il contenuto dell’email non può ritenersi corrispondenza privata in quanto il presidente ha provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’esistenza di tale informativa”, con l’effetto che “la particolarità della fattispecie concreta assegna valenza di documento all’email inviata al presidente dell’Istituto”.

Questa conclusione è compatibile con l’art. 22 lettera d) della legge 241/1990, secondo cui per documento amministrativo si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una PA e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.

Per i giudici dunque il messaggio di posta elettronica – nella situazione esaminata – si atteggia quale “documento ormai detenuto dall’Amministrazione” e, come tale, è da ritenersi soggetto all’istanza di accesso al pari di un qualsiasi altro atto amministrativo.

A proposito dei sistemi di comunicazione informatica, la decisione richiama alla mente il recente intervento del Consiglio di Stato (Sez. VI sentenza 12.2.2015) ove si è chiarito che un tweet non è un atto amministrativo.

Una diversa sorte sembra spettare invece al messaggio di posta elettronica, anche se questa tesi espone il fianco a non poche perplessità, stante il limitato valore probatorio delle email ai fini amministrativi – soprattutto procedimentali – trattandosi di oggetti non sottoscritti e non verificabili sotto il profilo della relativa provenienza.

Secondo il Consiglio di Stato non rileva la tutela della riservatezza dell’autore dell’e-mail qualora la parte appellata ha dimostrato che la conoscenza del suo contenuto e del nome del mittente è necessaria ai fini sia della difesa nell’ambito del giudizio relativo al conferimento dell’incarico sia, soprattutto, per potere agire in giudizio ai fini della tutela del proprio onore e della propria reputazione professionale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 05-03-2015, n. 1113

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10517 del 2014, proposto da:

Istituto Nazionale di Astrofisica-Inaf, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato presso gli uffici di quest’ultima in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

contro

M.M., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Ingrascì, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Via Santa Maria dell’Anima, 39;

per la riforma

della sentenza 21 ottobre 2014, n. 10552, del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma, Sezione III.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio di M.M.;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2015 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Pizzi e l’avvocato Ghera per delega dell’avvocato Ingrascì.

Svolgimento del processo

1.- La Sig.ra M.M., dipendente dell’Istituto nazionale di astrofisica-INAF (d’ora innanzi anche solo INAF), con profilo di Tecnologo, già responsabile amministrativo dell’Osservatorio astrofisico di Catania dal 2005 al 2012, ha presentato ricorso al Tribunale di Catania, Sezione Lavoro, relativo alla procedura di conferimento del predetto incarico per l’anno 2013.

La parte, in data 15 novembre 2013, a tutela della propria immagine professionale, inoltrava all’amministrazione istanza di accesso, avente ad oggetto le richieste di intervento dei ricercatori per difficoltà di gestione amministrativa delle missioni, a cui veniva fatto riferimento nel verbale del consiglio di amministrazione del 20/21 marzo 2012, le segnalazioni al Direttore Generale sulla conflittualità tra i dipendenti dell’Osservatorio e l’istante, con particolare riferimento al contenzioso instaurato, le segnalazioni e richieste relative all’Osservatorio, sottoposte all’attenzione del consiglio di amministrazione nelle adunanze di cui al suddetto verbale.

Alla suindicata richiesta l’INAF forniva una risposta con nota del 13 dicembre 2013, rilevando come quelle indicate erano problematiche afferenti alla gestione amministrativa delle missioni, facendo, tra l’altro, richiamo alla “missiva di cui all’allegato 5”, che conteneva parte del testo di una e-mail indirizzata da un soggetto non indicato al Presidente dell’Istituto.

L’interessata, non soddisfatta della predetta risposta, presentava, a tutela della propria immagine professionale, una nuova domanda di accesso, in data 16 dicembre 2013, volta al conseguimento: a) della versione integrale del menzionato allegato 5, col nominativo dell’estensore del relativo foglio, b) degli allegati a loro volta abbinati al suddetto allegato 5; c) delle eventuali note di trasmissione dell’allegato 5 ad altri soggetti; d) degli atti oggetto di discussione nelle adunanze del consiglio di amministrazione di cui al verbale del 20/21 marzo 2012; e, g) delle eventuali richieste di intervento da parte di ricercatori sulle difficoltà di gestione delle missioni; ;f, g) di altri atti e segnalazioni riferiti all’istante; h) di notizie volte a sapere se nel consiglio di amministrazione erano state mai discusse le accennate problematiche relative all’Osservatorio di Catania.

Con foglio del 15 gennaio 2014 l’INAF segnalava che, oltre gli atti già trasmessi, non esistevano altri documenti relativi a segnalazioni, richieste di intervento e problematiche riferite all’Osservatorio di Catania, che le discussioni e le decisioni del consiglio di amministrazione erano riportate nei verbali accessibili sul sito istituzionale dell’Istituto, che il nominativo dell’estensore della nota di cui al suddetto allegato 5 non veniva rilevato per esigenze di riservatezza.

2.- L’interessata ha impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio tale diniego, deducendo la violazione degli articoli 1, 2, 3, 22, comma 1d, 24, comma 7, della L. n. 241 del 1990, dell’art.9, comma 1, del D.P.R. 12 aprile 2006, n.184, degli artt. 3, 24, 97, 113 Cost., nonché deducendo eccesso di potere sotto il profilo della manifesta contraddittorietà ed illogicità, del difetto di motivazione. La ricorrente, in particolare, ha fatto presente che l’acquisizione dei suddetti atti era strumentalmente volta alla tutela della propria immagine professionale in tutte le sedi oltre che in fase di conferimento delle funzioni di responsabile amministrativo dell’Osservatorio di Catania, con la conseguenza che le esigenze di riservatezza opposte in riferimento alla richiesta sub a) erano da considerarsi recessive e che non erano ben evidenziate le ragioni del diniego.

3.- Il Tribunale amministrativo, con sentenza 21 ottobre 2014, n. 10552, ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse in ordine alla richiesta degli atti di cui alle lettere b-h) e ha accolto il ricorso in ordine al diniego opposto all’accesso integrale, comprensivo del nominativo del mittente, del documento di cui all’allegato 5.

4.- L’Istituto ha proposto appello per le ragioni indicate nella parte in diritto.

5.- Si è costituita in giudizio la ricorrente in primo grado chiedendo il rigetto dell’appello.

6. – La causa è stata decisa all’esito della camera di consiglio del 10 febbraio 2015.

Motivi della decisione

1.- La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità del rifiuto di accesso opposto dall’Istituto Nazionale di Astrofisica in relazione al contenuto di una e-mail che un soggetto ha indirizzato al Presidente dell’Istituto al fine di segnalare alcuni episodi relativi all’attività lavorativa svolta dalla parte appellata.

2.- Con un primo motivo l’appellante deduce l’inammissibilità del ricorso di primo grado per tardività, in quanto la ricorrente non avrebbe impugnato la nota del 13 dicembre 2014, con la quale l’amministrazione aveva rigettato l’istanza di accesso. In particolare, l’appellante rileva che il successivo diniego di accesso del 15 gennaio 2014 sarebbe un atto meramente confermativo del precedente e in quanto tale inidoneo a consentire la riapertura dei termini.

Il motivo non è fondato.

L’art. 116 cod. proc. amm. dispone che “Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato”.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che “il termine previsto dalla normativa per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni dell’amministrazione sull’istanza di accesso, stabilito dall’art. 116 cod. proc. amm., come già prima dall’art. 25, L. n. 241 del 1990, in trenta giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio significativo, è a pena di decadenza: di conseguenza, la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; viceversa, quando il cittadino reiteri l’istanza di accesso in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell’istanza originaria o prospetti in modo diverso la posizione legittimante all’accesso ovvero l’ amministrazione proceda autonomamente ad una nuova valutazione della situazione, è certamente ammissibile l’impugnazione del successivo diniego, perché a questo non può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo” (Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4912; si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 7 giugno 2006, n. 3431).

Nel caso di specie, l’amministrazione, con la nota del 13 dicembre 2014, ha fatto riferimento, per la prima volta, alla missiva di cui all’allegato 5 di cui non ha però consentito l’integrale visione comprensiva del nominativo del mittente. A fronte di tale nota la parte ha pertanto formulato una nuova richiesta di accesso in data 16 dicembre 2013 alla quale l’Istituto ha risposto con l’atto impugnato.

E’ evidente, pertanto, che si è in presenza dei presupposti – novità degli elementi prospettati cui si unisce anche una risposta espressa da parte dell’amministrazione – che la giurisprudenza amministrativa, sopra riportata, ha individuato al fine di ritenere ammissibile la proposizione del ricorso giurisdizionale avverso il nuovo atto di rigetto della richiesta di accesso.

3.- Con il secondo motivo si deduce l’erroneità della sentenza per avere consentito l’accesso al contenuto di una corrispondenza privata come risulterebbe dalle circostanza che l’e-mail: i) sarebbe stata inviata all’indirizzo personale del Presidente e all’indirizzo istituzionale ad accesso esclusivo del Presidente stesso; ii) non sarebbe stata protocollata; iii) avrebbe un “tono confidenziale”.

Con il terzo motivo, connesso a quello appena esposto, si rileva come non si tratterebbero di un documento amministrativo suscettibile di accesso, non trattandosi di atti concernenti attività di interesse pubblico.

I motivi non sono fondati.

L’art. 22, lettera d), della L. n. 241 del 1990 prevede che per “documento amministrativo” si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.

L’art. 24, comma 7, della stessa L. n. 241 del 1990 dispone che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. La norma aggiunge che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Nel caso di specie entrambe le norme, contrariamente a questo sostenuto dalla difesa dell’amministrazione appellante, sono state violate.

In relazione alla natura di documento, il contenuto dell’e-mail non può ritenersi corrispondenza privata in quanto il Presidente ha provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’esistenza di tale informativa. Così facendo ha reso egli stesso di rilevanza pubblica il documento. Non è un caso che la parte privata è venuta a conoscenza dell’esistenza dell’e-mail perché il responsabile del procedimento, nell’atto di diniego dell’accesso, ha fatto ad essa riferimento mediante il rinvio all’”allegato 5″. Si trattava dunque di un documento ormai detenuto dall’amministrazione. La tesi dell’appellante sarebbe stata corretta se il Presidente avesse mantenuto in “forma privata” la corrispondenza ricevuta, assegnandole valenza non rilevante ai fini dell’attività istituzionale dell’ente.

In definitiva, deve ritenersi che, per le ragioni esposte, la particolarità della fattispecie concreta assegna valenza di documento all’e-mail inviata al Presidente dell’Istituto.

In relazione alla esigenza di tutela della riservatezza dell’autore dell’e-mail, la parte appellata ha dimostrato che la conoscenza del suo contenuto e del nome del mittente è necessaria ai fini sia della difesa nell’ambito del giudizio relativo al conferimento dell’incarico sia, soprattutto, per potere agire in giudizio ai fini della tutela del proprio onore e della propria reputazione professionale.

4.- La particola natura della controversia e la sua specificità, in assenza di precedenti giurisprudenziali rilevanti, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese anche del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:

a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe;

b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Maurizio Meschino, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore


VISITE ED ESAMI COME MALATTIA enti locali con il freno tirato

Questa volta la PA centrale batte le autonomie locali sul tempo !!

Dopo il Ministero della salute anche il Ministero delle infrastrutture recepisce la sentenza del Tar Lazio, che ha stabilito il ritorno dell’assenza per malattia in caso di visite mediche ed esami.

I dipendenti pubblici che si assentano dal lavoro per l’espletamento di visite mediche/esami diagnostici potranno essere considerati in malattia, invece che utilizzare permessi retribuiti o addirittura ferie. La giustificazione di tale assenza sarà data dalla semplice attestazione del medico o della struttura (anche privata) che ha reso la prestazione.

E quanto stabilito dal Ministero delle infrastrutture nella recente circolare n.24739/2015, con cui si recepiscono le conclusioni della sentenza n.5714/2015 del Tar Lazio.

Il ministero ha evidenziato che – in attesa di ricevere nuove istruzioni dal Dipartimento Funzione Pubblica – si possa tornare al dettato normativo dell’art.55/septies d.lgs. 165/2001, applicando la disciplina giuridica ed economica vigente prima dell’emanazione della circolare n.2/2014 della stessa Funzione Pubblica.

Quindi non sarà più necessario utilizzare i permessi retribuiti o ferie, come è venuto meno l’obbligo di produrre la certificazione telematica del proprio medico di base; certificazione che è necessaria solo quando il dipendente è assente effettivamente per «malattia».

Il presidente dell’Aran ha dichiarato che nei prossimi mesi arriverà un accordo con i sindacati, nel quale si prevederanno permessi «specifici» per visite/esami diagnostici, che – pur rientrando nell’alveo della malattia – potranno essere utilizzati anche ad ore (malattia ad ore).


Inesistente la notifica all’estero di un avviso di accertamento senza firma del destinatario

La Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia ha stabilito che la notifica all’estero di un avviso di accertamento è inesistente se manca la firma del destinatario sulla ricevuta.

Il duplicato dell’avviso di ricevimento della raccomandata rilasciato dall’ufficio postale non è sufficiente per considerare valida la consegna dell’atto. La controversia riguardava un contribuente reggiano, residente in Spagna e regolarmente iscritto all’Aire destinatario di un avviso di accertamento derivante  da una presunta plusvalenza realizzata sulla cessione di un terreno fabbricabile a una società di costruzioni per l’anno 2007. Accertando un maggior reddito, l’amministrazione finanziaria richiedeva il pagamento di una maggiore Irpef e relative sanzioni. Il contribuente, contestava l’irregolarità della notifica poiché l’ufficio aveva spedito l’atto a mezzo posta all’indirizzo della residenza spagnola risultante dall’Aire senza ricevere la relativa ricevuta di ritorno, quindi non c’era la prova dell’effettivo ricevimento della raccomandata da parte del ricorrente, il che ha generato l’inesistenza della notifica di certo non sanata nemmeno dalla seconda notifica effettuata presso la casa comunale ai sensi dell’articolo 60 del DPR n. 600/1973 (ex pluribus Cassazione con le sentenza nn. 21132/2009, 16141/2005 e 621/2007).

Commissione Tributaria Provinciale sez. III, Reggio Emilia, sentenza 02/03/2015, n. 74