Il lavoratore “in malattia” deve tenere un comportamento improntato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede … pena conseguenze disciplinari … che possono addirittura portare al licenziamento.
Vale la pena di ricordare che è risultato legittimo il licenziamento del lavoratore:
- che, durante la malattia, era addetto ai lavori di ristrutturazione del locale dove a giorni sarebbe stato trasferito l’esercizio commerciale di cui egli stesso era titolare (Cass. lavoro 5.2.2013 n. 2612)
- che, durante l’assenza per malattia, serviva la clientela seduta ai tavoli di un locale pubblico (Cass. lavoro 29.11.2012 n. 21253)
- che, assente per “lombosciatalgia acuta da sforzo”, faceva il cameriere presso una pizzeria (Cass. lavoro 8.10.2012 n. 17904)
- che, pur affetto da “cefalea in sinusite frontale riacutizzata”, svolgeva mansioni di addetto alla sicurezza presso locali da ballo (Cass. lavoro 26.9.2012 n. 16375).
Sempre secondo i giudici, l’accertamento dei fatti può essere compiuto (seppur con qualche comprensibile limitazione) mediante il ricorso agli investigatori privati e che – in caso di contestazioni – ricade sul lavoratore “intento allo svolgimento di un’altra attività” dimostrarne la compatibilità con le proprie condizioni di salute.
Durante il periodo di malattia il lavoratore deve rendersi reperibile durante le fasce orarie previste per la VISITA FISCALE, alle quali è possibile derogare sono in presenza di una ragione seria ed apprezzabile.
Il dipendente dispone quindi di una certa quantità di TEMPO “LIBERO” (ovviamente nel caso di patologie meno gravi) che può impiegare in svariati modi, semplicemente riposando ovvero svolgendo un qualche altro tipo di attività.
Quest’ultima possibilità incontra tuttavia limiti molto precisi:
- è assolutamente vietato lo svolgimento della medesima attività che costituisce l’oggetto delle mansioni lavorative normalmente espletate, in tal caso si presume tout court l’inesistenza dello stato di malattia;
- è vietato lo svolgimento di qualsiasi attività che possa impedire o anche solo ritardare la piena e pronta guarigione. E’ qui che le cose normalmente si complicano, dovendosi pervenire alla definizione (in ogni singolo caso) di quali condotte risultino incompatibili con lo stato di malattia lamentato.
La Corte di Cassazione ricorda che la ASSENZA DAL DOMICILIO per lo svolgimento di attività lavorativa (o di altro genere) può giustificare il licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà:
- qualora l’attività esterna sia sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia,
- qualora l’attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.
Ci sono due recenti casi:
SANZIONE CONFERMATA
Al lavoratore è contestato di avere tenuto, durante il periodo di assenza per lombosciatalgia acuta, un comportamento tale da escludere la sussistenza dello stato di malattia – ovvero in contrasto con l’obbligo di non pregiudicare il ripristino della piena capacità lavorativa (guarigione) – per essere stato visto esercitare la caccia. (Cassazione Lavoro, sentenza 22.2.2013 n. 4559)
SANZIONE ANNULLATA
Un’attività sporadica ed occasionale e non durante l’intero orario di apertura dell’agenzia (gestita da un congiunto) da parte del lavoratore, non è assimilabile a una prestazione lavorativa e risulta certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico.
Tale impegno, stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa, è del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura può avere un’incidenza funzionale e positiva per una più pronta guarigione. (Cassazione Lavoro, sentenza 15.10.2013 n. 23365)
Approfondimento:
La Cassazione, con sentenza n. 4559 del 22 febbraio 2013, conferma la legittimità del licenziamento di un lavoratore che, durante l’assenza per malattia, si era (per ben due volte) dedicato a una battuta di caccia in Trentino.
Ebbene, in questo caso, confermando un orientamento che si va sempre più consolidando, la Suprema Corte – a fronte della patologia che affliggeva il lavoratore, consistente in una lombalgia – ha ritenuto che il lavoratore avesse messo in atto una condotta negligente, dato che la caccia all’aperto aveva comportato il prolungato appostamento in un capanno, con conseguente esposizione all’umidità, nonché la necessità di tenere una postura non adatta rispetto alla patologia che era stata denunciata.
Come già precedentemente affermato dalla stessa giurisprudenza, il lavoratore in malattia deve tenere un comportamento improntato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede, talché, nel caso di specie, la condotta messa in atto dal dipendente è stata ritenuta passibile della massima sanzione disciplinare, a prescindere dall’avvenuta dimostrazione di un effettivo aggravamento delle condizione di salute in dipendenza dell’attività venatoria. E’ infatti sufficiente che, dalla correlazione tra patologia e altra attività, derivi anche solo un potenziale rinvio della piena guarigione.
La decisione della Suprema Corte appare pienamente condivisibile e corrobora quanto recentissimamente affermato dalla stessa Cassazione; è infatti sufficiente ricordare Cass. 5 febbraio 2013, n. 2612, che ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore scoperto mentre era addetto ai lavori di ristrutturazione del locale dove a giorni sarebbe stato trasferito l’esercizio commerciale di cui egli stesso era titolare; Cass. 29 novembre 2012, n. 21253, che parimenti ha convalidato il recesso intimato a un lavoratore che, durante l’assenza per malattia, serviva la clientela seduta ai tavoli di un locale pubblico; o ancora Cass. 8 ottobre 2012, n. 17904, che è giunta alle medesime conclusioni nei confronti di un lavoratore che, assente per lombo sciatalgia acuta da sforzo, faceva il cameriere presso una pizzeria. Da ricordare infine, Cass. 26 settembre 2012, n. 16375, che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore il quale, pur affetto da “cefalea in sinusite frontale riacutizzata”, svolgeva mansioni di addetto alla sicurezza presso locali da ballo.
Merita concludere ricordando che, sempre secondo i giudici di legittimità, l’accertamento dei fatti può essere compiuto (seppur con qualche comprensibile limitazione) mediante il ricorso agli investigatori privati e che, in caso di contestazioni, ricade sul lavoratore intento allo svolgimento di un’altra attività dimostrarne la compatibilità con le condizioni di salute che hanno comportato l’assenza dal posto di lavoro.
Si ricorda che al lavoratore che si assenta per malattia fanno carico, a fronte del diritto alla conservazione del posto e all’erogazione dell’apposita indennità, alcuni obblighi formali e sostanziali. Infatti egli è, in prima battuta, tenuto a farsi rilasciare la certificazione dello stato morboso (inviando al datore il numero di protocollo) nonché a rendersi reperibile durante le fasce orarie previste per l’effettuazione dei controlli sanitari.
Se il primo adempimento è di semplice esecuzione, la reperibilità costituisce un obbligo altrettanto fermo, cui è possibile derogare solo in presenza di una ragione seria e apprezzabile (anche se non è richiesto che il motivo giustificante l’assenza debba assurgere al rango di “causa di forza maggiore”).
Una volta adempiuto a quanto sopra, il dipendente dispone quindi di una certa quantità di tempo “libero” (ovviamente nel caso delle patologie meno gravi) che può impiegare in svariati modi, semplicemente riposando ovvero svolgendo un qualche altro tipo di attività.
La seconda situazione incontra tuttavia limiti molto precisi, che possono così essere riepilogati:
- è assolutamente vietato lo svolgimento della medesima attività che costituisce l’oggetto delle mansioni normalmente disimpegnate: in tal caso si presume tout court l’inesistenza dello stato di malattia;
- è inoltre vietato lo svolgimento di qualsiasi attività che possa impedire o anche solo ritardare la piena e pronta guarigione. E’ in questa ipotesi che le cose normalmente si complicano, dovendosi pervenire alla definizione (in ogni singolo caso) di quali condotte risultino incompatibili con lo stato di malattia lamentato.
Licenziamento per soppressione della posizione: requisiti di fondatezza e decadenza dall’impugnazione
La Corte di Cassazione affronta il tema della legittimità di un licenziamento per soppressione della posizione e della tempestività della sua impugnazione.
Nel caso in esame un lavoratore adiva il Tribunale affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento intimatogli, per mancato esperimento della procedura di mobilità e per assenza di giustificato motivo con le conseguenze del caso. La società si costituiva eccependo preliminarmente l’intervenuta decadenza del lavoratore per tardività dell’impugnativa. Il Tribunale rigettava il ricorso, accogliendo l’eccezione formulata dalla convenuta. Il lavoratore adiva così la Corte territoriale che confermava la decisione di primo grado. Avverso tale decisione il lavoratore ricorreva in Cassazione, formulando sette motivi. In particolare il ricorrente con il primo motivo denunciava che la Corte territoriale, nonostante la documentazione prodotta in giudizio e comprovante che le attività decisionali spettavano alla sede principale, aveva ritenuto non esser stato indicato alcun elemento utile per considerare quest’ultima e la sede presso cui era adibito unitariamente; con il secondo motivo eccepiva che la medesima, nell’attribuire rilevanza alle difese della società in merito all’autonomia ed indipendenza tecnica ed amministrativa delle due strutture, aveva violato gli artt. 4 e 24 della L. n. 223/1991 e 35 della L. n. 300/1970, che per giurisprudenza costante richiedono un’autonomia anche operativa, strategica ed economica, non sussistente nel caso di specie; con il terzo motivo deduceva che la Corte territoriale, a fondamento della sussistenza della crisi aziendale, aveva posto documenti risalenti nel tempo e che il decremento di fatturato dell’1% rispetto all’anno precedente non poteva considerarsi indice di crisi; con il quarto motivo eccepiva che la stessa non aveva correttamente applicato l’art. 3 della L. n. 604/1966 secondo cui solo una riduzione di fatturato duratura nel tempo può giustificare il licenziamento; con il quinto motivo asseriva che la Corte territoriale non aveva motivato la relazione tra la riorganizzazione aziendale e la soppressione della sua posizione ed aveva errato nel ritenere che alcuni lavoratori non licenziati avessero una qualifica superiore alla sua; con il sesto motivo evidenziava che la stessa non aveva considerato che poteva essere collocato, per l’esperienza e la professionalità maturata, in altre filiale, che le sue mansioni erano state ridistribuite all’interno e che dopo il suo licenziamento erano stati assunti altri con la sua stessa qualifica; con il settimo motivo eccepiva che la Corte aveva erroneamente ritenuto sussistente un nesso di causalità tra la riorganizzazione aziendale e la soppressione della mansione, poiché dagli atti non si evinceva che detta riorganizzazione fosse incentrata sulla sua figura professionale e che diversi colleghi con pari inquadramento ed anzianità aziendale non erano stati inclusi tra i licenziandi. La società resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale non avendo la Corte territoriale dichiarato il lavoratore decaduto dall’impugnativa di licenziamento per decorrenza dei 60 giorni previsti per legge. La Corte di Cassazione riuniva i ricorsi e concludeva per il loro rigetto, compensando tra le parti le spese processuali del giudizio.
Motivazioni della sentenza
La Suprema Corte ha innanzitutto esaminato il ricorso incidentale, rigettandolo. A suffragio di ciò la stessa ha richiamato un suo precedente secondo il quale il termine di 60 giorni entro cui impugnare un licenziamento “si sospende a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di Conciliazione” divenendo irrilevante “il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione” (cfr Cass. n. 17231/2010).
Nell’esaminare i motivi del ricorso principale, la S.C. ha ritenuto inammissibili il primo ed il secondo, non essendo stati indicati gli elementi utili per considerare non autonome ed indipendenti le due strutture.
La S.C. ha, altresì, dichiarato infondati il terzo ed il quarto motivo poiché il giudizio di effettività di una situazione di crisi richiede un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Secondo la S.C. la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi ex art. 3 della L. n. 604/1966 e ricollegato la soppressione della posizione ricoperta dal lavoratore alla crisi aziendale ed alla riduzione di fatturato, essendo essa diretta a fronteggiare una situazione sfavorevole non meramente contingente.
La S.C. ha anche rigettato il quinto ed il settimo motivo poiché comportanti una rivalutazione del fatto inammissibile in sede di legittimità.
Infine, con riferimento al sesto motivo la stessa ha precisato che con esso il ricorrente ha introdotto questioni nuove e che comunque la prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte “non deve intendersi in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione di fatti utili a dimostrare o anche solo a far presumere l’esistenza (…) di posti di lavoro cui può essere ancora adibito (…). Se tale onere non è stato adempiuto in sede di ricorso introduttivo, non solo neppure insorge l’onere per il datore di lavoro di offrire la prova della concreta sussistenza di tale possibilità di diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato ma non può poi la parte introdurre la relativa questione nei successivi gradi del giudizio”.