Istituzione dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)

Con provvedimento del Consiglio dei Ministri del 01.10.2013, entrerà in vigore il 16.10.2013  l’istituzione dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)


PRIVACY A RISCHIO la circolazione dei dati sensibili nella PA

Le PA non possono far circolare notizie a contenuto “sensibile” fra i non addetti ai lavori o inserirle in atti pubblicati all’albo pretorio.

Si rischia il risarcimento dei danni e la sanzione pecuniaria, con possibile ipotesi di danno erariale

 Si evidenziano alcune situazioni:

Dati sulla salute – Dipendente in maternità

I dati sensibili possono essere trattati soltanto dagli uffici preposti per le finalità di gestione del rapporto di lavoro. L’inserimento di dati sensibili in atti amministrativi comunicati a terzi non legittimati (anche con albo pretorio elettronico e reti intranet), costituisce violazione del principio di necessità, in quanto non è indispensabile mettere a conoscenza i motivi dell’assenza. (Garante Privacy – provvedimento n. 315 del 27.6.2013)

Dati sensibili – Ispezione su PC – Navigazione in internet

I dati estratti dal PC concernenti l’accesso ad internet sono da ritenersi dati sensibili, in quanto relativi a convinzioni religiose e politiche, nonché alle tendenze sessuali.

Sebbene i dati personali vengano raccolti nell’ambito di controlli informatici (diretti a verificare la presenza di comportamenti illeciti), le informazioni di natura sensibile possono essere gestite dal datore di lavoro – senza il consenso – solo quando il trattamento sia indispensabile.

Credo, convinzioni e opinioni personali sono desumibili dagli accessi web ricollegabili a associazioni sindacali o riconducibili ad organizzazioni di carattere religioso. Le presenze di accessi web “a contenuto pornografico” rappresentano informazioni che – seppur di per sé neutre – possano rivelare gusti e tendenze sessuali e come tali di natura sensibile. (Cassazione Lavoro – sentenza 1.8.2013 n.18443)

Dati sulla salute – Dipendente in malattia

I dati “idonei a rivelare” lo stato di salute non possono essere diffusi. La pubblicazione e la diffusione del dato relativo all’assenza dal lavoro per “convalescenza” (anche senza diagnosi) dà luogo a trattamento di dati sensibili, dal momento che tale informazione – pur non facendo riferimento a specifiche patologie – è comunque suscettibile di “rivelare lo stato di salute” dell’interessato. (Cassazione Lavoro – sentenza 8.8.2013 n.18980)

La necessità di particolari cautele nel trattamento di dati concernenti le condizioni di salute è stata da tempo evidenziata dal Garante della Privacy, precisando che le PA “devono adottare maggiori cautele se le informazioni personali sono idonee a rivelare profili particolarmente delicati della vita privata dei propri dipendenti” (quali ben possono essere quelle concernenti lo stato di salute e gli orientamenti personali).

Va ricordato infine l’art. 4 comma 5 del D.lgs. 14.03.2013 n. 33 (Limiti alla trasparenza), secondo la quale “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni di cui all’art. 4 comma 1 lettera d) del decreto legislativo 196/2003”.


Ceranova, l’Ici in ritardo. Ora il vigile deve risarcire

 Agente e messo comunale: condannato dalla Corte dei conti a pagare 6 mila euro. Consegnò dopo la scadenza due «cartelle» dell’imposta, municipio danneggiato

CERANOVA. Cartelle dell’imposta sugli immobili notificate in ritardo. E l’agente di polizia locale, che è anche messo comunale di Ceranova, si è trovato davanti ai magistrati contabili a dover rispondere del danno causato al Comune: 9.119 euro di imposte in meno nelle casse del l’amministrazione. La Corte dei conti ha dato ragione al Comune e ha condannato Andrea Bellotti, agente di 41 anni di Ceranova, a risarcire il danno. I giudici Claudio Galtieri, Eugenio Musumeci e Giuseppina Veccia hanno comunque deciso che il messo comunale dovrà pagare una cifra inferiore al valore delle cartelle, di 6 mila euro.

La vicenda nasce dalla denuncia presentata alla Corte dei conti dal segretario comunale il 10 marzo del 2011. Secondo quella contestazione (che era anche costata all’agente un procedimento disciplinare) erano state consegnate in ritardo due cartelle per il pagamento dell’Ici. Per la precisione gli avvisi di accertamento relativi all’imposta degli anni 2004 e 2005, che dovevano essere consegnati a una società immobiliare, erano stati notificati il 10 gennaio del 2011 ma scadevano il 31 dicembre del 2010. Un ritardo che secondo la ricostruzione del segretario e dell’accusa, aveva spinto la società immobiliare a impugnare gli avvisi. Il Comune si era visto costretto ad annullarli, con un mancato introito di 9.119 euro nelle casse. L’agente, che si è trovato così a dovere rispondere del danno economico subito dal Comune, si è difeso sia con il sindaco che davanti ai giudici dicendo di avere ricevuto comunque tardi le cartelle da notificare e che, in ogni caso, non avrebbe ricevuto un’adeguata formazione per svolgere quel compito, che si aggiungeva «alle altre numerose incombenze» che gli erano state assegnate. Questo, però, secondo i giudici contabili, non toglie nulla «all’obbligo di adempiere con diligenza le funzioni espletate in virtù del proprio atto di nomina ad agente di polizia locale».

«C’è la possibilità di ricorrere contro questa decisione – dice l’avvocato difensore Massimo Zucca –, ma valuteremo dopo avere letto con attenzione le motivazioni. In ogni caso i giudici hanno ridotto l’importo di quasi la metà, perché il risarcimento di 6 mila euro è comprensivo degli interessi. Per noi si è trattato in ogni caso di una colpa lieve, visto che il mio assistito ha sempre fatto il suo lavoro con grande scrupolo e senso del dovere».

@mariafiore3

·         Pubblicato sul sito web La Provincia Pavese /


Pagamenti elettronici della PA, l’Agenzia per l’Italia digitale ha pubblicato le Linee guida

Tutto pronto per i pagamenti elettronici a favore della PA: le Linee guida predisposte dall’Agenzia per l’Italia digitale hanno infatti incassato il parere favorevole della Banca d’Italia e sono ora a disposizione on line per la consultazione pubblica, precisamente fino al 30 settembre. Le osservazioni potranno essere inviate all’indirizzo lineeguidapagamenti@agid.gov.it.


Responsabilità contabile del messo comunale

L’azione di responsabilità contabile nei confronti del messo comunale per i danni conseguenti alla tardiva effettuazione della notifica di un accertamento tributario e l’azione contrattuale nei confronti del Comune sono domande che risultano diverse tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo.

È questo il principio di diritto emerso dalla sentenza n. 20365 pronunciata dalla cassazione civile, sezione terza, in data 05/09/2013. La vicenda trae origine dalla domanda di risarcimento danni promossa dal Ministero delle Finanze  nei confronti di un messo notificatore per aver cagionato un danno a causa della tardiva esecuzione della notifica a due contribuenti di un avviso di accertamento.Dichiarato estinto il giudizio per sopravvenuta carenza di interesse ad agire da parte del Ministero, giusta condanna del messo notificatore nel frattempo intervenuta da parte della Corte dei Conti,  il Ministero delle Finanze proponeva appello che veniva accolto. Invero, secondo i giudici di merito la pronuncia della Corte dei Conti aveva riguardato il danno contabile emergente dalla negligente condotta del messo comunale, mentre era in discussione la responsabilità derivante da inadempimento contrattuale addebitabile al Comune, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione il Comune deducendo, tra l’altro, che l’efficacia del giudicato della sentenza della Corte dei Conti è opponibile all’Amministrazione la quale, da un lato, non può considerarsi terzo rispetto all’azione di responsabilità intentata dal pubblico ministero contabile nei confronti del messo comunale e, dall’altro, subisce gli effetti riflessi del giudicato non essendo titolare di un diritto autonomo rispetto alla suddetta azione risarcitoria. Ebbene, la Suprema Corte, ritenendo che l’azione di responsabilità contabile nei confronti del messo comunale e l’azione contrattuale nei confronti del Comune sono domande che, pur ricollegabili ai medesimi fatti, risultano diverse tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo ha rigettato il ricorso.Gli Ermellini hanno precisato che l’azione di responsabilità promossa dalla Corte dei Conti per i danni conseguenti alla tardiva effettuazione da parte dei messi comunali della notifica di un accertamento tributario, in quanto volta a far valere una responsabilità amministrativa, a tutela dell’interesse generale al corretto esercizio delle funzioni amministrative e contabili, si differenzia da quella risarcitoria proposta dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del Comune e degli altri responsabili, la quale trova fondamento nella responsabilità solidale dei convenuti, in relazione al mancato adempimento da parte del Comune dell’obbligazione derivante da un rapporto di mandato “ex lege”. Inoltre, precisano i giudici, il Comune lì dove richiesto dall’Amministrazione Finanziaria di notificare un atto impositivo ai sensi dell’articolo 60 del D.P.R. n. 600/73, assume gli obblighi di un mandatario “ex lege”; sicché è civilmente responsabile nei confronti dell’Amministrazione mandante nel caso in cui, “colposamente ritardando l’esecuzione della notificazione di un avviso di liquidazione di imposta, provochi la decadenza di tale amministrazione dalla pretesa fiscale“.


Consultazione diretta del Sistema Informativo del Casellario (SIC)

E’ stato attivato a cura del  Ministero di Giustizia il sistema CERPA (CERtificati Pubbliche Amministrazioni) che consente la consultazione diretta, per via telematica; del Sistema Informativo del Casellario (SIC) per l’acquisizione dei certificati del casellario giudiziario. Ulteriori dettagli sono visionabili  nel sito web del Ministero della Giustizia.


E’ a carico del datore di lavoro la spesa relativa alla pulizia della divisa del dipendente

E’ obbligo del datore di lavoro sostenere le spese di lavaggio della divisa ovvero rimborsare al lavoratore quelle personalmente sostenute a tale scopo.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza 26-08-2013, n. 19579 che ha rigettato il ricorso di un’Azienda condannata dalla Corte d’Appello a corrispondere ai propri dipendenti il costo del lavaggio degli abiti da lavoro di addetti al servizio mensa.
La Suprema Corte, sottolineando che nella specie era pacifico che nel contratto di appalto la società di servizi si fosse obbligata a dotare il personale “di cuffie, grembiuli e divise sempre pulite”, ha affermato come da ciò “discende, pienamente, che l’azienda è tenuta a dotare il personale di divise sempre pulite, e dunque di sopportarne il relativo costo, sicché (…) dal suo inadempimento consegue l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.”.
I giudici di legittimità hanno altresì precisato che ” l’art. 1411 cod. civ. stabilisce che è sempre valida la stipulazione di un contratto a favore di terzi, purché lo stipulante vi abbia interesse. Nella specie è indubbio che la società appaltante, che risulta aver esplicitamente inserito nel contratto di appalto che l’appaltatrice era obbligata a far indossare ai lavoratori una divisa di lavoro (cuffie, grembiuli e divise) ‘sempre pulita’, ha evidentemente interesse a ciò, sicché non contrasta col principio di cui alla citata norma codicistica, l’obbligo della datrice di lavoro dl sostenere le spese di lavaggio (o di rimborsare al lavoratore quelle a tal scopo personalmente sostenute)”.


Valida la notifica se il consegnatario ha rapporti con il destinatario dell’atto

Ai fini della validità della notificazione di un atto è sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

La Corte Suprema di Cassazione con sentenza 1° agosto 2013, n. 18492, richiamando una sua precedente sentenza chiarisce che in caso di notificazione effettuata a norma dell’art. 139, comma secondo, cod. proc. civ., (“Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”) con consegna dell’atto a persona qualificatasi (secondo le dichiarazioni rese all’ufficiale giudiziario e dal medesimo riportate nella relata di notificazione) quale dipendente del destinatario o addetta all’azienda, all’ufficio o allo studio del medesimo, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere contestate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle dipendenze esclusive di altro soggetto, se non accompagnata dalla prova che il medesimo consegnatario non era addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del destinatario.


Notifiche tributarie: la Corte Suprema di Cassazione indica il corretto procedimento e le norme applicabili in caso di irreperibilità

La notifica dell’intimazione di pagamento al contribuente irreperibile è invalida se non viene inviata una raccomandata che certifica le avvenute formalità ex articolo 140 del codice di procedura civile. Senza questa comunicazione non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio. Lo stabilisce la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 30 luglio 2013, n. 18251.
Infatti, in tema di riscossione delle imposte dirette, nell’ipotesi in cui una cartella esattoriale venga notificata ai sensi del terzo comma dell’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e quindi con deposito presso la casa comunale, affissione alla porta del destinatario e invio della raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini della tempestività dell’impugnazione della detta cartella, il dies a quo della decorrenza del termine deve essere individuato, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 3, e l’ordinanza 25 febbraio 2011, n. 63, nel giorno del ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata. Non vi è quindi ragione di perseverare nell’affermare la necessaria distinzione tra la procedura di notifica all’irreperibile disciplinata dall’art. 140, codice di procedura civile, e quella disciplinata dall’art. 60, DPR 600/1973, siccome entrambe le norme impongono ormai la comunicazione per raccomandata dell’avvenuta effettuazione delle formalità di affissione e deposito, senza la quale non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio.


Stop ai fax nella pubblica amministrazione

Stop al fax nella pubblica amministrazione: le comunicazioni avverranno solo via email. Priorità all’uso dei prodotti open source dove possibile.

Il Parlamento ha convertito con la legge n. 98/2013, con modificazioni, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia.

Viene modificato l’art. 47 del CAD come segue:

dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti:

« 1-bis. All’articolo 47, comma 2, lettera c), del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dopo le parole: “di cui all’articolo 71” sono inserite le seguenti: “. È in ogni caso esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax”.

1-ter. All’articolo 43 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, il comma 3 è sostituito dal seguente:

“3. L’amministrazione procedente opera l’acquisizione d’ufficio, ai sensi del precedente comma, esclusivamente per via telematica (L)” ».


Per provare il mobbing non basta il semplice demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione con sentenza n.7985 del 02.04.2013 ha ribadito il proprio orientamento in tema di risarcibilità del danno da mobbing (nella specie da demansionamento) secondo il quale per contestare il mobbing non è sufficiente denunciare lo svuotamento delle mansioni del lavoratore ma occorre aggiungere una serie di condotte vessatorie collegate casualmente.

È indispensabile, cioè, fornire la prova di una pluralità di atti vessatori compiuti a danno di un lavoratore, collegati tra di loro, allo scopo di arrecare un danno alla sua persona e di escluderlo dal contesto lavorativo.

La nozione di mobbing infatti si incentra su “quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio” (Consiglio Stato 1609/2013), cioè su una serie prolungata di atti e comportamenti che abbiano caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione.

Il caso: un dipendente di un Comune umbro lamentava di aver subito la revoca dell’incarico di responsabile sezione e chiedeva la reintegrazione nelle precedenti mansioni e il risarcimento del danno da mobbing per la dequalificazione professionale, producendo prove testimoniali aventi ad oggetto mere valutazioni e non fatti specifici e rilevanti.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha anche affermato che “non è sufficiente la prospettazione di un mero ‘svuotamento delle mansioni’, occorrendo – ai fini della deduzione del mobbing – anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente”.

Leggi: Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-04-2013, n. 7985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19784/2009 proposto da:

L.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato BELLUCCI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIOLI VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NOCERA UMBRA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato TONELLI ENRICO, rappresentato e difeso dall’avvocato CAFORIO GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 488/2008 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 11/09/2008 R.G.N. 842/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato BELLUCCI MAURIZIO;

udito l’Avvocato TONELLI ENRICO per delega CAFORIO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Perugia, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di L.P., proposta nei confronti del Comune di Nocera Umbra di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità della revoca dell’incarico di responsabile di sezione con conseguente sua reintegrazione nel posto precedentemente occupato e condanna di controparte al risarcimento dei danni.

La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, riteneva, innanzitutto,inammissibile, perché nuova,la domanda diretta ad ottenere l’ordine di cessazione delle attività vessatorie e mobbizzanti in quanto la relativa causa petendi – consistente nell’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo – ed il petitum – ordine di cessazione – non trovavano riscontro nel ricorso introduttivo del giudizio.

La predetta Corte, poi, relativamente alla assunta dequalificazione professionale, conseguente alla allegata privazione di qualsiasi incarico a seguito della revoca della funzione di responsabile di sezione, rilevava che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che gli incarichi erano rimasti “sulla carta” e non avevano avuto esecuzione e che egli era rimasto inoperoso. Viceversa, secondo la Corte territoriale, il L. non aveva assolto a tale onere in quanto la prova articolata non verteva su fatti specifici e rilevanti a quel fine, ma anzi comportava l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto meramente formale degli incarichi.

Nè, infine, riteneva la Corte del merito che gli incarichi assegnati al ricorrente non fossero corrispondenti alla professionalità propria della categoria d’inquadramento.

Avverso questa sentenza il L. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso il Comune intimato.

Motivi della decisione

Con la prima censura il ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione in punto di ritenuta novità del capo della domanda concernente il mobbing. In particolare il L. rileva che prima la Corte del merito asserisce la novità della domanda e, poi, riconosce l’esistenza di una allegazione sullo svuotamento delle mansioni.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, pone il seguente quesito di diritto: “se la richiesta di cessazione di abuso di condotta vessatoria da parte del datore di lavoro costituisce domanda nuova e come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437, comma 2, rispetto alla domanda formulata in primo grado dal lavoratore di accertamento dell’esistenza dell’abuso stesso ai fini della domanda di risarcimento del danno e di reintegra delle effettive funzioni ricoperte prima dell’abuso”.

Le due censure, in quanto strettamente connesse dal punto vista logico e giuridico, vanno trattate unitariamente.

Preliminarmente va dato atto che i motivi di ricorso in esame risultano ex art. 366 bis c.p.c., ammissibili atteso che, contrariamente all’assunto di parte resistente, i relativi quesiti consentono la piena cognizione, e del fatto controverso su cui s’incentra la censura di contraddittorietà della motivazione, e della violazione di leggi dedotta con riferimento anche alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

Tanto premesso rileva la Corte che i motivi sono infondati.

Innanzitutto non vi è contraddittorietà della motivazione in quanto il ricorrente non tiene conto che secondo la Corte del merito il mobbing presuppone l’esistenza, e, quindi, l’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo. E proprio con riferimento a tale ricostruzione del mobbing ritiene che manca nel ricorso di primo grado, qualsiasi allegazione di tal genere e che, pertanto, la relativa domanda – rectius causa petendi – è nuova. In altri termini per la Corte del merito non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento delle mansioni”, occorrendo, ai fini della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, oltre alla considerazione che il petitum – rappresentato nella specie dalla richiesta di un ordine di cessazione della condotta mobizzante – è del tutto nuovo come sottolineato dalla Corte del merito, vi è il rilievo che trattandosi d’interpretazione della domanda che implica un accertamento di fatto, il ricorrente per correttamente investire questa Corte della questione di cui trattasi avrebbe dovuto denunciare l’erronea interpretazione della domanda e non la sola violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2.

Con la terza critica il L., deducendo vizio di motivazione, lamenta la mancata ammissione dell’interrogatorio formale di controparte e della prova articolata.

La censura è infondata.

Invero la Corte del merito ritiene inammissibili i reclamati mezzi istruttori perché non vertenti su fatti specifici e rilevanti, ma anzi comportanti l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto formale degli incarichi conferiti.

Ebbene ritiene il Collegio che effettivamente i capitoli di prova vertono sulla cronistoria degli accademisti e sulla formalità o meno degli incarichi attribuiti al ricorrente. Come tali, quindi, sono irrilevanti – rectius inammissibili – atteso che riguardano circostanze, quali quelle della revoca dell’incarico e dell’attribuzione di nuovo incarico, del tutto pacifiche ovvero attengono alla richiesta di un giudizio circa il contenuto formale o meno dei nuovi incarichi affidati al ricorrente.

Il ricorso, in conclusione, va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2013


E’ obbligatorio risarcire il lavoratore per il congedo ordinario (le ferie) non goduto

Anche se il contratto collettivo di categoria esclude la monetizzazione.

A prevalere, secondo quanto affermano i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18168 del 26.07.2013 sono i principi UE, secondo cui le ferie sono irrinunciabili, e rappresentano il riposo cui ha diritto il lavoratore, vale a dire il recupero delle energie psicofisiche, ma anche la possibilità di dedicarsi di più a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività sportive o ricreative, o di viaggiare.

Il rilievo secondo cui il contratto collettivo applicabile al dipendente esclude che siano monetizzabili le ferie non godute non è importante ai fini della risoluzione della controversia, dal momento che lo stesso deve essere reinterpretato alla luce dei principi europei.

Pertanto, l’indennità sostitutiva scatta anche se la mancata fruizione non dipende dal datore di lavoro e il contratto collettivo applicabile in azienda prevede invece il pagamento soltanto quando la mancata fruizione è dipesa da motivi di servizio (purché ovviamente il mancato riposo non sia dipeso da colpa del lavoratore).

L’indennità sostitutiva, avvisano i giudici, ha una doppia natura: risarcitoria, appunto perché compensa il lavoratore per la perdita del bene-riposo; retributiva, in quanto costituisce un’erogazione che risulta connessa al sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro, come rapporto a prestazioni corrispettive: più specificamente essa rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, non sarebbe dovuto invece essere lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali.


Illegittimo il cambio di profilo dell’Agente di PM

E’ illegittimo il provvedimento del comune che decide di mutare profilo professionale all’agente di PM al quale è stata revocata la qualifica di agente di PS a causa della sua malattia.

Il caso ha riguardato un vigile urbano del Comune di Genova, che ha subito numerosi ricoveri, rimanendo assente dal lavoro – a causa di una sindrome depressiva – per lunghi periodi.

Il prefetto ha disposto la revoca della qualifica di agente PS e il comune, sulla scorta del rilievo che tale qualifica costituisse indispensabile requisito di appartenenza al corpo di PM, ha proceduto unilateralmente al mutamento del profilo professionale del lavoratore in un profilo amministrativo. Ma il lavoratore ha impugnato il provvedimento.

La controversia è arrivata al Consiglio di Stato con sentenza n. 3711/2013, che ha dato ragione al vigile urbano sulla base delle seguenti considerazioni:

  1.  si desume dal complessivo impianto della legge 65/1986 (Legge quadro sull’ordinamento   della   polizia   municipale)   e   del   D.M.   145/1987   (Norme concernenti l’armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza), che lo status di agente PS costituisce una prerogativa accessoria ed eventuale rispetto alle funzioni di servizio dell’agente PM,
  2. l’agente di PM è chiamato a svolgere molteplici, complesse e delicate funzioni, tra le quali possono rientrare anche quelle attinenti alla pubblica sicurezza, con conseguente possibile uso delle armi. La giurisprudenza ha già chiarito che le competenze attribuite dall’ordinamento al corpo di PM “consistono, in misura assolutamente prevalente, in compiti di prevenzione e vigilanza sull’osservanza di norme e di regolamento nei settori di competenza comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti sanzionatori” e che “a queste attività di aggiunge l’espletamento di funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e, in determinate circostanze, di pubblica sicurezza” (Cons.St. sez.V, sentenza 1261/1998),
  3. il nostro ordinamento non prevede nemmeno che l’agente PM – nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali – debba necessariamente far uso delle armi, in quanto l’art.5 comma 5 legge 65/1986 contempla la dotazione e quindi l’utilizzo delle armi esclusivamente per gli addetti al servizio di PM ai quali sia conferita dal prefetto la qualità di agente PS, non vi può essere quindi alcun automatismo tra la revoca della qualifica di agente PS e il mutamento del profilo professionale dell’agente PM, essendo la prima qualifica requisito indispensabile solo all’esercizio di funzioni che implichino l’uso delle armi da parte dei vigili urbani, ma non certo per l’espletamento dei compiti che – ordinariamente – competono all’agente PM in base alla legislazione vigente, a tale fondamentale differenza non possono sovrapporsi o addirittura contrapporsi discipline  normative  di  rango  inferiore,  dettate  eventualmente  dai  regolamenti comunali (anche preesistenti), i quali ultimi non sarebbero con essa compatibili ai sensi dell’art.20 comma 1 legge 65/1986.


PEC: l’obbligo NON vale per tutti: le istruzioni di Unioncamere sulla comunicazione dell’indirizzo di posta certificata

Nessuna sanzione pecuniaria per le imprese individuali (anche artigiane) che non hanno comunicato il proprio indirizzo di posta elettronica (Pec) entro il 1° luglio, ma solo la sospensione da parte dell’ufficio del registro delle imprese dell’eventuale successiva domanda che dovesse pervenire,  in attesa che la stessa sia integrata con l’indirizzo Pec e comunque per 45 giorni. Decorso tale periodo, in mancanza della regolarizzazione, la pratica sospesa, anche se corretta, si intende non presentata.
Nel comunicato del 2 luglio Unioncamere ha chiarito che, non potendoci essere disparità di trattamento tra le imprese individuali e le società,  le ditte individuali che entro il 30 giugno scorso non hanno comunicato la Pec al Registro delle Imprese non saranno soggette alle sanzioni.

L’art. 5, comma 1, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 ha esteso alle imprese individuali l’obbligo di iscrizione del proprio indirizzo di posta elettronica certificata presso il registro delle imprese, inizialmente previsto, dall’art. 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, a carico delle sole società.

Art. 5, comma 1, d.l. 179/2012 (convertito con modificazioni dalla legge 221/2012)

Posta elettronica certificata – indice nazionale degli indirizzi delle imprese e dei professionisti

1. L’obbligo di cui all’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, come modificato dall’articolo 37 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, e’ esteso alle imprese individuali che presentano domanda di prima iscrizione al registro delle imprese o all’albo delle imprese artigiane successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

Il comma 2 dell’art. 5 ha disposto, poi, che il termine per l’adempimento dell’obbligo di legge fosse il giorno 30 giugno. Il medesimo comma ha, inoltre, disposto che l’ufficio del registro delle imprese che riceve una domanda di prima iscrizione da parte di un’impresa individuale che non abbia iscritto il proprio indirizzo Pec, al posto della sanzione prevista dall’art. 2630 c.c. (ovvero da 103 euro a 1.032 euro), sospende la domanda per 45 giorni, in attesa che essa sia integrata con l’indirizzo di posta elettronica certificata.

2. Le imprese individuali attive e non soggette a procedura concorsuale, sono tenute a depositare, presso l’ufficio del registro delle imprese competente, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata entro il 30 giugno 2013. L’ufficio del registro delle imprese che riceve una domanda di iscrizione da parte di un’impresa individuale che non ha iscritto il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, in luogo dell’irrogazione della sanzione prevista dall’articolo 2630 del codice civile, sospende la domanda fino ad integrazione della domanda con l’indirizzo di posta elettronica certificata e comunque per quarantacinque giorni; trascorso tale periodo, la domanda si intende non presentata. 

Tale disposizione riprende quanto era già stato disposto nei riguardi delle società che fossero risultate inadempienti rispetto all’obbligo di iscrizione del loro indirizzo Pec entro il 29 novembre 2011, fissata dall’art. 16, comma 6, del decreto-legge n. 185/2008. In tale occasione il sistema camerale ricevette entro il termine del 29 novembre 2011 circa 2 milioni di indirizzi di posta elettronica certificata da parte delle società di nuova costituzione, ovvero da parte di quelle che erano già iscritte nel registro delle imprese al momento dell’entrata in vigore del richiamato articolo 16, comma 6 del decreto-legge n. 185 del 2008.

Dopo quella data le camere di commercio non hanno provveduto all’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dall’art. 2630 del codice civile, ma ogniqualvolta una società che non abbia iscritto il proprio indirizzo Pec entro il termine di cui sopra presenti una domanda di iscrizione al registro delle imprese la domanda viene sospesa in attesa che essa sia integrata. Una diversa soluzione determinerebbe una disparità di trattamento tra le società e le imprese individuali.


Multe, sconto 30% entro 5 giorni. E arriva la posta certificata

Multe automobilistiche scontate del 30% per chi non ha subito il taglio dei punti sulla patente o “concilia” entro 5 giorni dalla contestazione (o al momento della multa se “l’agente accertatore sia munito di apparecchiatura idonea). L’emendamento al Dl Fare è stata approvata dalla Commissione Bilancio e Affari costituzionali della Camera. Tra quattro mesi, inoltre, sarà possibile disciplinare il regime delle notifiche grazie alla posta elettronica certificata.

“In questi anni, infatti, gli enti locali hanno fatto i conti con difficoltà enormi – spiega il Presidente della Commissione Trasporti della Camera Meta – dovute a contenziosi, ricorsi e prescrizioni, nella riscossione di granparte delle sanzioni effettuate in violazione del Codice della strada. Allo stesso tempo si tratta di una buona notizia per gli automobilisti, vessati in questi anni dall’aumento del costo dei carburanti, dal rincaro delle polizze assicurative, dal costo lievitato dei pedaggi e che, in presenza di comportamenti virtuosi al volante, potranno beneficiare dello sconto sulle multe”.