La presidente della Corte d’Appello ha provato a trasferirne alcuni. Ma su 36 dipendenti, 18 sono rappresentanti di una organizzazione
Lavorano la metà dei colleghi di Padova ma non si spostano La motivazione. Il giudice del lavoro ha dato ragione all’ultimo trasferito: deve stare vicino ai colleghi che tutela
Insieme con l’uomo più alto del mondo (Wang Fenjun: 245 centimetri) e la partita con più gol («Club 30 aprile» batte «Oriental» 73-0, campionato regionale di Achay, Paraguay) anche la Corte d’Appello di Venezia può entrare nel Guinness dei primati.
Su 36 ufficiali giudiziari ci sono la bellezza di 18 sindacalisti. Uno ogni due. Sono costretti a battersi disperatamente nella trincea dei diritti dell’uomo contro le feroci sopraffazioni dell’infame sistema giudiziario dal quale sono schiavizzati? Non esageriamo: più semplicemente, non vogliono neppure correre il minimo rischio di essere trasferiti in uffici dove si lavora di più. E con queste regole se sei un sindacalista sei più inamovibile della piramide di Cheope.
Ne sa qualcosa Manuela Romei Pasetti, la prima donna a reggere una Corte d’Appello in Italia, che qualche mese fa, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva già lanciato l’allarme sulle carenze di organico che angosciano la giustizia veneta. Un esempio? «Trascorrono mediamente 272 giorni tra la sentenza di 1° grado e l’arrivo alla Corte d’Appello». Un altro? Un processo su sei arriva «oltre un anno dalla pronuncia della sentenza di primo grado. Se si considerano gli ulteriori tempi per l’iscrizione sul registro generale della Corte d’Appello, i giorni diventano mediamente 330». Risultato: i giudici costretti a lavorare il triplo rispetto ai loro colleghi di Milano (297 contro 100 procedimenti, nel penale) devono fissare le udienze addirittura nel 2017.
Bene: sul fronte delle notifiche la Corte è messa altrettanto male, se non peggio. Una tabella dice tutto: gli ufficiali giudiziari in servizio a Venezia, pur avendo un carico di lavoro abissalmente inferiore ai colleghi di Padova o di Verona, sono quasi pari a quelli in servizio a Padova, Treviso, Belluno, Rovigo e Vicenza messi insieme. Tanto è vero che, stando alla media riassuntiva calcolata su 250 giorni di lavoro l’anno, ogni ufficiale giudiziario (ce ne sono di 2 tipi: categoria C1 e categoria B3, ma si tratta di distinzioni che qui non ci interessano) deve occuparsi di 12 atti a Venezia, 17 a Belluno, 25 a Treviso, 31 a Rovigo, 35 a Verona, 38 a Vicenza, 42 a Padova.
Cosa farebbe qualunque amministratore al mondo? La risposta è ovvia: cercherebbe di ridurre il personale a disposizione a Venezia e di incrementare al contrario quello in difficoltà nelle altre sedi. Ed è esattamente quello che la Romei Pasetti aveva chiesto al ministro della giustizia Angiolino Alfano con una lettera ufficiale del 20 febbraio 2009. Urgeva una modifica degli organici: 5 in meno a Venezia, 5 in più a Padova, 4 in più Verona. Macché: il ministero rispondeva accontentando solo in parte Padova e Verona e aggiungendo una persona in più (pensa te!) nella già sovraccarica Venezia.
Cosa poteva fare, a quel punto, la presidente? Non le restava che cercare di smistare meglio qua e là gli ufficiali giudiziari, pur sapendo che i paletti burocratico-sindacali sono rigidissimi almeno quanto discutibili e controversi. Stando all’articolo 18 del contratto nazionale quadro, infatti, quanti hanno una responsabilità sindacale non possono essere trasferiti d’imperio senza il nullaosta del sindacato. Giusto. Sennò questo genere di provvedimenti potrebbe essere usato in maniera arbitraria, per punizione. L’articolo 15 del contratto nazionale integrativo, però, allarga il divieto anche alla cosiddetta «applicazione». Vale a dire il momentaneo spostamento di una persona in un altro ufficio per motivi di servizio. Il tutto anche se, secondo la Romei Pasetti, una sentenza della Cassazione (la 12121/2002) avrebbe «espressamente escluso che la tutela della stabilità del rappresentante sindacale vada applicata a qualsiasi spostamento dalla originaria unità produttiva». Ovvio: un ruolo sindacale non può essere la copertura a una inamovibilità assoluta che pregiudichi il funzionamento dell’ufficio. Tanto più in una situazione come quella che abbiamo descritto: 7 sindacalisti su 19 ufficiali giudiziari inquadrati sotto la sigla B3, addirittura 11 su 17 sotto la sigla C1.
Ed è così che la presidente ha deciso di spostare tre persone per tre o sei mesi (a decorrere dal 12 aprile 2010) da Venezia a Padova e Cittadella. Eh no, è saltato su Enrico Basile: come si permetteva di spostarlo per 180 giorni a ben 39 chilometri di distanza (da 14 a 26 minuti di treno, a seconda dei tipi) senza aver prima chiesto il nullaosta al sindacato? Il giudice del lavoro gli ha dato ragione: il sindacalista, sacro come il dente di Buddha a Kandi, non poteva essere sottratto al suo rapporto diretto e quotidiano con i colleghi che tutela. Quotidiano, si fa per dire: sapete di quanti permessi sindacali ha usufruito negli ultimi cinque anni il protagonista di questa storia?
Uno: il 15 febbraio 2007. E la giustizia non funzionerebbe per colpa della mancata separazione delle carriere? Ma per favore….
Articolo di Gian Antonio Stella
pubblicato su Il Corriere della Sera [1] del 12 maggio 2010
[1] Corriere della Sera