Furbetti del cartellino: licenziamento senza automatismi

La Corte Suprema di Cassazione, Sez. lav, con sentenza n. 8453 del 24 marzo 2023, ha stabilito che, secondo principi ormai acquisiti nel pubblico impiego privatizzato l’art. 55-ter del D.Lgs. n. 165/2001, inserito dal D.Lgs. n. 150/2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente. La Corte Suprema di Cassazione ha, inoltre, ribadito che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dall’art. 55-quater D.Lgs. n. 165/2001, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare, perché della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali.
Il fatto
La Corte d’appello di Genova respingeva il reclamo proposto da una dipendente comunale, con funzioni di coordinatrice dei Servizi educativi di prima infanzia, avverso la sentenza del Tribunale reiettiva dell’impugnativa di licenziamento per giusta causa: il licenziamento aveva fatto seguito a una contestazione relativa a plurime irregolarità nella registrazione della presenza in servizio, e dei relativi orari di entrata e uscita, ritenuta adeguatamente comprovata alla stregua delle risultanze delle indagini della Guardia di finanza che avevano dato luogo anche a un giudizio penale chiusosi poi con l’assoluzione della dipendente comunale.
La funzionaria comunale proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova.
Il ricorso veniva rigettato dalla Corte Suprema di Cassazione, con sentenza n. 8453 del 24 marzo 2023, con addebito alla parte soccombente delle spese processuali.
La decisione
La funzionaria comunale sosteneva che la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto che l’ingerenza indebita di militari della Guardia di finanza – e, dunque, di soggetti estranei all’UPD e non connotati da terzietà – nell’istruttoria disciplinare non costituiva violazione di legge, e aveva errato nel trascurare che il fatto costituente addebito disciplinare era stato, con sentenza penale di assoluzione (con formula “per insussistenza del fatto”), ritenuto insussistente: per la Corte Suprema di Cassazione il procedimento era stato instaurato, e concluso, dall’UPD competente e la dedotta nullità sarebbe al più seguita ove fosse stato instaurato da soggetto diverso rispetto a tale ufficio; sicché, la lamentata partecipazione o indebita ingerenza di soggetti estranei non si rifletteva, come opinava la difesa della ricorrente, in termini di nullità; per la Corte Suprema di Cassazione, non occorreva attendere l’esito del giudizio penale, poiché nel pubblico impiego privatizzato l’art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001, inserito dal D.Lgs. n. 150/2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass. n. 8410/2018; Cass. n. 29376/2018).
La ricorrente sosteneva, altresì, che la Corte d’Appello aveva ritenuto provato un addebito in via presuntiva, fondando l’inferenza su fatti e presunzioni non connotati da gravità, precisione e concordanza ed anzi smentiti da prove testimoniali, completamente ignorate e, pertanto, sottoponeva a un analitico riesame tutte le risultanze dell’istruttoria, assumendo che la Corte le avrebbe travisate: tale motivo è considerato dalla Cassazione, con la sentenza che qui si annota, inammissibile, poiché le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione (Cass. sez. Unite, n. 1785/2018) hanno precisato che la denuncia di violazione o falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c. si può formulare quando il giudice di merito affermi che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice del merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (Cass. n. 9054/2022); per la Corte Suprema di Cassazione, non può avere ingresso in questa sede il tentativo di prospettare una diversa ricostruzione dei fatti e/o di sottoporre a revisione le risultanze istruttorie, atteso che, così facendo, le doglianze, sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge per violazioni dei principi che sovrintendono alla prova per presunzioni, si rivelano più che altro finalizzate a un riesame del merito, chiaramente precluso in questa sede (Cass. n. 6960/2020).
La ricorrente rimproverava, inoltre, alla Corte territoriale di non aver valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi: la Corte Suprema di Cassazione, nel ribadire che anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dall’art. 55-quater D.Lgs. n. 165/2001, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perché della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali, puntualizza che ciò non risponde al vero.
Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto lede i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 della Costituzione) e quelli fondamentali di ragionevolezza (i.e., art.3 Cost, Corte Cost. n. 971/1988 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).
Per la Corte Suprema di Cassazione, è stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che “la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa”(Cass. n. 18326/2016): nel caso di specie, per la Corte Suprema di Cassazione, la pronuncia della Corte territoriale risulta rispettosa del principio di diritto sopra enunciato, poiché, dopo aver escluso, con accertamento di fatto non censurabile presso la Corte Suprema di Cassazione, la fondatezza delle giustificazioni fornite dalla dipendente comunale, aveva evidenziato che l’addebito contestato, per la sussistenza dell’elemento soggettivo (“quanto meno della colpa”) e per la sua gravità, era idoneo a integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche per le delicate e importanti funzioni svolte dalla lavoratrice, per il fatto che il suo servizio si svolgeva in maniera rilevante all’esterno con minor possibilità di controllo del Comune, vuoi per l’irrilevanza, in riferimento ad alcuni episodi, dell’assenza di benefici economici collegati alla falsa attestazione.
La materia del licenziamento disciplinare nel pubblico impiego è governata dal principio di proporzionalità e dunque alcun automatismo sanzionatorio può essere desunto dalla previsione di legge dell’illecito, essendo costituzionalmente garantita sia l’emersione delle difese nella sede procedurale, che la gradualità della risposta sanzionatoria, giocoforza parametrata ai profili oggettivi e soggettivi del caso concreto.
Per la Cassazione (Cass. 26/01/2016, n. 1351; Cass. 25/08/2016, n. 17335; Cass. 09/03/2017, n. 6099; Cass. 11/09/2018, n. 22075) non è ammesso alcun automatismo verso il licenziamento disciplinare nelle ipotesi di cui all’art.55-quater D.Lgs. n. 165/2001 dovendo la valutazione dell’amministrazione, nell’applicazione della massima sanzione espulsiva, muovere nell’apprezzamento del caso concreto, dell’utilità e natura del singolo rapporto, delle mansioni espletate dall’incolpato e del relativo grado di affidamento, dell’intenzionalità della condotta e della relativa intensità.
Riferimenti normativi:
Art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001
Art. 55-quarter, D.Lgs. n. 165/2001


Firma digitale e notifica cartacea: l’invito all’adesione è valido

Le norme del Codice dell’amministrazione digitale non sono applicabili alle attività e funzioni “ispettive e di controllo fiscale” ma valgono invece rispetto alle funzioni istituzionali di accertamento. Di conseguenza è legittimo l’invito all’adesione di cui all’articolo 5-ter del Dlgs n. 218/1997 redatto come originale informatico sottoscritto in formato digitale e notificato in copia analogica conforme secondo le regole ordinarie della trasmissione a mezzo del servizio postale.
Così si è espressa la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana nella sentenza n. 3 dello scorso 3 gennaio che, facendo applicazione dei principi elaborati in materia dal Collegio di legittimità, ha confermato la pronuncia di primo grado favorevole all’Ufficio.
Svolgimento del processo
Una società impugnava un avviso di accertamento dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale di Prato eccependo in via preliminare l’inesistenza dell’invito all’adesione notificatole dall’Ufficio ai sensi dell’articolo 5-ter del Dlgs n. 217/1997, invito che, a detta dell’istante, non avrebbe potuto essere formato e sottoscritto digitalmente e poi notificato in esemplare cartaceo, derivandone altrimenti la nullità dell’attività istruttoria.
L’adito giudice respingeva il gravame con sentenza che l’interessata appellava al giudice regionale: per quanto d’interesse, la contribuente ribadiva la censura relativa alle modalità di formazione dell’invito a comparire per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento.
La pronuncia del collegio regionale
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana ha confermato il decisum di prime cure ribadendo la non accoglibilità dell’eccezione relativa all’asserita nullità dell’invito all’accertamento con adesione redatto in originale informatico firmato digitalmente e notificato all’interessato in copia analogica dichiarata conforme.
In particolare, spiegano i giudici della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana riportandosi alla sentenza della Cassazione n. 1150/2021 richiamata dall’Ufficio nelle proprie difese, le norme del Codice dell’amministrazione digitale (Cad), “sono applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento svolte dall’Agenzia delle Entrate, mentre non possono essere applicate alle attività e funzioni “ispettive e di controllo fiscale””.
La pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, si legge nell’odierno arresto, per un verso è stata motivata valutando la differenza fra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo; per l’altro, “i Giudici di legittimità hanno confermato l’inesistenza di alcun necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC”.
Di conseguenza, secondo la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, nessuna norma impedisce di procedere alla notificazione, anche secondo le regole ordinarie della trasmissione a mezzo del servizio postale, della copia analogica di un documento conforme all’originale informatico, ragion per cui l’invito all’adesione “ben poteva essere redatto e sottoscritto in formato digitale, in quanto contenente l’analitica elencazione dei rilievi fiscali e la quantificazione del debito fiscale, conformemente a quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. 82/2005”.
Osservazioni
La fattispecie presa in esame dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana si ricollega ad un filone di contenzioso in cui i giudici fiscali sono stati chiamati a valutare la fondatezza dell’eccezione, sollevata dalle parti private, relativa all’asserita carenza di valida sottoscrizione di atti di accertamento che, formati come documento elettronico sottoscritto digitalmente, erano stati notificati dagli Uffici trasmettendo al destinatario copia analogica dell’atto, munita di attestazione di conformità all’originale, ma priva di firma autografa, essendo quest’ultima sostituita dall’indicazione a mezzo stampa del firmatario.
Diverse pronunce di merito – facendo leva sul disposto dell’articolo 2, comma 6, del Cad, che a decorrere dal 14 settembre 2016 stabiliva l’inapplicabilità della disciplina digitale relativamente, tra l’altro, “all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale …” – avevano infatti concluso nel senso che la firma a stampa era consentita soltanto per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate e che, invece, l’apposizione di una firma digitale all’originale informatico di un avviso di accertamento notificato non tramite Pec ma in formato analogico determinava la nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione.
Successivamente, in conseguenza delle modifiche apportate dal Dlgs n. 217/2017, a decorrere dal 27 gennaio 2018, nell’articolo 2 del “Codice”, per un verso, è stato eliminato nel comma 6 il riferimento alle parole “ispettive e di controllo fiscale”; per l’altro, è stato introdotto il comma 6-bis, in base al quale “Ferma restando l’applicabilità delle disposizioni del presente decreto agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.., sono stabiliti le modalità e i termini di applicazione delle disposizioni del presente Codice alle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.
Al riguardo, con sentenze n. 1150/2021 e 1557/2021, la Corte Suprema di Cassazione ha chiarito che, attraverso la riferita norma del Cad, il legislatore ha operato una distinzione tra gli atti “emessi ‘nell’esercizio’ delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, “a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive” (vale a dire gli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento quali ad esempio gli accessi, ispezioni e verifiche di cui agli articoli 32 del Dpr n. 600/1973 e 52 del Dpr n. 633/1972), rispetto ai quali la disciplina digitale non è applicabile, e gli atti “impositivi” (ad esempio, gli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria) per i quali detta regolamentazione digitale deve invece ritenersi pienamente operante.
Il Supremo collegio, sulla scorta del dato normativo, ha dunque sancito che anche in ambito tributario la regola è l’atto informatico mentre ogni limitazione all’uso dei mezzi digitali costituisce un’eccezione, e che di conseguenza nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata, anche secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta (Cassazione n. 1555/2021; negli stessi termini, da ultimo, Cassazione n. 37493/2022); perché “l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi” (Cassazione n. 36894/2022).
In definitiva, la pronuncia della Corte di giustizia tributaria della Toscana appare pienamente coerente con la consolidata ermeneutica di legittimità e con l’impostazione secondo cui la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento alla disciplina unionale, “impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici” (Cassazione n. 25910/2022).


Il Messo Comunale è tenuto a cercare il destinatario della cartella esattoriale

Il messo notificatore deve cercare il destinatario della cartella di pagamento, verificando l’eventuale cambio di indirizzo: lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza numero 7994 del 2023
La notifica degli atti impositivi va effettuata con la sola affissione presso l’albo comunale, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, solo quando il messo notificatore non recepisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale.
Così ha statuito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7994 del 20 marzo 2023.
Nel caso in esame la ricorrente impugnava la cartella esattoriale dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, contestando l’inefficacia dell’atto impugnato a causa dell’insussistenza del diritto dell’ufficio a richiedere il pagamento di somme afferenti al tributo dell’IRPEF, senza aver preliminarmente provveduto a notificare correttamente i prodromici avvisi di accertamento.
La CTP dichiarava inammissibile il ricorso proposto dalla contribuente, ritenendo che gli atti impositivi fossero stati regolarmente notificati. Stesso esito in appello perché la CTR rigettava l’impugnativa introdotta dalla contribuente e confermava la decisione assunta dalla CTP.
Il contribuente ha proposto ricorso in cassazione, censurando la violazione di legge in cui ritiene essere incorso il giudice del gravame, per non aver correttamente applicato il combinato disposto dagli artt. 140 c.p.c., e 60 del Dpr n. 600 del 1973, in ordine agli adempimenti relativi al procedimento di notificazione dei prodromici avvisi di accertamento in esame.
In particolare, il citato art. 60, comma primo, lett. e), del Dpr n. 600 del 1973 contiene delle indicazioni specifiche sulla modalità di compimento del processo di notificazione di un atto tributario al contribuente irreperibile.
Infatti, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune, senza l’invio della raccomandata informativa, e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione.
La Corte Suprema di Cassazione ha inoltre precisato che la notificazione ai sensi dell’art. 60, comma 1, lett. e) del d.P.R. n. 600 del 1973 è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente.
Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al fuori del detto Comune.
La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata ex art. 60, lett. e), del d.P.R. n. 600 del 1973 quando il notificatore non recepisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale.
Non avendo dato corretta attuazione a tali principi, la sentenza d’appello è stata cassata, con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado in diversa composizione.


Notifica a persone irreperibili ex art. 143 c.p.c.: presupposti

Con la sentenza n. 35022, del 29 novembre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente pronunciata sui presupposti affinché possa essere ritenuta valida la notifica di un atto giudiziario per irreperibilità del destinatario ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

La vicenda nasce dall’azione intrapresa da un avvocato, il quale conveniva innanzi al Tribunale il liquidatore di una società a responsabilità limitata chiedendo la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno subito in virtù di un credito vantato nei confronti della predetta società, che era stata cancellata dal registro delle imprese, senza che venisse saldato il suo credito. L’atto introduttivo del giudizio veniva notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Nella contumacia del convenuto, il Tribunale accoglieva la domanda attorea, accertando la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2495 del Codice civile in relazione all’art. 2491 ultimo comma c.c. I giudici di primo grado ritenevano che il liquidatore, già socio e amministratore unico della società debitrice, non potesse non essere a conoscenza dell’esposizione debitoria della società verso l’attore al momento della richiesta della cancellazione dal Registro delle Imprese.

Avverso la sentenza del Tribunale interponeva appello il convenuto originario, il quale deduceva preliminarmente la nullità della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado e, nel merito, l’assenza di responsabilità in capo al liquidatore medesimo con riferimento alla cancellazione della società debitrice dal registro delle imprese.

Il gravame veniva accolto dalla Corte di Appello, la quale dichiarava la nullità della notificazione della sentenza del Tribunale, munita della formula esecutiva, e del contestuale atto di precetto, nonché della notifica dell’atto di citazione di primo grado e degli atti conseguenti.

Pertanto, l’attore investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione deducendo, con il primo motivo del ricorso, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 143 c.p.c., avendo la Corte di Appello ritenuto non rispettose dei precetti normativi tanto la notificazione ex art. 143 c.p.c. della sentenza di primo grado in forma esecutiva e dell’atto di precetto, quanto la notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado eseguita anch’essa ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Il motivo del ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione la quale lo ha accolto senza rinvio, ribadendo il principio di diritto secondo cui «Il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto» (Cass. n. 40467/2021).

Come affermato dalla giurisprudenza degli stessi giudici di legittimità, hanno osservato che:

  1. ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638/2017 );
  2. Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107/2016);

3. l’ufficiale giudiziario deve comunque preliminarmente e concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.


Atto notificato ad un indirizzo diverso dalla residenza del destinatario: conseguenze

Con la sentenza n. 8463, pubblicata il 24 marzo 2023, la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata su quando può essere ritenuta nulla la notifica di un atto di citazione eseguita ad un indirizzo diverso da quello della residenza anagrafica del destinatario.

La vertenza approdata all’esame dei giudici della Suprema Corte nasce da un giudizio ex art. 702 bis c.p.c. promosso da un istituto bancario, creditore procedente in un pignoramento immobiliare, avente ad oggetto l’accertamento dell’avvenuta accettazione tacita da parte del debitore esecutato dell’eredità della madre defunta, tra i cui beni era ricompreso anche quello oggetto del pignoramento.

Il Tribunale dava torto alla banca rigettando il ricorso da quest’ultima proposto.

Di diverso avviso la Corte di Appello la quale, decidendo il gravame interposto dell’istituto bancario accertava che il convenuto originario era divenuto proprietario del bene pignorato, avendo tacitamente accettato l’eredità della madre.

Il giudizio innanzi alla Corte di Appello si svolgeva nella contumacia del convenuto. Il plico raccomandato contenente la citazione non era stato recapitato a quest’ultimo ed era stato restituito al mittente per compiuta giacenza.

L’originario convenuto proponeva, quindi, ricorso per cassazione deducendo:

  1. la nullità della sentenza e del procedimento di appello, stante la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello in quanto eseguita ad un indirizzo diverso dal proprio luogo di residenza e con il quale quest’ultimo non aveva, al tempo della notifica, nessun collegamento;
  2. che il ricorso era stato proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dalla pubblicazione della sentenza di appello, stante la sua qualità di contumace involontario, avendo avuto conoscenza della sentenza della Corte d’Appello quando il proprio difensore nel giudizio di esecuzione immobiliare aveva ricevuto la comunicazione dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione nella quale si faceva menzione della sentenza.

LA DECISIONE: Il motivo del ricorso è stato ritenuto infondato dai giudici della Corte di Cassazione i quali lo hanno rigettato osservando che:

  1. come affermato più volte dagli stessi giudici di legittimità le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora del destinatario di un atto, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale (Cass. civ. n. 19387/2015; Cass. civ. n. 11550/2013);
  2. al fine di fornire la prova della nullità della notifica della citazione per essere stata eseguita in luogo diverso dalla residenza effettiva del destinatario, non è sufficiente la sola produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notifica;
  3. nell’ipotesi in cui la notifica viene eseguita nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, secondo le forme previste dall’art. 140 c.p.c., si presume che in quel luogo si trovi la dimora del destinatario, il quale se intende contestarle in giudizio per fare dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne la prova;
  4. la prova contraria, idonea a vincere la presunzione scaturente dalle risultanze anagrafiche, può essere desunta da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni, come quelle desunte dall’indicazione di dimora abituale quale emerge dall’esecuzione del contratto intercorso tra le parti.

Nel caso esaminato, hanno concluso gli Ermellini, è emerso che:

  1. in data anteriore al cambiamento di residenza, come risulta dalla certificazione anagrafica prodotta dal ricorrente, questi risiedeva proprio all’indirizzo ove è stata effettuata la notifica dell’atto di appello;
  2. in occasione delle sottoscrizioni delle fideiussioni rilasciate a garanzia del credito per il quale successivamente la banca ha agito esecutivamente, il ricorrente aveva indicato come proprio indirizzo quello dove è stato notificato l’appello anche se dalla certificazione anagrafica prodotta risultava che il trasferimento presso il nuovo indirizzo era avvenuto due anni prima;
  3. le varie missive relative al credito azionato dalla banca, la notifica dell’atto di precetto a seguito del quale è stata introdotta la procedura esecutiva immobiliare, erano state inviate, sempre dopo il cambio della residenza anagrafica, all’indirizzo dove era stato notificato anche l’atto di appello, e il ricorrente aveva sottoscritto i relativi avvisi di ricevimento.

Uso di p.e.c. non ufficiale: la notifica è insanabile

Argomento di particolare interesse, nel contenzioso tributario, riveste la legittimità della notificazione della cartella di pagamento al contribuente, proveniente da un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante in nessuno dei pubblici elenchi degli indirizzi elettronici previsti per legge, ossia IPA, REGINDE o INIPEC.

Parimenti si ravvisa che, ai sensi dell’articolo 3 bis L. 53/1994, la notificazione con modalità telematica deve essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.

Sul punto, l’articolo 16 ter D.L. 179/2012 (convertito in legge, con modifiche, dalla L. 221/2012), rubricato “pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni”, al comma 1 dispone che: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6 bis, 6 quater e 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” e, pertanto, la notifica a mezzo p.e.c. è da intendersi validamente effettuata soltanto se effettuata a un indirizzo p.e.c. certificato ed inviata da un indirizzo p.e.c. anch’esso certificato.

Tra l’altro l’articolo 57 bis D.Lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, “CAD”), ha stabilito, al comma 1, che: “al fine di assicurare la pubblicità dei riferimenti telematici delle pubbliche amministrazioni e dei gestori dei pubblici servizi è istituto l’indice degli indirizzi della pubblica amministrazione e dei gestori di pubblici servizi, nel quale sono indicati gli indirizzi di posta elettronica certificata da utilizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informazioni e per l’invio di documenti a tutti gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici servizi ed i privati”.

Sulla base di tali presupposti è pacifico considerare che, nel caso in cui mancasse un tale accreditamento, è precluso al contribuente verificare la provenienza del messaggio e, in particolare, la sua attribuibilità alla specifica Amministrazione menzionata come mittente.

In altri termini, il Legislatore ha sancito la necessità che l’attività di notifica avvenga mediante l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti da pubblici elenchi, al fine di assicurare la necessaria certezza sulla provenienza e sulla destinazione dell’atto da notificare e ciò non può valere soltanto rispetto alla parte contribuente.

Nel contesto così delineato, è agevole affermare che non possa reputarsi valida la notifica effettuata dall’Ufficio avvalendosi di indirizzi non ufficiali, poiché ciò non consente l’assoluta certezza della provenienza dell’atto impugnato, atta a comprovare l’affidabilità giuridica del contenuto dello stesso, profili che devono invece essere entrambi garantiti, a salvaguardia della pienezza del diritto di difesa del contribuente.

Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi (Cass. Civ. 3093/2020).

La presenza dell’indirizzo del mittente in uno dei pubblici registri, previsti dalla legge, consente al destinatario la riconoscibilità del mittente, garantendo l’identità e la provenienza del messaggio di posta elettronica.

In definitiva, deve affermarsi che il vizio della notifica inviata attraverso p.e.c. non ufficiale comporta, quindi, una nullità insanabile, essendo minata proprio la certezza della provenienza della stessa.

Quanto sin qui osservato ha trovato conferma anche nelle recenti decisioni della giurisprudenza di merito.

In particolare, la sentenza n. 6507/17/2022 della CTR Lazio (oggi Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio) ha ribadito che la mancata dimostrazione dell’inserimento della casella di posta elettronica erariale nei registri pubblici “rende la notifica della cartella di pagamento originariamente impugnata inesistente e, come tale, non suscettibile di sanatoria. Atteso che all’inesistenza consegue l’impossibilità di operare la sanatoria, escludendo qualsiasi effetto per raggiungimento dello scopo ex articolo 156 c.p.c. perché “utilizzando un indirizzo p.e.c. non certificato e non inserito in pubblici registri, il messaggio di posta elettronica difetta di un requisito indispensabile a tal fine, non consentendo al destinatario di essere messo in condizioni di conoscerne il contenuto, senza correre il rischio di essere attaccato da c.d. “Malware””.


Buona Pasqua !!!


8 marzo 2023

Oggi più che mai è importante lottare per i diritti delle donne: sono stati fatti grandi passi avanti ma non sono ancora abbastanza. Si sarà sicuramente sentito parlare del gender gap: si chiama così la differenza che c’è tra uomo e donna nella società, solo per il fatto di appartenere a due generi distinti. Gli uomini ricoprono ruoli professionali più importanti, le donne sono relegate alla cura. Basta aprire un giornale qualunque per capire che le donne vengono trattate diversamente: davanti al cognome (le poche volte che viene usato, più spesso si usa il nome di battesimo!) viene messo l’articolo “la”, oppure le professioni sono sempre declinate al maschile: il medico, il ministro, il presidente. Allo stesso modo, a parità di posizione professionale una donna guadagnerà meno, e quando nascono dei bambini questo divario si amplierà ulteriormente.

Per questo, anche se oggi le donne possono votare (in Italia) e partecipare a qualsiasi attività, iscriversi in qualsiasi università, non dare niente per scontato: la strada è ancora lunga ed è importante lottare ogni giorno per la parità, non soltanto regalare mimosa nel giorno della festa della donna!


Riunione Com.ne Normativa del 9 marzo 2023

Viene convocata la riunione della Commissione Normativa per giovedì 9 marzo 2023 alle ore 20:00 sul seguente Ordine del Giorno:
1) Riforma Cartabia 2022;
2) Varie ed eventuali

Leggi: RIUNIONE COMMISSIONE NORMATIVA del 09 03 2023: Considerazioni


Notifica nulla al difensore domiciliatario se non si accerta il rapporto

La Suprema Corte di Cassazione: è nulla la notifica al presunto difensore nel giudizio in cui è assente l’imputato, è nulla in via assoluta la notifica effettuata al difensore d’ufficio domiciliatario se prima non è stato accertato il rapporto tra i due soggetti.

È nulla la notifica eseguita al difensore d’ufficio domiciliatario dell’imputato se prima non si accerta che tra i due soggetti si è instaurato un rapporto effettivo. Lo ha ricordato la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 5897/2023.

Il difensore d’ufficio di un imputato ricorre presso la Suprema Corte di Cassazione sollevando diversi motivi aventi a che fare con violazioni procedurali:

  • mancato rilievo della nullità della elezione di domicilio effettuata da persona sordomuta in violazione dell’art. 119 c.p.c.;
  • omessa dichiarazione di nullità della sentenza di 1° grado perché, stante la mancata presenza dell’imputato, il giudice non ha rinviato l’udienza e non ha disposto la notifica dell’avviso all’imputato personalmente o la sospensione del processo in caso di impossibilità della notifica;
  • mancato rispetto dell’art. 420 quater c.p.p. poiché è stato disposto di procedersi nonostante l’assenza dell’imputato, senza prima rinviare l’udienza o notificare l’avviso personalmente all’imputato da parte della polizia giudiziaria.

Per la Suprema Corte di Cassazione, se il primo motivo è inammissibile, il secondo e il terzo sono fondati.

Al termine di una disamina assai complessa della normativa e della giurisprudenza in materia nella motivazione, ai fini del decidere, gli Ermellini ricordano e condividono infatti il principio di cui alla pronuncia della Sezione V della Suprema Corte di Cassazione n. 22752/2021, la quale ha sancito in sostanza che nel giudizio in assenza dell’imputato, è affetta da nullità assoluta la notifica del decreto di citazione a giudizio dell’imputato che viene eseguita presso il difensore d’ufficio domiciliatario, se prima non è si è provveduto ad accertare l’instaurazione effettiva del rapporto tra il difensore e l’imputato.


Comune invia PEC con destinatari in chiaro: ammonizione del Garante

L’invio con tale modalità ha comportato una comunicazione di dati personali in maniera non conforme al principio di liceità, correttezza e trasparenza e in assenza di una base giuridica

Tizia e Caia, entrambe partecipanti ad una procedura selettiva indetta da un Comune, hanno spiegato con i rispettivi reclami ex art. 77 Regolamento UE 2016/679 di aver richiesto tramite PEC alla responsabile del procedimento un cambio turno ai fini della prova stessa ed il Comune ha risposto loro mediante una raccomandata digitale che rivelava l’indirizzo PEC di tutti i destinatari.

Il Comune si è difeso sostenendo, in particolare, che l’evento è stato determinato “non da una mancata conoscenza […] della disciplina in materia di trattamento e protezione dei dati personali [da parte della dipendente che ha effettuato l’invio della PEC in questione] (tanto che la stessa ha partecipato a più corsi di formazione in materia) o delle istruzioni ad essa impartite dal titolare del trattamento, bensì da un mero errore materiale determinato dalla stanchezza conseguente all’eccessivo carico di lavoro in periodo pandemico e dall’aver condotto la procedura concorsuale di cui trattasi sia in qualità di responsabile del procedimento che in qualità di membro di commissione (a causa dell’esiguo numero di risorse umane in rapporto alle numerose attività da svolgersi in tutto l’ente)”.

L’Ufficio del Garante sulla base degli elementi acquisiti, delle verifiche compiute e dei fatti emersi a seguito dell’attività istruttoria, ha notificato al Comune, ai sensi dell’art. 166, comma 5, del Codice, l’avvio del procedimento per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 58.2 Gdpr, invitandolo a produrre scritti difensivi o documenti ovvero a chiedere di essere sentito dall’Autorità.

Nella memoria difensiva il Comune ha ribadito il carattere colposo (nella forma della colpa lieve) dell’errore, determinato dall’eccessivo carico di lavoro in periodo pandemico che, unitamente all’esiguità delle risorse umane dell’ente, ha fatto sì che la dipendente in questione fosse sottoposta ad eccessivo stress, “foriero di errori come quello verificatosi”; ed ha sottolineato i lievi effetti dell’accaduto.

Il Garante ha evidenziato che l’operazione di comunicazione di dati personali a terzi è ammessa per gli enti pubblici “solo quando prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento (v. art. 2-ter, commi 1 e 3, del Codice, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 8 ottobre 2021, n. 139, vigente al tempo dei fatti oggetto di reclamo)”.

L’autorità di controllo ha accertato l’invio del messaggio di posta elettronica certificata a nove partecipanti a una prova concorsuale, con gli indirizzi di posta elettronica degli stessi in chiaro, “così rivelando alle due reclamanti gli indirizzi di posta elettronica di altri sei candidati e a questi ultimi quelli delle due reclamanti, rendendo, inoltre, nota la circostanza che i destinatari – tutti candidati nell’ambito della procedura indetta dal Comune – avessero chiesto al Comune un cambio del proprio turno per effettuare una prova preselettiva”.

L’invio del messaggio di posta elettronica certificata in questione con le predette modalità ha comportato una comunicazione di dati personali in maniera non conforme al principio di liceità, correttezza e trasparenza e in assenza di una base giuridica, in violazione degli artt. 5.1, lett. a), e 6 del Gdpr, nonché 2-ter del Codice (nel testo, si ripete, antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 8 ottobre 2021, n. 139).

Il Garante ha quindi rilevato che le dichiarazioni rese dal Comune nel corso dell’istruttoria, seppure meritevoli di considerazione, “non consentono di superare i rilievi notificati dall’Ufficio con l’atto di avvio del procedimento e risultano insufficienti a consentire l’archiviazione del presente procedimento, non ricorrendo, peraltro, alcuno dei casi previsti dall’art. 11 del Regolamento del Garante n. 1/2019”.

È chiara “l’illiceità del trattamento di dati personali effettuato dal Comune, per aver comunicato a terzi i dati personali delle reclamanti e di altri sei partecipanti alla procedura concorsuale in questione”, in violazione delle disposizioni già citate.

Ciò nondimeno l’autorità di controllo, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto (episodio isolato e determinato da un semplice errore umano, esclusione di dati sensibili e di informazioni relative alle ragioni delle richieste di rinvio della prova dal trattamento, ridotta dimensione del Comune/titolare dotato di limitate risorse organizzative e finanziarie, condotta posta in essere nel contesto dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 – fase particolarmente concitata e critica anche sul piano dell’organizzazione e gestione delle attività istituzionali -, insussistenza di precedenti violazioni pertinenti commesse dal titolare del trattamento), ha stabilito di qualificare lo stesso come “violazione minore”, ai sensi del considerando 148 Gdpr e delle “Linee guida riguardanti l’applicazione e la previsione delle sanzioni amministrative pecuniarie ai fini del regolamento (UE) n. 2016/679”, adottate dal Gruppo di Lavoro Art. 29 il 3 ottobre 2017, WP 253, e fatte proprie dal Comitato europeo per la protezione dei dati con l’”Endorsement 1/2018” del 25 maggio 2018.

Il Garante per la protezione dei dati personali con provvedimento n. 419 del 15.12.2022 ha ritenuto sufficiente l’ammonimento del titolare del trattamento, ai sensi dell’art. 58.2, lett. b), Gdpr, non ricorrendo i presupposti per l’adozione di ulteriori misure correttive.


La casella Pec piena impone la rinotifica al domicilio fisico

Se il legale del contribuente ha la casella di posta certificata piena, la notifica non si può ritenere effettuata, ma va rinnovata presso il domicilio fisico. La Corte Suprema di Cassazione (sentenza n. 2193/2023) dichiara inammissibile un ricorso dell’agenzia delle Entrate e fa una netta scelta di campo tra due orientamenti. Secondo la tesi disattesa dalla Corte Suprema di Cassazione, infatti, il responso “cassetta piena” è frutto di una negligenza del destinatario, che ha il dovere di «verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione». Se dunque il destinatario non rende disponile effettivamente il suo domicilio elettronico, il notificante può utilizzare l’atto come se la notifica fosse andata in porto.

Di diverso avviso la Corte Suprema di Cassazione. La Corte Suprema di Cassazione ammette – come valorizzato dal principio dal quale prende le distanze – che il lasciare la casella Pec satura «equivale ad un preventivo rifiuto di ricevere notificazioni tramite la stessa». Tuttavia questo non basta a fronte del fatto che le norme sul domicilio digitale non hanno soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, un luogo fisico valido – ed eventualmente associato al domicilio digitale – per la notificazione degli atti del processo.

Da qui il dovere di rinnovare tempestivamente la notifica non andata a buon fine anche se per “colpa” del destinatario. Un onere che – precisa la Corte Suprema di Cassazione – non deve apparire irragionevole a fronte dell’esistenza di una domiciliazione fisica, se presente, e del fatto che chi notifica può controllare subito l’esito della mancata consegna, attraverso il messaggio di rifiuto.

Questo anche nel caso di un giudizio la cui proposizione sia soggetta ai termini di decadenza.

«In definitiva la Corte Suprema di Cassazione sostiene  che se si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico, ciò non può, viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo di elezione appositamente eletto».

La Corte Suprema di Cassazione nega che l’orientamento opposto, ribadito anche dalla sentenza 26810/2022, possa essere supportato dall’articolo 149-bis, terzo comma, del Codice di rito civile secondo il quale in assenza di un espresso divieto di legge, la notifica si può eseguire con la Pec «anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo». Per la Corte Suprema di Cassazione si tratta di una norma neutra che si limita a prevedere il perfezionamento nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di Pec del destinatario.


Sono riaperte le iscrizioni al corso di formazione on line del 30-31 gennaio 2023

RIAPERTE LE ISCRIZIONI

si comunica che vengono riaperte le iscrizioni del corso di formazione avanzato on line in programma per il 30-31 gennaio 2023

Leggi: La Notificazione degli atti: Corso Avanzato


L’atto nativo digitale non richiede l’attestazione di conformità

La Corte Suprema di Cassazione enuncia il principio di diritto per il quale la produzione in giudizio di un documento in formato nativo digitale non richiede la attestazione di conformità all’originale perché la produzione avviene già in originale

Nella sentenza n. 981/2023 la Corte Suprema di Cassazione sancisce il principio in materia di processo telematico, ossia che quando si produce un atto nativo originale, non è necessaria l’attestazione di conformità all’originale, perché la produzione di fatto avviene in originale.

L’Agenzia delle Entrate notifica ad un contribuente un avviso di accertamento, che il destinatario impugna davanti alla CTP, che annulla l’atto perché non ritiene provata l’evasione contestata.

Decisione che l’Agenzia delle Entrate appella anche se anche in questa sede non vede accolte le proprie ragioni. Per la CTR manca la prova della notificazione dell’appello perché non è stata attestata la conformità dell’atto, dei suoi allegati e della ricevuta di attestazione e di consegna da parte del difensore dell’ente impositore appellante.

L’Agenzia delle Entrate non desiste e ricorre presso la Corte Suprema di Cassazione, contestando la motivazione della CTR, che a suo dire, erra nel ritenere inesistente la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello per assenza di attestazione della autenticità del ricorso, degli allegati e dell’attestazione di consegna, prodotti tutti in formato digitale.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie la doglianza dell’Agenzia delle Entrate. La CTR ha rigettato la doglianza dell’Agenzia partendo da un presupposto del tutto errato, ossia che il difensore abbia estratto e depositato copia analogica dell’atto di notifica e dei successivi documenti relativi al procedimento di notificazione.

Ragione per la quale, Corte Suprema di Cassazione afferma il seguente principio: “quando la produzione di un atto, nativo digitale, quale la notificazione a mezzo pec del ricorso in appello, degli allegati e dell’attestazione di consegna, avvenga in giudizio tramite l’allegazione al fascicolo processuale mediante modalità telematica, non è richiesta l’attestazione di conformità, all’originale dell’atto prodotto dal difensore”.

 


Pensione anticipata: previsto il bonus Maroni per chi decide di restare al lavoro

In tema di pensione anticipata, la Legge di Bilancio 2023 prevede un incentivo per chi decide rimandare l’uscita e restare al lavoro. Si tratta di una riproposizione del bonus Maroni. Il datore di lavoro non versa all’ente previdenziale i contributi a carico del lavoratore, che rientrano nello stipendio netto
I lavoratori in possesso dei requisiti minimi per la pensione anticipata, ma che decidono di restare al lavoro possono beneficiare di un bonus che aumenta lo stipendio netto.
La Legge di Bilancio 2023, infatti, ripropone il cosiddetto bonus Maroni, con il quale si garantisce un aumento retributivo ai lavoratori che posticipano l’uscita.
L’agevolazione concede uno stipendio maggiore, in quanto la quota dovuta a titolo di contribuzione a carico del lavoratore confluisce nella retribuzione netta invece di essere versata all’ente di previdenza.
Al momento della pensione l’importo della liquidazione sarà pari, sulla base dell’anzianità contributiva maturata a quel momento, a quella spettante alla data della prima scadenza utile per il pensionamento.
Tra le novità della Legge di Bilancio 2023 in materia di pensioni, c’è il ritorno del cosiddetto bonus Maroni (articolo 1, comma 286).
Si tratta dell’incentivo, previsto inizialmente dalla legge n. 243/2004 per contenere le spese previdenziali, in favore di quei lavoratori che, pur essendo in possesso dei requisiti minimi per andare in pensione, decidono di continuare a lavorare.
Chi opterà per questa possibilità potrà beneficiare di uno stipendio netto comprensivo anche della quota di contributi dovuti all’INPS.
La percentuale rappresenta la contribuzione ai fini pensionistici (IVS – invalidità, vecchiaia e superstiti) a carico del lavoratore e versata dall’azienda all’ente di previdenza, pari al 9,19 per cento.
Nel 2023 i lavoratori possono accedere alla nuova forma di pensione anticipata che sostituisce la vecchia Quota 102. Si tratta di Quota 103, che permette l’uscita dal mercato del lavoro con 62 anni d’età e 41 di contributi.
Pertanto, chi nel corso dell’anno maturerà i requisiti per Quota 103 potrà scegliere di rinunciare al versamento dei contributi IVS. La somma non versata da parte dell’azienda all’ente di previdenza sarà corrisposta interamente al lavoratore.
Non ci sono cambiamenti per i datori di lavoro che continueranno a pagare lo stipendio dello stesso importo, mentre il lavoratore guadagnerà di più, in quanto riceverà l’intera somma destinata alla contribuzione.
Il lavoratore in possesso dei requisiti per la pensione anticipata e che intende continuare l’attività, se sceglie di usufruire del bonus Maroni, potrà beneficiare della decontribuzione in busta paga, accettando però l’importo della pensione maturato fino a quel momento.
Nel momento in cui, poi, il lavoratore andrà in pensione, l’importo della liquidazione sarà pari a quello che sarebbe spettato alla data della prima scadenza utile per il pensionamento, prevista dalla normativa vigente e successiva alla scelta di usufruire del bonus, sulla base dell’anzianità contributiva maturata al tale data.
L’importo del trattamento liquidato, quindi, sarà quello maturato al momento della prima scadenza utile per il pensionamento.
Ad ogni modo non vengono considerati gli adeguamenti delle pensioni per la rivalutazione al costo della vita durante il periodo di posticipo del pensionamento.
Le modalità di attuazione saranno stabilite da un apposito decreto del Ministero del Lavoro e del MEF, atteso entro la fine di gennaio.