riunita in camera di consiglio nelle persone dei signori magistrati:
dott. Romano PANZARANI – Primo Presidente f.f.;
dott. Francesco AMIRANTE – Pres. di sezione;
dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;
dott. Antonio VELLA – Consigliere;
dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere;
dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere;
dott. Francesco SABATINI – relatore Consigliere;
dott. Ettore GIANNANTONIO – Consigliere;
dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Consigliere;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
LANZARA RAFFAELE, rappresentato dall’avv. Giovanni Falci giusta procura in calce al ricorso, con elezione di domicilio in Roma, via Valadier n. 6, presso l’avv. Claudio Giannelli
ricorrente
contro
CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI DI NOCERA INFERIORE e PROCURATORE GENERALE CASSAZIONE
intimati
avverso
la decisione in data 16.10. – 28.11.1998 del Consiglio Nazionale Forense (r.g. n. 54/98).
Udita nella pubblica udienza del 3 giugno 1999 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini.
È comparso per il ricorrente, per delega, l’avv. Guaglianone, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Sentito il P.M., in persona dell’avvocato generale Franco Morozzo della Rocca, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
L’avv. Raffaele Lanzara, iscritto nell’albo del Consiglio degli avvocati di Nocera Inferiore, fu incolpato: a) di aver violato i doveri di lealtà, diligenza e probità per avere – quale procuratore del sig. Costantino Pagano, creditore della somma di lire 120.000.000 nei confronti della società Simer – omesso di informare il suo patrocinato degli esiti del ricorso per la dichiarazione di fallimento della debitrice, nonché concluso con costei un accordo transattivo in conseguenza del quale aveva presentato atto di desistenza ed aveva incassato l’importo di lire 65.000.000 senza mai corrisponderlo al Pagano; b) di aver violato i doveri professionali di correttezza nei confronti del proprio Consiglio per non essere comparso, nonostante reiterati inviti e senza giustificati motivi, innanzi al consigliere relatore per esporre le sue ragioni.
In data 20 maggio 1997 il predetto Consiglio, ritenuti provati gli addebiti irrogò all’avv. Lanzara la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo professionale.
Tale decisione, impugnata dall’interessato, è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia, ora gravata.
Per quanto ancora rileva il Consiglio ha osservato, in rito, che rituale e tempestiva era stata la notificazione della citazione dell’incolpato a comparire dinanzi al Consiglio dell’ordine: essa venne infatti effettuata nel luogo in cui egli aveva la residenza anagrafica ed a mani della collaboratrice familiare. Che lo stesso avesse avuto effettiva conoscenza dell’atto era inoltre confermato dall’istanza di rinvio presentata dal difensore, nonché dal tempestivo ricorso al Consiglio Nazionale Forense dopo la notifica, avvenuta negli stessi termini della citazione, della decisione del Consiglio dell’ordine.
Rettamente detto Consiglio aveva respinto l’istanza di rinvio – presentata dal difensore in considerazione dell’astensione proclamata dall’Unione camere penali e dall’Organismo unitario dell’Avvocatura -, dal momento che detta astensione riguardava la partecipazione alle udienze e non poteva pertanto estendersi all’attività, di natura amministrativa, svolta dal Consiglio dell’ordine.
Nel merito il Consiglio Nazionale ha ritenuto che l’avv. Lanzara sottoscrisse la transazione senza averne il potere, senza interpellare il proprio cliente – come avrebbe dovuto fare poiché essa comportava la rinuncia alla metà del credito -, senza comunicargli l’avvenuta presentazione dell’atto di desistenza e senza versargli l’importo incassato dalla debitrice.
Parimenti provato era l’addebito, di cui al capo b), stante il fatto che l’interessato non era comparso dinanzi al Consiglio dell’ordine, come, del resto, non era poi comparso dinanzi al Consiglio Nazionale.
Per la cassazione di tale decisione l’incolpato ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Con il quinto, egli chiede inoltre la sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 139 c.p.c. ed afferma che la notificazione del decreto di citazione a mani della signorina Dossantos è nulla non essendo costei abilitata al ritiro degli atti per conto di esso ricorrente, giacché ella, dipendente della signora Maria Fimiani, solo saltuariamente frequentava la casa dell’avv. Lanzara. Anche a voler considerare la Dossantos come una vicina di casa, la notificazione era parimenti nulla non essendo stata inviata la prescritta lettera raccomandata.
Illegittima è la presunzione di legale conoscenza dell’atto, il formulata dal Consiglio Nazionale, dal momento che anche la violazione dei termini comporta la nullità del decreto di citazione.
Il motivo è infondato
Il decreto di citazione in questione – che può essere direttamente esaminato dalla Corte essendo allegato un error in procedendo – risulta notificato all’odierno ricorrente “a mani di Dossantos Marley, collaboratrice domestica ivi addetta alla ricezione degli atti e alla casa, in sua assenza”.
Il motivo in esame pone in discussione non già che la notificazione sia stata validamente eseguita in uno dei luoghi, indicati nel primo comma dell’art. 139 c.p.c., sibbene la capacità della Dossantos a riceverla, non essendo ella, a dire del ricorrente, e diversamente da quanto invece disposto dal successivo secondo comma, né persona di famiglia né addetta alla casa o all’ufficio.
Premesso che, attribuendo la relata alla Dossantos la sola qualità di addetta alla ricezione degli atti e alla casa, la validità della notificazione deve essere riscontrata con esclusivo riferimento a tale qualità, deve rilevarsi che questa non presuppone, diversamente da quanto preteso dal ricorrente, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, tanto meno di natura esclusiva.
Come infatti questa C.S. ha affermato (da ultimo con sent. 5 ottobre 1998 n. 9875) la validità della notificazione non può essere contestata sulla base del solo difetto di tale rapporto, essendo invece sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, come si desume dalla generica qualifica di addetto, richiesta dal legislatore (analogamente l’espressione persona di famiglia, impiegata dalla stessa norma, va intesa in senso relativamente ampio, sì da ricomprendervi anche i familiari la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale: Cass. 19.1.1995 n. 615).
Nella specie dalla stesse argomentazioni, svolte dal ricorrente – il quale afferma che la Dossantos era alle esclusive dipendenze della Fimiani, moglie di esso ricorrente, come egli ebbe a precisare nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense -, risulta che la predetta era addetta alla casa dello stesso: in tal senso ha dunque rettamente deciso il Consiglio Nazionale, donde la validità della notificazione e l’irrilevanza dell’omesso invio della raccomandata, prescritta dal quarto comma dello stesso art. 139 per la diversa ipotesi di cui al precedente terzo comma.
La riscontrata validità della avvenuta notificazione importa l’assorbimento della censura che investe l’ulteriore ratio decidendi – consistita nell’effettiva conoscenza della notificazione stessa da parte del destinatario, desunta dalla successiva istanza di rinvio della discussione -, censura con la quale il ricorrente afferma che l’osservanza del termine di comparizione avrebbe dovuto essere accertata con riferimento alla data dell’istanza stessa: censura – osserva la Corte – inoltre inammissibile perché nuova.
2. Con il secondo motivo il ricorrente allega “violazione di legge in relazione alla lesione del diritto di difesa per la mancata concessione del rinvio chiesto al difensore” al Consiglio dell’ordine di Nocera Inferiore a seguito della astensione dalle udienze, deliberata dall’Avvocatura: pur non ponendo in discussione la natura amministrativa del procedimento disciplinare, nella fase che si svolge dinanzi a detto Consiglio, il ricorrente censura la limitazione all’attività giurisdizionale di detta astensione, affermata dalla decisione ora gravata.
La censura è inammissibile sia perché investe un accertamento di fatto – i limiti dell’astensione in questione -, motivatamente effettuato da un organo, il Consiglio Nazionale forense, particolarmente qualificato e rappresentativo della categoria professionale interessata, sia perché l’inviolabilità del diritto di difesa, sancito dal secondo comma dell’art. 24 cost. – ammesso che ad esso il ricorrente abbia inteso riferirsi -, opera limitatamente ai procedimenti giurisdizionali, come si desume dall’interpretazione complessiva della norma costituzionale.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge per l’omessa contestazione degli articoli della legge professionale e per il mancato esame del relativo motivo di appello.
Osserva la Corte che quest’ultimo venne così testualmente formulato: “nullità dell’atto che dispone il giudizio disciplinare per omessa contestazione degli articoli della legge professionale”.
La genericità di tale censura esonerava conseguentemente il Consiglio Nazionale dal prenderla in esame, e, d’altra parte, il ricorrente neppure in questa sede indica le norme di legge che a suo dire imporrebbero, a pena di nullità, la contestazione non solo del fatto materiale oggetto di incolpazione ma altresì delle relative norme di legge.
L’indicazione di queste ultime non è invero richiesta dall’art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 – il quale stabilisce i requisiti della citazione da notificare all’incolpato (ed al pubblico ministero) -, ed al riguardo deve ribadirsi che nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo invece sufficiente che l’incolpato con la lettura dell’imputazione sia posto in grado – come nella specie è avvenuto – di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (Cass. sez. un. 10.2.1998 n. 1342 e 18.10.1994 n. 8482).
Diversamente, l’art. 417 lett. b) del codice di procedura penale menziona, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, “l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”: specificazione, quest’ultima – osserva la Corte – inapplicabile al procedimento disciplinare in questione, non essendo essa richiesta dal citato art. 48.
La ragione giustificatrice di tale diverso modo di disporre risiede in ciò che il menzionato art. 417 è funzionale al principio di legalità, quale enunciato nell’art. 1 cod. pen., il quale non trova invece completa attuazione nel procedimento disciplinare, che viene esercitato nei casi di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale (art. 38 primo comma legge 22 gennaio 1934 n. 36 (NDR: R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 art. 38) di conversione, con modificazioni, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578).
D’altra parte nei procedimenti disciplinari contro avvocati si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale, in mancanza delle quali si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile, mentre del codice di procedura penale sono applicabili solo quelle cui la legge professionale fa espresso rinvio, ovvero quelle relative ad istituti che trovano la loro regolamentazione soltanto nel codice anzidetto (da ultimo, in tal senso, Cass. sez. un. 24.2.1998 n. 1988).
4. Il quarto motivo del ricorso investe il merito della controversia e con esso il ricorrente sostiene che egli era in realtà dotato, diversamente da quanto affermato dalla decisione gravata, del potere di transigere la vertenza affidatagli dal proprio cliente, e conseguentemente adduce violazione di legge e travisamento del fatto.
Il motivo è inammissibile: detta decisione, pur dopo avere escluso che l’odierno ricorrente avesse il potere di transigere, gli ha poi addebitato di non avere informato il cliente della intervenuta transazione, di avere incassato l’assegno di lire 5.000.000 versatogli dal debitore a pagamento del compenso professionale, e di avere anche trattenuto la somma di lire 60.000.000, destinata al creditore, fatti, questi, che il Consiglio Nazionale ha qualificato come fonte di gravissima responsabilità.
E poiché tali apprezzamenti, di per sé idonei a sorreggere la decisione, non formano oggetto di censure di sorta, la doglianza, la quale è limitata ad un solo aspetto della questione, è, come detto, inammissibile.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto: decisione, questa, che importa l’assorbimento del quinto motivo, attinente alla richiesta cautelare di sospensione della esecuzione della decisione impugnata.
Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, stante la soccombenza del ricorrente e la mancata costituzione degli intimati.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 3 giugno 1999.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 NOV. 1999