Cass. civ. Sez. Unite, 19-11-1999, n. 793

riunita in camera di consiglio nelle persone dei signori magistrati:

dott. Romano PANZARANI – Primo Presidente f.f.;

dott. Francesco AMIRANTE – Pres. di sezione;

dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;

dott. Antonio VELLA – Consigliere;

dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere;

dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere;

dott. Francesco SABATINI – relatore Consigliere;

dott. Ettore GIANNANTONIO – Consigliere;

dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

LANZARA RAFFAELE, rappresentato dall’avv. Giovanni Falci giusta procura in calce al ricorso, con elezione di domicilio in Roma, via Valadier n. 6, presso l’avv. Claudio Giannelli

ricorrente

contro

CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI DI NOCERA INFERIORE e PROCURATORE GENERALE CASSAZIONE

intimati

avverso

la decisione in data 16.10. – 28.11.1998 del Consiglio Nazionale Forense (r.g. n. 54/98).

Udita nella pubblica udienza del 3 giugno 1999 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini.

È comparso per il ricorrente, per delega, l’avv. Guaglianone, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Sentito il P.M., in persona dell’avvocato generale Franco Morozzo della Rocca, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L’avv. Raffaele Lanzara, iscritto nell’albo del Consiglio degli avvocati di Nocera Inferiore, fu incolpato: a) di aver violato i doveri di lealtà, diligenza e probità per avere – quale procuratore del sig. Costantino Pagano, creditore della somma di lire 120.000.000 nei confronti della società Simer – omesso di informare il suo patrocinato degli esiti del ricorso per la dichiarazione di fallimento della debitrice, nonché concluso con costei un accordo transattivo in conseguenza del quale aveva presentato atto di desistenza ed aveva incassato l’importo di lire 65.000.000 senza mai corrisponderlo al Pagano; b) di aver violato i doveri professionali di correttezza nei confronti del proprio Consiglio per non essere comparso, nonostante reiterati inviti e senza giustificati motivi, innanzi al consigliere relatore per esporre le sue ragioni.

In data 20 maggio 1997 il predetto Consiglio, ritenuti provati gli addebiti irrogò all’avv. Lanzara la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo professionale.

Tale decisione, impugnata dall’interessato, è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia, ora gravata.

Per quanto ancora rileva il Consiglio ha osservato, in rito, che rituale e tempestiva era stata la notificazione della citazione dell’incolpato a comparire dinanzi al Consiglio dell’ordine: essa venne infatti effettuata nel luogo in cui egli aveva la residenza anagrafica ed a mani della collaboratrice familiare. Che lo stesso avesse avuto effettiva conoscenza dell’atto era inoltre confermato dall’istanza di rinvio presentata dal difensore, nonché dal tempestivo ricorso al Consiglio Nazionale Forense dopo la notifica, avvenuta negli stessi termini della citazione, della decisione del Consiglio dell’ordine.

Rettamente detto Consiglio aveva respinto l’istanza di rinvio – presentata dal difensore in considerazione dell’astensione proclamata dall’Unione camere penali e dall’Organismo unitario dell’Avvocatura -, dal momento che detta astensione riguardava la partecipazione alle udienze e non poteva pertanto estendersi all’attività, di natura amministrativa, svolta dal Consiglio dell’ordine.

Nel merito il Consiglio Nazionale ha ritenuto che l’avv. Lanzara sottoscrisse la transazione senza averne il potere, senza interpellare il proprio cliente – come avrebbe dovuto fare poiché essa comportava la rinuncia alla metà del credito -, senza comunicargli l’avvenuta presentazione dell’atto di desistenza e senza versargli l’importo incassato dalla debitrice.

Parimenti provato era l’addebito, di cui al capo b), stante il fatto che l’interessato non era comparso dinanzi al Consiglio dell’ordine, come, del resto, non era poi comparso dinanzi al Consiglio Nazionale.

Per la cassazione di tale decisione l’incolpato ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Con il quinto, egli chiede inoltre la sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 139 c.p.c. ed afferma che la notificazione del decreto di citazione a mani della signorina Dossantos è nulla non essendo costei abilitata al ritiro degli atti per conto di esso ricorrente, giacché ella, dipendente della signora Maria Fimiani, solo saltuariamente frequentava la casa dell’avv. Lanzara. Anche a voler considerare la Dossantos come una vicina di casa, la notificazione era parimenti nulla non essendo stata inviata la prescritta lettera raccomandata.

Illegittima è la presunzione di legale conoscenza dell’atto, il formulata dal Consiglio Nazionale, dal momento che anche la violazione dei termini comporta la nullità del decreto di citazione.

Il motivo è infondato

Il decreto di citazione in questione – che può essere direttamente esaminato dalla Corte essendo allegato un error in procedendo – risulta notificato all’odierno ricorrente “a mani di Dossantos Marley, collaboratrice domestica ivi addetta alla ricezione degli atti e alla casa, in sua assenza”.

Il motivo in esame pone in discussione non già che la notificazione sia stata validamente eseguita in uno dei luoghi, indicati nel primo comma dell’art. 139 c.p.c., sibbene la capacità della Dossantos a riceverla, non essendo ella, a dire del ricorrente, e diversamente da quanto invece disposto dal successivo secondo comma, né persona di famiglia né addetta alla casa o all’ufficio.

Premesso che, attribuendo la relata alla Dossantos la sola qualità di addetta alla ricezione degli atti e alla casa, la validità della notificazione deve essere riscontrata con esclusivo riferimento a tale qualità, deve rilevarsi che questa non presuppone, diversamente da quanto preteso dal ricorrente, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, tanto meno di natura esclusiva.

Come infatti questa C.S. ha affermato (da ultimo con sent. 5 ottobre 1998 n. 9875) la validità della notificazione non può essere contestata sulla base del solo difetto di tale rapporto, essendo invece sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, come si desume dalla generica qualifica di addetto, richiesta dal legislatore (analogamente l’espressione persona di famiglia, impiegata dalla stessa norma, va intesa in senso relativamente ampio, sì da ricomprendervi anche i familiari la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale: Cass. 19.1.1995 n. 615).

Nella specie dalla stesse argomentazioni, svolte dal ricorrente – il quale afferma che la Dossantos era alle esclusive dipendenze della Fimiani, moglie di esso ricorrente, come egli ebbe a precisare nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense -, risulta che la predetta era addetta alla casa dello stesso: in tal senso ha dunque rettamente deciso il Consiglio Nazionale, donde la validità della notificazione e l’irrilevanza dell’omesso invio della raccomandata, prescritta dal quarto comma dello stesso art. 139 per la diversa ipotesi di cui al precedente terzo comma.

La riscontrata validità della avvenuta notificazione importa l’assorbimento della censura che investe l’ulteriore ratio decidendi – consistita nell’effettiva conoscenza della notificazione stessa da parte del destinatario, desunta dalla successiva istanza di rinvio della discussione -, censura con la quale il ricorrente afferma che l’osservanza del termine di comparizione avrebbe dovuto essere accertata con riferimento alla data dell’istanza stessa: censura – osserva la Corte – inoltre inammissibile perché nuova.

2. Con il secondo motivo il ricorrente allega “violazione di legge in relazione alla lesione del diritto di difesa per la mancata concessione del rinvio chiesto al difensore” al Consiglio dell’ordine di Nocera Inferiore a seguito della astensione dalle udienze, deliberata dall’Avvocatura: pur non ponendo in discussione la natura amministrativa del procedimento disciplinare, nella fase che si svolge dinanzi a detto Consiglio, il ricorrente censura la limitazione all’attività giurisdizionale di detta astensione, affermata dalla decisione ora gravata.

La censura è inammissibile sia perché investe un accertamento di fatto – i limiti dell’astensione in questione -, motivatamente effettuato da un organo, il Consiglio Nazionale forense, particolarmente qualificato e rappresentativo della categoria professionale interessata, sia perché l’inviolabilità del diritto di difesa, sancito dal secondo comma dell’art. 24 cost. – ammesso che ad esso il ricorrente abbia inteso riferirsi -, opera limitatamente ai procedimenti giurisdizionali, come si desume dall’interpretazione complessiva della norma costituzionale.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge per l’omessa contestazione degli articoli della legge professionale e per il mancato esame del relativo motivo di appello.

Osserva la Corte che quest’ultimo venne così testualmente formulato: “nullità dell’atto che dispone il giudizio disciplinare per omessa contestazione degli articoli della legge professionale”.

La genericità di tale censura esonerava conseguentemente il Consiglio Nazionale dal prenderla in esame, e, d’altra parte, il ricorrente neppure in questa sede indica le norme di legge che a suo dire imporrebbero, a pena di nullità, la contestazione non solo del fatto materiale oggetto di incolpazione ma altresì delle relative norme di legge.

L’indicazione di queste ultime non è invero richiesta dall’art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 – il quale stabilisce i requisiti della citazione da notificare all’incolpato (ed al pubblico ministero) -, ed al riguardo deve ribadirsi che nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo invece sufficiente che l’incolpato con la lettura dell’imputazione sia posto in grado – come nella specie è avvenuto – di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (Cass. sez. un. 10.2.1998 n. 1342 e 18.10.1994 n. 8482).

Diversamente, l’art. 417 lett. b) del codice di procedura penale menziona, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, “l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”: specificazione, quest’ultima – osserva la Corte – inapplicabile al procedimento disciplinare in questione, non essendo essa richiesta dal citato art. 48.

La ragione giustificatrice di tale diverso modo di disporre risiede in ciò che il menzionato art. 417 è funzionale al principio di legalità, quale enunciato nell’art. 1 cod. pen., il quale non trova invece completa attuazione nel procedimento disciplinare, che viene esercitato nei casi di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale (art. 38 primo comma legge 22 gennaio 1934 n. 36 (NDR: R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 art. 38) di conversione, con modificazioni, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578).

D’altra parte nei procedimenti disciplinari contro avvocati si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale, in mancanza delle quali si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile, mentre del codice di procedura penale sono applicabili solo quelle cui la legge professionale fa espresso rinvio, ovvero quelle relative ad istituti che trovano la loro regolamentazione soltanto nel codice anzidetto (da ultimo, in tal senso, Cass. sez. un. 24.2.1998 n. 1988).

4. Il quarto motivo del ricorso investe il merito della controversia e con esso il ricorrente sostiene che egli era in realtà dotato, diversamente da quanto affermato dalla decisione gravata, del potere di transigere la vertenza affidatagli dal proprio cliente, e conseguentemente adduce violazione di legge e travisamento del fatto.

Il motivo è inammissibile: detta decisione, pur dopo avere escluso che l’odierno ricorrente avesse il potere di transigere, gli ha poi addebitato di non avere informato il cliente della intervenuta transazione, di avere incassato l’assegno di lire 5.000.000 versatogli dal debitore a pagamento del compenso professionale, e di avere anche trattenuto la somma di lire 60.000.000, destinata al creditore, fatti, questi, che il Consiglio Nazionale ha qualificato come fonte di gravissima responsabilità.

E poiché tali apprezzamenti, di per sé idonei a sorreggere la decisione, non formano oggetto di censure di sorta, la doglianza, la quale è limitata ad un solo aspetto della questione, è, come detto, inammissibile.

5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto: decisione, questa, che importa l’assorbimento del quinto motivo, attinente alla richiesta cautelare di sospensione della esecuzione della decisione impugnata.

Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, stante la soccombenza del ricorrente e la mancata costituzione degli intimati.

P.Q.M.
La Corte

rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 3 giugno 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 NOV. 1999


Cass. civ. Sez. lavoro, 05-10-1998, n. 9875

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Alberto EULA Presidente

Dott. Vincenzo MILEO Rel. Consigliere

Dott. Giovanni MAZZARELLA Consigliere

Dott. Attilio CELENTANO Consigliere

Dott. Guido VIDIRI Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

DITTA ALPI DI VITTORIO RANDACCIO, in persona del titolare, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUCREZIO CARO 12, presso lo studio dell’avvocato LORENZO NARDONE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

Ricorrente

Contro

PREFETTURA DI TERNI, in persona del Prefetto pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 159/95 del Pretore di ORVIETO, depositata il 03/10/95 R.G.N. 194/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/95 dal Consigliere Dott. Vincenzo MILEO;

udito l’Avvocato BARBIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAIUTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di opposizione proposta dalla Ditta Alpi di Randaccio Vittorio avverso l’ordinanza – ingiunzione emessa dal Prefetto di Terni a suo carico in data 15.11.94 e notificata il 16.2.1995, il Pretore di Orvieto, con sentenza del 3 ottobre 1995, dichiarava inammissibile detta opposizione perché tardiva, in quanto formulata oltre il termine di 30 giorni dalla notificazione, come previsto dalla legge, ritenendo valido tale atto siccome ritualmente effettuato ai sensi dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la soccombente, ancorandolo ad un solo motivo.

Resiste la convenuta con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico mezzo di impugnazione la ricorrente, denunciando falsa applicazione dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile, in relazione all’art. 360, n. 3, stesso codice di rito, censura la sentenza del Pretore, che considera errata per aver ritenuta valida la notifica dell’ingiunzione eseguita ai sensi dell’art. 139, cpv, C.P.C., e pertanto tardiva ed inammissibile la conseguente opposizione, perché effettuata oltre il trentesimo giorno fissato a pena di decadenza dall’art. 22 legge n. 689/1989 (NDR: così nel testo), a decorrere dalla data della stessa notificazione; laddove il soggetto qualificatosi dipendente della Ditta in realtà non aveva alcun rapporto con questa, pur trovandosi all’interno dei locali dell’Azienda, e non era neppure addetto alla ricezione della corrispondenza, in quanto dipendente, come provato, unicamente di altra Ditta con sede negli stessi locali.

Il motivo è infondato.

In tema di notificazione con consegna dell’atto a mani di persona qualificatasi dipendente del destinatario, o comunque addetta all’Azienda od allo studio del predetto, alla stregua delle dichiarazioni rese dalla medesima all’ufficiale notificatore e da quest’ultimo riportate nella realtà, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni – e la conseguente validità della notificazione – non può essere contestata sulla base del difetto di un rapporto di dipendenza tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista un rapporto tra consegnatario e destinatario, idoneo a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto. E, del pari, va rilevato che, quando dalla medesima relata risulti che la notifica dell’atto sia stata eseguita al destinatario – imprenditore o professionista – presso la sua sede, mediante consegna ad un soggetto in essa rinvenuto, deve presumersi che il medesimo sia incaricato alla ricezione degli atti diretti allo stesso destinatario.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle esclusive dipendenze altrui; ma, per vincerle ai fini della pretesa nullità dell’atto, occorre provare che il consegnatario, oltre a non essere un dipendente del destinatario, non era neanche addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del predetto, come sintomaticamente si evince dall’art. 139, 2° comma, che fa genericamente riferimento alla qualifica di “addetto” e non di “dipendente”- Sicché correttamente è stato osservato dal giudice di merito che non rileva in senso contrario il fatto che successivamente, da altro professionista od imprenditore titolare di uno studio o sede comune a quello del destinatario dell’atto, sia stata rilasciata una dichiarazione attestante che all’epoca della notificazione la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava alle sue esclusive dipendenze – Tanto più, poi, ove si consideri che nella specie tale presunzione risulta ampiamente avvalorata dalla circostanza, emergente per tabulas, che l’atto – notifica ha raggiunto il suo scopo, ai sensi e per gli effetti del disposto dell’ultimo comma dell’art. 156 C.P.C., stante l’avvenuta consegna di colui che lo ha ricevuto all’effettivo destinatario, come si evince inequivocabilmente dalla opposizione di costui all’ingiunzione. Né, in ultimo, ai fini della ammissibilità della opposizione non tempestivamente formulata, il destinatario può sostenere in questa sede che l’atto – notifica gli fu recapitato tardivamente, in quanto, a parte la contraddittorietà con la precedente linea difensiva, egli, per giovarsi di siffatta tesi, avrebbe dovuto provare adeguatamente non solo la assoluta estraneità del soggetto consegnatario nei confronti dell’Azienda, ma anche, e soprattutto, la tardività della consegna dell’atto ad esso destinatario, quale eccezione in senso tecnico ex art. 2697 cpv. Codice Civile; laddove su quest’ultimo punto il difetto probatorio è assoluto e pertanto, anche sotto questo profilo, si deve presumere che l’atto di notifica abbia raggiunto tempestivamente lo scopo cui era diretto.

In definitiva, attesa la corretta applicazione della norma di cui all’art. 139 cpv. Cod. Proc. Civile effettuata dal Pretore, la sentenza impugnata non appare inficiata da nessuno dei vizi prospettati in gravame.

Il ricorso va, conseguentemente, rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 Cod. Proc. Civile, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte;

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in L. 16.500, oltre all’onorario difensivo, liquidato il L. 2.500.000 (Duemilionicinquecentomila).

Così deciso in Roma il giorno 11 febbraio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 OTTOBRE 1998


Corte cost., (ud. 22-09-1998) 23-09-1998, n. 346

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promossi con ordinanze emesse il 28 settembre 1996 dal Pretore di Lucca nel procedimento civile vertente tra Brucia Baldassarre ed il Comune di Lucca, iscritta al n. 609 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 1997, ed il 22 aprile 1997 dalla Corte d’Appello di Milano nel procedimento civile vertente tra la ICIT s.a.s. e la Officine di Seveso s.p.a. ed altra, iscritta al n. 761 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 6 maggio 1998 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Data l’identità della materia, le questioni sollevate dalle ordinanze del Pretore di Lucca e della Corte di Appello di Milano vanno riunite per essere decise con unica sentenza.

2. – Il Pretore di Lucca denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui detta norma non prevede che il destinatario della notifica effettuata a mezzo posta, dopo l’avviso lasciato presso la sua abitazione, ufficio o azienda, riceva notizia delle attività compiute per raccomandata a.r., così come previsto dall’art. 140 del codice di procedura civile per il caso di notifica effettuata personalmente dall’ufficiale giudiziario.

3. – La Corte di Appello di Milano dubita, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale del medesimo art. 8 della legge n. 890 del 1982 citata, secondo e terzo comma, nella parte in cui prevede che il piego, notificato per compiuta giacenza dopo il decimo giorno dalla data di deposito presso l’ufficio postale, venga restituito al mittente senza che il destinatario sia messo in grado di conoscere tipo, natura, provenienza e contenuto dell’atto che gli è stato notificato.

4. – La prima questione è fondata, nei limiti di seguito precisati.

4.1. – Nel sistema delineato dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, l’ufficiale giudiziario può utilizzare il servizio postale per la notificazione di tutti gli atti in materia civile, amministrativa e penale, salvo che l’autorità giudiziaria disponga, o la parte richieda, che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, primo comma). In materia civile e amministrativa, inoltre, egli deve sempre avvalersi del servizio postale per le notificazioni da eseguirsi fuori del comune ove ha sede l’ufficio, eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, secondo comma). Salva la richiesta del notificante di eseguire la notificazione personalmente, l’ufficiale giudiziario ha dunque la facoltà – e talvolta l’obbligo – di utilizzare il servizio postale.

4.2. – In caso di assenza del destinatario di una notificazione a mezzo posta (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 prevede che l’agente postale depositi il piego nell’ufficio postale, rilasciando avviso al destinatario “mediante affissione alla porta d’ingresso oppure mediante immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda”, e che di tutte le formalità eseguite e del deposito nonché dei motivi che li hanno determinati sia fatta menzione sull’avviso di ricevimento che, datato e sottoscritto dall’agente postale, è unito al piego (secondo comma). Trascorsi dieci giorni dalla data del deposito senza che il piego sia stato ritirato dal destinatario, il piego stesso viene restituito al mittente, unitamente all’avviso di ricevimento, con l’indicazione “non ritirato” (terzo comma). La notificazione si ha per eseguita decorso il suddetto termine di dieci giorni dal deposito (quarto comma).

4.3. – Ora, se rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato dal diritto di difesa del notificatario. Deve pertanto escludersi che la diversità di disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione delle garanzie del destinatario delle prime.

Per l’ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario, l’art. 140 del codice di procedura civile impone a quest’ultimo di dare comunicazione al destinatario, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del compimento delle formalità indicate (deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio). E ciò allo scopo di garantire che il notificatario abbia una effettiva possibilità di conoscenza dell’avvenuto deposito dell’atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l’affissione del relativo avviso alla porta d’ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito. Una disposizione siffatta – pur se compatibile con la specificità propria del mezzo postale – manca invece nella disciplina censurata che, pertanto, risulta, al tempo stesso, priva di ragionevolezza e lesiva della possibilità di conoscenza dell’atto da parte del notificatario e, quindi, del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione.

E ciò senza considerare che le insufficienti garanzie di conoscibilità che presenta per il notificatario la notificazione a mezzo del servizio postale derivano, in ultima analisi, dalla scelta del modo di notificazione effettuata da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario: il solo notificante, infatti, può richiedere all’ufficiale giudiziario di effettuare la notifica personalmente e, qualora ciò non faccia, l’ufficiale giudiziario può, a sua discrezione, scegliere l’uno o l’altro modo di notificazione.

4.4. – L’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di assenza del destinatario (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità prescritte.

5. – Anche la questione sollevata dalla Corte di appello di Milano è fondata nei limiti di seguito precisati.

5.1.- La funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddittorio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza dalla abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazione. I termini di tale bilanciamento di interessi possono naturalmente essere i più vari come emerge dalle soluzioni adottate in alcuni degli ordinamenti processuali europei a noi più vicini per cultura e tradizione.

5.2. – Ciò premesso, non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli. È opportuno, altresì, sottolineare che la questione di cui si tratta non concerne in alcun modo l’individuazione del momento perfezionativo della notificazione (in relazione al quale dispone il quarto comma del citato art. 8) bensì la legittimità della norma che dispone la restituzione al mittente del piego non ritirato dal destinatario entro i dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale (art. 8, terzo comma).

Disposizione quest’ultima che, in un contesto sociale ben diverso da quello esistente all’epoca della sua emanazione, risulta gravemente pregiudizievole per il notificatario, il quale – nel caso (oggi non certo infrequente, specie nel periodo estivo) di assenza dall’abitazione, dall’azienda o dall’ufficio che si protragga per oltre dieci giorni e di mancanza delle persone indicate al secondo e terzo comma dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982 citata – non è più posto in condizioni di ritirare il piego, diversamente da quanto si verifica per il destinatario di una notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile, e si trova perciò in una situazione di impossibilità o comunque di notevole difficoltà di individuazione dell’atto notificatogli (talvolta provocata dal notificante, mediante la scelta dell’epoca della notifica e la mancata richiesta di notificazione personale da parte dell’ufficiale giudiziario) tale da potergli in concreto precludere ogni effettiva possibilità di difesa.

Anche in tal caso, non si tratta dunque di sostituirsi al legislatore nell’individuare uno dei possibili correttivi alla disciplina delle notificazioni a mezzo posta, bensì di rimuovere una previsione (quella di restituzione del piego al mittente dopo il decorso di un termine del tutto inidoneo, per la sua brevità, a garantire l’effettiva possibilità di conoscenza) lesiva del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non presente nella parallela disciplina codicistica delle notificazioni a mezzo di ufficiale giudiziario e non connaturata, quanto meno nella sua dimensione temporale, alla specificità del mezzo postale.

Il legislatore, nella sua discrezionalità, sarà quindi libero di adeguare la disciplina delle notificazioni a mezzo posta (per il caso di assenza del destinatario) a quella dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile (che non prevede affatto la restituzione dell’atto al mittente) ovvero di stabilire regole diverse: il limite della discrezionalità sarà rappresentato esclusivamente dal diritto di difesa del destinatario, in relazione al quale deve ritenersi illegittima qualsiasi disciplina che, prevedendo la restituzione del piego al mittente dopo un termine di deposito eccessivamente breve, pregiudichi la concreta possibilità di conoscenza del contenuto dell’atto da parte del destinatario medesimo.

5.3. – La mancata restituzione del piego al mittente dopo il decimo giorno di giacenza non solo non incide – come già si è visto – sull’individuazione del momento perfezionativo della notificazione, ma nemmeno pregiudica l’interesse del notificante alla tempestiva formazione della prova dell’avvenuta notifica che ben può essere fornita, indipendentemente dal piego, dall’avviso di ricevimento, da restituirsi al mittente in raccomandazione e mediante il quale questi potrà dimostrare la regolarità della notificazione.

5.4.- L’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;

b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 1998.


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 17/09/1998) 17/09/1998, n. 9279

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Angelo GRIECO Presidente

Dott. Giovanni LOSAVIO Consigliere

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI Rel. Consigliere

Dott. Giovanni VERUCCI Consigliere

Dott. Salvatore DI PALMA Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

SORU RENATO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GORIZIA 14, presso l’avvocato A. SINAGRA, rappresentato e difeso dall’avvocato CARLITRIA BELLU, giusta delega a margine del ricorso;

Ricorrente

contro

CAPPELLANIA ANTONIO BOY, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132, presso l’avvocato PIETRO MORGANTI, che lo rappresenta e difende unicamente all’avvocato ARTEMIO MASSIDDA, giusta procura in calce al controricorso;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 3/96 della Corte d’Appello di CAGLIARI, sezione specializzata per le controversie agrarie, depositata il 22/11/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/98 dal Consigliere Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI;

udito per il resistente l’avvocato Morganti che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Aurelio GOLIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 19 – 26 febbraio 1996, la sezione specializzata per le controversie agrarie del Tribunale di Cagliari, pronunciando sul ricorso proposto dalla Cappellania Antonio Boy, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, nei confronti di Renato Soru, condannava il convenuto, quale detentore senza titolo, al rilascio di un fondo agricolo sito in agro del Comune di Assemini, località Terra Margiani, nonché al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede.

Proposto appello dal Soru, con sentenza del 29 ottobre – 22 novembre 1996, la Corte di Appello di Cagliari dichiarava inammissibile l’impugnazione, sul rilievo che la pronuncia impugnata era stata notificata all’appellante una prima volta in forma semplice il 2 aprile 1996 a mani di Gianni Soru, “nipote convivente e capace”, ed una seconda volta in forma esecutiva il 4 giugno 1996 a mani del fratello Luigi, “incaricato, tale qualificatosi, che ne cura la consegna”, mentre l’atto di appello era stato depositato l’11 luglio 1996, ossia dopo la scadenza del termine previsto dallo art. 434 c.p.c. per le cause di lavoro, applicabile anche alle controversie agrarie.

Osservava, in particolare, la Corte di merito che l’assunto del ricorrente – secondo il quale dette notifiche dovevano ritenersi inesistenti o, quanto meno, nulle, per essere egli all’epoca assente dalla sua abitazione perché detenuto nella casa circondariale di Cagliari – era da disattendere, atteso che il codice di procedura civile non detta norme particolari per la notificazione a persone detenute, onde restano applicabili le disposizioni generali, ed in particolare l’art. 139 c.p.c. Ritenuto, peraltro, che la persona detenuta conserva la residenza anagrafica presso la propria abitazione, il Soru doveva essere ricercato in quel luogo, anche sulla base del rilievo che la parte notificante non aveva alcuna possibilità di accedere alla “banca dati” del Centro elettronico per i servizi dell’amministrazione penitenziaria per verificare se lo stesso fosse detenuto, ed in caso positivo presso quale istituto penitenziario.

Correttamente, pertanto, la notifica era stata effettuata presso la residenza effettiva ed anagrafica, dove erano stati reperiti i parenti del Soru, i quali si erano dichiarati conviventi ed avevano accettato l’atto.

Osservava, infine, che in ogni caso la notificazione aveva raggiunto il suo scopo, avendo il Soru dimostrato di aver effettivamente avuto conoscenza della sentenza, producendone copia nel procedimento di opposizione all’esecuzione da lui promosso.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Soru deducendo due motivi. Resiste con controricorso la Cappellania Antonio Boy.

Motivi della decisione
Va, innanzi tutto, disattesa l’eccezione della resistente di nullità della notifica del ricorso, in quanto effettuata presso il domiciliatario della stessa nel giudizio di appello anziché al domicilio indicato nell’atto di notificazione della sentenza impugnata, atteso che con la costituzione in giudizio in questa sede l’atto ha, comunque, raggiunto il suo scopo.

Con il primo motivo di ricorso, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., si deduce che la Corte di Appello non ha considerato che lo stato di detenzione del Soru era perfettamente noto all’altra parte, tanto che essa aveva notificato il ricorso introduttivo del giudizio presso il carcere nel quale il medesimo era detenuto, e che egli, tradotto in stato di detenzione dinanzi al Tribunale per rendere l’interrogatorio libero, aveva indicato le ragioni per le quali detto stato era destinato a protrarsi nel tempo.

Si deduce, altresì, che, dovendosi ritenere come sua dimora abituale conosciuta il carcere del Buoncammino di Cagliari, in detto luogo dovevano essere effettuate le notifiche nei suoi confronti.

Si sostiene ancora che il nipote ed il fratello del Soru, che avevano rispettivamente ricevuto la prima e la seconda notifica della sentenza, non erano conviventi del ricorrente e che la mancanza di tale requisito era desumibile dal grado di parentela dei predetti; si rileva, inoltre, che lo stato di detenzione notoriamente limita i colloqui con il detenuto a determinati soggetti e ne regolamenta la frequenza nel tempo.

Con il secondo motivo, denunciando erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 156 c.p.c., si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente affermato che il raggiungimento dello scopo era dimostrato dalla circostanza che, in sede di opposizione all’esecuzione il Soru aveva prodotto la copia della sentenza notificata in forma esecutiva il 4 giugno 1996, atteso che la produzione di detta copia, e non di quella notificata il 2 aprile 1996, valeva a dimostrare la mancata conoscenza di quell’atto al quale la Corte di Appello aveva riferito la decorrenza dei termini per la proposizione del gravame. Si deduce, altresì, che in ogni caso andava rilevata la mancanza di prova della tempestiva conoscenza della notifica da parte del destinatario, a causa del suo stato di detenzione.

Il primo motivo è infondato. Come ha correttamente rilevato la sentenza impugnata, la disciplina dettata dal codice di procedura civile in tema di notificazione di atti non contiene norme specifiche in relazione allo stato di detenzione del destinatario, onde restano applicabili le disposizioni generali, ed in particolare l’art. 138 c.p.c., concernente la notificazione a mani proprie – certamente possibile anche ove il destinatario si trovi in stato di detenzione -, nonché l’art. 139 c.p.c., il quale dispone che la notificazione va effettuata nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio, ovvero, se non è noto il comune di residenza, nel comune di dimora, o, se anche questa è ignota, nel comune di domicilio, ed indica i possibili consegnatari dell’atto, individuati sulla base di vincoli di parentela o di convivenza o di lavoro subordinato o di comunanza di rapporti, tali da offrire la massima garanzia in ordine alla effettiva consegna dell’atto al destinatario.

Né può fondatamente sostenersi che, nella specie, la notifica doveva essere effettuata presso il carcere nel quale il Soru era detenuto, quale luogo di dimora: ed invero, anche ammesso che il luogo di detenzione possa identificarsi con la dimora, va rilevato che l’art. 139 c.p.c. pone obbligatoriamente un criterio di successione preferenziale in ordine ai luoghi sopra richiamati, nei quali la notificazione deve avvenire (v. sul punto Cass., n. 1991, n. 13849; 1987, n. 9325; 1986, n. 1511; 1985, n. 1621). È noto, pertanto, che la residenza non si perde per effetto di un allontanamento più o meno protratto nel tempo, salvo che la persona non abbia fissato altrove una nuova abituale dimora, e quindi una nuova residenza.

È, altresì, pacifico in giurisprudenza che, intendendosi l’espressione “persona di famiglia” in senso ampio, così da ricomprendervi anche i familiari la cui presenza non abbia carattere del tutto occasionale, deve ritenersi valida la notificazione eseguita mediante consegna di copia dell’atto nella casa di abitazione del destinatario a familiare, pur se non convivente, che la accetti senza riserve, salva la dimostrazione, da parte di chi assume di non aver ricevuto l’atto, della mera occasionalità di quella presenza (v. Cass., n. 1995, n. 615; 1992, n. 3936; 1991, n. 4991).

Sulla base dei richiamati principi di diritto appare evidente l’infondatezza dei profili di censura formulati nel motivo di ricorso in esame, essendo stata correttamente notificata la sentenza del Tribunale nel comune di residenza e presso la casa di abitazione del Soru – a nulla rilevando l’asserita conoscenza da parte del notificante dello stato di detenzione del medesimo – e non avendo d’altro canto il predetto in alcun modo provato che i congiunti cui essa era stata consegnata (il nipote nella prima occasione, il fratello nella seconda) si trovavano del tutto occasionalmente e momentaneamente presso la sua abitazione.

Le richiamate argomentazioni soccorrono anche ai fini del rigetto del secondo motivo di ricorso, atteso che la ritualità della notifica effettuata vale di per sé ad escludere l’esistenza di un vizio suscettibile di sanatoria.

Ricorrono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il 29 maggio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 SETTEMBRE 1998.


Cass. civ. Sez. I, 12-05-1998, n. 4762

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Vincenzo FERRO Presidente

” Mario Rosario MORELLI Consigliere

” Massimo BONOMO Rel. “

” Salvatore DI PALMA “

” Luigi MACIOCE “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ROMOLO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA F. CRISPI 89, presso l’avvocato LEONE PONTECORVO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 1337/96 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 15/04/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/97 dal Consigliere Dott. Massimo BONOMO;

udito per il ricorrente, l’Avvocato Pontecorvo, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Stefano SCHIRÒ che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbimento degli altri due motivi del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Ufficio Distrettuale delle II.DD di Roma, con avvisi di accertamento nn. 1414 e 1415, rideterminava, in rettifica, le dichiarazioni dei redditi della Romolo s.r.l. relative agli anni 1982 e 1983, a fini IRPEG e ILOR elevando il reddito imponibile ivi denunciato.

Gli atti di accertamento in questione venivano notificati, dopo un infruttuoso tentativo effettuato nella sede sociale, presso la residenza dell’amministratore della società, tale Bruno Brunori, a norma dell’art. 60 d.p.r. 600/73, in relazione all’art. 140 c.p.c..

Successivamente, non essendo stata proposta impugnazione avverso gli atti di accertamento in questione, i tributi, nella maggiore entità stabilita, venivano iscritti a ruolo, unitamente agli accessori di legge (sanzioni, interessi).

Con atto notificato in data 14 settembre 1989, la società Romolo proponeva ricorso avverso il ruolo dinanzi alla Commissione tributaria di I° grado, sostenendo di non aver mai avuto notizia degli atti di accertamento in questione. La detta Commissione, con pronuncia del 27 giugno – 19 settembre 1990, in accoglimento del ricorso, riteneva l’illegittimità dell’effettuata notificazione, rilevandone la nullità perché non erano state effettuate indagini svolte al fine di rinvenire la sede della società ovvero non se ne era dato compiutamente nella relazione di notifica: in particolare, avendo la società Romolo documentato di essere proprietaria dell’intero stabile di via E. Torelli Violler n. 109, che tutti gli abitanti dei singoli appartamenti erano suoi inquilini, che la portiera dello stabile era sua dipendente, ne derivava che il messo notificatore non aveva espletato con diligenza il suo compito, dato che, interpellando le persone abitanti nello stabile e, in particolare, la portiera, avrebbe potuto individuare la sede sociale o, per lo meno, avrebbe potuto ottenere utili notizie per la prosecuzione del procedimento notificatorio. Sarebbe, poi, stata inverosimile l’impossibilità di notificazione nella residenza del rappresentante legale per mancanza di qualsiasi consegnatario, compresi i vicini di casa. Il procedimento notificatorio, alla stregua di tale decisione, era stato pertanto, dirottato dalla sede della società alla residenza del suo rappresentante senza la precostituzione della prova della legittimità del dirottamento, mentre non sarebbe risultata provata, con le relazioni apposte sugli avvisi, la situazione presupposto che attribuisce la legittimazione a ricevere al consegnatario simbolico casa comunale. Le notifiche, in ogni caso, sarebbero ugualmente nulle, essendo risultato che al rappresentante legale della società era stata inviata una sola comunicazione raccomandata, relativa ad ambedue gli a avvisi di accertamento, senza che fosse specificato, in violazione dell’art. 48 disp. att. c.p.c., a quale dei due atti si riferisse il deposito. La rilevata nullità della notifica aveva, pertanto, comportato l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo delle imposte relative.

Avverso tale decisione, il Ministero proponeva appello dinanzi alla commissione tributaria di secondo grado.

Anche tale ricorso veniva, peraltro, respinto con decisione del 28.9/12.10.1992, avverso la quale il Ministero proponeva impugnazione dinanzi alla corte di appello, a norma dell’art. 40 d.p.r. 636/72.

Costituitasi in giudizio, la società Romolo chiedeva che l’impugnazione fosse dichiarata inammissibile, per essere stata proposta ancora in pendenza del termine per ricorrere alla commissione centrale, secondo la proroga dipendente dalla sospensione ex lege (art. 3, comma 2 d.l. 23.1.1993 n. 16) dei procedimenti tributari in corso, disposta al fine di usufruire dell’ampliamento dei termini per usufruire del c.d. “condono fiscale”. In ogni caso, chiedeva il rigetto del gravame, richiamando le ragioni poste a fondamento delle decisioni già emesse.

Con sentenza del 1° dicembre 1995 – 15 aprile 1996, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto dal Ministero, dichiarava inammissibile il ricorso proposto contro l’iscrizione a ruolo.

Osservava la Corte:

a) che doveva respingersi l’eccezione concernente la sospensione dei processi tributari, la quale non si applica alle controversie che presentano carattere di definitività, per le quali era esclusa la possibilità di usufruire del condono, ai sensi dell’art. 32 della legge 30 dicembre 1991 n. 32;

b) che nella specie non v’era dubbio sulla definitività dei termini della lite, la cui conclusione non avrebbe potuto portare che a una conferma dei dati dichiarati dal contribuente, ovvero al pieno accoglimento delle indicazioni fornite dall’ufficio, non essendo, da un lato, rinnovabile l’accertamento per scadenza dei relativi termini e non essendo possibile, dall’altro, per lo stesso motivo, rimettere in discussione ragioni di merito relative all’entità dell’accertamento che, se legittimo, non potrebbe più essere modificato;

c) che il procedimento di notifica degli avvisi di accertamento – tentativo di notifica presso la sede della società e, quindi, notifica ex art. 140 c.p.c. presso la residenza anagrafica del rappresentante legale della stessa – era stato corretto, in quanto pienamente aderente alle prescrizioni dettate dall’art. 145 c.p.c. in tema di notifiche a società;

d) che le operazioni di notifica, essendo assistite da fede privilegiata, potevano essere contestate solo mediante proposizione di querela di falso;

e) che le circostanze della proprietà dell’intero immobile e l’inverosimiglianza del mancato rinvenimento del Brunori o di altri soggetti, tra i quali il portiere, non costituivano elementi idonei a dimostrare una condotta negligente da parte del messo;

f) che non determinava nullità della notifica l’avvenuto invio di una sola raccomandata relativa ad ambedue gli atti di accertamento, quale ultimo adempimento richiesto dall’art. 140 c.p.c..

Avverso la sentenza della Corte d’appello la società Romolo ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Il Ministero delle Finanze ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione dell’art. 40 del D.P.R. 26.10.1972 n. 636, in relazione all’art. 3, comma 2, del D.L. 23.1.1993 n. 16 (convertito in legge 24.3.1993 n. 75) ed agli artt. 32 e seguenti della legge 30.12.1991 n. 413.

La Corte di appello aveva ritenuto non applicabile nella specie la sospensione dei termini di impugnazione fino al 20 giugno 1993, prevista dal citato art. 3 del d.l. n. 16 del 1993, modificato dalla legge di conversione, che aveva invece comportato l’improponibilità dell’impugnazione alla Corte di appello, poiché essa era stata introdotta, in violazione della prescrizione contenuta nell’art. 40 citato, quando non era ancora decorso il termine per la proposizione dell’impugnazione alla Commissione tributaria centrale. La Corte di merito, dopo aver esattamente rilevato che la sospensione riguardava soltanto i casi in cui era applicabile il condono, aveva erroneamente ritenuto che l’apparente definitività del rapporto tributario, derivante dalla mancata impugnazione degli accertamenti, determinasse comunque – in presenza di un ricorso contro il ruolo, con cui si era contestata la legittimità della notificazione degli accertamenti – una situazione di definitività, tale da precludere l’accesso al condono.

La stessa amministrazione aveva invece riconosciuto in alcune circolari, una delle quali specificamente riferita al condono del 1991 che la dichiarazione integrativa semplice, o con effetto automatico, era valida anche nel caso in cui si ricorreva contro il ruolo o l’avviso di mora eccependo la mancata notifica dell’avviso di accertamento, pur se tale validità dipendeva dall’esito del contenzioso.

Secondo il contribuente, la situazione di definitività del rapporto tributario, preclusiva del condono, si sarebbe creata solo in caso di rigetto del ricorso contro il ruolo, e non anche in caso di accoglimento, poiché un accertamento riconosciuto come mai notificato avrebbe consentito una domanda di condono “in assenza di accertamento”, integrativa semplice o “tombale”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 148, c.p.c., in relazione agli artt. 145 e 140 c.p.c., all’art. 60, comma 1, del D P.R. 29.9.1973 n. 600 e all’art. 2700 cod. civ., nonché insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Assolutamente carenti erano sia la relazione di notifica nei confronti della società – in cui non era stato precisato quali fossero state le ricerche in base alle quali i nominativi erano risultati sconosciuti e presso chi esse fossero state effettuate – sia la relazione di notifica nei confronti del legale rappresentante, nella quale, dopo la constatazione dell’assenza del dott. Brunori dalla sua residenza anagrafica, non si era data la benché minima nozione delle operazione compiute per accertare la pretesa irreperibilità del destinatario. In entrambe le notifiche si era fatto uso di timbretti.

La Corte di appello aveva affermato che la relata avrebbe succintamente descritto le operazioni eseguite in sede di notifica, mentre in realtà vi era un’assoluta assenza di indicazioni descrittive sul punto, ed aveva inoltre erroneamente richiamato la necessità di contestare le operazioni con querela di falso, non tenendo conto del fatto che la società Romolo aveva contestato non che il messo notificatore avesse effettivamente compiuto indagini, bensì che delle compiute indagini avesse dato specificamente atto nella relazione di notificazione, consentendo così la verifica della regolarità del procedimento, il che non aveva nulla a che vedere con la querela di falso.

La necessità di ricorrere a querela di falso non sussiste né nei confronti di circostanze non percepite direttamente dal notificatore, ma venute a conoscenza del medesimo attraverso dichiarazioni di terzi, né quando manchino gli elementi essenziali della relazione di notificazione, a norma dell’art. 148 c.p.c., verificandosi in tal caso la nullità della notificazione.

La lamentata mancata specificazione delle “ricerche” appariva tanto più grave, risultando difficilmente credibile che la società Romolo fosse sconosciuta presso uno stabile di cui era proprietaria da moltissimi anni, nel quale tutti gli abitanti erano suoi locatari e la portiera era alle sue dirette dipendenze.

Presso quelle sede erano stati invece regolarmente notificati sia la cartella esattoriale di pagamento che l’atto di citazione dinanzi alla Corte di appello.

3. Il terzo motivo esprime una doglianza di violazione dell’art. 140 c.p.c., nonché di insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

La Corte di appello aveva erroneamente statuito che la spedizione di un unico avviso per raccomandata ex art. 140 c.p.c., pur in presenza di due avvisi di accertamento, non viziasse il procedimento di notificazione.

Tutti gli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., compresa, quindi, la spedizione dell’avviso per raccomandata, sono essenziali e la Corte di Cassazione aveva ritenuto nulla la notificazione di più atti di accertamento conclusasi con la spedizione di un unico avviso raccomandato per quattro atti di accertamento (Cass. n. 10057 del 1994, in motivazione).

La stessa sentenza della Corte di Cassazione richiamata nella sentenza impugnata (Cass. n. 2136 del 1992) aveva subordinato la possibile deroga al principio della nullità della notifica in caso di unico avviso, alla circostanza della specificazione, nell’unico avviso raccomandato, degli atti cui era relativo, con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi. Tale temperamento sarebbe inapplicabile nella specie, secondo la ricorrente, non avendo l’Amministrazione finanziaria provato che l’unico avviso spedito contenesse le suddette specificazioni e indicazioni.

4. Il ricorso è fondato per quanto appresso precisato. Ritiene il Collegio che, mentre deve ritenersi validamente effettuato il tentativo di notifica degli avvisi di accertamento presso la sede della società, risulta invece nulla la notifica effettuata presso l’amministratore.

Secondo la sentenza impugnata, il messo notificatore ha dato atto, innanzi tutto, di essersi recato in via Eugenio Torelli Violler, 109, sede legale della società Romolo, anche in base alle risultanze anagrafiche, e di aver accertato, da “ricerche” effettuate in loco, che i “nominativi” (quindi sia quello della società che quello del suo amministratore) erano sconosciuti.

Avendo il messo attestato di aver compiuto ricerche in luogo senza esito, deve comunque ritenersi che sia stata effettuata un’attività di ricerca che non ha portato a risultati utili ai fini della notifica.

Al riguardo, osserva il Collegio che l’uso di un timbro, anziché della scrittura, è del tutto irrilevante, dovendo tenersi conto invece delle operazioni indicate dal pubblico ufficiale, indipendentemente dallo strumento usato per l’indicazione.

Le dedotte circostanze della proprietà dell’intero immobile da parte della società, della pretesa inverosimiglianza del mancato rinvenimento del portiere o di altri soggetti idonei a ricevere l’atto nonché dell’avvenuta notifica nel medesimo luogo di altri atti non assumono rilievo ai fini in questione, come esattamente rilevato dalla Corte di appello, dovendo aversi riguardo alla situazione esistente al momento dei tentativi di notifica di cui trattasi, quale risulta dalla relata di notifica, che ha fede privilegiata relativamente alle attività compiute dal messo e a quanto dal medesimo direttamente percepito.

In ordine al tentativo di notifica al legale rappresentante della società Romolo, dott. Bruno Brunori, in Piazza delle Coppelle 7, sua residenza anagrafica, la sentenza impugnata ha rilevato che il notificatore aveva dato atto, seppure mediante apposizione di un timbro, delle varie operazioni compiute, e cioé dell’assenza del Brunori, della mancanza di altre persone, compreso il portiere ed i vicini di casa, idonee a ricevere la copia, ed aveva quindi proceduto alla notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Per quanto riguarda l’uso di un timbro valgono le considerazioni sopra svolte.

L’assenza del Brunori e la mancanza delle altre persone sopra indicate integravano le condizioni di legge per effettuare la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., di cui si tratta ora di verificare la validità.

Il Collegio condivide l’orientamento già manifestato da questa Corte (Cass. 25 febbraio 1992 n. 2316, nonché 14 gennaio 1992 n. 329), in base al quale, con riguardo alla notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., qualora gli atti da notificare siano più di uno, è richiesta – conseguendone, in difetto, nullità della notificazione medesima, relativamente a tutti gli atti – la spedizione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di altrettanti avvisi raccomandati, indicativi dell’avvenuto compimento delle formalità prescritte dalla norma e diretti a porre nella sfera di conoscibilità dell’unico destinatario ciascuno degli atti suddetti, o quanto meno la specificazione nell’unico avviso raccomandato degli atti cui era relativo con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi.

Nella specie, la sentenza impugnata ha rilevato che non era dato individuare nella copia dell’avviso prodotta se vi fossero specificati uno o più atti.

Non ricorre quindi nemmeno l’ipotesi minima sopra prospettata, quella cioé dell’unico avviso raccomandato con la menzione degli estremi di tutti gli atti cui esso si riferisce, che corrispondevano ai due avvisi di accertamento in questione.

In tale situazione, deve ritenersi che la notifica sia nulla, indipendentemente dall’irrilevanza, ai fini della validità della notifica ex art. 140 c.p.c., della consegna della raccomandata al destinatario, punto sul quale si sofferma la motivazione della sentenza impugnata, atteso che il vizio riscontrato riguarda non la consegna, ma la spedizione della raccomandata, che costituisce un momento essenziale, da cui dipende il perfezionamento della notificazione ex art. 140 c.p.c..

Avendo la Corte di appello ritenuto invece che l’invio di una sola raccomandata non determinasse la nullità delle notifiche dei due avvisi di accertamento, la sentenza impugnata deve essere cassata.

Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con la dichiarazione di nullità delle notifiche degli avvisi di accertamento e, conseguenzialmente, dell’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di IRPEG, ILOR e addizionale ILOR per gli anni 1982 e 1983, di cui alla cartella n. 715740/00/Q dei ruoli di settembre 1989, indicata nel dispositivo della sentenza impugnata.

Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti sia le spese del giudizio dinanzi alla Corte di appello sia quelle del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di cui in motivazione. Compensa le spese del presente e del precedente grado del giudizio.

Così deciso in Roma il 15 dicembre 1997.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAGGIO 1998


Cass. civ. Sez. I, (ud. 27-10-1997) 13-03-1998, n. 2740

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. REALE Pasquale – Presidente –

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CICALA Mario – Consigliere –

Dott. MILANI Laura – Consigliere –

Dott. SOTGIU Simonetta – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELLE POSTE E DELLE TELECOMUNICAZIONI, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

GI.AN. Snc in liquidazione, in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA A. GRAMSCI 14, presso l’avvocato GIAMPIERO DINACCI, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

MILANO ASSICURAZIONI S.p.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2230/95 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 26/06/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/97 dal Consigliere Dott. Simonetta SOTGIU;

udito per il resistente, l’Avvocato Dinacci, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto 10/11 maggio 1989 la GI.AN s.n.c. convenne avanti al Tribunale di Roma il Ministero delle PP.TT. e il Lloyd Internazionale (poi Milano Assicurazioni) denunciando la riduzione da parte del Ministero del corrispettivo pattuito per la pulizia giornaliera di 38 carrozze postali, in relazione al mancato servizio su alcune carrozze, e la risoluzione del contratto operata unilateralmente dal Ministero stesso per inadempimento di scarsa entità, nonché l’incameramento ad opera dello stesso Ministero, del deposito cauzionale prestato mediante polizza fideiussoria emessa dalla Compagnia Lloyd, la quale avanzava pretesa di rivalsa nei confronti dell’attrice; quest’ultima chiedeva pertanto che, accertato il sostanziale adempimento da parte sua del contratto in questione, il Ministero fosse condannato al pagamento di tutte le somme dovutele, e che si accertasse che nulla la Gi.an doveva alla Lloyd.

Con sentenza 18 ottobre/9 novembre 1991, il Tribunale adito accolse in parte la domanda della Gi.an, condannando il Ministero pagamento della parte del compenso (Lire 60.387.784 oltre accessori) trattenuto per mancata pulizia di alcune carrozze, avendo ritenuto tale fatto imputabile allo stesso committente.

Avverso la sentenza, notificata il 18 maggio 1992 ad istanza del difensore della Gi.an., propose appello il Ministero, notificandolo nel termine di trenta giorni alla Compagnia Milano Assicurazioni, che si era costituita in prime cure, chiedendo che fosse accertato che essa nulla doveva al Ministero e che fosse stabilito che la Gi.an. avrebbe dovuto comunque tenerla indenne; l’appello stesso non venne invece nello stesso termine notificato alla Gi.an, essendosi il procuratore costituito trasferito in diverso domicilio, per cui la notificazione veniva rinnovata il 1 dicembre 1992.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 28 aprile/26 giugno 1995 ha rigettato il gravame del Ministero nei confronti della Gi.an. Non avendo infatti l’appellante Ministero proposto domande riferibili alla Milano Assicurazioni, il cui rapporto fideiussorio nei confronti della Gi.an integrava la fattispecie della garanzia impropria, la posizione delle appellate non poteva ritenere né inscindibile, né dipendente, essendo stata meramente processuale, nella economia del giudizio, la presenza della Compagnia Assicuratrice, collegata soltanto alla posizione della Gi.an.; mentre, non essendo in alcun modo il difensore tenuto a comunicare la propria variazione di domicilio, era onere dell’appellante accertare la variazione dell’indirizzo del domiciliatario.

Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni sulla base di due motivi.

La Gi.an in liquidazione resiste con controricorso. Le parti hanno prodotto memorie.

Motivi della decisione
Col primo motivo di ricorso, adducendo la violazione dell’art. 331 c.p.c., il ricorrente contesta la scindibilità, ritenuta dalla Corte d’Appello, della causa dell’assicuratore rispetto a quella del garantito, sostenendo che dalla decisione sulla ritualità dell’adempimento da parte della Gi.an discendeva la legittimità o meno dell’incameramento del deposito cauzionale prestato dalla società.

Essendo ancora in contestazione il debito del convenuto verso l’attrice, persisteva in appello la interdipendenza delle causa.

Col secondo motivo di ricorso, deducendo la violazione degli artt. 88, 170, 324, 325, 326, 327, 330 c.p.c. e 43, 44 e 47 c.c., nonché vizio di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente sostiene la ritualità della notifica operata al domicilio eletto presso il difensore della Gi.an, prevalendo l’indicazione del luogo, rispetto a quella della persona, e non potendosi riscontrare alcuna negligenza nell’attività di notifica posta in essere dal ricorrente, per non avere il difensore della Gi.an indicato in alcun atto processuale il proprio cambio di domicilio; mentre l’elezione di domicilio conserva la sua validità in ogni stato e grado del processo, essendo l’onere della parte comunicarne il mutamento.

Il primo motivo di ricorso non è fondato.

La Compagnia Assicuratrice è stata infatti evocata in giudizio dalla GI.AN sulla base della polizza fideiussoria stipulata dalla stessa GI.AN, costituente titolo distinto e indipendente, rispetto al contratto d’appalto oggetto delle domande formulate nei confronti dell’Amministrazione; la quale peraltro, come ha rilevato la Corte territoriale, non ha mai avanzato pretese nei riguardi della Milano Assicurazioni.

Per la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. 2302/85; 7795/86; 534/89; 10398/91; 4443/97) la chiamata in causa di un terzo in base ad un titolo diverso da quello posto a fondamento della domanda principale, quale la garanzia assicurativa relativa ad una delle parti in causa, introduce una causa scindibile e indipendente che si sottrae, in sede di impugnazione, al disposto dell’art. 331 c.p.c. in tema di integrazione del contraddittorio. Non sussiste infatti né il litisconsorzio processuale, né tanto meno quello necessario, fra due domande che non siano collegate da un rapporto di antecedenza logica l’una rispetto all’altra di modo che ne sia necessaria la trattazione unitaria in tutte le fasi processuali, al fine di evitare giudizi contraddittori. Né, per quanto può evincersi dalle conclusioni formulate in sede d’appello dalla Compagnia assicuratrice, riprodotte nella sentenza impugnata, ricorre nella specie l’ipotesi secondo la quale il chiamato che non si limiti a resistere alla domanda del chiamante, ma contesti anche l’esistenza e la validità dell’obbligazione di quest’ultimo verso l’attore, si pone come parte accessoria della causa principale, con conseguente necessità di integrazione del contraddittorio (Cass. 2867/90). La Milano Assicurazioni si è infatti limitata con la propria difesa a resistere alle domande della chiamante GI.AN, chiedendo di essere dichiarata indenne dalle richieste avanzate da quest’ultima contro di lei.

Ma anche a voler ipotizzare, sulla scia di un indirizzo giurisprudenziale minoritario (Cass. 2867/90) la possibilità di un vincolo di dipendenza fra la causa principale e la causa di garanzia, fino a quando sia in discussione il fondamento della domanda principale, integrante il presupposto della domanda di rivalsa, così come sostenuto dal ricorrente, tale vincolo non potrebbe comunque nella specie ravvisarsi, non riguardando il gravame del Ministero il terzo chiamato in manleva, il quale a sua volta ha svolto le sue difese nell’ambito del solo rapporto di garanzia (Cass. 4443/97) senza inserirsi nel contraddittorio relativo al “petitum” della domanda principale.

Il primo motivo di ricorso deve essere dunque rigettato, analogamente al secondo motivo, attinente la possibile sanatoria della notifica tardiva, sanatoria non attuata col provvedimento del G.I. che ha autorizzato il rinnovo della notifica dell’atto di appello non al sensi dell’art. 331 C.P.C., ma nell’ambito dell’attività istruttoria di cui all’art. 350 c.p.c., che non pregiudica la successiva dichiarazione di inammissibilità dell’appello da parte del Collegio.

Per quanto si riferisce, in particolare, alla notifica dell’atto d’appello presso il procuratore domiciliatario, questa Corte ha già avuto modo di affermare con sentenza n. 9473 del 1993, la quale rappresenta lo sviluppo e la sintesi di posizioni giurisprudenziali risalenti (Cass. 149/87 e 5417/89), che la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”, che abbia avuto esito negativo perché il procuratore si sia successivamente trasferito altrove, non ha alcun effetto giuridico, dovendo essere effettuata al domicilio reale del procuratore (quale risulta dall’Albo: Cass. 4746/97, ovvero dagli atti processuali, come nel caso di timbro apposto su comparsa conclusionale di primo grado: Cass. 5417/89), anche se non vi sia stata rituale comunicazione del trasferimento della controparte, atteso che il dato di riferimento personale prevale su quello topografico (Cass. 149/87) e che non sussiste un onere del procuratore di provvedere alla comunicazione del cambio di indirizzo; tale onere è infatti previsto per il domicilio eletto autonomamente, mentre l’elezione operata dalla parte ha solo la funzione di indicare la sede dello studio del procuratore, sicché costituisce onere del notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad individuare il luogo di notificazione (Cass. 7920/92).

Tali principi risultano puntualmente applicabili alla fattispecie, avendo il procuratore della GI.AN applicato il timbro recante l’indicazione del trasferimento di studio sul frontespizio della comparsa conclusionale di I grado (v. Controricorso Pag. 4), previa comunicazione della variazione di indirizzo al Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Roma (v. memoria pag. 3), così adempiendo alle formalità richieste dalla giurisprudenza citata.

Consegue l’integrale rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, oltre a Lire 3 milioni per onorari.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente nelle spese, che si liquidano in complessive L. 150.000 oltre a L. tre milioni per onorari.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 1997.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 1998


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 09/06/1997) 09/06/1997, n. 5100

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Giuseppe BORRE’ Presidente

” Gian Carlo BIBOLINI Consigliere

” Mario Rosario VIGNALE “

” Mario CICALA “

” Renato RORDORF Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

MISISCHIA MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. VICO 29, presso l’avvocato G. COCCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIULIANO TABET, giusta delega in calce al controricorso;

Controricorrente

avverso la decisione n. 3490/94 della Commissione Tributaria Centrale depositata il 25/10/94;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/12/96 dal Relatore Consigliere Dott. Renato RORDORF;

udito per il resistente, l’Avvocato Tabet, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo NARDI che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbimento del secondo motivo di ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso in data 6 marzo 1991, il sig. Mario Misischia si rivolse alla commissione tributaria di primo grado di Roma chiedendo che fosse annullata l’iscrizione a ruolo dell’importo di L. 176.605.260, preteso dal fisco a titolo di maggiori imposte sui redditi accertati per l’anno 1983 ed accessori. Detta iscrizione a ruolo, secondo il ricorrente, era invalida in quanto non preceduta dalla rituale notificazione di alcun avviso di accertamento riguardante i suaccennati maggiori redditi.

Il ricorso non trovò accoglimento, ma l’impugnazione tempestivamente proposta dal contribuente fu invece accolta dalla commissione tributaria di secondo grado, la cui decisione, su gravame dell’ufficio, venne confermata dalla Commissione Tributaria Centrale, con pronuncia resa pubblica il 25 ottobre 1994.

Ritenne infatti detta commissione che la notificazione al Misischia dell’avviso di accertamento da cui la contestata iscrizione a ruolo avrebbe dovuto essere preceduta non si fosse perfezionata, in quanto l’atto era stato sì depositato presso la sede del comune ove il contribuente aveva domicilio fiscale, ed al medesimo contribuente era stata anche inviata la prescritta lettera raccomandata, ma il messo notificatore aveva invece trascurato di provvedere all’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione, e tale formalità è indispensabile per il completamento della notificazione prevista dall’art. 140 c.p.c. Né siffatta omissione poteva giustificarsi con la pretesa impossibilità di reperire in luogo lo stabile recante il numero civico corrispondente alla residenza del Misischia, giacché per trovare tale stabile sarebbe bastato individuare il numero civico precedente e quello successivo.

Neppure d’altronde, osservò la Commissione tributaria centrale, l’invalidità della suindicata notificazione avrebbe potuto essere sanata – come pretendeva l’ufficio – dal raggiungimento dello scopo dell’atto: perché, pur essendo vero che era stata spedita la lettera raccomandata destinata ad informare il destinatario del deposito dell’atto nella casa comunale, tale raccomandata non risultava essere stata ritirata ed il nome del medesimo destinatario non era neppure chiaramente leggibile sul relativo avviso di ricevimento.

Per l’annullamento di tale decisione ricorre l’amministrazione delle finanze, articolando due motivi di gravame.

Resiste l’intimato con controricorso, illustrato da successiva memoria.

Motivi della decisione
1. – Con il primo mezzo di ricorso l’amministrazione si duole che il giudice tributario non abbia considerato come la contestata notificazione al contribuente dell’avviso di accertamento avesse raggiunto comunque il proprio scopo e come, di conseguenza, ciò fosse valso a sanare ogni possibile deficienza formale. E ciò non già per effetto dell’avvenuta spedizione della lettera raccomandata su cui la Commissione tributaria centrale si è soffermata, bensì per il fatto stesso che il contribuente aveva impugnato l’atto dinanzi al giudice tributario, mostrando così di averne avuto piena conoscenza. In ogni caso poi, sempre secondo l’avvocatura ricorrente, la nullità della suindicata notificazione non avrebbe potuto essere eccepita da chi, come il Misischia, aveva contribuito con il proprio comportamento a darvi causa.

Il secondo motivo di ricorso è volto invece a contestare l’affermazione dell’impugnata decisione secondo cui, mancando l’affissione alla porta del destinatario, la notificazione ex art. 140 c.p.c. dell’avviso di accertamento di cui si discute sarebbe affetta da nullità.

A parere dell’avvocatura ricorrente, viceversa, stante l’impossibilità di reperire il numero civico dello stabile alla cui porta avrebbe dovuto essere effettuata l’affissione, l’indicato adempimento non avrebbe potuto trovar luogo e la sua omissione non avrebbe potuto, di conseguenza, inficiare la validità della notificazione. La quale, a causa dell’irreperibilità del destinatario, era dunque da eseguire, a norma dell’art. 60, primo comma, lettera e), del d.p.r. n. 600/73, mediante semplice deposito nella casa comunale del domicilio fiscale del contribuente, come in concreto è avvenuto.

2. – Il motivo d’impugnazione da ultimo riferito ha carattere logicamente preliminare rispetto all’altro, e va perciò esaminato per primo.

Esso, pertanto, appare infondato.

Infatti, soltanto nell’ipotesi in cui nel comune di domicilio fiscale non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente la notificazione dell’avviso di accertamento è ritualmente effettuata tramite deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto comune; ma tali ricerche rimangono doverose all’interno del comune di domicilio fiscale, ed esse condizionano la validità della notificazione eseguita ai sensi degli art. 140 c.p.c. e 60, lett. e), del d.p.r. n. 600/1973 (cfr., tra le altre, Cass. 26 luglio 1993, n. 8363, nonché più di recente – con riferimento all’analoga disposizione contenuta nell’art. 38 del d.p.r. n. 645/58, come risultante dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 189/74 – Cass. 25 settembre 1996, n. 8448).

Pertanto, avendo la Commissione tributaria centrale, con insindacabile giudizio di fatto, ritenuto che sarebbe stato ben possibile esperire ulteriori fruttuose ricerche per l’individuazione dell’abitazione del contribuente nell’ambito del medesimo comune di domicilio fiscale, la notificazione eseguita a norma della citata disposizione dell’art. 60 del d.p.r. n. 600/1973, senza il perfezionamento delle formalità richieste dall’art. 140 c.p.c., nella specie non può considerarsi valida. Ed è appena il caso di aggiungere che, per la validità della notificazione ai sensi dell’articolo da ultimo menzionato, è indispensabile che vengano completati tutti gli adempimenti da esso prescritti, ivi compresa l’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione del destinatario (vedi in tal senso, tra le altre, Cass. n. 8071/96 e Cass. n. 1938/90).

3. – Anche l’altro motivo di ricorso è destituito di ogni fondamento.

In primo luogo, infatti, va rilevato che mai nei precedenti gradi di giudizio l’amministrazione tributaria aveva dedotto quanto ora prospettato a fondamento della propria doglianza, e cioé che l’invalidità della notificazione dell’avviso di accertamento sarebbe stata sanata per effetto del ricorso proposto dal contribuente. In secondo luogo – ove pure volesse farsi astrazione da tale assorbente rilievo – è da notare che la suindicata doglianza appare del tutto fuor di segno, perché il ricorso del contribuente dal quale si vorrebbe dedurre il raggiungimento dello scopo della notificazione non validamente eseguita è stato proposto non già contro l’avviso di accertamento malamente notificato, bensì contro l’iscrizione a ruolo in quanto non preceduta dalla (valida) notificazione di detto avviso. Di modo che tale iniziativa giudiziaria del contribuente attesta che egli è venuto a conoscenza della pretesa fiscale in conseguenza della notificazione dell’atto d’iscrizione a ruolo, e non certo che aveva avuto anche tempestiva conoscenza dell’avviso di accertamento che di quell’iscrizione costituiva un indispensabile presupposto.

Quanto poi al fatto che sarebbe stato lo stesso contribuente a dare causa all’eccepita nullità della notificazione dell’avviso, l’avvocatura ricorrente neppure chiarisce a quale comportamento essa fa a tal riguardo riferimento. E ciò preclude ogni valutazione in proposito.

4. – Per le suesposte considerazioni il ricorso dev’essere rigettato, con conseguente condanna dell’amministrazione ricorrente alla rifusione, in favore della controparte, delle spese processuali, ivi compresi gli onorari di avvocato il L. 5.000.000.

P.Q.M.
La Corte;

1) rigetta il ricorso;

2) condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali in favore della controparte e liquida dette spese in complessive L. 5.259.230, di cui L. 5.000.000 per onorari.

Così deciso, in Roma, il 19 dicembre 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 9 GIUGNO 1997


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 13/12/1996) 13/12/1996, n. 11152

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Michele CANTILLO Presidente

” Antonio CATALANO Consigliere

” Giovanni VERUCCI “

” Giulio GRAZIADEI “

” Salvatore DI PALMA Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

MAZZARELLO GIUSEPPE, BOVI ANGELINA;

Intimati

avverso la sentenza n. 1824/91 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 03/06/91;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/96 dal Relatore Consigliere Dott. Salvatore DI PALMA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto del 14 luglio 1981, registrato presso l’Ufficio del Registro di Anzio il successivo 3 agosto, Giuseppe Mazzarello ed Angelina Bovi vendettero un immobile al valore dichiarato di lire 50.000.000. L’ufficio del registro procedette ad accertamento ai fini INVIM, rettificando il valore dichiarato in aumento per lire 70.000.000, e successivamente notificava ai contribuenti avviso di liquidazione del maggior valore accertato e delle imposte dovute.

Avverso il predetto avviso di liquidazione i contribuenti proposero ricorso alla Commissione Tributaria di 1° grado di Velletri, sostenendo, tra l’altro, l’illegittimità dell’avviso di liquidazione in quanto non preceduto da rituale notifica dell’avviso di accertamento, mai portato a loro conoscenza e quindi non divenuto definitivo.

La Commissione di primo grado, omettendo ogni pronunzia sulle eccezioni preliminari di rito, accolse nel merito il ricorso, dichiarando applicabile la nuova normativa (DPR n. 131 del 1986); più favorevole al contribuente e ritenendo, per l’effetto, che il valore dichiarato fosse addirittura superiore a quello che poteva essere dichiarato con i criteri automatici legali, in base ai quali l’immobile avrebbe avuto un valore di lire 47.520.000).

Avverso la predetta decisione l’Ufficio propose appello, sostenendo la definitività dell’avviso di accertamento, in quanto ritualmente notificato e mai impugnato.

I contribuenti proposero, a loro volta, appello incidentale, ribadendo le tesi difensive in rito e nel merito già proposte davanti alla Commissione di 1° grado.

La Commissione Tributari di 2° grado di Roma accolse l’appello dell’Ufficio, ritenendo che l’avviso di accertamento fosse stato ritualmente notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c. e che, quindi, fosse divenuto definitivo, con conseguente inapplicabilità della normativa del 1986.

I contribuenti impugnavano tale decisione dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, ribadendo ancora una volta la tesi della nullità della notifica dell’avviso di accertamento, in quanto una prima volta notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nonostante l’attestazione dello stesso nesso notificatore, secondo cui i contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo risultante dell’atto notarile, ed una seconda volta a norma dell’art. 60 lett. e) del DPR n. 600 del 1973, ma senza il rispetto delle formalità procedimentali di notifica previste dal sistema normativo in materia.

In subordine, i contribuenti eccepirono la decadenza dell’ufficio dall’accertamento in rettifica per tardività e, nel merito, la congruità del valore dichiarato.

L’Amministrazione Finanziaria oppose che il d.l. 10 luglio 1982 n. 429 convertito nella legge 7 agosto 1982 n. 516 aveva prorogato al 31 dicembre 1984 i termini di notifica ancora in corso e che la seconda notifica effettuata il 1° marzo 1984 doveva considerarsi rituale, in quanto all’indirizzo risultante dai registri anagrafici i due contribuenti risultavano trasferiti, per cui il messo notificatore non aveva potuto che procedere ai sensi del combinato disposto dell’art. 140 c.p.c. e 60 lett. e) DPR n. 600 del 1973.

La Corte adita, con sentenza del 3 maggio – 3 giugno 1991, tra l’altro, accolse il primo motivo di impugnazione e, per l’effetto, in riforma della decisione impugnata, dichiarò illegittimo l’avviso di liquidazione, notificato ai ricorrenti il 28 gennaio 1985 dall’ufficio del Registro di Anzio, e non dovute le somme ingiunte.

La Corte, in particolare – dopo aver premesso che l’Ufficio del Registro di Anzio aveva effettuato una prima notifica dell’avviso di accertamento in data 16 novembre 1983ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., e una seconda in data 8 febbraio 1984 ai sensi dell’art. 60 lett. E dpr n. 600 del 1973; e che la prima notifica è pacificamente nulla in quanto eseguita ex art. 140 cod. proc. civ.

nonostante l’attestazione del messo notificatore secondo cui i due contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo – ha affermato che anche la seconda notifica è affetta da nullità, in quanto l’art. 60 DPR n. 600 del 1973 ha innovato la disciplina della notificazione con il rito degli irreperibili di cui all’art. 143 cod. proc. civ. soltanto relativamente alla formalità dell’affissione dell’avviso, mentre ha lasciato inalterati i principi generali previsti dal codice di rito civile quanto alle formalità essenziali per il perfezionamento della fattispecie notificatoria; ed in quanto, nella specie, dalla relazione di notificazione risulta la mera attestazione, da parte del messo notificatore, del “trasferimento” dei destinatari, senza alcuna indicazione né delle fonti di apprendimento della circostanza del trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né dell’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca circa il nuovo recapito dei destinatari.

Dalla nullità della notificazione dell’avviso di accertamento la Corte ha dedotto l’illegittimità dell’avviso di liquidazione e, pertanto, la non debenza delle somme ivi indicate.

Avverso tale decisione, il Ministero delle Finanze ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico motivo di censura.

Motivi della decisione
2.1. Con l’unico motivo (con cui deduce “violazione artt. 140, 143 e 148 c.p.c. e art. 60, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600″), l’Amministrazione ricorrente, dopo avere premesso di non contestare la nullità della notifica del 16 novembre 1983 ex art. 140 c.p.c.”, perché nel luogo di residenza i contribuenti non erano più abitanti, avendo essi lasciata quella abitazione ove risultavano sconosciuti” – sostiene la legittimazione della notificazione dell’avviso di accertamento ex art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, osservando che, nell’ipotesi in cui, come nella specie, il messo notificatore dell’avviso di accertamento abbia appurato che il contribuente, pur anagraficamente residente all’indirizzo risultante dagli atti, si sia da colà trasferito, lo stesso non sarebbe tenuto ad effettuare alcuna altra indagine, ma dovrebbe limitarsi ad applicare l’art. 60, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 e non sarebbe nemmeno tenuto a dar conto delle attività svolte nella relazione di notificazione.

2.2. Preliminarmente, questa Corte deve rilevare che, in ordine alla dichiarazione di nullità della notificazione dell’avviso di accertamento “de quo”, effettuata in data 16 novembre 1983 ai sensi dell’art. 140 c.p.c., pronunciata dalla Corte romana, si è formato il giudicato interno, in quanto il Ministero delle finanze non ha impugnato tale capo di decisione.

2.3. L’oggetto del ricorso attiene alla validità della seconda notificazione del predetto avviso di accertamento effettuata in data 9 marzo 1983 ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973.

La fattispecie che ne à a fondamento è pacifica: i contribuenti, nell’atto pubblico di alienazione dell’immobile, hanno indicato come domicilio fiscale quello sito in Roma via Olindo Malagodi n. 26/14; a margine ed in calce all’avviso di accertamento in rettifica, notificato ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 in data 9 marzo 1984 risulta una doppia annotazione: la prima, del 16 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti si sono “trasferiti da via O. Malagodi”, e la seconda, del 20 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti medesimi sono anagraficamente residenti in Roma, via Olindo Malagodi n. 26/14.

La “ratio decidendi” della decisione, impugnata, che ha ritenuto siffatta notificazione invalida, si basa sul duplice rilievo, secondo cui il messo notificatore dell’avviso non ha indicato, nella relazione, le fonti di apprendimento della circostanza dell’indicato trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né l’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca volte ad individuare il nuovo recapito dei contribuenti stessi.

A prescindere dalla ambiguità di tale decisione (nella misura in cui parrebbe riferirsi alla invalidità della relazione di notificazione anziché a quella dell’attività di trasmissione e consegna dell’atto), la censura proposta pone la questione se sia validamente eseguita, ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, la notificazione di avviso di accertamento a contribuente che, pur anagraficamente residente ad un dato indirizzo, risulti da colà, di fatto, trasferito.

Non v’è dubbio, innanzitutto, che alla fattispecie – che attiene a notificazione di avviso di accertamento il rettifica ai fini Invim – si applichi il procedimento di notificazione prefigurato dall’art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, in virtù del doppio rinvio a tale procedimento operato dall’art. 20, terzo comma, prima proposizione, D.P.R. n. 643 del 1972 (istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili) e dall’art. 49, terzo comma, D.P.R. n. 634 del 1972 (disciplina dell’imposta di registro).

É noto che l’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notifica (e cioè nel comune – di domicilio fiscale, corrispondente a quello in cui il contribuente persona fisica, destinatario dell’atto da notificare, risulta anagraficamente iscritto: cfr. combinato disposto dell’art. 58, secondo comma, prima proposizione e dell’art. 60, primo comma, lett. c, dello stesso D.P.R.) non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione dell’avviso o dell’atto è eseguita mediante deposito dell’atto stesso nella casa del comune di domicilio fiscale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune medesimo e diviene produttiva di effetti l’ottavo giorno successivo a quello di affissione ai fini della decorrenza del termine per ricorrere.

É evidente – e confermato dalla espressa statuizione di inapplicabilità dell’art. 143 c.p.c. (art. 60, primo comma, lett. f) – che la fattispecie prefigurata dalla lett. e) corrisponde a quella di irreperibilità del contribuente nel comune di domicilio fiscale, vale a dire alle ipotesi previste dall’art. 143 c.p.c.

E questa Corte ha più volte chiarito – sia pure in fattispecie di irreperibilità di cui all’art. 140 c.p.c. – che la notificazione di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), dianzi descritta, è ritualmente eseguita nelle forme dalla disposizione stessa previste – senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, né di ulteriori ricerche al di fuori del comune di domicilio fiscale – soltanto nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il esso notificante deve svolgere nell’ambito del predetto comune, in questo non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente (cfr. sentt. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992).

Ciò posto, non vi è dubbio che, nei casi in cui, come nella specie, il contribuente destinatario della notificazione si sia trasferito dal luogo indicato nel registro anagrafico e si ignori, nonostante le ricerche effettuate dal messo notificante nell’ambito del comune di domicilio fiscale, il nuovo domicilio, sia applicabile il procedimento di notificazione previsto dall’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, posto che siffatte ipotesi corrispondono esattamente a quelle di irreperibilità ai sensi dell’art. 143, primo comma c.p.c. (cfr. Cass. S.U. n. 5825 del 1981).

Orbene dal momento che è regola generale quella secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti, che debbono essere notificati al contribuente, salvo il caso di consegna in mani proprie, deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario (art. 60, primo comma, lett. c); che questo corrisponde al domicilio risultante dall’iscrizione anagrafica in un determinato comune (art. 58, secondo comma, prima proposizione); che tale domicilio può essere mutato rispetto a quello indicato negli atti in possesso dell’amministrazione tributaria (art. 58, quarto comma); che le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate (art. 58, quinto comma); e che la valida notificazione dell’atto realizza interessi evidenti, giuridicamente tutelati, di cui sono portatori sia il contribuente sia l’amministrazione – è necessario che il messo notificante, in ipotesi di mutamento di indirizzo, svolga accurate ricerche nell’ambito del comune risultante dagli atti siccome di domicilio fiscale (cfr. art. 60, primo comma, lett. a; nonché Cass. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992 cit.).

Ma nella ipotesi in cui, quale quella di specie, il contribuente, ancorché anagraficamente iscritto in un comune ad un dato indirizzo, risulti di fatto trasferito da tale indirizzo, non si scorge quali altre, utili ricerche il messo notificante possa e debba svolgere: infatti, l’attestazione del mero trasferimento, senza ulteriori indicazioni, dal domicilio fiscale implica che il messo notificante abbia svolto le necessarie indagini per giungere a tale conclusione (ove, naturalmente, non si faccia questione, come non si fa specie, dell’effettivo compimento delle ricerche e della veridicità del trasferimento); e, d’altro canto, la contraria risultanza anagrafica comporta l’inutilità, in radice, e, quindi, la non doverosità di ulteriori ricerche (cfr., in questo senso Cass. n. 4086 del 1980 e per un caso analogo in materia di società, n. 8071 del 1995).

2.4. La decisione impugnata, nella misura in cui non ha fatto corretta applicazione dei principi dianzi affermati, deve essere annullata e la relativa causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso.

Cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione civile, il 15 marzo 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 DICEMBRE 1996.


Cass. civ. Sez. I, 11-02-1995, n. 1544

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Enzo BENEFORTI Presidente

” Rosario DE MUSIS Consigliere

” Giovanni OLLA “

” M. Rosario MORELLI “

” Laura MILANI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

CURATELA DEL FALLIMENTO “ROYALCAR” DI RADO DAMIANO, in persona del Curatore Rocco Morelli, elettivamente domiciliata in Roma Via Blumenstihl 45 c/o l’avv. Oreste F. Moricca che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Francesco M. Pugliese giusta delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

TOFFOLO ROSANNA, Titolare della Ditta individuale “LA TENDA”, elettivamente domiciliata in Roma via Cristoforo Colombo 440 c/o l’avv. Francesco Tassoni che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Elio Multari giusta delega a margine del controricorso.

Controricorrente

Avverso la sentenza 598/90 della Corte di Appello di Venezia dep. il 14.7.90.

E’ presente per il ricorrente l’avv. Moricca che chiede l’accoglimento del ricorso.

E’ presente per il resistente l’avv. Tassoni che chiede il rigetto del ricorso.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3.6.1994 dal Cons. Rel. Dr.ssa Milani.

Udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Aloisi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza 1.2.1989 il Tribunale di Treviso, in accoglimento della domanda proposta dalla curatela del fallimento “Royalcar” di Damiano Rado, condannava la ditta “La Tenda” di Rosanna Toffolo al pagamento della somma di L. 15.712.000, oltre interessi e spese del giudizio.

Interponeva appello la soccombente, con atto notificato a mezzo del servizio postale il 6/7 aprile 1989.

Nella dichiarata contumacia della curatela del fallimento, non costituitosi in secondo grado, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza 2/14 luglio 1990, riduceva a sole L. 274.605 la somma dovuta dalla ditta “La Tenda”.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la curatela del fallimento “Royalcar”. Resiste con controricorso Rosanna Toffolo.

Motivi della decisione
Con unico motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 106 e 107 D.P.R. 15.12.1959 n. 1229, per essere stato l’atto di citazione in appello notificato mediante il servizio postale dall’ufficiale giudiziario addetto all’ufficio unico notifiche presso il Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente, dovendosi nella specie la competenza attribuire, in via concorrente ed alternativa, o all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notifica doveva essere eseguita (Treviso), o a quello addetto all’autorità giudiziaria competente per la causa d’appello (Venezia): dall’incompetenza dell’ufficiale giudiziario il ricorrente fa discendere la nullità della notifica dell’atto d’appello e, conseguentemente, dell’intero procedimento di secondo grado e della relativa sentenza, non essendo intervenuta sanatoria data la mancata costituzione dell’appellato.

La doglianza è fondata, pur se non appaiono corrette le conseguenze che il ricorrente ne fa derivare.

Ed invero, posto che:

a) ai sensi dell’art. 106, 1° comma, D.P.R. n. 1229/1959, l’ufficiale giudiziario compie, con attribuzione esclusiva, gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto;

b) ai sensi del successivo art. 107, 2° comma, tutti gli ufficiali giudiziari possono eseguire, a mezzo del servizio postale, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede alla quale sono addetti;

se ne desume, come da costante giurisprudenza di questa Corte, che la competenza in materia di notificazione è per legge attribuita, in via concorrente ed alternativa, così all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notificazione deve essere eseguita, come a quello addetto all’autorità giudiziaria davanti alla quale deve trattarsi l’affare cui ha riguardo l’atto da notificare (Cass. sent. 3552/1984; in senso conf: sent. 5607 del 1987; 767/1985; 1778/1981; 1105/1980; e varie altre).

La norma non consente altre interpretazioni, posto il carattere “esclusivo” della competenza attribuita all’ufficiale giudiziario per le notifiche da eseguirsi nell’ambito dell’ufficio cui è addetto, salvo l’altro criterio, valido per le notifiche a mezzo del servizio postale, fissato con riferimento alla competenza delle autorità giudiziarie aventi sede nell’ambito dell’ufficio predetto.

Né, contrariamente a quanto deduce la controricorrente, la disciplina ha subito modifiche in virtù della legge 20.11.1982 n. 890 sulla notificazione degli atti a mezzo posta, essendosi questa limitata a stabilire, senza nulla immutare in materia di competenza territoriale, la facoltà, in genere, per l’ufficiale giudiziario di avvalersi del servizio postale per le notifiche di sua competenza, e l’obbligo di avvalersene per le notifiche da eseguirsi fuori del Comune ove ha sede l’ufficio di appartenenza. Deve dunque concludersi che, nella specie, l’atto d’appello doveva essere notificato, in via alternativa, o dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Treviso, luogo ove la notifica doveva essere eseguita, o dall’ufficiale giudiziario addetto alla Corte d’appello di Venezia, autorità giudiziaria competente per la trattazione della causa: ne deriva la nullità della notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente.

Trattasi peraltro, difformemente da quanto ritenuto dal ricorrente, di nullità relativa, suscettibile di essere sanata, con effetto retroattivo, dalla costituzione dell’intimato (come più volte stabilito da questa Corte: sent. 428/1987; sent. 5774/1984; sent. 4578/1984; sent. 4474/1981; ed altre), ovvero tramite la rinnovazione della notifica ad opera dell’ufficiale giudiziario competente, disposta dal giudice d’ufficio a norma dell’art. 291 c.p.c. (come affermato dalla sent. 7308/1983).

Tale provvedimento avrebbe nella specie dovuto adottare la Corte d’appello di Venezia, anziché dichiarare erroneamente la contumacia dell’appellato.

Non essendosi, dunque, ritualmente instaurato il contraddittorio in appello, il procedimento di secondo grado dovrà essere nuovamente celebrato, rinviandosi all’uopo la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, cui viene rimessa anche la pronuncia sulle spese di questa fase del giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE

Accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 3 giugno 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 FEBBRAIO 1995


Cass. civ. Sez. II, 21-05-1994, n. 5000

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Francesco FAVARA Presidente

Dott. Aldo MARCONI Consigliere

Dott. Antonio PATIERNO Consigliere

Dott. Giuseppe BOSELLI Consigliere

Dott. Sergio CARDILLO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

ORPELLO ANTONIO, elettivamente domiciliato in Roma, via S. Tommaso d’Aquino n. 90 presso lo studio del dott. Alfredo Pilloni e difeso dall’avvocato Francesco Del Vecchio in virtù di procura in calce al ricorso

Ricorrente

contro

VAGABOND s.p.a., in persona del legale rappresentante DOMENICO TACCHELLA, elettivamente domiciliata in Roma, via presso lo studio dell’avvocato Pasquale Paolitto e difeso dall’avvocato Giovanni Foresti in virtù di procura in calce al controricorso

Controricorrente

avverso la sentenza emessa dal Conciliatore di Verona il 13 dicembre 1990.

Sentita la relazione della causa svolta dal Cons. dott. SERGIO CARDILLO nella pubblica udienza del 24 gennaio 1994.

Udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. dott. MARTONE che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo assorbito il resto.

Svolgimento del processo
La società Vagabond s.p.a. convenne la ditta Orpello Sport di Antonio Orpello dinanzi al Conciliatore di Verona chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 852.200 a titolo di prezzo di merci vendute.

Nella contumacia del convenuto la causa fu istruita con la produzione di documenti e l’assunzione di una prova testimoniale.

Il Conciliatore con sentenza del 13 dicembre 1990 accolse la domanda.

Contro questa decisione ricorre Antonio Orpello sulla base di due motivi.

La società Vagabond resiste con controricorso illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia nullità della sentenza e del procedimento per omessa notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, è privo di fondamento.

L’atto di citazione risulta notificato in data 19 marzo 1990 a mezzo del servizio postale alla Ditta Orpello Sport di Orpello Antonio in persona del suo omonimo titolare che appose la firma quale destinatario sull’avviso di ricevimento del plico raccomandato.

L’avvenuta sottoscrizione della ricevuta di ritorno, che fa fede fino a querela di falso e perfeziona la notificazione ai sensi dell’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890, rende inconsistente l’assunto del ricorrente.

Con il secondo motivo si denunzia nullità della sentenza e del procedimento per nullità della notificazione dell’atto di citazione eseguita dal messo dell’Ufficio di Conciliazione fuori del territorio di sua competenza.

Il motivo è fondato.

La notificazione degli atti in materia civile per mezzo dei messi di conciliazione è soggetta alla disposizione dettata dell’art. 175, dell’allegato 1, al T.U. approvato con R.D. 28 dicembre 1924, n. 2271, la quale stabilisce che gli uscieri di conciliazione, denominati messi a norma della legge 3 febbraio 1957, n. 16, esercitano le loro funzioni per gli affari di competenza del conciliatore nel territorio di rispettiva giurisdizione.

La competenza delimitata non consente al messo di procedere alla notificazione quando il destinatario dell’atto sia residente fuori dell’ambito territoriale dell’ufficio di conciliazione cui esso è addetto poiché, a norma dell’art. 34 del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari), soltanto il messo di conciliazione del luogo dove l’atto deve essere notificato può essere autorizzato dal capo dell’ufficio giudiziario, ove manchino o siano impediti l’ufficiale giudiziario o l’aiutante ufficiale giudiziario e ricorrano motivi di urgenza, a procedere alla notificazione (v. sent. 19 gennaio 1971, n. 264; 4 maggio 1978, n. 2082; 11 dicembre 1987, n. 9165).

La notificazione fuori del territorio di competenza non può essere effettuata neppure per mezzo del servizio postale, non essendo applicabile la disposizione dell’art. 107 del D.P.R. n. 1229 del 1959 che stabilisce, con riferimento ai soli ufficiali giudiziari, che costoro possono eseguire per posta, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza dell’autorità giudiziaria della sede alla quale sono addetti.

Ne deriva che, nel caso in esame, non era consentito al messo addetto all’ufficio di conciliazione di Verona di effettuare, a mezzo del servizio postale, la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ad Antonio Orpello residente in Torre del Greco.

La nullità della notificazione non è stata sanata né dalla costituzione dell’intimato, che è rimasto contumace nel giudizio di merito, né dalla rinnovazione dell’atto ai sensi dell’art. 291 c.p.c., che non è stata disposta dal Conciliatore.

Pertanto il ricorso deve essere accolto e le sentenza impugnata va cassata con rinvio al altro giudice, che si designa in un diverso Conciliatore di Verona, il quale, nella nullità della notificazione della citazione introduttiva, fisserà all’attrice, ai sensi dell’art. 291 c.p.c., un termine perentorio per rinnovare la notificazione e provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo motivo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese al Conciliatore di Verona.

Così deciso in Roma in Camera di Consiglio il 24 gennaio 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 MAGGIO 1994.


Cass. civ. Sez. II, 03-02-1993, n. 1321

Quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Nullo l’atto depositato presso la Casa Comunale in luogo diverso dalla sede ufficiale

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Andrea VELA Presidente

” Enzo BENEFORTI Consigliere

” Domenico GIAVEDONI Rel. “

” Raffaele MAROTTA “

” Antonio VELLA “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

ADRIANI ANDREA elettivamente domiciliato in Roma, via di Villa Ada n. 57, presso l’avv. Maria Athena Lorizio che unitamente all’avv. Domenico D’Ascanio lo rappresenta e difende per delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

GIANGRAZI PAOLINO e GIANGRAZI FRANCESCO.

Intimati

Per la cassazione della sentenza n. 31 della Corte di Appello di Perugia del 22.12.88-13.2.89.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14.2.92 la Cons. Rel. Dott. Giavedoni.

Udito per i ricorrenti l’avv. Domenico D’Ascanio che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Fabrizio Amirante che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Questa Corte, con sentenza 30 aprile 1985, ha cassato la sentenza della Corte di Appello de L’Aquila che aveva rigettato, in riforma della sentenza di primo grado, la domanda di Paolino Giangrazi avente ad oggetto il rilascio di un immobile di proprietà dello stesso e detenuto senza titolo da Andrea Adriani, rinviando la causa per nuovo esame alla Corte d’Appello di Perugia.

Il giudizio è stato riassunto avanti al giudice di rinvio da Paolino Giangrazi nei confronti dell’originario convenuto Andrea Adriani, nonché di Francesco Giangrazi, chiamato in causa dall’Adriani a scopo di garanzia.

Entrambi gli appellati sono rimasti contumaci.

Con sentenza 13 febbraio 1989, la Corte di Perugia ha confermato la sentenza di primo grado e condannato Andrea Adriani alle spese dell’intero giudizio.

Avverso questa sentenza propone ora ricorso per cassazione il soccombente Adriani con un solo motivo di censura.

Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., nullità della citazione in riassunzione, del conseguente procedimento in sede di rinvio e della sentenza e, sinteticamente, assume che la notificazione nei suoi confronti, in quanto attuata con le forme delle notificazioni agli irreperibili, era irrituale e nulla perché l’Ufficiale giudiziario procedente aveva attestato di aver notificato la copia dell’atto nella “Casa del Comune” di Masciano che però non è comune, ma frazione del Comune di Campotosto de L’Aquila.

La censura è, per quanto di ragione, fondata.

Dalla relata dell’Ufficiale addetto alla Corte d’Appello di Perugia risulta, anzitutto che la notifica dell’atto di riassunzione sarebbe stata effettuata a mezzo posta il 13 febbraio 1987. Questa notificazione però evidentemente non ha avuto luogo perché alla relazione testé richiamata fa immediatamente seguito altra di notifica eseguita, in data 28 febbraio 1987, a cura dello stesso Ufficiale giudiziario nelle forme di cui all’articolo 140 c.p.c.

Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) il ricorrente si duole, come si è detto, che il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di Masciano, che viceversa non è comune autonomo, ma frazione del comune di Campotosto.

Orbene, accertato che Masciano non è sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo del ricorrente.

Infatti anche se alla frazione di Masciano risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato) è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso il c.d. “capoluogo”.

Si deve quindi riconoscere che a Masciano, quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

D’altronde l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente al notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità della notifica (non altrimenti sanata).

Ciò però non comporta, come ritiene il ricorrente, cassazione senza rinvio della sentenza impugnata.

Infatti il (primo) procedimento di rinvio era stato riassunto anche nei confronti dell’altro appellato Francesco Giangrazi, per cui dovendosi rispettare la norma che vuole identità soggettive dei partecipanti al giudizio precedente svoltosi avanti alla Corte Suprema e nel giudizio di rinvio, il giudice di quest’ultimo avrebbe dovuto anzitutto accertare la nullità della notifica della citazione nei confronti di Andrea Adriani (per le ragioni sopra svolte) e quindi ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dello stesso mediante (nuova) notificazione dell’atto di riassunzione.

A tanto dovrà ora provvedere il nuovo giudice di merito al quale, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata. Lo stesso, che si designa nella Corte d’Appello di Roma, provvederà anche per le spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la pronuncia sulle spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma il 14 febbraio 1992.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 3 FEBBRAIO 1993.


Corte cost., (ud. 18-05-1992) 27-05-1992, n. 236

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge 21 febbraio 1989, n. 68 (Disposizioni per alcune categorie di personale tecnico e amministrativo delle Università), promosso con ordinanza emessa il 27 giugno 1991 dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto sui ricorsi riuniti proposti da Galfano Luciano ed altri, contro l’Università degli studi di Padova ed altro, iscritta al n. 720 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 199l.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 1o aprile 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
l. – Il T.A.R. del Veneto mette in dubbio la conformità all’art. 36 Cost. dell’art. 1 della legge 21 febbraio 1989, n. 63, nella parte in cui, per il periodo antecedente alla decorrenza dell’inquadramento ivi disposto, non riconosce al personale tecnico e amministrativo delle università, che ha svolto di fatto le accertate mansioni superiori, il trattamento economico della qualifica corrispondente.

2. – La questione non è fondata.

Va osservato in limine che tra l’art. 36, primo comma, Cost. e l’art. 97, terzo comma, Cost. non esiste la polarità ravvisata dal giudice “a quo”. II principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile col diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. Esso è inconciliabile soltanto con la regola – introdotta nell’art. 2103 cod. civ. dall’art. 13 della legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori) – di automatica acquisizione della qualifica superiore quando l’assegnazione si prolunghi oltre un certo periodo di tempo. L’accertamento della capacità professionale mediante la procedura concorsuale o in altro modo stabilito dalla legge è un presupposto costitutivo dell’inquadramento formale nella corrispondente qualifica funzionale, non un indice necessario della qualità del lavoro prestato ai fini dell’art. 36 Cost.

Ciò non significa che l’art. 36 debba trovare incondizionata applicazione ogni volta che il pubblico impiegato venga adibito a mansioni superiori. L’art. 98, primo comma, Cost. vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio.

Un primo limite deriva dall’art. 97, primo comma, Cost., il quale autorizza norme di organizzazione dei pubblici uffici che, per esigenze eccezionali di buon andamento dei servizi, consentono l’assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza diritto a variazioni del trattamento economico. Un esempio è fornito dall’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, in merito al quale questa Corte si è pronunciata con la sent. n. 57 del 1989 e la sent. n. 296 del 1990 richiamate dal giudice remittente. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori per vacanza del posto corrispondente, protratta indefinitamente senza provvedere al bando di concorso per la copertura del posto, le sentenze citate hanno statuito che, trascorso il periodo di tempo indicato dalla legge come limite massimo di riconoscibilità delle esigenze eccezionali di servizio, il dipendente non può essere trattenuto nelle mansioni più elevate senza adeguamento del trattamento economico secondo il precetto dell’art. 36 Cost.

Nel caso di posizioni diffuse di prolungata adibizione a mansioni più elevate della qualifica, un limite di diversa natura può derivare da un intervento legislativo che provveda a regolarizzare queste posizioni con effetto “ex nunc”, ma con modalità e agevolazioni tali da compensare l’eccedenza delle mansioni svolte anteriormente rispetto alla qualifica rivestita dal dipendente. Di questo tipo è il caso che ha dato luogo all’odierno incidente di costituzionalità. La legge impugnata è intervenuta per regola rizzare la posizione di alcune categorie di dipendenti tecnici e amministrativi delle università inquadrati nella quarta qualifica funzionale, ma da tempo, più o meno risalente, adibiti a mansioni superiori; ed è intervenuta con una valutazione complessiva che ha tenuto conto anche del servizio precedentemente prestato in tali mansioni. Ai ricorrenti è stato concesso il duplice vantaggio della promozione “per saltum” dalla quarta alla sesta qualifica e dell’esonero dal requisito del pubblico concorso, sostituito da una semplice prova idoneativa. Tali agevolazioni, e in particolare la deroga al principio dell’art. 97, terzo comma, Cost., hanno una funzione sanante delle situazioni pregresse e quindi non possono essere cumulate con la pretesa di differenze retributive arretrate, fondata sull’art. 36 Cost.

I ricorrenti non hanno ragione di dolersi di questa soluzione legislativa, peraltro previamente concordata dal Governo con le organizzazioni sindacali più rappresentative del personale universitario e fissata nel contratto collettivo stipulato nel settembre del 1987, una parte del quale è riprodotta letteralmente nell’art. I della legge impugnata.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 21 febbraio 1989, n. 68 (Disposizioni per alcune categorie di personale tecnico e amministrativo delle università), sollevata, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 1992.


Corte cost., (ud. 14-06-1990) 19-06-1990, n. 296

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, commi quinto e settimo (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri), e dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, commi secondo e terzo (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali) promossi con quattro ordinanze emesse il 10 aprile 1989 e il 9 giugno 1989 dal Consiglio di Stato, il 13 ottobre 1989 (n. 2 ordinanze) dal T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia, iscritte rispettivamente ai nn. 58, 86, 88 e 89 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8 e 10, prima serie speciale, dell’anno 1990.

Visti l’atto di costituzione di Ceccarini Ettore e gli atti d’intervento di Pecoraro Nicolino nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.-Il Consiglio di Stato e il T.A.R. del Friuli-Venezia Giuilia contestano la legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, quinto e settimo comma e dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo e terzo comma, riferimento all’art. 36 della Costituzione, in quanto non prevedono una maggiorazione di retribuzione nell’ipotesi di esercizio, da parte dell’aiuto o dell’assistente ospedaliero, delle mansioni rispettivamente di primario o di aiuto oltre il termine di sessanta giorni, in caso di disponibilità o vacanza del posto.

Data l’identità della questione, i quattro giudizi promossi dalle ordinanze dei giudici “a quibus” vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2.-In ordine all’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969, quinto e settimo comma, e all’art. 29, terzo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 la questione è inammissibile per difetto di rilevanza. Queste norme, la prima specificamente destinata al personale medico, la seconda concernente tutto il personale delle U.S.L., prevedono la sostituzione vicaria del titolare di una posizione funzionale più elevata assente per malattia, ferie, congedo, missione, motivi di famiglia e simili, oppure non immediatamente disponibile in caso di urgenza. In tali casi la sostituzione da parte del titolare di una posizione inferiore “rientra tra gli ordinari compiti della propria posizione funzionale”.

Diverso è il caso, su cui vertono i giudizi principali, di vacanza del posto di primario o di aiuto: qui la sostituzione rispettivamente da parte dell’aiuto o dell’assistente ospedaliero non ha carattere di funzione vicaria, ma comporta un trasferimento temporaneo a funzioni superiori, che vengono esercitate a titolo personale e autonomo. In questo caso, come osserva giustamente il Consiglio di Stato, “si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969” e si entra, invece, nel campo di applicazione dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979, il quale pertanto è la sola norma “rilevante ai fini della decisione”. In deroga alla regola del primo comma, essa consente in via eccezionale, per esigenze di servizio, l’assegnazione temporanea del dipendente a mansioni superiori a quelle inerenti alla sua qualifica, nel limite di un periodo massimo di sessanta giorni e senza diritto a variazioni del trattamento economico.

3.-Relativamente a quest’ultima norma la questione va dichiarata infondata nei sensi già precisati dalla sentenza precedente, la quale ha ritenuto che nell’ipotesi prevista dall’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 il diritto a variazioni del trattamento economico è escluso solo se l’assegnazione temporanea alle mansioni superiori sia contenuta entro il periodo di sessanta giorni nell’anno solare.

Contro questa interpretazione si obietta: trascorso il periodo di sessanta giorni, riprende vigore il divieto di assegnazione a mansioni superiori statuito nel primo comma; conseguentemente l’esclusione del diritto a variazioni del trattamento economico, disposta nel secondo comma, vale non soltanto nel detto periodo, “in cui l’esercizio di mansioni superiori è eccezionalmente consentito”, ma anche, e “a maggior ragione, nel tempo eccedente i sessanta giorni, nel quale l’esercizio di mansioni superiori è interdetto”, e quindi concreta un comportamento illegittimo. È agevole replicare che illegittimo non è il comportamento dell’aiuto ospedaliero il quale, essendo vacante il posto di primario, svolge le mansioni corrispondenti per un tempo eccedente i sessanta giorni, ma eventualmente il comportamento dell’amministrazione che, dopo essersi avvalsa della facoltà concessa dalla norma in esame, mantiene l’assegnazione dell’aiuto alle mansioni superiori oltre il termine indicato. Perciò l’argo mento a fortiori applicato nelle ordinanze di rimessione è inconsistente: l’illeicità che, ai sensi dell’art. 2126, primo comma, cod. civ., priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro “non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” (cfr. Cass., sez. un., n. 1609 del 1976). Deve trattarsi, cioè, dell’illiceità in senso forte (illiceità della causa) prevista dall’art. 1343 cod. civ., non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418, primo comma, cod. civ.

Una illiceità in questo senso rigoroso non è ravvisabile nell’attività esercitata dall’aiuto o dall’assistente ospedaliero nei casi in questione: l’illegittimità dell’ordine di servizio in ottemperanza al quale essa si svolge, in quanto deriva dalla violazione di un limite temporale dettato dalla legge per ragioni che non attengono a principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento, non si riflette in un giudizio di illiceità della prestazione di lavoro.

Ciò, in definitiva, è implicitamente ammesso dagli stessi giudici remittenti; ché, altrimenti, la sollevata questione di costituzionalità avrebbe un contenuto contraddittorio, non essendo consentito di affermare in pari tempo, da un lato, che la norma denunciata esclude il diritto alla maggiorazione di retribuzione in ragione dell’illiceità dell’attività svolta dal prestatore di lavoro, dall’altro che la norma medesima, in quanto nega tale maggiorazione, contrasta con l’art. 36 Cost. L’art. 36 Cost., invero, presuppone la liceità del lavoro prestato.

4. -Il T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia obietta ulteriormente che la sent. n. 57 del 1989 si pone “in insanabile conflitto con l’obbligo di assunzione dei pubblici dipendenti tramite concorso pubblico, con quello di buon andamento della Pubblica Amministrazione e della riserva di legge relativa all’organizzazione dei pubblici uffici”. L’obiezione è fuori misura perché la Corte ha avuto cura di precisare che non può sorgere in favore dell’assistente o dell’aiuto ospedaliero il diritto al riconoscimento formale della qualifica superiore (rispettivamente di aiuto o di primario), alla quale si può accedere soltanto mediante le procedure previste dagli artt. 9 del D.P.R. n. 761 del 1979 e segg., restando perciò esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ. D’altra parte, nel protrarsi della vacanza del posto di primario, l’assegnazione provvisoria delle relative mansioni all’aiuto favorisce, non già ostacola, il buon andamento del servizio sanitario.

Inconferente è pure il rilievo della mancanza di un atto formale di preposizione alle funzioni superiori. Ai fini della qualificazione del rapporto di fatto tutelato dall’art. 2126 cod. civ. non è necessario un atto formale, ancorché illegittimo, di assegnazione a determinate mansioni, ma è sufficiente il semplice riscontro dell’effettivo svolgimento di esse in conformità di una disposizione impartita dall’organo amministrativo dell’ente pubblico nell’esercizio del suo potere direttivo.

5.-Deve pertanto essere confermata l’interpretazione accolta nella precedente sent. n. 57 del 1989, secondo cui l’art. 29, secondo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 si applica solo quando l’assegnazione temporanea a mansioni solare. Qualora il trasferimento a tali mansioni si protragga oltre questo termine, spetta al prestatore di lavoro, in via di applicazione diretta dell’art. 36, primo comma, Cost. sulla base dell’art. 2126, primo comma, cod. civ., il trattamento corrispondente all’attività svolta.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), sollevata, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Consiglio di Stato e dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, quinto e settimo comma (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) e dell’art. 29, terzo comma, del D.P.R. n. 761 del 1979 citato, sollevata dai giudici sopraddetti con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1990.


Cass. civ. Sez. I, 16-05-1990, n. 4274

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati

Dott. Giuseppe SCANZANO Presidente

” Nicola LIPARI Consigliere

” Angelo GRIECO “

” Antonio SAGGIO “

” Mario Rosario MORELLI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

GALLIVAGGI Attilio, elett. dom. in Roma, Viale delle Milizie n. 34, c-o l’avv. Sebastiano Ferlito, che lo rapp. e difende giusta delega in atti.

Ricorrente

contro

D’ASSIA Enrico, D’ASSIA Ottone

intimati

Avverso il provvedimento del Presidente della Corte di appello di Roma emesso in data 30.12.1987;

Udita la relazione svolta dal Cons. dott. Mario Rosario Morelli;

Udito per il ricorrente l’avv. Ferlito;

Udito il P.M. dott. Paolo Dettori, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione del 6 marzo 1980, Attilio Gallivaggi conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, Umberto di Savoia, Iolanda di Savoia in Calvi di Bergolo, Giovanna di Savoia, Maria di Savoia in Borbone Parma, Enrico, Maurizio, Ottone ed Elisabetta d’Assia, quale figli eredi di Mafalda di Savoia, per sentir dichiarare che Griggi Giuseppa, simulatamente registrata di maternità ignota, era figlia naturale della fu regina Margherita di Savoia, disponendosi conseguentemente la correzione degli atti dello stato civile riguardanti la Griggi, i suoi figli, ed in particolare Gallivaggi Rinaldo suo padre, e lui medesimo.

Con sentenze n. 4609 e n. 9896 del 1982, il Tribunale respingeva la domanda, ravvisandovi una istanza per dichiarazione giudiziale di maternità, non ritualmente introdotta ex art. 274 cod. civ.

Avverso dette decisioni interponeva appello il Gallivaggi.

Ed, anche ai fini di una eventuale attivazione della procedura di correzione ai sensi dell’art. 138 della legge sullo stato civile, chiedeva autorizzarsi la notificazione del gravame nella forma per pubblici proclami, stante la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i destinatari della domanda, non facilmente individuabili e reperibili, specie in relazione alla sopravvenuta morte dell’ex Re Umberto II.

Il giudice di secondo grado – inizialmente sospeso (a seguito di domanda di ricusazione proposta dall’appellante: sulla quale il

Collegio provvederà negativamente, con ordinanza che ha formato oggetto di separato ricorso per cassazione, n. 10725-87, anch’esso discusso all’odierna udienza) – veniva poi riassunto.

In quella sede, il Gallivaggi reiterava la richiesta di autorizzazione alla notifica del gravame nelle forme ex art. 150 c.p.c.

Ma il Presidente della Corte di Appello la respingeva, con decreto del 30 dicembre 1987, con cui assegnava all’appellante termine per la notifica dell’atto nelle forme ordinarie.

Avverso detto provvedimento ricorre ora per cassazione il Gallivaggi.

Gli intimati (Enrico ed Ottone d’Assia) non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Il ricorso – con il cui unico mezzo si critica il Presidente della Corte d’Appello per non aver autorizzato la chiesta notifica per pubblico proclami dell’appello, non ostante la pliralità e la difficile reperibilità dei suoi destinatari – è inammissibile.

Ed invero – a prescindere dalla considerazione che una siffatta censura, in ordine all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito (quale è appunto quello relativo all’autorizzazione del peculiare procedimento di notifica, ai sensi dell’art. 150 c.p.c.) non pare riconducibile ad alcuna delle tipologie di vizi sub art. 360 c.p.c. – va esclusa, in radice, la stessa ricorribilità del decreto impugnato.

Il quale ha, all’evidenza, funzione meramente ordinatoria e strumentale ed è privo quindi, dell’efficacia decisoria, che autorizza la proposizione del rimedio straordinario ex art. 111 Cost.

Sarà dunque solo avverso la sentenza emanando (nel giudizio di secondo grado) che il Gallivaggi potrà rivolgere le proprie doglianze, anche in ordine alle eventuali statuizioni sulla ritualità del contraddittorio, che dovessero risultare viziate (sotto alcuno dei profili contemplati dall’art. 360 c.p.c.) e per lui pregiudizievoli.

Nulla va disposto in ordine alle spese, in assenza di controparti costituite.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 30 gennaio 1989.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 MAGGIO 1990.


Corte cost., (ud. 09-02-1989) 23-02-1989, n. 57

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo comma, seconda parte, e secondo e terzo comma (Stato giuridico del personale delle Unità sanitarie locali), promosso con ordinanza emessa il 19 ottobre 1987 dal T.A.R. per la Sicilia – Sezione di Catania – sul ricorso proposto da Lo Bello Giuseppe contro l’Ente Ospedaliero Provinciale specializzato “Istituto di Oncologia S. Curro” di Catania, iscritta al n. 435 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1988.

Visto l’atto di costituzione di Lo Bello Giuseppe nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 25 gennaio 1989 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Il primo e il terzo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, sullo stato giuridico del personale delle U.S.L., sono manifestamente estranei alla materia del giudizio “a quo”, onde per queste norme la sollevata questione di legittimità costituzionale appare priva di rilevanza e perciò inammissibile. Il primo comma preclude la pretesa, in effetti non avanzata dal ricorrente, del riconoscimento formale della qualifica di aiuto radiologo (cui si può accedere soltanto mediante le procedure previste dagli artt. 9 e segg., restando così esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ.), non anche la pretesa del trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori di fatto svolte. Il terzo comma concerne il caso di brevi assenze del titolare di una posizione funzionale più elevata, dovute a malattia, ferie, congedi, missioni e simili, caso ben diverso dalla supplenza di un posto vacante.

2. – Ai fini della decisione del giudizio “a quo” può venire in considerazione soltanto il secondo comma dell’art. 29, in quanto interpretato, come intende il giudice remittente, quale norma preclusiva del diritto del ricorrente a un compenso differenziale per le mansioni superiori cui di fatto e stato assegnato, indipendentemente dalla durata dell’assegnazione. Ma tale interpretazione, secondo cui la norma in esame avrebbe innovato “in peius” per i prestatori di lavoro rispetto alla regola precedente dell’art. 45, ultimo comma, dell’accordo nazionale 17 febbraio 1979, non è sostenibile. Come questa Corte ha già avuto occasione di avvertire (ord. n. 908 del 1988), il secondo comma dell’art. 29, essendo norma eccezionale, deve essere interpretato rigorosamente nel senso che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di servizio non dà diritto a variazioni del trattamento economico (cioè rientra nei doveri d’ufficio del sanitario) solo entro il limite temporale massimo ivi indicato (non applicabile al caso controverso, per il quale vale il limite di trenta giorni prescritto dalla precedente disciplina collettiva), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato.

L’accoglimento della domanda del ricorrente nel giudizio di merito non è ostacolato dall’art. 29, secondo comma, nemmeno sotto il profilo del difetto di un provvedimento formale di assegnazione interinale alle mansioni inerenti al posto vacante di aiuto. La mancanza di questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di cui all’art 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle Unità sanitarie locali), sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 citato, primo e terzo comma, sollevata dal nominato Tribunale amministrativo con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta il 9 febbraio 1989.