Corte cost., Sent., (data ud. 12/10/1988) 14/10/1988, n. 971

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 236 delle norme della Regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana) a) e art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza emessa l’8 novembre 1985 dal TAR per la Sicilia Sez. di Catania sul ricorso proposto da Iuvara Vincenzo contro Comune di Ispica, iscritta al n. 248 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 1988;

Udito nella Camera di Consiglio del 12 ottobre 1988 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino;

Svolgimento del processo
1. – Con ordinanza dell’8 novembre 1985 pervenuta addì 18 maggio 1988 (R.O. n. 248/88) il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia – Sezione di Catania – rimetteva a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 236 in allegato al decreto legislativo presidenziale (della Regione siciliana) 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana) e dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato).

In punto di fatto, Iuvara Vincenzo, dipendente del Comune di Ispica, destituito “di diritto”, in forza delle precitate disposizioni, senza cioè procedimento disciplinare di sorta poiché già irrevocabilmente condannato in sede penale per il reato di peculato (art. 314 c.p.), aveva ricorso avverso il provvedimento deliberato dalla Giunta municipale.

2. – Il Collegio remittente sospetta di illegittimità costituzionale la normativa indicata che inciderebbe sul disposto dell’art. 3 Cost., per la irragionevolezza di una disciplina rigida, che contrasta col “principio generale di graduazione della sanzione alla gravità del fatto-reato”. Risulterebbero incisi anche i successivi artt. 4 e 35, poiché il provvedimento produrrebbe senz’altro “l’effetto della perdita del lavoro”, nonché, ancora, l’art. 97, impedendosi – si assume – “l’azione amministrativa adeguata”.

Motivi della decisione
1.1 – L’art. 85 lett. a) del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), direttamente applicabile ai dipendenti degli enti locali della Sicilia per effetto dell’art. 236 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana (D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6) dispone che l’impiegato incorre nella destituzione, escluso il procedimento disciplinare, a seguito di condanna per taluni delitti specificamente elencati, fra cui il peculato, così come dedotto in fattispecie.

1.2 – Il Collegio remittente dubita della legittimità costituzionale di tale normativa per la rigidità della massima sanzione espulsiva, senza cioè che attraverso il procedimento disciplinare sia possibile operare, nella misura della sanzione, alcuna graduazione riferita al caso concreto: in tal modo verrebbero a esser vulnerati, oltre la tutela del lavoro (artt. 4 e 35) e del buon andamento amministrativo (art. 97), i principi fondamentali di ragionevolezza chiaramente desumibili dall’art. 3 Cost.

2.1 – La questione è fondata.

La Corte ha già avuto modo di considerare, per identiche fattispecie, come l’ordinamento appaia vieppiù orientato, oggi, verso la esclusione di sanzioni rigide, avulse da un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto ed ha osservato esser ciò largamente tendenziale – in adempimento del principio di eguaglianza – nell’area punitiva penale e con identica incidenza anche nel campo disciplinare amministrativo (sent. n. 270 del 1986).

La necessità di razionalizzare il sistema, in atto stemperato nell’indistinto poiché diverse e difformi in parte le corrispondenti norme contenute nei vari ordinamenti per i pubblici dipendenti, rivelava, tuttavia, che i rimedi esaustivi andavano assunti dal Parlamento, dovendosi operare scelte globali a fini di omogeneizzazione, in punto, dell’intero comparto pubblico.

2.2 – Nuovamente investita della questione la Corte deve tener conto che, in conformità alle premesse affermazioni, un recente disegno di legge, volto a modificare talune norme del codice penale in materia di circostanze attenuanti e di sospensione condizionale della pena, contiene disposizioni in ordine all’oggetto dell’odierna fattispecie, diretta a rendere inoperante, infatti, la destituzione di diritto limitatamente ai casi di sospensione condizionale. Non rileva qui esame di sorta sui limiti subiettivi cui il legislatore intenderebbe circoscrivere – ma comunque mantenere – la menzionata sanzione rigida; va favorevolmente considerato, tuttavia, che si intende comunque perseguire, nella sede legislativa, la riferibilità univoca a tutti i pubblici dipendenti.

Sicché appare di certo tendenzialmente concretato quell’intento di adeguamento delle scelte ai criteri di omogeneizzazione emergenti dalla legge-quadro sul pubblico impiego (29 marzo 1983, n. 93) che operato da un ramo del Parlamento (il disegno ha ottenuto il voto della Camera e trovasi ora presso il Senato: doc. n. 1239) consente ora alla Corte – che ne aveva chiaramente avvertita la pressante esigenza – di dispiegare, senz’ulteriori remore, la propria verifica.

3. – L’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa – adunque – che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.

Assorbita ogni altra questione, va dichiarata pertanto l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e dell’art. 236 delle norme per gli enti locali nella Regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955 n. 6, nella parte in cui in luogo del mero provvedimento di destituzione di diritto non prevedono l’esperimento del procedimento disciplinare.

In conseguenza di quanto sin qui considerato e in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87 va dichiarata, negli stessi termini, l’illegittimità costituzionale dell’art. 247 r.d. 3 marzo 1934, n. 383, nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n. 851; dell’art. 66 lett. a) D.P.R. 15 dicembre 1969, n. 1229; dell’art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157 (in relazione all’art. 85, lett. a), D.P.R. n. 3 del 1957); dell’art. 57 lett. a) D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; dell’art. 8 lett. a) D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, tutti specificati in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 lett. a) D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato) e dell’art. 236 delle norme della regione siciliana di cui al D.Lgs.P.Reg. 29 ottobre 1955, n. 6 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana), nella parte in cui non prevedono, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare;

Dichiara, in applicazione dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87, e negli stessi termini di cui al precedente punto, l’illegittimità costituzionale degli articoli:

247 r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (T.U. legge comunale e provinciale), nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n. 851;

66 lett. a) D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari);

1, comma secondo, L. 13 maggio 1975, n. 157 (estensione delle norme dello Statuto degli impiegati civili dello Stato agli operai dello Stato);

57 lett. a) D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali);

8 lett. a) D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737D.P.R. 25/10/1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti).

Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 1988.

 


Corte cost., Ord., (ud. 07-07-1988) 26-07-1988, n. 908

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo secondo e terzo comma (Stato giuridico del personale delle unita sanitarie locali), promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1987 dal T.A.R. per la Sicilia – Sezione di Catania – sul ricorso proposto da MINEO Biagio contro la U.S.L. n. 39, iscritta al n. 604 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46/la ss dell’anno 1987;

visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 22 giugno 1988 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che nel corso del giudizio promosso dal dr. Mineo Biagio contro l’USL n. 39 di Bronte per l’annullamento della delibera del Comitato di gestione n. 406 del 1984 con cui gli sono state assegnate le mansioni superiori di aiuto radiologo per la durata di sessanta giorni senza diritto al corrispondente trattamento economico ai sensi dell’art. 29, secondo comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con ordinanza del 27 gennaio 1987, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, primo secondo e terzo comma, in riferimento agli artt. 3, 36 e 97 Cost.;

che al dr. Mineo, in servizio con la qualifica di assistente radiologo presso il presidio Ospedaliero “Castiglione – Prestianni” di Bronte, nel cui organico non e previsto il posto di aiuto, le dette mansioni erano già state affidate dal Presidente dell’Ospedale con nota 2591 del 6 agosto 1982, “al fine di garantire continuità, direzione e responsabilità” del servizio, in attesa dell’espletamento del concorso per il posto di primario; che in esito alla domanda del dipendente, in data 15 giugno 1984, rivolta ad ottenere la corresponsione del trattamento corrispondente alle mansioni superiori effettivamente svolte, il Comitato di gestione, “in considerazione delle esigenze di servizio”, ha adottato la delibera sopra riferita, contro la quale l’interessato ha proposto ricorso davanti al Tribunale amministrativo;

che il Tribunale, pur ritenendo illegittima la delibera impugnata per difetto di logica correlazione con l’oggetto della domanda, ha soprasseduto alla pronuncia di annullamento, sul riflesso che essa “lascerebbe la situazione nei termini presistenti”, e quindi sarebbe “”inutiliter” data”, in quanto l’accoglimento della domanda di avanzamento del dipendente e precluso dal primo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, a mente del quale egli “non può essere assegnato, neppure di fatto, a mansioni superiori o inferiori”, e, d’altro lato, non soccorrono ne il secondo comma, che per esigenze di servizio consente l’assegnazione temporanea a mansioni superiori per non più di sessanta giorni, senza diritto a variazioni del trattamento economico, ne il terzo comma (coordinato con l’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969, quinto e settimo comma), secondo cui “non costituisce esercizio di mansioni superiori la sostituzione di personale di posizione funzionale più elevata, qualora la sostituzione rientri tra gli ordinari compiti della propria posizione funzionale”;

che le citate disposizioni dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 sembrano al giudice remittente essere in contrasto con più norme della Costituzione: il primo comma con l’art. 97, perché “laddove non consente, nemmeno in via di fatto, l’adibizione del personale a mansioni superiori, confligge con le esigenze di ordine organizzativo, e pertanto col principio di buon andamento dell’amministrazione”; il secondo comma, “e di riflesso il terzo comma”, con gli artt. 3 e 36 Cost., perché a mansioni disuguali fa corrispondere uguale retribuzione, risultandone un diverso trattamento del personale addetto al servizio sanitario rispetto a quello di altri rami del pubblico impiego (per esempio, l’art. 14 del D.P.R. n. 509 del 1979 per il personale del parastato);

che nel giudizio davanti alla Corte non si è costituita la parte privata, mentre è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, domandando “che la questione in epigrafe sia dichiarata inammissibile o comunque infondata”;

che, per quanto attiene all’ammissibilità, l’Avvocatura osserva che la censura mossa dal giudice a quo riguarda più l’opportunità che la legittimità dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, del quale si chiede alla Corte una riformulazione “meno rigida e più articolata”, mentre nel merito nessuna norma costituzionale appare violata: non gli artt. 3 e 36 Cost., perché lo svolgimento temporaneo di mansioni superiori per esigenze di servizio rientra nei normali doveri di ufficio di tutti i sanitari, e d’altra parte e esclusa la comparabilità con la disciplina del personale del parastato, “trattandosi di ordinamenti e di funzioni profondamente diversificati”; non l’art. 97 Cost., “atteso che e proprio nel l’interesse del buon andamento dei servizi che il legislatore, per quanto possibile, esclude che l’esercizio delle mansioni superiori possa condurre ad ottenere superiore qualifica”.

Considerato che il primo e il terzo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979 sono estranei al caso di specie: il primo comma, perché il ricorrente ha in sostanza abbandonato l’originaria pretesa di riconoscimento formale della qualifica di aiuto radiologo (non essendo nella pianta organica istituito il posto corrispondente, e comunque l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. essendo impedita dalla disciplina speciale di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 761 del 1979 e segg.) e si è limitato a domandare un trattamento retributivo proporzionato alle mansioni effettivamente svolte; il terzo comma perché concernente un caso diverso da quello di cui si controverte; onde, rispetto a queste due norme, la sollevata questione di costituzionalità appare senz’altro priva di rilevanza, e perciò inammissibile;

che la pretesa del ricorrente, essendo fondata sull’argomento che nel suo caso “si versa in ipotesi diversa da quella contemplata nel secondo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979”, implica che il detto trattamento economico e domandato con riferimento alla durata dell’incarico eccedente il periodo, non superiore a sessanta giorni nell’anno, per il quale l’assegnazione del prestatore di lavoro a mansioni superiori, senza maggiorazione di retribuzione, risulti giustificata da esigenze eccezionali di servizio;

che, pertanto, nemmeno il secondo comma dell’art. 29 del D.P.R. n. 761 del 1979, nella parte in cui esclude il diritto a variazioni del trattamento economico, e applicabile nella specie, così che, pure sotto questo profilo, la proposta questione di legittimità costituzionale non e rilevante: invero, l’eccezionalità della norma impone una interpretazione rigorosa del secondo comma, nel senso che l’assegnazione a mansioni superiori senza maggiorazione retributiva e consentita solo se giustificata dalla condizione indicata e contenuta nel detto limite massimo di tempo, trascorso il quale cessa l’efficacia del provvedimento, e quindi la prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost., direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato.

Visti l’art. 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e l’art. 9 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, primo secondo e terzo comma (“Stato giuridico del personale delle unita sanitarie locali”) sollevata, in riferimento agli artt. 3. 36 e 97 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, Sezione di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1988.


Corte cost., Ord., 29-10-1987, n. 355

Corte cost., Ord., 29-10-1987, n. 355

CORTE COSTITUZIONALE

Eccezioni di legittimità costituzionale (giudizio sulla rilevanza)

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 169 del codice di procedura penale, commi primo e quinto, promosso con ordinanza emessa il 24 marzo 1980 dal Pretore di Piacenza, iscritta al n. 425 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 194 dell’anno 1980.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 30 settembre 1987 il Giudice relatore Giovanni Conso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che il Pretore di Piacenza, con ordinanza del 24 marzo 1980, ha denunciato, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, l’illegittimità dell’art. 169 c.p.p., primo e quinto comma, in quanto “le notifiche – come quella “de qua” – basate sul principio del rifiuto tacito a ricevere la raccomandata da parte dell’imputato assente dalla sua abitazione, contrastano in modo evidente con l’essenzialità della ricezione reale dell’avviso raccomandato in questione)”, ricollegandosi a tale premessa “la conseguenza di reputare come perfezionativo della notifica 6o” il solo periodo di giacenza” ovvero “assieme a quello l’avviso di giacenza”, “secondo quanto prescritto dalle norme dell’ordinamento postale”;

e che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

considerato che, dopo la pronuncia dell’ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), il cui art. 15 ha sostituito il terzo ed il quinto comma del codice di procedura penale, che risultano ora, rispettivamente, del seguente tenore: “Il portiere o chi ne fa le veci deve sottoscrivere l’originale dell’atto notificato, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata” ( art. 169, terzo comma, del codice di procedura penale); “Se le persone indicate nella prima parte di questo articolo mancano o non sono idonee o si rifiutano di ricevere la copia dell’atto destinato all’imputato, questa è depositata nella casa del comune dove l’imputato ha l’abitazione o, in mancanza di questa, del comune dove egli abitualmente esercita la sua attività professionale. Avviso del deposito stesso è affisso alla porta della casa di abitazione dell’imputato ovvero alla porta del luogo dove egli abitualmente esercita la sua attività professionale. L’ufficiale giudiziario deve, inoltre, dare all’imputato comunicazione dell’avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata” ( art. 169, quinto comma, del codice di procedura penale);

e che, quindi, spetta al giudice a quo verificare se, alla stregua della normativa sopravvenuta, la questione sollevata sia tuttora rilevante.

P.Q.M.

La Corte Costituzionale

ordina la restituzione degli atti al Pretore di Piacenza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 ottobre 1987.


Cass. civ. Sez. lavoro, 21-08-1987, n. 6994

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Carlo NOCELLA Presidente

” Giorgio ONNIS Consigliere

” Domenico FARINARO “

” Romano PANZARANI “

” Fulvio ALIBERTI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MONTAGNANA Flaviana, MALASPINA Luciana, BARALDI Gloria, TOSI Luisa, TINTI Paolina, MONTAGNANA Valeria, RACCANELLI Deanna, FERRACIOLI Luciana, NANNINI Mirella, OLTRAMARI Fabio, TIOLI Liliana, LAMBORGHINI Roberta, elett.te dom.ti in Roma Via Montezebio, 43 presso lo studio dell’avv. Ettore Visciani, rapp.ti e difesi dall’avv. Mario Bacchiega per mandato a margine del ricorso

Ricorrenti

contro

DITTA BODAMER di Malek Mor, in persona del legale rapp.te pro-tempore, elett.te dom.ta in Roma Via G.B. Vico, 1 presso lo studio dell’avv. Mario Cassola che la rapp.ta e difende unitamente all’avv. Piero Gualtierotti come da mandato in calce al controricorso

Controricorrente

Per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Rovigo dell’1.10.82, dep. il 16.11.82 n. 620-82;

udita, nella pubblica del 3.2.87, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dr. Aliberti;

udito l’avv. Cassola;

udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Tridico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Montagnana Flaviana, Malaspina Luciana, Baraldi Gloria, Tosi Luisa, Tinti Paolina, Montagnana Valeria, Raccanelli Deanna, Ferraccioli Luciana, Nannini Mirella, Oltremari Fabio. Titoli Liliana, Lamborghini Roberta adivano con separati ricorsi il Pretore di Ficarolo con il quale chiedevano la condanna di Malek Mor al pagamento di somme di danaro in loro favore a titolo di integrazione salariale.

Il Pretore dichiarava la contumacia del Malek, cui i ricorsi erano stati notificati ex art. 143 c.p.c.; riuniva, poi, tutti i procedimenti.

Quindi il Pretore con sentenza 13.7-10.8.81 condannava IL Malek al pagamento delle somme indicate in sentenza.

Proponeva appello il Malek, cui resistevano le appellate. Il Tribunale di Rovigo, con sentenza 1.10-16.11.1982, accoglieva l’appello e dichiarava la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di I° grado nonché della sentenza impugnata. Rimetteva la causa al primo giudice.

Osservava che l’ufficiale giudiziario e la parte istante devono compiere tutte le possibili indagini al fine della ricerca dell’effettiva residenza del destinatario e l’ufficiale giudiziario deve, altresì, documentare la natura e l’esito di tali indagini nella relazione di notificazione, al fine di fornire al giudice gli elementi utili per il controllo sulla legittimità del ricorso alla forma di notifica di cui all’art. 143 c.p.c. Rilevato che dalla relazione di notificazione non emergeva la esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek e che tali indagini non emergevano da altri atti di causa, riteneva che tale osservazione già di per sé sola sarebbe stata sufficiente per giungere alla conclusione della nullità della notificazione, ma che esigenze di completa esposizione dei fatti imponevano un ulteriore rilievo: da certificato 4.3.1982 del Comune di Bergantino, prodotto dal procuratore dell’appellante, risultava che in data 20.6.1979 il Malek aveva dichiarato di trasferire la propria residenza da quel Comune e che il nuovo domicilio era in Vienna; osservava che con la normale diligenza l’ufficiale giudiziario o le istanti avrebbero potuto conoscere l’esatto indirizzo del Malek e notificare i ricorsi con le procedure previste per i soggetti residenti all’estero ed ovviamente in caso di esito negativo di tale ulteriore indagine sarebbe stato lecito effettuare la notificazione ex art. 143 c.p.c. Riteneva, poi, che dall’accertata nullità della notificazione dei ricorsi introduttivi derivava anche la nullità dei procedimenti di I° grado, nonché dell’impugnata decisione, né tale nullità era coperta da giudicato dal momento che anche la notificazione della sentenza del Pretore era avvenuta facendo ricorso alla forma indicata dallo art. 143 c.p.c., non applicabile nel caso in esame.

I nominati in epigrafe ricorrono avverso detta sentenza formulando due motivi. Il Malek resiste con controricorso.

Motivi della decisione
I ricorrenti con il I° motivo (indicando con la lettera A) denunziano violazione ed omessa applicazione di norme di diritto, deducendo che l’appello avverso la sentenza pretorile non era stato proposto nei 30 giorni successivi alla notifica della medesima, per cui l’appello era inammissibile. L’appellante aveva eccepito solo la nullità della notificazione del ricorso introduttivo di I° grado, ma non quella della notificazione della sentenza: il Collegio avrebbe dovuto esaminare pregiudizialmente la questione inerente la validità dell’appello; tale questione era stata ignorata dal Tribunale.

Con il 2° motivo (lettera B) denunziano falsa applicazione della legge sulla notificazione (L. 6.4.1981, n. 42).

Deducono che la notificazione del ricorso era avvenuta ai sensi dell’art. 143 c.p.c. perché Malek Mor risultava all’epoca emigrato o trasferito a Vienna senza indicazione alcuna di un indirizzo costituente residenza, dimora o domicilio.

Rilevano, poi, che, all’epoca vigeva l’art. 142 c.p.c., modificato dalla L. 6.2.1981, artt. 8 e 9, ma che non poteva essere applicata tale norma non essendo conosciuto l’indirizzo del destinatario; spettava a chi si trasferisce l’onere di lasciare il proprio esatto indirizzo ai fini della propria reperibilità, né si poteva invocare la normale diligenza dei ricorrenti o dell’ufficiale giudiziario per l’esecuzione di altre indagini essendo irrilevanti all’estero i poteri riconosciuti agli ufficiali giudiziari. Deducono, poi, che l’art. 160 c.p.c. non prevede, tra le nullità indicate, la nullità come conseguenza di mancanza di “normale diligenza” nelle indagini.

La Corte rileva che va, anzitutto, esaminata quanto prospettato dal resistente con riferimento allo art. 329 c.p.c. Assume il predetto che i ricorrenti avrebbero riproposto al Pretore di Ficarolo la domanda dallo stesso precedentemente accolta ed avrebbero richiamato nel ricorso la sentenza del Tribunale di Rovigo precisando che con la stessa era stata dichiarata la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di I° grado nonché della sentenza, con riemissione della causa al medesimo Pretore di Ficarolo.

La Corte rileva che agli effetti della valutazione in tema di acquiescenza ex art. 329 c.p.c. è indispensabile l’esame dell’atto con il quale sarebbe stato adito il Pretore di Ficarolo a seguito della sentenza del Tribunale di Rovigo in quanto solo dal ricorso è dato cogliere quanto interessa ai fini “de quibus”. Ma nel fascicolo del resistente non esiste copia di tale ricorso: quindi dalle deduzioni del resistente non possono essere tratte le conseguenze derivanti dall’applicazione del citato art. 329.

Passando all’esame del ricorso, la Corte osserva che i due motivi vanno esaminati congiuntamente, stante la loro evidente connessione, Rileva, quindi, che il tema in discussione è se le notificazioni a Malek Mor siano avvenute ricorrendo le condizioni che legittimano il ricorso alla forma prevista dall’art. 143 c.p.c. Il Tribunale di Rovigo ha rilevato “che dalle relazioni di notificazione di cui si discute non emerge affatto l’esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek, né tali indagini emergono da altri atti di causa”.

Orbene è evidente che mancava l’accertamento delle condizioni per ricorrere alla formula di notifica in questione, che era necessario in quanto non è sufficiente che l’ufficiale giudiziario o il richiedente non conoscano i luoghi (dimora, residenza o domicilio), occorrendo invece che l’ufficiale giudiziario compia tutte le possibili indagini volte alla ricerca del destinatario, documentando il relativo risultato (nella notifica) di guisa possa essere espletato il controllo sulla legittimità della forma di notificazione adottata.

Il rilievo di tale carenza è già sufficiente per affermare che la notifica ex art. 143 c.p.c. non poteva essere adottata nella fattispecie, con la conseguenza della nullità delle notificazioni stesse.

Il Tribunale ha anche osservato che le istanti o l’ufficiale giudiziario avrebbero potuto usare la normale diligenza (ovvero consultare gli atti dell’anagrafe di Bergantino) ed avrebbero così conosciuto il nuovo comune di residenza del Malek, per cui occorreva eseguire altre indagini al fine di conoscere l’esatto indirizzo.

La Corte osserva che nel ricorso non viene dedotto che siano state svolte, in concreto indagini e che esse, malgrado la normale diligenza impiegatavi, non abbiano dato esito (delle deduzioni appare che, in sostanza, non è ritenuto utilizzabile il criterio della normale diligenza per poter conoscere l’esatto indirizzo di una persona non residente nella Repubblica: non appare, però, idonea deduzione o dimostrazione perché a priori debba ritenersi che sempre ed in concreto è impossibile tale conoscenza).

Non appaiono, quindi, utili le deduzioni dei ricorrenti (né il richiamo alla sentenza 1201-81 di questa Corte) con le quali, in buona sostanza, si assume che poteva essere adottata che la forma di notificazione ex art. 143 c.p.c. stante la mancanza dello indirizzo del Malek a Vienna. Tali considerazioni non superano il rilievo che non appare provato che tale (completo) indirizzo non avrebbe potuto in concreto essere conosciuto con l’uso di normale diligenza.

In ordine alla deduzione secondo cui la mancanza della “normale diligenza” nelle indagini non è prevista come causa di nullità della notificazione, è agevole osservare che tale carenza comporta il venir meno delle condizioni per l’applicabilità della forma di cui all’art. 143 c.p.c.: il che inficia l’eseguita notificazione.

Alla nullità della notificazione del ricorso di I° grado consegue quella del procedimento e della sentenza di I° grado per il principio dell’estensione della nullità, essendo evidente che questi non sono indipendenti da quella. Va rilevato inoltre che il Malek ha dedotto che neppure era a conoscenza dell’avvenuta notifica che la inficiava di nullità e che l’aveva impugnata nel momento in cui ne era venuto a conoscenza e comunque entro l’anno dalla pubblicazione.

Il ricorso va, quindi, rigettato.

Concorrono giusti motivi per la totale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 1987.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 AGOSTO 1987


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. III, 02-12-1985, n. 5636

NOTIFICAZIONE (MATERIA CIVILE) – Relazione di notifica – Copia consegnata al destinatario – Omessa indicazione della data – Conseguenze – Distinzioni

Cass. civ. Sez. III, 02-12-1985 n. 5636


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Civ., n. 3316 del 14.05.1983

Quando la notificazione di un atto di citazione a militare in servizio non è eseguita in mani proprie, osservate le disposizioni di cui agli art. 139 segg. c.p.c., la formalità della consegna di una copia al p. m. per l’invio al comandante del corpo al quale il militare appartiene, secondo le modalità stabilite nell’art. 49 disp. att. c.p.c., espressamente richieste dal successivo art. 146 c.p.c. costituisce un adempimento necessario, la cui omissione importa la nullità della notificazione, senza che sia consentita alcuna distinzione fra militari di carriera e militari in servizio di leva o richiamati alle armi ed indipendentemente dalla conoscenza che di tale particolare stato abbia potuto avere colui su istanza del quale la notifica viene effettuata; tale adempimento è infatti, posto a tutela del destinatario della notificazione, in considerazione degli imprevedibili, improvvisi e più frequenti spostamenti a cui possono essere soggetti gli appartenenti ai corpi militari, indipendentemente dalla circostanza che essi siano o meno militari di carriera, le cui destinazioni debbono talvolta essere mantenute segrete per motivi di sicurezza connessi alla più efficiente realizzazione dei compiti loro affidati.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9363/2014 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso l’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNAMARIA RAMIREZ, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso l’avvocato ANDREA DEL VECCHIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CLAUDIO FERRARI, RACHELE GERVASONI, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 324/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 05/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato DANIELE MANCA BITTI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato CLAUDIO FERRARI che ha chiesto l’inammissibilità o rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del primo motivo; inammissibilità dei motivi secondo e terzo.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 1 luglio 2003, B.G., coniugato con M.F., chiedeva che il Tribunale di Brescia pronunciasse sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, vivendo egli separato dalla moglie fin da epoca anteriore alla separazione giudiziale, per la quale era intervenuta pronuncia della Corte di appello di Brescia in data 23 ottobre 2002; domandava l’assegnazione in proprio favore della casa coniugale e la revoca o, in subordine, la riduzione a somma non superiore a Euro 1.000,00 mensili dell’assegno per il concorso nel mantenimento della moglie: assegno che era stato fissato in sede di separazione nell’ammontare di Euro 2.582,30.
Si costituiva M.F., rimettendosi alla decisione del Tribunale per quanto riguardava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. In relazione alla domanda di riduzione dell’assegno di mantenimento assumeva che non si era verificato un mutamento, in senso peggiorativo, delle condizioni patrimoniali del marito a far data dalla pronuncia di separazione, nè alcuna modificazione, in termini migliorativi, di quelle di essa convenuta, che era casalinga priva di redditi propri.
Il Tribunale rendeva sentenza non definitiva con cui dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio e, con successiva pronuncia, determinava in Euro 8.000,00 mensili l’assegno di mantenimento a carico di B.;
condannava l’attore alla restituzione della somma di Euro 88.055,00, maggiorata degli interessi, importo che affermava dovesse essere rimborsato alla convenuta, essendo stato prelevato dal conto corrente a lei intestato; condannava infine lo stesso B. al pagamento della somma di 71.084,44, oltre interessi, quale quota dell’indennità di fine rapporto percepita dal marito, giusta la L. n. 898 del 1970, art. 12 bis.
Proposto gravame da parte di entrambi gli odierni contendenti, la Corte di appello di Brescia, con sentenza depositata il 5 marzo 2014, quantificava l’assegno che B.G. doveva corrispondere a M.F. in ragione di Euro 6.000,00 mensili, da rivalutarsi annualmente, e stabiliva che l’obbligo avesse decorrenza dal 18 settembre 2003; determinava, poi, la somma che B. avrebbe dovuto versare quale quota del trattamento di fine rapporto in Euro 47.389,62;
la stessa Corte respingeva infine l’appello incidentale di M.F..
B.G. ricorre contro la sentenza della Corte bresciana con una impugnazione che si articola in tre motivi.
Resiste con controricorso M.F..
Motivi della decisione
È anzitutto non concludente l’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, sollevata dalla controricorrente. Infatti, il ricorso scrutinato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, deve essere comunque rigettato per manifesta infondatezza, e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla (Cass. S.U. 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. 18 marzo 2016, n. 5442).
Le restanti eccezioni di inammissibilità – con cui è lamentata la carente autosufficienza del ricorso e il dirigersi di questo verso una censura dell’accertamento di fatto demandato al giudice del merito – prospettano vizi che investono l’atto di impugnazione nella sua interezza: ma è escluso che il ricorso proposto sia totalmente privo della necessaria autosufficienza, così come deve negarsi che lo stesso veicoli solo censure che investono l’accertamento di fatto posto in essere nei precedenti gradi del giudizio. Il problema dell’inammissibilità può porsi, semmai, con riferimento ai singoli motivi: deve infatti escludersi che il ricorso possa essere dichiarato in toto inammissibile, ove la mancanza di autosufficienza sia propria solo di uno o di alcuni dei motivi proposti (Cass. S.U. 5 luglio 2013, n. 16887); allo stesso modo, è il singolo motivo e non il ricorso a poter risultare inammissibile in quanto miri a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte (di inammissibilità del motivo, in tale ipotesi, parla Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
Si procede, dunque, allo scrutinio delle singole censure.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 40 c.p.c., commi 2 e 3, e ciò avendo riguardo alla ritenuta tardività e infondatezza dell’eccezione dell’appellante vertente sulla inammissibilità della domanda di restituzione della somma di 88.055,00 proposta dalla controparte.
L’istante rileva, in proposito, che ricorreva un’ipotesi di connessione tra cause soggette a riti diversi, non rientrante tra le ipotesi tassative di cui all’art. 40 c.p.c., comma 3, sicché le parti e il giudice non potevano legittimamente derogare alle norme processuali che imponevano, per la trattazione della causa avente ad oggetto il rimborso, il rito ordinario. In conseguenza l’eccezione di inammissibilità della domanda restitutoria ben poteva essere proposta per la prima volta in fase di appello. Non aveva poi fondamento l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la necessità che l’eccezione spiegata dal ricorrente fosse supportata dalla rappresentazione del pregiudizio da lui risentito a causa della trattazione della domanda col rito speciale.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata si basa su di una doppia ratio decidendi: per un verso B. aveva accettato il contraddittorio sulla domanda di restituzione, onde aveva prestato acquiescenza allo spostamento di competenza; per altro verso, nella fattispecie non vi poteva comunque essere regressione del giudizio in primo grado, essendo tassative le ipotesi previste, a tal fine, dall’art. 354 c.p.c.: la Corte di appello ha quindi ritenuto di poter esaminare nel merito la domanda, ma ha osservato che l’odierno ricorrente, con riferimento allo specifico oggetto della pretesa azionata, non aveva dedotto alcunché.
Entrambe le argomentazioni spese dalla Corte distrettuale sono corrette, anche se la prima ha naturalmente valore assorbente. Al riguardo, come questa Corte ha avuto modo di rilevare, proposta nei confronti del coniuge, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito camerale, una domanda di restituzione di somme di danaro o di beni mobili al di fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell’art. 40 c.p.c., comma 3, la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40, comma 2, di talché essa non può essere rilevata d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità della domanda di restituzione, esaminata e decisa nel merito in primo grado (Cass. 24 aprile 2007, n. 9915). Ebbene, nella fattispecie, come è stato osservato dalla Corte territoriale, nessuna eccezione fu sollevata in primo grado con riguardo alla ritenuta connessione.
È poi appena il caso di ribadire come anche la seconda ratio decidendi sia corretta. Infatti, la nullità conseguente all’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale si converte in motivo di impugnazione, senza però produrre l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice
ove quello dell’impugnazione sia anche giudice del merito (da ultimo: Cass. 18 giugno 2014, n. 13907).
Giustamente, pertanto, la Corte distrettuale ha preso in esame il merito della pretesa, per poi riconoscere che la stessa non era stata contrastata dal ricorrente.
Il secondo motivo lamenta l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., con conseguente violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5.
Anzitutto l’istante prospetta dubbi di costituzionalità quanto al criterio del “medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” cui fa riferimento lo stesso art. 5: e ciò avendo riguardo a un’interpretazione costante, secondo la quale l’assegno predetto dovrebbe appunto garantire al coniuge economicamente più debole il detto tenore di vita. Deduce, poi, che la Corte di merito non avrebbe fatto corretta applicazione delle norme che presiedono alla valutazione degli elementi istruttori: e ciò con riferimento, anzitutto, al comportamento tenuto dalla controricorrente in costanza del matrimonio (essendosi M.F. gradualmente distaccata dalla famiglia a causa dell’adesione un gruppo religioso: condotta che era stata del resto presa in considerazione nel corso del giudizio di separazione); l’istante sottolinea, in proposito, che avendo la controparte posto in atto, già nel corso del matrimonio, un comportamento in conflitto con i doveri derivanti dal vincolo coniugale, non le si poteva assicurare, per il futuro, il precedente tenore di vita. Nel motivo si afferma, poi, che l’importo dell’assegno di mantenimento risultava essere eccessivo rispetto alla reale, attuale capacità economica di esso ricorrente: in proposito, l’istante contesta in modo diffuso e articolato quanto ritenuto dal giudice del gravame in ordine al tenore di vita della famiglia B., al suo reddito personale e al suo patrimonio, nonché alla capacità economica della controricorrente.
Nemmeno tale motivo merita accoglimento.
Il ricorrente prospetta un dubbio di costituzionalità con riguardo alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6.
Peraltro, la Corte costituzionale si è pronunciata sul punto, ritenendo non fondata la questione di costituzionalità del cit. art. 5, comma 6, “nell’interpretazione di diritto vivente per cui (…) l’assegno divorzile deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” (Corte cost. 27 gennaio 2015, n. 11).
Per il resto, il motivo veicola censure che non investono l’erronea applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5. Infatti, la violazione di tale norma – di cui pure si legge nella rubrica del motivo – è prospettata quale conseguenza dell’incongruo apprezzamento delle prove: ed è ben noto che l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa questione non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 3, la quale ha ad oggetto l’erronea individuazione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ex plurimis: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110).
Ma le revisione critica della sentenza che sollecitata col secondo motivo non può farsi nemmeno rientrare nell’area applicativa dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo vigente. Infatti, nella nuova formulazione del cit. n. 5, attuata con il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, scompare ogni riferimento letterale
alla “motivazione” della sentenza impugnata; è stato osservato, sul punto dalle Sezioni Unite di questa Corte, che volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al “minimo costituzionale” il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Al contempo, la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per come riformulata, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente debba indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053).
Ora, il ricorrente orienta le proprie censure verso lo scorretto apprezzamento delle prove. Ma il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’odierna versione (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
L’istante, invece di porsi su di un piano di prospettazione critica delle risultanze di causa, avrebbe dovuto piuttosto indicare, nei termini che si sono esposti, il fatto storico oggetto di discussione delle parti, e decisivo per il giudizio, che il giudice del merito aveva mancato di esaminare. Ed è il caso di sottolineare, al riguardo, che la norma richiamata fa riferimento al “fatto” e quest’ultimo non può considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo piuttosto identificarsi in un preciso accadimento ovvero in una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (così Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152, con riferimento al testo dell’art. 360, n. 5, nella precedente formulazione, risultante dal D.Lgs. n. 40 del 2006).
Il terzo ed ultimo motivo ha ad oggetto sia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, che l’omessa o insufficiente motivazione quanto al calcolo della quota del trattamento di fine rapporto spettante a M.F..
Rileva il ricorrente che la Corte di appello era incorsa in violazione di legge laddove aveva quantificato l’importo dovuto per il titolo indicato nella somma di Euro 47.389,62; deduce, altresì, che sul punto la sentenza era carente di motivazione, non avendo essa esplicitato le ragioni della decisione e i criteri di calcolo impiegati per arrivare al risultato ottenuto; evidenzia, infine, che la liquidazione della quota dell’indennità di fine rapporto doveva essere ragguagliata alla somma effettivamente percepita dal coniuge beneficiario e che la Corte distrettuale aveva mancato di prendere in considerazione la documentazione prodotta dallo stesso ricorrente, da cui risultava che l’importo quietanzato di Euro 177.711,09 era stato assoggettato a tassazione per Euro 36.460,00.
Nemmeno sul punto la sentenza merita cassazione.
La Corte bresciana ha spiegato che la base su cui calcolare la percentuale di cui all’art. 12 bis cit. era costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto stesso, onde la somma dovuta andava determinata in ragione del 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, assumendo come riferimento gli anni in cui il rapporto di lavoro era coinciso con il matrimonio.
È da escludere, dunque, che la Corte territoriale abbia mancato di esporre il procedimento di calcolo dell’importo spettante. Il criterio adottato, poi, è pienamente rispondente a quanto prescritto dall’art. 12 bis cit..
Per quanto attiene alla tassazione, la Corte di appello ha tenuto specificamente conto di essa, come risulta confermato dal fatto che il calcolo dell’indennità è stato operato partendo dalla somma di Euro 177.711,09, “già detratte le ritenute fiscali” (pag. 21 della sentenza). La denunciata mancata valutazione della prova documentale indicata, del resto – e come si visto – non è sufficiente ad integrare l’omesso esame del fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Oltretutto, la censura è carente di autosufficienza, dal momento che la quietanza di cui è parola a pag. 32 del ricorso non è trascritta nel corpo del motivo.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
Si dà atto dell’obbligo della parte ricorrente di procedere, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri di legge; dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, parte ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2017